Il Sole 26.4.15
L’Europa che non c’è
L’immigrazione e il cimitero marino
di Guido Rossi
Al vertice dei capi di Stato e di governo di Bruxelles, sia pure con grave ritardo, si è presa coscienza degli orrori del Mediterraneo, dello spaventoso aumento delle perdite di vite umane di disperati che lasciano i loro Paesi fuggendo da guerre, stragi e condizioni disumane, nel sogno dell'Europa.
La soluzione a questo dramma è stata impostata secondo l'ideologia finanziaria ormai dominante, in tutte le attività dell'Unione: un aumento del finanziamento all'operazione “Triton”, che ha sostituito quella italiana “Mare nostrum” e una sorta di pattugliamento militare nel Mediterraneo con navi da guerra e aerei, per il respingimento dei profughi. A ciò si aggiunga l'individuazione degli scafisti come nemico numero uno, da combattere anche con l'uso delle armi belliche.
E' così che l'ecatombe del Mediterraneo è diventata una guerra di difesa dei confini, incredibilmente una guerra agli scafisti. Con la conseguenza che il Mediterraneo è divenuto, come recita il titolo dello straordinario poemetto di Paul Valéry, “Le cimetière marin”.
E più che mai attuale è il suo evocativo verso: «la mer fidèle y dort sur mes tombeaux» (E il mar che dorme, sopra le mie tombe).
È così che l’Europa, oltre a tradire la sua storia e i suoi valori, che Fernand Braudel avrebbe con ferocia sottolineato, ha tradito anche la sua identità. L’art. 3 del Trattato dell’Unione Europea dichiara che l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli e garantisce inoltre “misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima”.
Articolo dimenticato dai Capi di Stato e di governo nell’ultima riunione di Bruxelles.
Il fenomeno delle migrazioni così diffuse, con le conseguenti drammatiche conclusioni, ha inizio per la verità alla fine del secolo scorso, per assumere sempre più in questo secolo la caratteristica di migrazioni di massa, che stanno cambiando la storia e che trovano le loro ragioni soprattutto nelle enormi disuguaglianze tra i popoli e nei popoli, create dal dominio incontrastato del capitalismo finanziario nella globalizzazione. I movimenti migratori vanno rendendo sempre più fragili i confini degli Stati nazione, ma con essi anche quelli dell’Unione europea.
L’agenzia di protezione dei confini europei (Frontex) e l’attuale politica appena varata dall’Unione tendono a considerare il problema dell’immigrazione, non già come appartenente alla protezione dei diritti umani, come vorrebbe il Trattato, bensì come questione di carattere economico e di criminalità.
Il 21 aprile scorso il New York Times pubblicava una violenta critica alla politica dell’Unione europea, caratterizzata da una strategia basata soprattutto sulla militarizzazione dei controlli e dei confini, la criminalizzazione della immigrazione e l’affidamento a controlli esterni.
La verità è tuttavia che se la politica dell’Unione europea è stata colpevolmente sbagliata, grave indiretta responsabilità ricade anche sugli Stati Uniti d’America, come ha efficacemente sottolineato Alan J. Kuperman nel saggio “Obama's Libya debacle” nell’ultimo numero di Foreign Affairs. Se infatti è vero che le popolazioni che han trovato posto sui barconi degli scafisti provenivano soprattutto dalla Siria, dal Mali, dall’Eritrea e dalla Somalia, il loro sogno verso l’Europa, terminato tragicamente nel cimitero marino del Mediterraneo, è iniziato dalle coste libiche e dai suoi scafisti.
La Libia è ancora senza governo, in uno stato di violenza, di terrorismo, di mancato rispetto dei diritti umani e di ributtanti speculazioni. Questa situazione è il risultato dell’intervento degli Stati Uniti e la Nato che, con la previa autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, bombardarono le milizie del dittatore Gheddafi fino all’ottobre 2011, con l’uccisione dello stesso da parte delle forze ribelli, oramai padrone del Paese. L’idea degli Stati Uniti di intervenire militarmente per far evolvere la Libia in uno Stato democratico ha costituito un vero fallimento. Gli abusi dei diritti umani, le morti violente, sono brutalmente aumentate e la Libia oggi serve come porto sicuro per le milizie affiliate sia ad Al Qaeda, sia allo Stato islamico (Isis).
È un momento, questo, con la grave situazione che si sta protraendo senza soluzione in Grecia e il disastro ai suoi confini, che l’Europa modifichi sostanzialmente la sua politica e di fronte anche alle migrazioni di massa, che continueranno a verificarsi, ricrei quella basilare cultura di tolleranza, solidarietà e multiculturalismo che, con alterne vicende l’ha caratterizzata nei secoli. La cultura, cioè chiaramente indicata nei primi articoli del Trattato dell’Unione europea, che unifichi, al di là di gretti provincialismi, sconfitti in partenza, le diversità tra le varie società, amalgamandole nei valori fondamentali che fanno parte della sua storia. È per questo che occorre smettere di considerare i migranti come dei barbari criminali o dei nemici da respingere, invece che degli esseri umani da accogliere e da integrare nella propria civiltà, col rispetto delle loro tradizioni. Nulla di più attuale risulta l’intuizione contenuta nella magnifica poesia “Aspettando i barbari” del grande poeta greco, Konstantinos Kavafis, nato e morto, non a caso, ad Alessandria d’Egitto. Dopo aver descritto la possibilità di accogliere i Barbari con i dovuti onori, laddove i Barbari altro non sono che popoli diversi, abbacinati dall’apparenza, ma alieni da ogni retorica, conclude con «E della gente è venuta dalle frontiere dicendo che non ci sono affatto Barbari / E ora, che sarà di noi senza Barbari? / Loro erano comunque una soluzione».