Corriere 3.4.15
Un maestro assoluto (non solo longevo)
di Paolo Mereghetti
Per tutti è stato il più longevo regista in attività della storia del cinema, ma sarebbe ingiusto limitare il valore del cinema di de Oliveira a una statistica anagrafica. Come se l’apprezzamento per i suoi film fosse frutto di un qualche rispetto dovuto all’età. Sarebbe la più grande delle offese, non solo a lui ma all’essenza stessa del cinema, che invece de Oliveira aveva saputo cogliere con straordinaria intelligenza e giustezza. Perché se il regista lusitano si merita un grande posto nella storia del cinema è dovuto al fatto che i suoi film hanno saputo «fermare» — per lo spazio di una scena o di un dialogo, a volte anche solo di un’inquadratura — quello che distingue il cinema da qualsiasi altra forma d’arte: la capacità di gettare uno sguardo originale sulle cose per rivelarci quello che, senza, non avremmo visto. Mentre interroga il reale e lo spettatore insieme. A volte il pubblico si è fatto catturare o irritare dalle storie e dai personaggi dei suoi film, dal medico emigrato a New York che vuole dimostrare l’origine portoghese di Cristoforo Colombo all’attore in là con gli anni a cui muoiono d’un colpo moglie, figlia e genero, dallo strano ed eterogeneo pubblico raccolto su una nave in crociera nel Mediterraneo all’amore che nasce e si consuma da una finestra all’altra, di fronte all’immagine di una ragazza col ventaglio. Dalla platea possono sembrare trame curiose, incongrue, magari antiquate e «fuori moda»; ma se per un momento mettiamo da parte l’acribia del razionalista a tutti i costi, non possiamo non ammettere che in ognuna di quelle storie, in ognuno di quei film c’è un momento in cui i personaggi sembrano davvero prendere vita, per uscire dallo schermo e invitarci a dialogare con loro, a «entrare» nel loro mondo. In Ritorno a casa (per me il suo capolavoro) un lungo dialogo è messo in scena inquadrando solo le scarpe del protagonista: può sembrare una scelta astrusa, ma niente sarebbe altrettanto efficace e nello stesso tempo essenziale. Girata in quel modo, quella scena si è stampata nella memoria dello spettatore per non uscirne più; e quel senso di «finzione» che ci accompagna ogni volta che entriamo in un cinema svanisce all’improvviso. Sentiamo di trovarci di fronte a qualche cosa a cui non siamo abituati. Qualcosa di diretto, di vero. Di assoluto. Il sentimento strano di guardare un film che non è solo un film, dove il linguaggio delle immagini con cui siamo abituati a dialogare si trasforma: dà l’impressione di cedere, di sfrangiarsi, di perdere la propria specificità («teatro filmato» si sente dire talvolta, confondendo il diavolo con l’acqua santa) per impennarsi all’improvviso in alcuni squarci folgoranti e struggenti. Per diventare cinema puro. Cinema al quadrato.