venerdì 24 aprile 2015

Il Sole 24.4.15
Strategia con molte ombre. Quel volo «cieco» degli aerei senza pilota
L’Amministrazione Obama ha decuplicato gli attacchi con i droni, l’Italia pensa di usarli contro i barconi, ma è un’opzione da pesare bene
di Mario Platero


Inutile stupirsi: da sempre sappiamo che le morti accidentali sono una conseguenza implicita e drammatica negli attacchi dei droni. Ma il tema per noi, oggi, dopo le morti “accidentali” e tragiche di Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein diventa un altro: vale la pena di continuare a insistere con gli americani per armare i droni che abbiamo in dotazione? E anche se questa a autorizzazione ci fosse, sarebbe consigliabile usare i Predator B per colpire possibili obiettivi terroristici in Libia? O peggio, come ha suggerito qualcuno, per distruggere i barconi dei trafficanti di vite umane prima che siano imbarcati? Troppo spesso il dibattito su questi temi non tiene conto dei dati disponibili, raccolti da agenzie per la difesa dei diritti civili o per la diffusione di statistiche militari come il Bureau of Investigative Journalism.
Dai dati raccolti da Bij, l’amministrazione Obama ha quasi decuplicato gli attacchi con droni rispetto all’amministrazione Bush. Complessivamente con Obama ci sono stati quasi 500 attacchi (l’ultimo dato disponibile parla di 456 attacchi). Il problema è che per ogni attacco mirato a colpire un terrorista pericoloso «che non puo’ essere catturato» ( come ha spiegato ieri Obama) ci sono molte vittime civili, uccise casualmente, per questioni accidentali o per mancanza di intelligence adeguata, come è successo nel caso dei due ostaggi occidentali uccisi in gennaio («se l’avessimo saputo non l’avremmo fatto» ha detto ancora Obama: ma non è loro dovere avere intelligence accurata?).
Il numero ufficiale disponibile parla di 437 vittime civili, spesso bambini, donne, vecchi negli anni di Obama. Gli attacchi negli anni di Bush sono stati 52 con l’uccisione di 467 obiettivi ma anche di 167 civili. Ma prendiamo dei casi specifici: il 13 gennaio del 2006 Obama autorizza l’attacco vicino a un villaggio chiamato Dandola, in Pakistan per colpire un terrorista pericoloso, Ayman Zawahiri. L’attacco viene autorizzato di nuovo dopo il che il primo fallì. L’intelligence si diceva sicura della località dell’obiettivo. Ma Zawahiri sfuggi di nuovo all’attacco. In sua vece, nei due attacchi sono morti 72 bambini e 49 adulti. E nel 2010, in un altro attacco che si è concluso con successo, cioè con la morte della vittima designata, sono stati uccisi come “danno collaterale” 128 civili, tra cui 13 bambini.
Ora da noi si cercherà di andare a fondo. Si perderà tempo in inchieste per capire se il nostro presidente del Consiglio fosse stato informato da Obama durante il suo incontro alla Casa Bianca o no. Ma in questo momento di lutto per le famiglie delle vittime innocenti, di cui ci scandalizziamo perché così vicine a noi, non si dovrebbe fare politica spicciola, si dovrebbero invece analizzare fino in fondo le implicazioni di un attacco condotto da droni italiani armati con autorizzazione americana su azione coordinata presumibilmente con la nostra intelligence. Saremo all’altezza di condurre queste operazioni? Dobbiamo credere che la nostra intelligence possa essere meglio di quella americana? E su tutto dovremmo concetrarci su un’altra domanda: l’America attacca coi droni a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Le vittime civili restano un problema ora per il Pakistan che magari ha autorizzato gli attacchi ora per l’Afghanistan (o per la Somalia e altre zone dove i droni americani hanno colpito). Nel nostro caso le vittime possibili sarebbero a poche centinaia di chilometri in alcuni casi a poche decine di chilometri. Cioè nel cortile di casa. È consigliabile? Per noi non lo è. Ma se qualcuno dovesse decidere per gli attacchi, che lo faccia almeno sapendo a quale rischio, morale e concreto, di vendette ravvicinate esporrà il nostro Paese.