lunedì 13 aprile 2015

Corriere 13.4.15
Antonia Arslan: un crimine che non cade in prescrizione
Dal suo “La masseria delle allodole” il fratelli Taviani hanno tratto il loro film
intervista di Maria Serena Natale


Se casa è la memoria, gli armeni sono ancora in esilio – dal passato, dalle terre degli avi, dal ricordo della civiltà fiorita ai piedi dell’Ararat, il monte di Noè che nella loro lingua suona «Creazione di Dio» e in turco «Montagna del dolore». Da anni, attraverso la parola, la scrittrice Antonia Arslan cerca il filo di quella storia spezzata. Il suo ultimo libro, «Il rumore delle perle di legno», chiude il percorso cominciato con «La masseria delle allodole», discesa e risalita dall’epicentro della sofferenza. «Tutte le morti del mondo» scrisse l’ufficiale tedesco Armin Wegner dopo aver fotografato le deportazioni degli armeni dall’Anatolia attraverso il deserto mesopotamico nell’estate del 1915.
Cento anni dopo, perché la parola «genocidio» fa tanta paura?
«Perché fissa l’orrore dell’annientamento sistematico di un intero popolo, rende visibili gli scomparsi, oltre un milione di persone mandate a morire secondo un progetto preciso. E ha tutto il peso di un crimine che non cade in prescrizione. Fu il giurista Raphael Lemkin a definirne il significato legale che sarebbe stato adottato dalle Nazioni Unite nel 1948. Lemkin si era occupato della questione armena sin dagli anni Venti, era un ebreo polacco sopravvissuto all’Olocausto».
Sull’Olocausto, il popolo tedesco ha affrontato un doloroso cammino di ricostruzione ed elaborazione della verità storica. Tragedie come il genocidio del 1994 in Ruanda sono state seguite da processi giuridici di riconciliazione oggi inimmaginabili per il dramma armeno. Cosa impedisce il confronto con quel passato?
«Insieme alla minoranza cristiana degli armeni, i Giovani turchi ossessionati dalla purezza etnica vollero cancellare ogni traccia di una cultura millenaria, come le splendide architetture dei secoli VI-VIII. È a quel folle piano di omogeneità che si riferisce il colonnello del film dei fratelli Taviani tratto dalla “Masseria delle allodole”, quando dice: “La Turchia dev’essere dei turchi”. Lo sterminio fu poi sepolto sotto una coltre di silenzio dopo la firma del Trattato di Losanna nel 1923, con il beneplacito delle potenze occidentali. Il generale Mustafa Kemal Atatürk poté così rifondare la nuova Turchia sulle ceneri dell’Impero Ottomano, a costo di cancellare la memoria della mattanza».
È possibile costruire una nuova vita su una rimozione?
«No, per questo oggi anche in Turchia intellettuali coraggiosi come lo storico Halil Berktay si battono per riportare alla luce quegli eventi».
Il presidente armeno ha lanciato un appello, «Mai più genocidi». Come prevenire l’irrompere del male?
«Non avendo paura di calarsi nelle profondità dell’animo umano. La memoria non dev’essere qualcosa di astratto, ma basarsi sulla coscienza di quel che siamo. Tutti possiamo essere Giusti, tutti possiamo essere carnefici».
Nella sua vicenda umana e intellettuale, ha trovato un senso al dolore?
«Quando sei nella sofferenza non desideri altro che uscirne, poi scopri che il dolore ti ha cambiato, rendendoti immune dal superficiale piagnisteo che ci circonda».
Tra le vittime del genocidio c’è il grande poeta armeno Daniel Varujan, che lei ha tradotto in italiano. Qual è la poesia che ha più amato?
«Quella che dedicò alla giovane moglie, un testo di una sensualità panica, limpida. S’intitola “Tu sei benedetta fra le donne”».