domenica 26 aprile 2015

Il Sole Domenica 26.4.15
Il re Sole del Celeste Impero
Il gesuita Bouvet scrisse il ritratto dell’imperatore Kangxi, paragonandone le virtù a quelle di Luigi XIV che promosse la missione dei matematici in Cina
di Massimo Firpo


Joachim Bouvet e Kangxi erano quasi coetanei: l’uno era nato a Le Mans nel 1656 e a vent’anni aveva cominciato i suoi studi nel collegio gesuitico di La Flèche; l’altro a Pechino nel 1654 e a otto anni era succeduto al padre Shunzhi sul trono imperiale, che avrebbe occupato fino al 1722, terzo della dinastia Qing, passato alla storia come uno dei più grandi sovrani dell’immenso Paese asiatico. Spinto dalla sua passione missionaria, Bouvet partì nel 1685 con cinque confratelli alla volta della Cina, dove giunse tre anni più tardi, dopo una sosta in Siam, e fu accolto alla corte di Kangxi, conquistandone il favore grazie alle sue competenze matematiche e astronomiche. Tutti i sei gesuiti, del resto, alla vigilia del viaggio erano stati nominati membri dell’Académie Royale da Luigi XIV, nella convinzione che proprio nella cultura e nelle scienze quella spedizione avrebbe trovato la chiave con cui rompere il tenace isolazionismo cinese, mettere in discussione il monopolio commerciale portoghese e avviare l’espansione della Francia in Estremo Oriente.
Bouvet tuttavia non si limitò a questo ma, da buon gesuita, procedette con impegno e serietà lungo la via aperta dal suo grande predecessore Matteo Ricci, secondo il quale nessun popolo extraeuropeo aveva meno «errori intorno alle cose della religione di quello che ebbe la Cina nella sua prima antichità». Per questo nel suo impegno per l’evangelizzazione dell’immenso Paese aveva smesso di guardare a Buddha per rivolgersi piuttosto a Confucio, visto come un archetipo di Seneca se non di Gesù Cristo, sottolineando le analogie tra la cultura cinese e quella classica, tra i suoi libri sacri e il Vecchio Testamento. E così fece Bouvet, immergendosi nella lettura degli antichi testi cinesi alla ricerca di analogie, somiglianze, precursori, “figure” tipologiche tali da rivelare matrici comuni e agevolare quindi la conquista di nuove anime alla fede cristiana. I riti confuciani diventavano cerimonie civili del tutto compatibili con quelle religiose della Chiesa cattolica, di cui rappresentavano una sorta di risvolto secolare che non ne metteva in dubbio e anzi ne corroborava la sacralità.
Fu sulla base di queste premesse che egli cercò di convertire Kangxi, senza chiedergli di rinunciare all’antica sapienza e alle forme cultuali cinesi, ma inducendolo piuttosto a scorgere in esse i fondamenti di quella «legge naturale» di cui il cristianesimo non è altro che la «perfezione». Una conversione che a suo giudizio sarebbe stata «sufficiente per far sperare di vedere un giorno tutta la Cina cristiana».
Fu da queste ibridazioni culturali, da questa accommodatio tipica dello spirito gesuitico, che nacquero le spinose questioni liturgiche e teologiche dei cosiddetti riti cinesi (e malabarici) che tra Sei e Settecento investirono il magistero romano, sottoposto a contrastanti pressioni, ma pervenuto infine alla condanna di quel pericoloso sincretismo ad opera di Clemente XI nel 1704 e poi di Benedetto XIV nel 1742, che pose formalmente fine alla questione.
Nel 1714 fu addirittura vietato al povero Bouvet di continuare a leggere e studiare gli antichi testi cinesi, poiché una e una sola doveva essere la dottrina cristiana, a Roma come a Canton, a Parigi come a Pechino. Qui il gesuita francese sarebbe morto nel 1730, dopo la condanna papale di ciò cui aveva dedicato tutta la vita, e dopo la scomparsa del grande imperatore che nel 1692 aveva concesso la tolleranza ai cristiani, abrogata dal successore Yongzhen.
