Corriere 17.4.15
Le vie per salvare l’italicum e accontentare la minoranza pd
di Stefano Passigli
Caro direttore, lo scontro sulla legge elettorale in atto all’interno del Pd tra maggioranza e minoranza cela in realtà una questione presente in tutti i sistemi politici rappresentativi sin dalla nascita dei partiti di massa: la dialettica, talora aspramente conflittuale, tra apparati e gruppi parlamentari.
Se nei parlamenti ottocenteschi eletti a suffragio ristretto erano i singoli parlamentari, poi riunitisi in gruppi, a controllare partiti non strutturati e poco più che comitati elettorali, con l’avvento dei partiti di massa alla fine dell‘800 e ai primi del ‘900 sono stati progressivamente i partiti a dominare i gruppi parlamentari. La dialettica tra partiti e gruppi è tuttavia rimasta presente in molti partiti, specie laddove — come nelle formazioni di centro — questi tendevano a divenire partiti «pigliatutto», a rappresentare cioè interessi diversi e talora persino contrastanti. Si pensi ad esempio alla Dc, dove il tentativo di alcuni segretari del partito di farsi anche capo del governo non fu mai coronato da stabile successo, e dove i gruppi mantennero sempre un elevato grado di autonomia assicurando quello che è il caposaldo della democrazia, a livello istituzionale ma anche delle organizzazioni di partito: l’equilibrio tra poteri.
Nell’attuale caso italiano la questione è tornata di attualità con l’Italicum: se i collegi previsti rimanessero 100, con l’attuale distribuzione del voto circa due terzi dei deputati verrebbero nominati dalle segreterie di partito e non scelti dai cittadini. Infatti, solo nel caso del partito vincitore del premio di maggioranza avremmo circa 240 eletti con le preferenze. Gli altri partiti, raggiungendo al massimo 70 o 80 deputati, vedrebbero eletti solo i capilista bloccati. Solo grazie al ricorso alle candidature plurime (che vanificando la conoscibilità degli eletti da parte degli elettori sono a palese rischio di incostituzionalità), un ulteriore limitato numero di deputati potrebbe essere scelto dai cittadini. La maggioranza dei deputati rimarrebbe tuttavia nominata dai partiti, non portando soluzione a quello che era uno dei principali difetti del Porcellum e sminuendo grandemente il valore di una proposta di legge che invece, se corretta, potrebbe rappresentare un eccellente mix di governabilità e rappresentanza.
Alla luce di queste considerazioni il braccio di ferro tra maggioranza e minoranza del Pd diviene comprensibile ed acquista un significato più generale. L’attuale gruppo parlamentare è stato infatti eletto col Porcellum, e cioè con liste bloccate varate dalla precedente dirigenza del partito. E anche se la segreteria Bersani è stata nel complesso generosa sia nell’assegnazione di seggi sicuri alla (allora) minoranza renziana, sia nell’accettare primarie non ristrette ai soli iscritti o ad elettori registrati in anticipo — aprendo così la porta alla fine del vecchio partito — è naturale e legittimo che Renzi e l’attuale dirigenza del Pd non si riconoscano nei gruppi parlamentari. Ma altrettanto naturale è che questi ultimi, temendo di non essere ricandidati dalla segreteria, insistano per tornare alle preferenze, viste come unica garanzia del mantenimento di un adeguato pluralismo interno. Non è casuale che analoghi fenomeni abbiano luogo in Forza Italia con la fronda di Fitto e il malessere di altri dirigenti, nella Lega con la scissione di Tosi, e nei 5 Stelle con le molte defezioni.
In altre parole, quando i partiti perdono il loro naturale pluralismo e divengono «partiti personali», è naturale che i gruppi parlamentari entrino in sofferenza sino a mettere seriamente a rischio l’unità del partito o la sua tenuta parlamentare. In queste condizioni è interesse delle stesse leadership di partito, anche se largamente maggioritarie, ricercare soluzioni unitarie che ne mantengano il consenso tra iscritti ed elettori.
Nel caso del Pd e delle sue attuali tensioni interne sarebbe sufficiente ridurre da 100 a 50 i collegi previsti dall’Italicum per garantire che almeno il 50% dei deputati fosse scelto dagli elettori e non nominato. In alternativa, il governo Renzi potrebbe seguire l’esempio del governo Ciampi che nel 1993, dopo il referendum che introdusse il maggioritario, affidò a una commissione nominata dai presidenti di Camera e Senato e guidata dal presidente dell’Istat il compito di determinare numero e confini dei collegi, riservando ai partiti la sola ratifica parlamentare del suo operato. Un passo che sottraendo al dibattito parlamentare l’aspetto oggi più conflittuale all’interno del Partito democratico faciliterebbe l’approvazione degli elementi sostanziali dell’Italicum: la governabilità, assicurata dal premio di maggioranza alla lista; e la rappresentatività, assicurata dall’aver rinunciato a soglie di sbarramento differenziate (e sicuramente incostituzionali) fissando una soglia unica al 3%.
Fissare in legge in maniera largamente consensuale i grandi lineamenti della riforma elettorale e rimettere ad una sede tecnica la sua traduzione sul territorio porrebbe la legge al di sopra di ogni sospetto, valorizzandone i molti pregi. I grandi leader sanno vincere unendo e non dividendo.