domenica 19 aprile 2015

Il Sole Domenica 19.4.15
Resistenza
L’umanità del partigiano Giolitti
di Mauro Campus

Antonio Giolitti è stato un politico italiano. Ma non sembra del tutto corretto – o sufficiente – definirlo così. Come non molti suoi contemporanei, Giolitti forgiò la sua carriera politica in opposizione ad alcune caratteristiche radicate nella cultura tradizionale del Paese. Questo fece di lui un politico realmente intellettuale della storia repubblicana (forse non l’unico, ma certamente fra i più brillanti). E se la sua nascita concorre a collocarlo in una luce del tutto particolare della scena pubblica, è certo che buona parte delle scelte che orientarono il suo impegno furono determinate negli anni della lotta partigiana da quando, il 9 settembre 1943, il giovane laureato in giurisprudenza lasciò Roma per unirsi alle Brigate Garibaldi.
Il Diario partigiano, ritrovato fra le sue carte dopo la morte, fu utilizzato da Giolitti per la stesura del terzo capitolo di quel meraviglioso libro di ricordi e riflessioni che è Lettere a Marta, ma lo integra in molti modi restituendo un’immagine forse più completa di quel biennio. E questo per due ragioni. Innanzitutto perché esso descrive come un «document humain», il giornale di una crisi, la testimonianza a caldo dell’esperienza di comandante partigiano, sospesa improvvisamente il 19 settembre del 1944, quando Giolitti, per una grave frattura, fu costretto a passare otto mesi ad Aix-les-Bains, in attesa di un ritorno alla lotta che la sua situazione fisica gli avrebbe impedito. Secondariamente, perché racconta, attraverso la descrizione di letture continue e voraci, una curiosità e un’apertura intellettuale non comuni. Giolitti leggeva di tutto, a modo suo, e in queste pagine si trovano riferimenti continui a Balzac, Baudelaire, Tolstoj, Hugo, Renan, Eluard, eccetera.
Ma ciò che colpisce è che in questo Diario (5 ottobre 1944 – 9 maggio 1945) non vi sia traccia di narcisismo retorico. Con stile pulito e chiaro Giolitti fa un bilancio della vita partigiana a tratti toccante: i compagni sono descritti con affetto, di ognuno egli segnala meriti, compiti, aspirazioni. Da questi semplici ritratti emerge un commosso senso di frustrazione per aver dovuto abbandonare la lotta, che nel suo racconto non è mai ammantata di caratteri mistici, ma è testimoniata come una scelta dovuta, l’omaggio a un Paese profondamente amato che meritava la Resistenza. E se il senso di solidarietà fra partigiani e popolazione pervade ogni pagina (dove il pensiero per l’adorata moglie Elena D’Amico è intenso e costante) si percepisce nettamente la responsabilità morale collettiva che definì quella stagione. Una scelta di dignità che caratterizzò la partecipazione alla creazione di un futuro diverso attraverso la capacità di resistere al tiranno e all’invasore. Se questa fu la base dell’adesione alla lotta di Giolitti, egli comprese, e indicò con chiarezza, il significato internazionale della guerra partigiana: non uno scontro tra fazioni per conquistare il potere nel proprio Paese, ma una guerra civile europea, e forse mondiale, combattuta per un futuro di libertà e di diritti negati dalla dittatura. Forte la sua consapevolezza che il fascismo non fosse un carattere quintessenziamente italiano, ma si fosse irrobustito e rinforzato fuori dal Paese attraverso una vasta congiuntura che ne determinò la durata. Naturalmente la tensione intellettuale che innerva le pagine di Giolitti non è estensibile alla generalità della lotta partigiana, ma ciò che importa qui è notare come egli vedesse, salveminianamente, la continuità della Resistenza con la guerra civile che aveva attraversato molte città d’Italia tra il 1919 e il 1924. E proprio la scelta di libertà è la chiave di lettura del Diario e, in maniera più lata, dell’intera esperienza umana di Giolitti.
La risposta dovuta a una chiamata di responsabilità alla quale non ci si poteva sottrarre fu, in effetti, il tratto più significativo della vita di Giolitti: un intellettuale che la guerra sbalzò al centro dell’azione politica, ma che dal suo rigore e dalla sua militanza civile non si sganciò mai. La sua consapevolezza intransigente di quanto l’Italia avesse bisogno di una rigenerazione totale dopo il fascismo e la guerra divenne la base della sua esperienza politica, e la fedeltà al suo sé giovanile fu una costante professata con lealtà e coerenza, anche quando gli toccò di assistere alla degenerazione politica di una nazione.
Antonio Giolitti, Di guerra e di pace. Diario partigiano (1944-45) , a cura di
Rosa Giolitti e Mariuccia Salvati, Donzelli, Roma, pagg. XXVIII-130, € 18,00