La sua tenace convinzione di poter conquistare al cattolicesimo l’impero Manciù avrebbe alimentato in futuro l’ironia dell’implacabile Voltaire, che nel Dictionnaire philosophique del 1764 inserì un grottesco dialogo in cui il gesuita francese si impegnava a convincere Kangxi a farsi cristiano e consegnare il suo impero al pontefice, ottenendone in cambio «il più grande dei beni, vale a dire stare in ozio durante la vita ed essere salvo dopo la morte».
Ma negli anni Novanta le illusorie speranze di Bouvet erano sembrate farsi concrete, anche grazie ai libri da lui pubblicati a Parigi 1697, durante un breve ritorno in patria per sollecitare da parte del sovrano Qing l’invio di altri dotti missionari: una raccolta di immagini della Cina e un Ritratto dell’imperatore scritto probabilmente durante l’interminabile viaggio di ritorno, durato ancora una volta tre anni, in cui Kangxi era presentato come un sovrano dedito unicamente al bene dei sudditi, tutore della giustizia, moralmente esemplare, patrono delle arti e delle scienze, nemico delle superstizioni, saggio e parsimonioso amministratore nonostante le sue sterminate ricchezze, dotato di «spirito vivo e penetrante», di «ampiezza di genio sorprendente», «di fermezza d’animo di fronte a ogni sorta di avvenimento». Ma soprattutto, ad avvalorare tutto ciò in cui Bouvet aveva creduto, quel sovrano diceva apertamente che, «a giudicare la religione cristiana dalle sue massime e dal progresso fatto sino a ora in Cina, non si può dubitare che essa divenga un giorno la religione dominante».
Anche per questo nelle pagine del Portrait historique de l’empereur de la Chine, subito ristampato e tradotto in varie lingue, Kangxi e il re Sole sembravano confondere i loro profili (entrambi – a dire il vero – alquanto idealizzati) e indicare un futuro di possibile concordia sotto il segno di una fede comune: «I due grandi monarchi che dominavano le due parti del mondo, erano esaltati per le loro straordinarie virtù personali e per le eccezionali capacità di governo, e in ciò resi quasi fratelli». In tal modo, come spiega Michela Catto nell’introduzione, il libretto diventava una sorta di «apologia dissimulata della Cina, della Compagnia di Gesù e dell’Europa», e al tempo stesso di garanzia che quella nazione «civilizzata, ben governata, dotata di valori morali prossimi al cristianesimo», fosse «a un passo dalla conversione».
A emergere dal libro, tuttavia, non è solo il panegirico di Kangxi, ma soprattutto il caparbio sforzo di Bouvet per presentare e accreditare allo sguardo europeo quel mondo così lontano e diverso, per ridurre le distanze, per cercare convergenze intellettuali, morali e religiose e creare così canali di comunicazione.
Il che non accadde, com’è noto, ma non v’è dubbio che gli scritti e le lettere di Bouvet e di altri gesuiti, a cominciare dai 34 volumi delle Lettres édifiantes et curieuses écrites des missions étrangères de la Compagnie de Jésus, apparse tra il 1702 e il 1776, costruirono i fondamenti di nuovi interessi, curiosità e conoscenze, da cui sarebbe scaturita tra l’altro la trionfante moda per le chinoiseries dilagata in tutto il Settecento europeo e destinata poi a lasciare il posto ai brutali artigli del colonialismo nella guerra dell’oppio e nella repressione dei filocristiani Taiping, fino all’ultimo tracollo dell’impero Manciù all’inizio del Novecento.

Joachim Bouvet, L’imperatore della Cina, introduzione e traduzione di Michela Catto , Guanda, Parma, pp. 174, € 14,00