domenica 19 aprile 2015

Corriere La Lettura 19.4.15
L’interruttore della malattia mentale
Un gruppo di scienziati ha scoperto alterazioni a carico di certe molecole (microRna): questo apre scenari sorprendenti anche nel campo della gestione sociale della follia e dell’amministrazione della giustizia
di Giuseppe Remuzzi

«Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a far la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che Lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!». Pirandello — Il berretto a sonagli — le malattie mentali le vedeva così e chissà che non avesse ragione lui. In fondo di malattie mentali sapevamo e sappiamo ben poco. Non sappiamo da dove vengano per esempio e perché e quando uno comincia ad ammalarsi; non solo, ancora oggi non abbiamo granché per curarle e ancora meno per provare a guarirle.
La malattia mentale viene certamente da lontano; forse da alterazioni di uovo e spermatozoo che potrebbero persino pre-esistere al concepimento, ma potrebbero anche cominciare in utero a causa di certi traumi della gravidanza o per stili di vita della mamma (alcol e fumo), tutto questo potrebbe rendere vulnerabile il cervello del feto. Poi nell’adolescenza qualcosa d’altro, certi tipi di stress, l’alcol, certe droghe capaci di indurre manifestazioni cliniche di malattia in chi è già un po’ predisposto. È solo un’ipotesi, ce ne possono essere tante altre; qualcuno pensa che ci possa essere una componente genetica anche perché certe malattie mentali sono ereditarie. Molte però non lo sono affatto e fra l’altro la stessa alterazione genetica che in qualcuno si associa a malattia ad altri non dà alcun problema.
Insomma, i geni giocano certamente un ruolo, come per quasi tutte le malattie, ma deve esserci dell’altro, che poi vuol dire ambiente, condizioni socio-economiche, abitudini di vita, incontri che uno fa nel corso della vita. Tutto questo, attraverso meccanismi che i medici chiamano epigenetici — in greco sarebbe «quello che sta al di sopra dei geni» —, può alterare la funzione di questi ultimi senza modificare il Dna.
C’entra con le malattie mentali? Probabilmente sì, perché se sapessimo di più dei processi epigenetici forse riusciremmo a capire le cause delle malattie della mente e chissà, forse anche a curarle, un poco. Così per lo meno la pensano Orna Issler e Alon Chen del Weizmann Institute di Israele e del Max Planck Institute di Monaco. Hanno pubblicato pochi giorni fa su «Nature Neuroscience» una revisione di tutta la letteratura più recente che dimostra come chi soffre di malattie mentali abbia nel cervello alterazioni a carico di certe molecole — microRna — che sono capaci di alterare l’espressione di molti geni senza modificare la struttura del Dna. Ciascun microRna fatto di 22 nucleotidi soltanto (nucleotidi sono le unità ripetitive che compongono Dna e Rna) funziona come un interruttore — spegne certi geni e ne accende altri — e in questo modo regola in un colpo solo l’espressione di centinaia di geni. Potrebbero bastare quei 22 nucleotidi per condizionare comportamenti, reazioni ed emozioni e tanto altro in chi si ammala di malattie psichiatriche, almeno in teoria, ma come dimostrarlo in pratica?
Gli scienziati sono partiti dai topi, hanno visto che se uno modifica nel cervello l’espressione del microRna che hanno chiamato 137, i topi si comportano in modo molto diverso. Se altri studi lo dovessero confermare si aprirebbero strade del tutto nuove per capire la neurobiologia delle malattie mentali e per trovare finalmente una cura.
Fantascienza? Mica tanto. Certi topi che con l’aumentare dei livelli di microRna nel cervello assumono comportamenti vicini alla schizofrenia possono tornare a un comportamento del tutto normale con manovre che riducano l’espressione di quelle stesse molecole. E questo oggi lo si può fare con degli antagonisti di quegli stessi microRna che gli scienziati possono sintetizzare in laboratorio. Sarà solo un fatto di topo o tutto questo si potrà applicare all’uomo? Qualcuno, per cominciare, ha analizzato materiale autoptico di persone che in vita avevano sofferto di depressione, per esempio, ma anche di chi era stato schizofrenico o era morto suicida. Qui arriva la prima sorpresa o la prima conferma, se preferite: profili di espressione di microRna nel cervello di cadaveri di chi aveva avuto malattie mentali sembravano proprio diversi da quelli delle persone che consideriamo normali.
Attenzione però alle conclusioni affrettate; non è detto che le alterazioni che si vedono studiando il cervello dei cadaveri siano le stesse che ci sono negli ammalati. Non solo, ma quello che gli scienziati hanno potuto documentare riguardo alle alterazioni dei piccoli interruttori dei geni potrebbe essere il risultato del trattamento più che di modificazioni indotte dalla malattia.
Dalle autopsie si è poi passati a studiare le cellule del sangue di malati di mente. E cosa si è visto? I risultati non sono facili da interpretare, ma messo tutto insieme sembra proprio che nei malati di mente ci siano alterazioni di microRna molto simili a quelle che si erano viste studiando il cervello dei cadaveri, che a loro volta non erano poi così diverse da quelle dei topi.
Questi studi aprono anche scenari che vanno ben al di là della neurobiologia: ammettiamo che alla base di quello che la gente chiama pazzia ci siano davvero alterazioni di certi microRna e che siano in fondo quei 22 nucleotidi soltanto i responsabili di certi comportamenti, di un atto criminale per esempio. Ma allora quell’atto potrebbe dipendere dalla capacità di quei microRna di spegnere certi geni e accenderne altri più che dalla volontà di chi l’ha compiuto. Quell’individuo lo si dovrà condannare come si fa con tutti gli altri? Si aprirà un dibattito, non sarà facile trovare una soluzione, un po’ perché la materia è molto complicata e poi perché le regole dei tribunali non sono quelle della scienza (ricordate quei giudici che erano convinti che gravi malattie neurologiche si potessero curare con «stamina»?).
Ma ci dobbiamo preparare perché la scienza va avanti e anche molto in fretta e alla fine fatti e conoscenze finiranno per prevalere sulle opinioni personali. E poi, se certi comportamenti dipendono almeno in parte dalla capacità di quei microscopici interruttori molecolari di regolare tanti geni, vuol dire che dovremo sottoporre persone per cui sospettiamo una malattia mentale a studi sui microRna? E quando sai che rischi più degli altri cosa fai? Ne parli in famiglia? Avverti il tuo partner? Decidi eventualmente di non avere figli? È così difficile rispondere a queste domande che la Columbia University di New York ha creato un centro di ricerche per «Implicazioni etiche, legali e sociali della genetica del comportamento e delle malattie psichiatriche»: vogliono far dialogare esperti di etica e di sanità pubblica con avvocati, giudici, politici e scienziati. Vorrebbero far diventare le ultime scoperte della genetica per i malati di mente un’occasione per stare almeno un po’ meglio e non un’ulteriore fonte di discriminazione. Ci riusciranno? Vedremo.