domenica 5 aprile 2015

Corriere La Lettura 5.4.15
1815 : quella volta l’Onu funzionò
Il bilancio del Congresso che cambiò l’Europa
di Paolo Beltramin


Guardateli adesso, esattamente duecento anni dopo, in posa nel disegno ufficiale commissionato al maestro neoclassico Jean-Baptiste Isabey, lo stesso che in un’era precedente aveva ritratto Maria Antonietta; ma potete incontrarli anche in una delle tante caricature sfuggite alla censura, e oggi in vendita nelle bancarelle dei bouquinistes sul Lungosenna di Parigi.
Eccoli, i protagonisti del Congresso di Vienna, ovvero i peggiori statisti e i migliori diplomatici dell’era moderna. In piedi spicca il padrone di casa, Klemens Wenzel Lothar von Metternich-Winnenburg, il principe nero della Restaurazione, nemico giurato di ogni forma di rappresentanza del popolo, e convinto che l’Italia sia soltanto un’espressione geografica. Con la consueta disinvoltura si muove «il camaleonte» Talleyrand, detto anche «il diavolo zoppo», prete senza vocazione, vescovo scomunicato, già aristocratico, poi rivoluzionario, esule a Londra, avventuriero negli Stati Uniti, quindi bonapartista e infine ministro degli Esteri del nuovo monarca Luigi XVIII di Borbone.
A volte capita di incontrare al tavolo di una commissione lo zar di Russia Alessandro I, unico sovrano a partecipare in prima persona alle trattative, diviso tra volontà di potenza e tendenze misticheggianti, convinto com’è di incarnare l’angelo del Signore, inviato sulla Terra per cacciare l’Anticristo Napoleone. Quanto al ministro degli Esteri inglese, questo è l’epitaffio firmato da Lord Byron: «La posterità non conoscerà mai/ una tomba più nobile di questa./ Qui giacciono le ossa di Castlereagh:/ fermati, o viandante, e piscia». Ferocemente attaccato dall’opinione pubblica inglese, colpito dopo il Congresso da una grave forma di paranoia e morto suicida nel 1823, il visconte Castlereagh paga una colpa imperdonabile allo sguardo dei suoi compatrioti: ostinarsi a voler superare il tradizionale isolazionismo dell’Inghilterra, e volersi «immischiare» nelle faccende del continente per costruire un nuovo equilibrio dopo due decenni di guerre sanguinose.
È cambiato radicalmente, in questi due secoli, il giudizio della storia; non solo sulla politica di Castlereagh, che fu per molti versi davvero illuminata, ma sul significato complessivo della conferenza che si tenne al castello di Schönbrunn dal 1° novembre 1814 al 9 giugno 1815. A più di 75 anni dal classico volume di Guido Gigli, ultima monografia italiana sull’argomento, il saggio di Vittorio Criscuolo Il Congresso di Vienna (appena edito da il Mulino), rigoroso e avvincente nella ricostruzione degli eventi, dedica anche ampio spazio agli sviluppi del dibattito critico. «La storiografia ha da tempo superato le critiche a lungo rivolte ai diplomatici di Vienna per non aver tenuto in alcun conto il principio di nazionalità e il desiderio di libertà dei popoli — scrive l’autore —, e ha riconosciuto nell’atto finale un tentativo di fondare un nuovo sistema di relazioni internazionali». «Sistema» fondato sull’equilibrio tra le potenze, non sulla supremazia di uno Stato rispetto agli altri, obiettivo che verrà perseguito per buona parte del Novecento, con esiti disastrosi. Ma soprattutto, «sistema» destinato a reggere sostanzialmente fino all’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914: la guerra di Crimea del 1853-56, infatti, coinvolse la sfera dell’Impero ottomano, escluso dai negoziati di Vienna; e le guerre per l’indipendenza italiana e per l’unificazione tedesca non portarono a crisi globali né fecero saltare «quella balance of power che era stata il principale obiettivo di Castlereagh».
«Il Congresso danza, ma non va avanti», scherza a fine 1814 il principe di Ligne, protagonista del girotondo mondano messo in scena a margine della conferenza. E in effetti è proprio in questa stagione che il valzer soppianta il minuetto e la contessa Caterina Bagration raggiunge il massimo del successo, grazie a «una mollezza orientale unita a una grazia andalusa», riuscendo a conquistare, tra molti altri, il principe di Metternich, Alessandro I ed Eugenio di Beauharnais (per riprendersi dalla sbornia di quei mesi, ai viennesi servirono decenni di noiosa semplicità Biedermeier…).
In realtà il Congresso va avanti eccome, soprattutto se paragonato alla nullità criminale di alcuni celebri congressi del secolo successivo, quello di Monaco su tutti. È a Vienna che si afferma il principio che di fronte a una crisi gli Stati hanno il dovere di confrontarsi, anzi di «concertarsi». È qui, forse per la prima e ultima volta nell’era moderna, che nelle potenze vincitrici la ricerca della stabilità fa premio sul desiderio di rivalsa (dopo la Prima guerra mondiale, alla Conferenza di pace nella Reggia di Versailles, la Germania non sarà neanche invitata).
«Io sono venuto al mondo o troppo presto o troppo tardi — scrive Metternich nelle sue Memorie —. Sarei dovuto nascere nel 1900 e avere il XX secolo davanti a me». Come statisti, Metternich e i suoi interlocutori si rivelarono miopi, incapaci di riconoscere che la Rivoluzione francese aveva cambiato il mondo per sempre, ed era impossibile cancellarne l’eredità con un colpo di spugna o con un trattato, anche se firmato da tutte le grandi potenze. Ma come diplomatici, i membri del Congresso realizzarono un capolavoro. Sì, quel gruppo eterogeneo di ministri, consiglieri e funzionari per lo più reazionari, in buona parte antidemocratici e quasi tutti doppiogiochisti, conclude Criscuolo, «si pose l’obiettivo di una rifondazione dell’Europa dopo la tempesta rivoluzionaria e napoleonica e riuscì a porre le basi di un nuovo diritto pubblico. Si tratta di un risultato tanto più apprezzabile se osservato dalla prospettiva di un’età come la nostra, nella quale il mondo sembra in preda a una sorta di anarchia e non è capace di esprimere né una leadership né una strategia».
Nove giorni dopo la chiusura del Congresso, nella piana di Waterloo, finisce l’epopea di Bonaparte, fuggito dall’Isola d’Elba nel bel mezzo della conferenza. Spedendolo a Sant’Elena, un’isola rocciosa sperduta nell’Oceano Atlantico, i Grandi d’Europa pensano di chiudere definitivamente i conti con l’usurpatore. Si sbagliano anche stavolta. «Il mito dell’Orco fu presto soppiantato da quello di Prometeo», scriveva Criscuolo in un precedente saggio, dedicato a Bonaparte. Dettando le sue memorie al conte de Las Cases, N. riesce nel più grande capolavoro dello storytelling della modernità: lui, il figlio degenere dell’Illuminismo, il traditore di Campoformio, il parvenu che volle farsi imperatore, si presenta al mondo come il campione delle libertà dei popoli e il garante dei diritti delle nazionalità. Il Memoriale di Sant’Elena , letto avidamente dal Julien Sorel del Rosso e il Nero , dal Marius de I m iserabili e da migliaia di liberali e rivoluzionari in tutta Europa, contribuisce a far crollare l’ Ancien Régime più di tante battaglie. È l’ultima vittoria di Napoleone, forse la più avventurosa, spettacolare e geniale.