martedì 14 aprile 2015

Il Sole 14.4.15
Il piano B nella battaglia sull’Italicum e le parole di Napolitano
di Lina Palmerini


Pur trovandoci a buon punto dell’intricata telenovela sull’Italicum, non si capisce ancora quale sia il piano B della minoranza se non voterà – come alcuni dicono - la legge elettorale. È chiaro che il “no” minacciato dai bersaniani comporta un margine di rischio per la maggioranza e per il Governo che potrebbe andare sotto, pare, soprattutto con le votazioni segrete. Bene, in questo arrovellarsi di riunioni non è venuto fuori con chiarezza lo scenario del “dopo” né dove si andrebbe a parare.
È evidente che in questo braccio di ferro non c’è solo il tema delle preferenze ma c’è il “bersaglio grosso” del premier: anche se Renzi non porrà la fiducia sulla legge elettorale, comunque i voti sull’Italicum avranno lo stesso significato politico di una fiducia. E, quindi, una conseguenza politica ci sarà comunque in caso di strappo sia nel partito che nella maggioranza. Ma se è il Governo l’obiettivo - pienamente legittimo e condiviso anche oltre la minoranza Pd - buttato giù che succede? Si punta al voto con il consultellum, dopo aver fatto un congresso straordinario della ditta? Forse. Ma in un contesto in cui Forza Italia è spappolata, le forze intermedie sono deboli e frammentate, l’estrema sinistra è in attesa di Landini, Salvini e Grillo sono forze anti-euro e potrebbero saldarsi come è accaduto in Grecia, lo scenario diventa piuttosto buio. E la domanda su dove porti la battaglia sulla legge elettorale resta soprattutto se si guarda alla concomitanza con le elezioni regionali. Insomma, se davvero la scelta è quella del “no” all’Italicum a tutti i costi, qualcuno dovrebbe spiegare bene tutti i passaggi del giorno dopo.
E invece non si vedono. Così come non si capisce perché finora i leader del Pd (prima di Renzi) avessero educato gli elettori al principio delle decisioni a maggioranza e ora questo principio non valga più. Principio perfino scritto su testi di intesa come quella che strinse Pierluigi Bersani – dopo la vittoria alle primarie – con gli alleati alle elezioni 2013. Quell’accordo “Italia bene comune”, nell’ultima pagina porta alcune regole tra cui una cristallina: «vincolare la risoluzione di controversie su singoli atti o provvedimenti rilevanti a una votazione a maggioranza qualificata dei gruppi parlamentari convocati in seduta congiunta». Per la precisione era la terza regola «in un quadro di lealtà e civiltà nei rapporti», che Bersani sottoscrisse. Si vedrà se domani, alla convocazione dei gruppi Pd, si continuerà a seguire questo principio, che era valido nel 2013, oppure se è scaduto come la battaglia sulle preferenze (presenti solo in Grecia tra i Paesi Ue).
Una battaglia che ha molto a che fare con quell’eterno gioco del rinvio di cui parlava Giorgio Napolitano ieri avendolo sperimentato almeno per i nove anni in cui è stato al Quirinale. Quell’eterno «ricominciare da capo» stigmatizzato dall’ex capo dello Stato, più che un assist a Renzi, ha messo in guardia dal blocco della funzione legislativa puntellata da costanti slittamenti senza mai arrivare al dunque. «Non si può tornare indietro e disfare quello che si è faticosamente costruito», diceva ieri Napolitano aggiungendo ciò che è “elementare” ma che evidentemente sfugge. E cioè che le leggi elettorali sono frutto di “compromessi” mentre oggi prevale l’istinto all’interdizione e, dunque, un eterno domani. A meno che il piano B non sia auspicare che Renzi metta la fiducia per uscirne in modo dignitoso.