Corriere 21.4.15
Racconto aperto
Toràh tra memoria e dibattito
Perché in quelle pagine si trova l’antidoto al fondamentalismo
di Stefano Jesurum
Non è un caso che l’edizione 2015 della Festa del Libro Ebraico di Ferrara contenga in sé, e in qualche modo ci giri intorno traendone forza e ossigeno, la mostra «Toràh fonte di vita». Il Libro per antonomasia, la Toràh appunto, è infatti inscindibile da qualunque contesto si voglia occupare di letteratura ebraica e dintorni.
Di più: credo sia inscindibile da ogni ragionamento sulla natura stessa della letteratura come sintesi dell’anima e del pensiero di un individuo, di un popolo, di una nazione, di un mondo. Letteratura è racconto, la Toràh è racconto — scritto o «sulla bocca», vale a dire orale, cioè il Talmùd con le sue interpretazioni rabbiniche, unico, credo, libro sacro che accetti ed esorti la propria messa in discussione. Toràh è prima di tutto insegnamento però, come recita un famoso detto, «la Toràh ha settanta volti» e così una tradizione basata su una grande fedeltà al testo e ai precetti riesce a non divenire fondamentalista.
Toràh è memoria, non per nulla a Ferrara sarà reso omaggio allo scrittore Premio Nobel 2014 Patrick Modiano e sarà presente uno degli ultimi sopravvissuti alla Shoàh Samuel Modiano. Toràh è studio, chi studia non invecchia, e le kermesse librarie sono per antonomasia dei giovani. Toràh è sicurezza, non certezza cieca: è la siepe che ripara il giardino e — dicono molti commenti — guai se la siepe prende il posto del giardino.
Insomma Toràh, un cuore che dà forza e ossigeno. Ampliando il concetto, forse con superficialità, direi studio, conoscenza, memoria e trasmissione di memoria come origine di vita. Anche con allegria, gioia, talvolta spiritosa arguzia.
Ed ecco che mi si chiede di accennare al libro fondamento dell’ebraismo e a quell’altra caratteristica conosciutissima e apprezzata del pensiero ebraico: l’ironia. Meglio chiamarla autoironia, ché il riso è sì buono ma può essere cattivo se ridicolizza, banalizza, mette alla berlina. Ridere ebraicamente significa ridere di sé e non dell’altro, convivere con la nostra fragilità, le paure, i nostri limiti. Mischiando un po’ confusamente Freud e Pirandello, diremo che l’umorista non ride contro qualcuno, bensì ride con qualcuno della triste condizione umana; resta dentro il paradosso e sopporta di non poterlo risolvere; beffa le certezze manichee, le categorizzazioni, il narcisismo del complesso di superiorità; deride la derisione stessa, scardina il giudizio; sdrammatizza. È il più potente tra i dispositivi anti-idolatrici, l’idolatria essendo il più grave dei peccati — così spiegano i Maestri —, idolatria intesa come il mettere se stessi al centro dell’universo, il delirio di onnipotenza.
Durante la Giornata europea della cultura ebraica che tre anni fa fu dedicata proprio all’umorismo, riascoltammo quanto esemplare sia il primo riso incontrato nella Toràh, quello di Sara allorquando le viene annunciato che avrebbe avuto un figlio. Novantenne da sempre sterile, la moglie del vecchio Abramo ride. L’angelo/messaggero travestito da viandante lo nota e lo sottolinea: ti ho vista, tu hai riso!
Poi l’Eterno comanderà loro di chiamare il nascituro Isacco, e in ebraico Itzkhak è legato alla radice del verbo «tzakhak», ossia ridere. Isacco, colui che rise. Dove il miracolo rappresenta la negazione del senso comune, la realizzazione di ciò che si crede impossibile. Ancora il ribaltamento delle certezze, il disvelamento del pregiudizio, una «battaglia» contro i luoghi comuni.
Per non parlare dell’infinito mare dell’umorismo yiddish che gioca con la sofferenza, perfino con la Shoàh, aiutando a superare la dimensione tragica nel suo opposto come via di sopravvivenza.
La Festa del libro ebraico di Ferrara 2015 ha come cuore la Toràh fonte di vita. In fondo anche un monito (lo dico «con ironia») a contenere l’ego smisurato che spesso accompagna incontri tra letterati e intellettuali, riso/sorriso come antidoto alla malattia dell’ego dilagante. Perché, dicono sempre i Maestri, l’umorismo è ciò che detronizza il narcisismo. Il tentativo costante, nella concezione ebraica, è affrancare l’uomo da ciò che lo schiaccia, dalle proprie debolezze o complessi e da tutto ciò che ci impedisce di ridere di noi, esaltando invece l’incompletezza, la parzialità fragile della condizione umana cui manca sempre un pezzo, e che non è mai completa.