mercoledì 29 aprile 2015

Il Sole 29.4.15
I no degli ex big democratici, test di leadership per serrare i ranghi della minoranza
di Lina Palmerini


Pierluigi Bersani, Enrico Letta e Roberto Speranza. Non sono tre nomi qualsiasi a scendere in campo contro Renzi annunciando che non voteranno la fiducia di oggi. Uno è l’ex segretario Pd, l’altro un ex premier e vice di Bersani, l’ultimo è l’ex capogruppo del partito alla Camera ma ancora non sostituito. Non stiamo parlando di peones, insomma, ma di big. E quello che colpisce non è solo la scelta di fare lo strappo e di tenere testa alla sfida del premier ma il modo in cui l’hanno fatto.
Nel senso che gli annunci del no alla fiducia sono stati individuali, sono avvenuti - cioè - ben prima di una riunione di corrente e prima di una consultazione con tutta l’area della minoranza. Non sono state vissute con il gruppo ma hanno preceduto una scelta collettiva in qualche modo venendo meno a una prassi che era valsa fin qui. E allora la domanda è: come mai tanta fretta di dire subito quei no? Come mai questa volta le scelte dei singoli sono venute prima di quelle dell’area? L’impressione è che la ri-discesa in battaglia dei big sia l’effetto della frammentazione di un’area di cui ex leader, ex premier ed ex capogruppo sono ben consapevoli. E che quei no detti a caldo siano fatti per tenere compatta un’area che altrimenti si sfarinerebbe, com’è accaduto altre volte. E come è accaduto ieri nel voto segreto sulle pregiudiziali di costituzionalità su cui Renzi ha avuto voti in più, non in meno.
E qui è scattato l’allarme. Il rischio era di vedere la fiducia votata da larghissima parte della minoranza, tranne i pochi e soliti noti. Una battaglia persa che non avrebbe più dato chance alla minoranza. E, dunque, per serrare i ranghi servivano i grossi calibri. Nomi che dessero l’impressione ai peones di minoranza che oltre la battaglia con Renzi sulla fiducia c’è una prospettiva politica e non il vuoto. Che insomma dopo lo scontro sulla fiducia c’è un percorso da costruire per preparare la rimonta sull’attuale leader e riprendersi la ditta. Un’operazione che senza i big non si può fare.
Il punto è che ora sia Bersani che Letta e Speranza si sono messi sotto esame. E se nel voto di fiducia di oggi non riusciranno a compattare tutta l’area - o quasi - saranno i primi a perdere una prova di leadership. Non basteranno trenta o quaranta deputati che escono dall’Aula ma ne serviranno almeno 70-80 visto che la minoranza nel suo complesso ne ha un centinaio, contando anche Cuperlo, Civati e Fassina. Tanto per dare una cifra, l’ultimo documento di Area riformista di mediazione sull’Italicum era firmato da un’ottantina di parlamentari.
E dunque oggi il test di fiducia non riguarda solo Renzi ma anche gli ex che tornano a sfidarlo. Una sfida che forse non lo manderà a casa ma che servirà come inizio di un percorso politico, un seme per cominciare a costruire un’area davvero alternativa e non improvvisata come è stato finora. Questo è il terreno che hanno preparato i big: strutturare un’area di dissenso che ha già possibili leader nella figura di un ex segretario, ex premier ed ex capogruppo (quello che più punta al ruolo di anti-Renzi). Quale sarà la risposta dei parlamentari? Ecco il dilemma che, però, solo i numeri di oggi scioglieranno. Dall’entità dei no si capirà se gli ex hanno ancora credibilità e seguito.
E se su un piatto della bilancia c’è un’alternativa che nasce, sull’altro c'è la legislatura. Matteo Renzi l’ha detto chiaramente ponendo la fiducia: o si va avanti fino al 2018 o si va al voto. Dunque, oggi non è in gioco la democrazia - come dicono gli ex - ma più modestamente l’assetto futuro del Pd e la legislatura.