La Stampa 18.4.15
Gauguin
L’ansia di dipingere l’Eden perduto
Alla Fondazione Beyeler di Basilea una grande mostra ripercorre l’epopea dell’artista tra la Bretagna e Tahiti
di Rocco Moliterni
Quando era in vita, non è che Gauguin godesse di grande stima come pittore. La conferma più clamorosa viene da Annah, la ballerina giavanese allora sua amante che nel 1894, mentre lui è in Bretagna, gli svaligia l’atelier, portando via tutto (non molto, tenuto conto che in quel periodo l’artista faceva la fame) tranne i quadri. Quadri che Gauguin faceva fatica non a dipingere (è stato abbastanza prolifico di opere - come di figli - se si pensa che ha iniziato la carriera a 35 anni), ma a vendere. Solo pochi mesi prima di morire ottenne finalmente dal mercante Vollard un contratto che gli permise di vivacchiare alle isole Marchesi, nonostante la dipendenza dall’alcol, la probabile sifilide e l’odio delle autorità coloniali che mal sopportavano il suo schierarsi dalla parte degli indigeni.
A ripercorrere l’epopea di quello che oggi è uno dei simboli (con Cézanne e Van Gogh) della modernità post-impressionista è la sontuosa mostra alla Fondazione Beyeler di Basilea, a cura di Martin Schwander. «Abbiamo concentrato - spiega il curatore - la nostra attenzione sui dipinti realizzati da Gauguin prima in Bretagna e poi nelle sue permanenze a Tahiti. Ci interessava mettere questi ultimi a confronto con le sculture realizzate sotto l’influenza della cultura indigena». Per Gauguin infatti il primitivismo non è una moda, ma un’esigenza che lo spinge a cercare il mito del selvaggio e della natura incontaminata prima in Bretagna (qui diventa maestro nella «scuola di Pont Aven») e poi nelle isole del Pacifico. Alle spalle ha la stagione impressionista, il burrascoso rapporto con Van Gogh, e un interesse per il sacro e la religione che lo portano a realizzare opere come Le Christ jaune o Le Christ vert, la Vision du sermon o Le Christ au jardin des oliviers.
Siamo alla fine degli Anni 80 dell’800 e l’artista scrive alla moglie: «Ricordati che ci sono in me due nature, l’indiana e la sensitiva: la sensitiva è scomparsa, il che permette all’indiana di andare avanti dritta e senza esitazioni». Non si sa che cosa, di questa natura indiana, pensasse la moglie. Mette era una danese dal carattere forte, che sopportava le sue bizze, le lontananze e i mille tradimenti fino al 1897, quando la morte della figlia Aline li separò per sempre. Si erano sposati nel 1873, quando lui lavorava ancora in borsa ed era anche bravo a far soldi e lei non poteva immaginare che avrebbe mollato il lavoro e la numerosa famiglia per inseguire il sogno di un’arte che lo ricongiungesse all’Eden perduto. Eden sovente incarnato nelle fattezze di giovani donne tahitiane. Le dipingeva a seno nudo sulle spiagge o lungo i torrenti di quei paradisi lontani, usando contorni decisi e colori accesi (il rosso, il giallo, il verde), dimenticando il «minimalismo» della scuola impressionista. Perché Gauguin, con quei colori, voleva restituire l’anima delle persone, delle cose e dei luoghi. Ed era convinto di essere sulla strada giusta («io sono un grande artista e lo so» ripeteva), anche se poi non riusciva a convincere gli ipotetici acquirenti.
Tutto il contrario di oggi: in mostra c’è uno dei suoi capolavori, Nafea Faa Ipoipo (in italiano significa «Quando ti sposi?»), venduto di recente da un collezionista svizzero all’emiro del Qatar per 300 milioni di dollari, record assoluto per un’opera di arte moderna. Campeggia in una sala accanto ad altre due tele del 1892, Parau Api (Che c’è di nuovo?) e Aha oe Fei (Come sei gelosa?), e il trittico da solo vale la visita. Sono lavori del primo viaggio in Polinesia, conclusosi nel 1893 con un rimpatrio a spese del governo francese, data l’indigenza e il cattivo stato di salute dell’artista. In patria, dopo il fiasco di alcune aste, cercherà di nuovo pace in Bretagna e alla fine deciderà di tornare prima a Tahiti e poi nell’ultimo rifugio di Hiva Va, nelle Isole Marchesi. Qui morirà, nel 1903, a 54 anni, malato e in solitudine.