domenica 26 aprile 2015

Il Sole Domenica 26.4.15
Disuguaglianza e progresso
Le nuove tecnologie hanno permesso ai più capaci di ottenere successi impensabili. Inutile invidiarli se la nostra vita è immutata
di Giorgio Barba Navaretti


Che dire invece a proposito dell’invidia per i ricchi? Gli economisti sono fortemente legati a un principio chiamato principio di Pareto...: se alcune persone guadagnano e nessuna perde, il mondo è migliore di quanto fosse prima. L’invidia dovrebbe essere ignorata. E questo principio costituirebbe una buona ragione per concentrare l’attenzione sulla povertà e non curarsi invece di quanto accade a chi sta meglio. Nelle parole di Martin Feldstein, economista ad Harvard, «la disuguaglianza di reddito non è un problema che abbia bisogno di un rimedio». In effetti vi è molto da dire a favore del principio di Pareto, e tuttavia, come si vedrà, esso non implica affatto che la crescente disuguaglianza di reddito non costituisca un problema. Il punto è che, per riuscire a capire in che senso invece lo sia, abbiamo bisogno di comprendere meglio perché in questi anni i redditi più alti sono cresciuti tanto rapidamente, e quali conseguenze questo processo abbia avuto.
Una possibile ipotesi è che ai redditi al vertice non sia accaduto nulla di molto diverso da quanto è successo a tutti gli altri, se non dal punto di vista quantitativo. Le nuove tecnologie hanno offerto ai più istruiti e creativi nuove opportunità e, in alcuni casi estremi, assicurato a quelli in assoluto più preparati e geniali (o almeno ai più fortunati di questo gruppo) ricchezze straordinarie. Gli esempi per eccellenza sono Bill Gates per Microsoft, Steve Jobs per Apple e Larry Page e Sergey Brin per Google. I personaggi dello spettacolo e i grandi atleti hanno oggi la possibilità di farsi ammirare dal mondo intero, anziché soltanto dai loro pubblici locali, e i loro compensi sono cresciuti proporzionalmente. La globalizzazione consente agli imprenditori di successo di estendere il proprio mercato e aumentare i loro profitti esattamente nel modo dei personaggi dello spettacolo. E in effetti oggi molte più persone traggono beneficio dai loro talenti straordinari. Un altro tipo di lavoratori ben rappresentato tra quelli in assoluto meglio pagati è costituito dai grandi manager di banche e istituti finanziari. Anche questi lavoratori vantano un livello di istruzione e cultura molto elevato, e anch’essi hanno utilizzato la propria formazione e creatività per escogitare prodotti nuovi. Non c’è accordo tra gli economisti se il valore sociale ragionevolmente attribuibile a questi nuovi strumenti finanziari eguagli o meno i profitti che i loro inventori ne hanno tratto. È difficile non concordare con Paul Volcker quando sostiene che l’ultima innovazione finanziaria veramente utile sarebbero stati gli sportelli bancomat. Se, oltre agli incentivi sociali, i banchieri e i professionisti della finanza hanno anche incentivi privati a fare quel che hanno fatto fin qui, avremo troppa attività bancaria e troppa finanza, e nulla potrà proteggerci dalla disuguaglianza che esse causeranno.
E se il fatto che molti talenti si orientino verso la socialmente discutibile ingegneria finanziaria costituisce senz’altro una perdita dal punto di vista dell'economia nel suo insieme, lo stesso si può dire dell’indirizzarsi di molte altre intelligenze verso il mondo delle lobby.
Quel che ancora senz’altro ci manca è un’idea precisa delle dimensioni dei vari effetti individuati – quale quota dell’aumento dei supercompensi sia stata assicurata dal lavoro di lobbying o da altre iniziative politiche, quale debba essere attribuita invece all’elevata produttività di questi privilegiatissimi lavoratori e quanto dell’attività legislativa di questi anni sia da imputare alle pressioni di questi interessi o viceversa a quelli di altri gruppi organizzati, come per esempio le organizzazioni sindacali, anch’esse ben rappresentate a Washington. E neppure siamo in grado di capire, per il momento, in virtù di cosa la capacità di influenza di questi gruppi sia aumentata nel tempo così fortemente, se è vero che lo ha fatto.
