Il Sole 26.4.15
Lo scontro fra i partiti
Democrazia e interpreti mediocri
di Montesquieu
Si conclude, in un confuso tutti contro tutti, l’iter parlamentare della nuova legge elettorale. E come capita spesso nella nostra politica, per rafforzare gli argomenti di merito, o per sostituirli quando mancano, tutto finisce con il lancio di reciproche, roventi accuse di comportamenti antidemocratici. Finiscono spesso in democrazia, i nostri dibattiti politici, e non per l’emersione di fulgidi istinti di tutela delle nostre istituzioni democratiche, purtroppo. E ci finiscono spesso da quando è nato, con la cosiddetta seconda repubblica, un sistema politico istituzionale bislacco, in cui, recise tutte le radici che innervavano le tradizionali famiglie politiche, alle contrapposizioni strategiche comuni a tutta l’Europa, si sono sostituiti argomenti di conflitto casuali, disancorati, alla ricerca dell’accusa più sferzante e impressionante, che è quella della volontà di attentare alla democrazia ed alle istituzioni che la incarnano.
Per fortuna, la democrazia è solida, pur con i suoi problemi, e più forte dei suoi spesso mediocri interpreti ed esegeti. Senza scomodare l’archivio di Filippo Ceccarelli, generosamente messo a disposizione di tutti nella biblioteca di Montecitorio, e anche senza un grande sforzo mnemonico, dal 1994 il grande protagonista di quel ventennio ha costruito tutta la propria forza e strategia politica intorno al pericolo per la democrazia rappresentato dal defunto e sepolto, non solo formalmente, partito comunista; mentre l’avversario di quegli anni, il centrosinistra nelle sue varie rappresentazioni, replicava come si fa con un pericoloso attentatore alla convivenza democratica. Che Silvio Berlusconi sia stato un interprete per alcuni versi stravagante e del tutto originale delle relazioni costituzionali non sfugge a nessuno, ma da lì a temere per la democrazia ce ne correva un bel po’.
Tornando alla legge elettorale, la stessa va inquadrata nella legislatura in cui viene discussa, prima di tutto. Una legislatura che ha tolto alla seconda repubblica l’alibi, non usurpato, di baluardo del bipolarismo, sia pure quel bipolarismo che conosciamo, fatto più di pratiche esorcistiche che di tecniche persuasive dell’elettorato. Oggi abbiamo un sistema istituzionale a volte tripolare, a volte bipolare con frequenti rifugi nell’aventino; più frequentemente un sistema monopolare, con il partito democratico (di Matteo Renzi, non è un dettaglio) che si erge come una cattedrale nel deserto, novella Gioia Tauro. Un colosso circondato delle macerie fumanti di partiti corrosi, e di neoformazioni copiate da modelli anticoagulanti negli stessi paesi d’origine; nonché di un potenziale concorrente, il movimento Cinque stelle, fino ad oggi spettatore ululante della recita politico-istituzionale. Da qualche tempo - con il ritiro forse contingente dei due demiurghi extraparlamentari di quel movimento - attivo nel dibattito politico e mediatico con i propri giovani e spesso valenti parlamentari, che dimostrano come una selezione improvvisata e casuale possa dare talora migliori risultati di quella cooptativa in uso presso i partiti, ed imperniata sulla strategia, necessariamente non competitiva, della sopravvivenza della classe di comando.
Un colosso, il Partito democratico, il cui autorevole capo sta peraltro cercando di liberarsi di una minoranza verso cui nutre il sentimento che può produrre una noiosa infezione che limita i movimenti.
Questa situazione sta dando vita a una legge elettorale che, nata con il banale – altrove - ma lodevole sforzo di una paternità comune delle regole del gioco, si sta concludendo con un testo che divide, al di là del merito. Non molto diversa è la situazione relativamente alla riforma costituzionale, quanto a unità di intenti. Anche in questo caso, al di là del merito.
La prima conseguenza sarà una nuova legge elettorale come primo impegno all’apparire di una alternativa parlamentare e governativa, e così per la riforma costituzionale. Cosicché, mentre gli ordinamenti fratelli al nostro in democrazia danno vita a una legge elettorale ogni mezzo secolo, possibilmente tutti insieme; mentre lì le formazioni politiche si riconoscono nelle stesse regole costituzionali, che diventano un punto di coesione prepolitico, anziché un’arma di conflitto politico quando si vuole alzare il tiro; mentre altrove succede questo, il nostro ordinamento, che si ostina a coniugare democrazia e originalità, rischia di condannarsi ad una frammentazione e ad uno stillicidio che ha l’unico vantaggio di nascondere l’evanescenza e l’indistinzione dei programmi politici.