mercoledì 15 aprile 2015

La Stampa 15.4.15
I nemici di sinistra di Matteo
di Marcello Sorgi


All’ombra dello scontro finale, che si prepara alla Camera tra Renzi e la minoranza del suo partito sulla legge elettorale, c’è un più largo fronte antirenziano che si muove, un nuovo partito trasversale, unito dal minimo comune denominatore dell’opposizione a qualsiasi costo al progetto riformatore del premier.
A prima vista, ricorda a grandi linee lo scontro tra vecchio e nuovo e la nascita dell’antiberlusconismo che per un ventennio ha poi animato la lotta contro l’ex-Cavaliere e i suoi governi; anche se Renzi, essendo un politico puro, non è in conflitto di interessi con la sua politica, non controlla - ancora - né tv, né giornali, né aziende editoriali che possano influenzare l’opinione pubblica, e manca quindi ai suoi oppositori la ragione principale per attaccarlo. Ma nelle accuse, mossegli dagli oppositori interni e da Bersani in prima persona, di voler promuovere un presidenzialismo strisciante, uno snaturamento della forma di governo prevista dalla Costituzione, oppure, per dirla con le parole dei suoi più fieri avversari, una sorta di regime autoritario, risuonano argomenti già ascoltati molte volte nella storia recente della lunga crisi italiana.
C’è l’idea, di matrice berlingueriana, del «governo pericoloso per la democrazia», come fu definito quello di Craxi del 1983 dall’ultimo grande leader del Pci. C’è il rigetto del «patto del Nazareno», e anche se adesso quel patto è finito, il timore di una sorta di continuismo tra le riforme tentate da Berlusconi e quelle che Renzi aveva concordato con lui. Un programma che, qualcuno arriva a ricordare, ripercorre quello di Gelli e della P2: ma qui, appunto, gli argomenti si trasformano in ossessioni, nessuno degli oppositori di Renzi vuol sentirsi rammentare che buona parte delle riforme istituzionali e della legge elettorale che il Parlamento ha discusso e votato erano contenute nel Rapporto dei Saggi, nominati, con il consenso di tutti, da Napolitano nel 2013, dopo il fallimento del tentativo di Bersani di formare il suo governo. Più in generale, e in questo caso l’analogia con l’avvento di Berlusconi nel ’94 si rafforza, c’è il rifiuto delle novità, o la convinzione che quando siano proposte e introdotte a passo di carica, possano introdurre cambiamenti irreversibili, diversi dai propositi dichiarati, o nascondere trappole e incognite: i famigerati pericoli da evitare.
Buona parte di questi argomenti, insomma, hanno le loro radici a sinistra: il «no» all’Italicum annunciato dalla minoranza piddina non a caso si somma a quelli della sinistra radicale di Sel e della parte di Movimento 5 stelle che vorrebbe uscire dall’isolamento e dialogare con le altre opposizioni. Ma in Parlamento - e soprattutto alla Camera - la convergenza con la Lega di Salvini, i Fratelli d’Italia di Meloni e La Russa e la Forza Italia di Brunetta (e del Berlusconi che, sentendosi tradito sul Quirinale, ha rinnegato la riforma che aveva contribuito a scrivere) è nei fatti: ed è di fronte all’eventualità di trovarsi a votare con la destra che gli ex-comunisti si dividono, e buona parte di loro alla fine non parteciperanno al voto sulla riforma elettorale o cambieranno il proprio. Renzi a Montecitorio ha comunque una maggioranza così solida da potersi permettere di rischiare sulle defezioni e sulle obiezioni di coscienza: anche se dopo, certo, la ferita resterà, e lo strappo, per alcuni di quelli che lo faranno, potrebbe pure diventare definitivo.
E tuttavia, anche se sconfitto, l’antirenzismo trasversale, che avrà alla Camera il suo battesimo del fuoco sull’Italicum, non morirà, né si arrenderà, dopo la madre di tutte le battaglie. Paradossalmente, anzi, l’esito di un corpo a corpo parlamentare che s’annuncia purtroppo cruento, potrà funzionare come propellente per l’altra grande partita che si sta giocando, in vista delle regionali, tra le istituzioni e la società civile, nei movimenti, nell’opinione pubblica, in tv e nei talk-show.
È il sentimento di resistenza - con la minuscola - che accompagna, sempre più sonoramente, le celebrazioni per il settantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale e della Liberazione, e che Renzi, avendolo percepito, si prepara a contrastare con una celebrazione alla grande della ricorrenza del 25 Aprile. È il malessere a cui il leader della Fiom Landini ha cercato di dar voce con la manifestazione nazionale della sua «Coalizione sociale». È il variopinto insieme dell’antimafia di Libera di Don Ciotti e di Emergency di Gino Strada, dell’Anm, sindacato dei magistrati, di associazioni culturali come «Libertà e giustizia». Sono le parole di illustri giuristi come Gustavo Zagrebelski e Stefano Rodotà, di economisti come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che con articoli e interventi pubblici cercano di dar voce al più profondo disorientamento di quella che si suol definire la «macchina dello Stato», l’insieme degli alti burocrati, degli esperti togati, delle magistrature contabili e delle ragionerie specializzate, che magari non condividono fino in fondo il grido degli accademici contro la «calpestazione dei diritti» e la «cancellazione dei principi», ma guardano con sgomento alla rivoluzione renziana e al suo inarrestabile avanzamento.
Questa capillare, quotidiana e insistita predicazione punta al prossimo voto in sette regioni come a una rivincita della sconfitta annunciata alla Camera sull’Italicum: da ottenersi, o con un calo - possibile e già registrato dai sondaggi - della percentuale di voti renziani, da quel 40,8 per cento con cui si impose alle Europee dell’anno scorso, o con una massiccia astensione, magari superiore al cinquanta per cento (ma i sondaggi, al proposito, dicono il contrario) che lasci emergere una maggioranza silenziosa e desiderosa del preteso ritorno alla democrazia.
Il bello e il brutto di questa partita è che si combatterà, nel giro di poche settimane, come in trincea, e con posizioni di partenza difficili da modificare. Anche per questo sarà interessante vedere come Renzi stavolta se la giocherà.