lunedì 20 aprile 2015

Corriere 20.4.15
Migrazioni globali
I numeri di questi giorni fanno paura, ma il fenomeno si può e si deve gestire
di Massimo Nava


È vero, non possiamo farci carico di tutti i drammi del mondo. Eppure, la più grande tragedia del mare — che non sarà l’ultima — impone una presa di coscienza collettiva, al di là delle parole d’indignazione e solidarietà. Rischiamo di perdere la nostra umanità, come ha detto il presidente Sergio Mattarella. Ne va dei fondamenti di civiltà e cultura europea.
Alla politica — nazionale ed europea — spetta il compito di trovare soluzioni e contromisure, non essendo possibile attendere che la Libia e i Paesi da cui provengono i migranti si stabilizzino come per miracolo e riducano i flussi. Ma a tutti, come cittadini, s’impone di comprendere la dimensione dei fenomeni, di dominare la psicosi dell’invasione, di non invocare la difesa del giardino di casa che lascia spazio a sterili polemiche, a miserabili calcoli politici, a strumentalizzazioni il cui effetto è di rendere più fragili e indecisi governi e istituzioni europee che dovrebbero invece agire in modo forte e coeso.
Basterebbero uno sforzo di memoria e uno sguardo al di là del proprio naso. Certo, trecentomila migranti verso le nostre coste fanno paura. Ma sappiamo quanti profughi si sono riversati nella piccola Giordania (sei milioni di abitanti) dalla Siria devastata dalla guerra civile? Un milione e mezzo, che andrebbero aggiunti, per le statistiche, al milione e mezzo di palestinesi affluiti nei decenni. Ricordiamo quante centinaia di migliaia di siriani hanno invaso il Libano? La stessa Siria è stata a sua volta invasa da un milione di iracheni, in seguito alla sciagurata guerra americana, prima causa della destabilizzazione dell’area.
Oggi, il flusso più ampio proviene dalla Libia, lasciata colpevolmente nel caos dopo avere immaginato, nella Francia di Sarkozy, che fosse sufficiente togliere di mezzo Gheddafi per esportare democrazia. Ai migranti libici, si aggiungono decine di migliaia dai Paesi limitrofi, a loro volta resi più fragili dalle nuove emergenze. Basti pensare alle pesanti difficoltà della piccola Tunisia, invasa da centinaia di migliaia di libici che hanno esposto la giovane democrazia al terrorismo e all’instabilità economica e sociale.
E come dimenticare le emergenze che nei decenni passati hanno colpito Paesi non certo così ricchi e progrediti da subire senza conseguenze l’invasione di milioni di esseri umani. Pensiamo ai campi profughi dei cambogiani in Thailandia, ai boat people vietnamiti approdati in Malesia e nella stessa Thailandia, ai profughi ruandesi che sconfinarono nella Repubblica democratica del Congo.
La psicosi dell’invasione di oggi non soltanto ci fa dimenticare tante tragedie della nostra epoca, ma impedisce un salutare confronto con la condizione sociale ed economica di altri Paesi .
Ad ogni tragedia del mare, nonostante gli appelli alla solidarietà, sembra di vivere in una sorta di miopia irrazionale o egoistica che impedisce di trasformare la generosità e l’impegno di molti o di pochi in un solido e consapevole atteggiamento di tutti. I disperati che approdano sulle nostre coste e le migliaia di vite che il mare cancella pagano anche la memoria corta, la percezione travisata dei fenomeni, forse la malapianta del razzismo. Come se fossero esseri inferiori rispetto alle decine di migliaia di tedeschi dell’Est che fuggivano dal comunismo e trovarono al confine della Germania campi di accoglienza, indirizzi d’ospitalità e persino contratti di lavoro. O rispetto ai boat people vietnamiti che gli Stati Uniti — anche per senso di colpa — trasformarono in cittadini americani. O rispetto ai profughi della ex Jugoslavia, sparsi a decine di migliaia nelle città europee. Meritavano, loro, più comprensione e solidarietà?
Anche i flussi di questi ultimi anni andrebbero indagati con cura. Se è vero che l’Italia affronta quasi in solitudine il primo impatto e giustamente invoca un maggiore impegno europeo, è anche vero che Germania e Svezia hanno accolto la metà delle domande d’asilo giunte in Europa dalla Siria. Ed è anche vero che fra il 2010 e il 2014, la Germania, da sola, ha accolto 434.260 persone, 5,3 rifugiati per mille abitanti.
È ovvio che i numeri di queste tragiche notti spaventino. Ed è ovvio che la memoria storica e la statistica non rappresentano da sole una soluzione. Ma ci aiutano a non perdere umanità. Ci ricordano, come diceva il grande scrittore serbo Milos Crnjanski, uno che di migrazioni e diaspore se ne intendeva, che «nessuno va dove vuole».