domenica 19 aprile 2015

Corriere La Lettura 19.4.15
Amnistia oggi, meno corrotti domani
Dalla Cina la ricetta del criminologo-scrittore He Jiahong
«Meglio chiudere con il passato e investire in prevenzione»
Nel 2013 sono stati inquisiti 183 mila burocrati della Repubblica popolare, 232 mila neln 2014
La campagna moralizzatrice del leader Xi Jimping colpisce anche altissimi dirigenti
Uno dei giuristi più in vista ipotizza: due milioni almeno i funzionari “sporchi”
di Guido Santevecchi

Il lungo corridoio dove si affaccia lo studio del professor He Jiahong è poco illuminato, silenzioso e deserto: in attesa dell’incontro, viene da pensare che potrebbe essere la buona ambientazione per un romanzo criminale. Siamo nel palazzone della Scuola di Diritto dell’Università Renmin, una delle più prestigiose della Cina e in realtà, nell’ufficio del docente di Diritto penale, di storie noir ne sono state prodotte parecchie: He, oltre a un’infinità di trattati giuridici, ha firmato una serie di thriller che hanno avuto successo anche in Europa (in Italia Mursia ha pubblicato La donna pazza ). Però, oggi, a Pechino di He si parla soprattutto negli ambienti politici e non sempre questo interessamento da parte del potere è un segnale rassicurante. «Niente paura, non sono per la rivoluzione, ma per l’evoluzione», dice presentandosi.
Il giurista si è avventurato nella campagna anticorruzione lanciata dal presidente Xi Jinping due anni fa con la promessa/minaccia di «schiacciare le mosche e abbattere le tigri» che si sono arricchite a spese del popolo. «Mosche», nella retorica del leader supremo, sono i piccoli burocrati del Partito-Stato, le «tigri» sono i potenti mandarini del nuovo impero comunista diventato seconda economia del mondo. La temuta Commissione centrale di disciplina ha concluso il 2013, primo anno dell’era Xi, annunciando di aver inquisito e punito 183 mila funzionari. Nel 2014 il numero delle mosche schiacciate è salito a 232 mila e anche tra le tigri c’è stata caccia grossa: è finito in carcere per la prima volta nella storia della Repubblica popolare un ex membro del Comitato permanente del Politburo, quel Zhou Yongkang che per dieci anni aveva guidato l’apparato di sicurezza statale, dalla polizia ai servizi segreti; processato e condannato a morte l’ex ministro delle Ferrovie Liu Zhijun che aveva molte amanti e rubava sugli appalti; arrestato il generale Xu Caihou, ex vicepresidente della Commissione centrale militare che vendeva le promozioni; alla sbarra, costretti a dichiararsi colpevoli, i supermanager di grandi aziende statali che intascavano tangenti milionarie; giustiziato con un colpo alla nuca il miliardario Liu Han.
Il numero enorme (anche per la grande Cina) degli inquisiti sta scuotendo il Partito, circola la voce che Xi abbia ricevuto minacce di morte più o meno cifrate. Il rischio è che la campagna anticorruzione renda ancora più sofisticato il malcostume e destabilizzi il Partito e il sistema, aprendo una crisi incontrollabile.
Ed ecco l’idea del professor He Jiahong: «Un’amnistia». Scusi, un colpo di spugna proprio ora che mosche e tigri cadono in trappola e l’opinione pubblica esulta? Al dottor He piace tenere lezioni lunghe, ci guarda con un sorriso e spiega: «Si calcola che in Cina ci siano 7 o 8 milioni di funzionari pubblici e 2 milioni almeno sono sicuramente stati corrotti nel corso della carriera; sto parlando solo di quelli in servizio, non dei pensionati, se ci interessiamo anche di quelli il numero della gente su cui indagare cresce di qualche altro milione. Come facciamo a investigare su tutti questi? Con la velocità della Procura suprema del popolo, che lavora con molto impegno, forse avremo bisogno di quarant’anni per esaurire le inchieste sul passato». E nel frattempo magari la corruzione in Cina non si fermerà... «Bravo, ha capito: per questo cerco di convincere i politici che ci sono delle imperfezioni nel nostro sistema, che dobbiamo fare dei compromessi come un’amnistia. Certo, sarebbe difficile far accettare questa soluzione al popolo cinese, perché l’odio verso i burocrati corrotti è fortissimo. Io propongo un cambio di strategia: la priorità non deve essere la corruzione di ieri, ma quella di domani, dobbiamo passare dalla repressione alla prevenzione, ho pensato a una legge che imponga ai funzionari di dichiarare il loro patrimonio in pubblico». E «fino a quando le proprietà dei burocrati piccoli e grandi non saranno dichiarate e verificabili da parte della gente, la tentazione di accrescerle con il sistema delle tangenti sarà troppo forte», conclude He.
La proposta di un giurista è forte per la Cina dove tutto è discusso e deciso in segreto, nelle stanze del Politburo. Il professore però non sembra preoccupato: «So fino a dove posso spingermi con la mia critica costruttiva». He Jiahong è nato nel 1953 a Pechino, aveva 13 anni quando cominciò la Rivoluzione Culturale: «Mi sentivo molto rivoluzionario, andai anch’io a zappare in campagna, ma poi capii che in quella fase si era aperto un buco nero nella storia della Cina».
He tornò in città alla fine degli anni Settanta: «Eravamo tutti poveri, quando il governo lanciò l’apertura al mercato e invitò il popolo ad arricchirsi, a gettarsi nel mare dell’economia, degli affari; bastavano 10 mila yuan in una scatola di latta allora per essere considerati ricchi. Poi negli anni Novanta con la Borsa tutto cambiò: si poteva diventare milionari dalla notte al giorno, un altro buco nero».
Il giovane He Jiahong, frastornato dai cambiamenti, sognava di scrivere: «Volevo dimostrare di saper tenere in mano la penna, dopo la zappa». Ma i genitori della fidanzata non volevano in casa un romanziere; gli imposero di laurearsi. He scelse Legge, si dimostrò un’ottimo studente, si sposò e diventò professore alla Renmin. E finalmente, nel 1994, il primo romanzo: «Pensavo a uno Sherlock Holmes cinese, ma il mestiere dell’investigatore privato era illegale da noi, un docente di Diritto non poteva certo creare un eroe fuorilegge. Così inventai un avvocato investigatore». La serie ha avuto successo, da allora He ha sfornato un romanzo all’anno circa. Si è accorta di lui anche la potente Penguin, che lo ha tradotto in inglese. Ma l’incontro tra Est e Ovest non è stato indolore: «Dicevano che le mie storie erano troppo lunghe, volevano tagliare un intero capitolo e scelsero quello nel quale il protagonista s’innamorava. Io mi opposi, per salvare quell’amore dovetti accettare tagli qua e là. E sapete che cosa è successo? L’editor della Penguin ha tolto anche le righe finali, l’ happy ending nel quale la compagna del protagonista gli rivela di essersi convertita e di credere in Dio. Mi hanno spiegato che ai lettori anglosassoni le soluzioni felici non piacciono. Sarà».
Prima di salutarci il giurista giallista tira fuori da una delle pile di volumi che affollano lo studio una copia del romanzo e scrive una dedica: «Nella vita non bisogna essere sempre svegli, qualche volta è meglio assopirsi». Lezione finita.