venerdì 3 aprile 2015

Il Sole 3.4.15
Il paradosso
Cinque dei sei Paesi negoziatori sono potenze nucleari e non vogliono fare veri passi indietro
di Ugo Tramballi


Niente bomba per gli ayatollah Restano tutte quelle degli altri
Alla fine l’Iran non avrà forse la sua. Ma non rilassatevi: anche senza la bomba degli ayatollah, nel mondo restano 16.300 testate nucleari. Distribuendo la loro potenza, è come se ognuno di noi avesse fra le mani un ordigno da 680,3 chili di TNT. Circa 6mila bombe attendono di essere smantellate e sostituite; 10mila invece sono attive e 4mila operative, 1.800 delle quali tenute in massima allerta: cioè pronte all’uso in un paio di minuti.
C’è qualcosa di moralmente opinabile se cinque dei sei Paesi negoziatori da anni impegnati a convincere gli iraniani a non fare la loro bomba, sono potenze nucleari, oltre che membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu. Non gli Stati Uniti né la Russia, la Gran Bretagna, la Francia e tantomeno la Cina prevedono nei prossimi due secoli di rinunciare a questo vantaggio strategico, militare e politico: avere la bomba fa ancora la differenza fra chi conta e chi no. Più che avere un’economia in salute.
La logica del TNP, il Trattato del 1968 sulla non proliferazione, la tavola delle leggi che impedisce la moltiplicazione delle potenze nucleari è il realismo: a nessuno è concesso farsi la bomba atomica. Tuttavia, poiché la storia ha fatto in modo che alcune nazioni la possedessero, queste ultime s’impegnano a ridurre ed eliminare progressivamente i loro arsenali. Non c’è una data concordata: la riduzione sarà progressiva finché non avremo «un mondo libero dalla minaccia atomica». Così almeno promise Barack Obama dopo aver ricevuto prematuramente il Nobel per la pace.
Nell’ambiguità etica di un sistema che affida a cinque potenze nucleari il compito di impedire che gli altri non lo diventino, quattro Paesi hanno deciso d’ignorare il Trattato e possiedono arsenali illegali: India, Pakistan, Israele, Nord Corea. Altri 40 Stati hanno materiale fissile sufficiente per costruire una bomba; e più della metà hanno anche le tecnologie per assemblarla e renderla operativa. Non lo fanno per non uscire dal Trattato. Probabilmente questo era l’obiettivo originale iraniano.
Dei cinque Paesi autorizzati ad avere il nucleare militare, solo francesi e inglesi non hanno piani di ampliamento. La Cina ha stabilito che nel 2049, nel centenario della fondazione, la Repubblica Popolare diventerà la prima delle potenze. Oggi possiede 250 testate. Nella totale assenza della trasparenza invece richiesta agli iraniani, nessuno sa a quante bombe vogliano arrivare.
Intanto sono loro, Stati Uniti e Russia, a possedere la chiave principale dell’armageddon nucleare: insieme controllano il 93% dell’inventario globale. Nessuno dei due sta aumentando gli arsenali come la Cina: dopo le riduzioni del trattato Start, gli Usa hanno circa 2.200 testate e i russi 2.700. Il New Start aveva deciso una mutua riduzione fino a 1.550. Secondo molti esperti, 900 a testa basterebbero e avanzerebbero. Ma gli americani rifiutano altre limitazioni sui missili balistici e i russi sulle loro armi nucleari non strategiche. George Kennan, il grande diplomatico americano della Guerra fredda, sosteneva che «nessuno è abbastanza saggio né abbastanza fermo da avere il controllo del volume di esplosivi che oggi abbiamo. Le armi nucleari non dovrebbero esistere affatto». Ma dopo la crisi ucraina è illusorio pensare che russi e americani riprendano il negoziato per arrivare a 1.550 testate.
Tuttavia se non aumentano gli arsenali, i due avversari investono sempre più denaro per rendere le loro armi più moderne e letali. La crisi economica aggravata dalle sanzioni e dal calo del petrolio, sta costringendo la Russia a tagliare le spese: ma non quelle militari, cresciute invece del 33%. Il presidente Obama ha invece autorizzato un piano decennale da 355 miliardi di dollari: in un trentennio la spesa prevista è di oltre mille miliardi. Alla fine degli anni Quaranta, dopo aver creato la prima bomba atomica alla guida del Manhattan Project, Robert Oppenheimer scrisse che americani e russi erano come «scorpioni in una bottiglia, ognuno capace di uccidere l’altro ma solo a rischio della propria vita». Da allora il gioco nucleare non è cambiato molto: sono solo più numerosi i partecipanti.