giovedì 2 aprile 2015

Il Sole 2.4.15
Un passo avanti ma restano demagogia e improvvisazione
di Donatella Stasio


La legge Severino del 2012 fu definita «un primo passo» da quasi tutte le forze politiche, consapevoli com’erano di alcune sue timidezze, di alcuni errori e, soprattutto, di alcuni vuoti. Il ddl anticorruzione approvato ieri dal Senato dovrebbe essere il secondo passo, o meglio, un mezzo secondo passo visto che ancora non è legge, per diventarlo ci vorrà ancora tempo e i contenuti definitivi sono ancora incerti, sia per le diverse “visioni” dell’anticorruzione emerse tra le forze politiche (testimoniate anche da alcuni voti di ieri) sia per una posizione poco chiara del governo, fin dal suo insediamento, che si è tradotta in annunci, ritardi, misure approvate solo dopo inchieste eclatanti e più volte modificate strada facendo (dal falso in bilancio all’aumento delle pene per i reati di corruzione).
Di certo, il provvedimento riempie alcuni vuoti della legge Severino, per esempio sul falso in bilancio e sugli sconti di pena per chi collabora. Così come il ddl sulla prescrizione dovrebbe colmare il vuoto più grave per un efficace contrasto giudiziario alla corruzione. Dunque, ben vengano. Ma a differenza della “Severino” che, pur con tutti i suoi limiti mandava comunque un segnale dopo anni di inerzia politica, questo provvedimento tradisce una demagogia di fondo e una navigazione a vista, che poco hanno a che fare con una politica penale consapevole del carattere sistemico della corruzione e della necessità di una strategia coerente sul piano preventivo, repressivo, culturale, senza concessioni a populismi, falsi garantismi, luoghi comuni. Nulla a che fare, insomma, con quanto ad esempio avvenne negli anni ’90, dopo le stragi di mafia e, via via, contro la criminalità organizzata.
Certo, ha ragione il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone quando dice che sarebbe sbagliato considerare «salvifica» questa legge, poiché neppure la legge migliore in assoluto farebbe scomparire, dal giorno dopo, la corruzione. Neppure la criminalità mafiosa è scomparsa dopo le misure adottate negli anni ’90, ma nessuno dubita dell’efficacia di quelle misure nei successi contro la mafia, non solo giudiziari. Semmai, il dilagare della corruzione ha ridato linfa alla criminalità mafiosa, come ha scritto l’Ue nel Rapporto sull’Italia del febbraio 2014: «È la corruzione diffusa nella sfera sociale, economica e politica ad attrarre i gruppi criminali organizzati e non già la criminalità organizzata a causare la corruzione».
Il diritto penale non è mai salvifico, soprattutto in mancanza di una consolidata etica pubblica. Peraltro, non tutto ciò che non è reato è, perciò stesso, eticamente accettabile. È vero, però, che il diritto penale riflette scelte politiche precise rispetto al disvalore sociale di alcune condotte in un determinato momento storico, e che questo disvalore è rappresentato anche dalla sanzione e dalla sua entità (non dalla certezza della pena come viene comunemente evocata). Ebbene, il ddl approvato dal Senato inasprisce le pene per una serie di reati contro la pubblica amministrazione (non anche per corruzione tra privati e traffico di influenze illecite) ma questo inasprimento sembra più frutto di improvvisazione che di scelte politiche coerenti. Non si capisce se quegli aumenti (nei minimi e nei massimi) siano figli del populismo penale o piuttosto una necessità dettata solo dall’esigenza di aumentare un po’ la prescrizione di alcuni reati per evitare una riforma organica della prescrizione. Non si capisce se servano a «far fare un po’ di carcere ai corrotti», come disse il premier Matteo Renzi quando il governo propose di aumentare (solo) la pena del reato di corruzione propria, oppure siano il rimedio a quello strabismo sanzionatorio, che finiva per punire più gravemente la corruzione propria di quella giudiziaria, del peculato, dell’induzione indebita (la vecchia concussione per induzione).
Qualche giorno fa, a Reggio Calabria, il ministro della Giustizia Andrea Orlando rifletteva - sollecitato da alcuni giuristi e con l’onestà intellettuale che lo contraddistingue - sull’opportunità di ridurre alcuni aumenti dei minimi della pena per evitare, ad esempio, che una corruzione “pagata” «con due galline» venisse punita con 6 anni di carcere (che poi, con attenuanti e patteggiamento, scenderebbero a 2, salvo l’affidamento in prova) oltre alla restituzione del maltolto (in questo caso le galline). Ecco, le “galline di Orlando” sono il corollario di una politica anticorruzione più improvvisata che ponderata. Che però può ancora recuperare terreno.