Se la democrazia si trasforma in plutocrazia i non ricchi sono di fatto privati del diritto di voto. Molto opportunamente il giudice Louis Brandeis ha dichiarato che gli americani possono avere o la democrazia o una forte concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, ma non entrambe le cose. L’uguaglianza politica che la democrazia richiede è costantemente sotto la minaccia della disuguaglianza economica, e quanto più quest’ultima aumenta, tanto più la democrazia è in pericolo.
Non vi è nulla di sbagliato nel principio di Pareto: non c’è ragione di preoccuparsi della fortuna altrui se questa non ci danneggia in alcun modo. L’errore consiste piuttosto nell’applicare questo principio a un’unica dimensione del benessere – il reddito – ignorando le altre, per esempio la libertà di partecipare alla vita politica di una società democratica, e la possibilità di ricevere un’istruzione adeguata, di mantenersi in salute e di non cadere vittime delle ambizioni di arricchimento altrui. Se un aumento dei redditi più alti non compromette il reddito degli altri ma nuoce comunque ad aspetti del loro benessere diversi da quello monetario, non è possibile invocare in sua difesa il principio di Pareto. Denaro e benessere nonsono la medesima cosa!
Angus Deaton
Angus Deaton, economista dell’Università di Princeton, anche se di solida origine scozzese, è uno dei maggiori studiosi viventi sulla povertà e la disuguaglianza. Ha lavorato moltissimo sull’analisi statistica di questi fenomeni sia a livello globale che con studi mirati ai Paesi in via di sviluppo, soprattutto in India.
La Grande Fuga, che Il Mulino traduce per il pubblico italiano (pagg. 400, € 28,00), recensito su queste colonne nella versione inglese («Domenica», 5 gennaio 2014, pag.35) è un lavoro importante sulla relazione tra sviluppo e disuguaglianza. Ottimo complemento del fortunatissimo libro di Thomas Piketty, Il capitale (che precede nell’edizione americana ma non in quella francese), Deaton guarda con maggiore attenzione all’intreccio tra crescita, disuguaglianza e povertà. Il filo conduttore del libro è evidenziare come lo sviluppo economico abbia permesso a miliardi di persone di uscire dalla povertà (appunto la grande fuga) ed in che modo la disuguaglianza possa essere causa e allo stesso tempo conseguenza del progresso. Tutto sommato se anche chi sta in fondo alla scala aumenta il suo reddito (a poco a poco esce dalla povertà) la disuguaglianza non è negativa. Il problema è che una vera uguaglianza delle opportunità di partenza raramente esiste e che non sempre differenze di reddito sono giustificate dall’efficienza economica o dal passo del progresso. Ossia i ricchi non sono tali solo perché contribuiscono più degli altri allo sviluppo, ma spesso perché operano in settori ad alti ritorni privati ma a volte socialmente inefficienti (vedi la finanza), oppure perché beneficiano di rendite da lobby o di posizione che addirittura contribuiscono a rallentare il progresso.
Deaton concorda con la tesi di fondo di Piketty che ancora oggi la disuguaglianza nel capitale (vedi eredità) possa essere dominante rispetto alla disuguaglianza nei redditi da lavoro e che l’economia contemporanea, soprattutto in America, «abbia ricreato qualcosa come la vecchia aristocrazia europea dove grandi proprietari terrieri impiegavano armate di servitori e contadini, Downton Abbey negli Hamptons». Ma ha una visione meno deterministica dell’economista francese (per cui rendimenti del capitale maggiori dei tassi di crescita inevitabilmente esasperano le differenze di reddito) e soprattutto meno pessimista. La disuguaglianza per Deaton è un necessario, inevitabile e curabile accidente del progresso.