domenica 12 aprile 2015

Corriere 12.4.15
Lo statalismo non salverà le bellezze
Pubblico e privato devono cooperare
di Andrea Carandini


Se un giorno si è a Roma e si cerca nel vortice un indugio, bisogna recarsi al Museo della Crypta Balbi in via delle Botteghe Oscure. Lì si capisce chi è Daniele Manacorda, un archeologo che pensa in modo originale e fa in maniera inconsueta. Il suo recente librino L’Italia agli italiani (Edipuglia) non sorprende, eppure anche stupisce, tanto sono rare le idee al di fuori della più vetusta correttezza politica, avvezza a distribuire patenti del ben pensare in quanto unica detentrice del deposito delle verità acclarate. Manacorda conosce sorprendentemente sia il dubbio che la curiosità e ciò gli consente un’invidiabile freschezza nel ragionare e nel proporre, contro ogni idea difensiva e manichea, da fortino assediato, in cui si rimpiange e si intende restaurare il bel tempo antico. Quello in cui creavamo il più gigantesco debito pubblico della nostra storia — senza che si sia sollevato neppure un ciglio — premessa dei successivi tagli — immancabilmente accompagnati da alti lai?
Un primo pensiero precostituito è che la conservazione è un bene e che la promozione culturale è un fatto tanto secondario da poter essere tralasciato: le cose significative e belle non parlano da sé? La valorizzazione non è l’anticamera della monetizzazione? La sostenibilità non è il vestibolo della mercificazione? Il privato, il mercato e l’intrapresa non sono aspetti del Demonio, di Mammona? Il bene non coincide soltanto con lo Stato, anche quando autoreferenziale e poco accogliente? Non sono forse marketing e management sinonimi di maneggio? Nulla di ciò in Manacorda, che segue pensieri pacati e riformisti, invece che radical-conservatori e per questo invoca un’alleanza tra gli innovatori, che pure esistono nella nostra società.
Manacorda, da buon stratigrafo, ha una visione olistica e pertanto contestuale dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Sente quindi il bisogno di una unica regia a cui manutenzione, valorizzazione, gestione e comunicazione devono rispondere. Infatti la promozione culturale può aiutare moltissimo nella manutenzione dei monumenti, in quanto un buon servizio crea condizioni conoscitive, partecipative e di sostenibilità per cose che, restaurate e poi abbandonate, sono destinate fatalmente alla rovina. Il Fai, a esempio, arriva a coprire i costi della manutenzione dei propri beni all’84 per cento e anche lo Stato potrebbe seguire una strada simile, con grande vantaggio per il bene comune. Unendo infatti quanto proviene dalle tasse con quanto proviene dai servizi disporrebbe di una base economica più ampia e variegata per salvare porzioni maggiori di contesti e di opere.
Questa visione olistica deve investire anche i programmi scolastici: anche una ottima storia dell’arte non arriva a spiegare i valori dei paesaggi, che opere d’arte non sono, ma per lo più opere anonime e spontanee di milioni di uomini nel corso dei secoli. Per non dire dei Policlinici del patrimonio culturale, che Manacorda rilancia: bisognerebbe imparare a conoscere e a gestire gli oggetti della storia e dell’arte non sulle riproduzioni, ma sul campo, come accade agli apprendisti medici.
Vi è poi la grande questione di come intendere la Repubblica, unico soggetto dell’articolo 9 della Costituzione. Secondo la verità unica prestabilita, la Repubblica sarebbe solamente lo Stato, ma il nostro ordinamento concepisce lo Stato stesso non in modo isolato, ma nella collaborazione verticale con Regioni e Comuni e nella collaborazione orizzontale con libera stampa e libere associazioni, queste ultime non semplicemente da tollerare ma da favorire, come vuole l’articolo 118: «Stato, Regioni, Citta metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». È questa la concezione aperta e pluralistica propria della liberaldemocrazia, che ha la sua radice nei pensieri di Tocqueville, Mill e Dahl, pensieri che gli statalisti ignorano.
Oltre alle istituzioni della democrazia rappresentativa, è possibile che associazioni e fondazioni organizzino una partecipazione dei cittadini su ambiti definiti della vita pubblica, ponendosi come corpi intermedi fra cittadinanza e governi in un concorrere plurale al bene pubblico. Lo statalista monista vede in questa sussidiarietà un sostituirsi e quindi un diminuire lo Stato, mentre l’amante della Repubblica vede in essa una leale collaborazione fra istituzioni e società.
Virtuosa è l’azione competente e accogliente per il bene pubblico sia dello Stato che delle altre istituzioni e delle libere associazioni e fondazioni; viziosa è l’azione incompetente e autoreferenziale volta a fini corporativi e particolari, da chiunque promossa. Non esistono uno Stato che si ritira e un privato che avanza o viceversa come soluzioni strategiche, ma solamente un privato sensibile e dedicato alla funzione pubblica e uno Stato vigilante e aperto alla società civile attiva, oppure l’incontrario, e cioè due nemici che si combattono per il male comune. Questo pensa Manacorda, e ha ragione.
Vi è poi la questione dell’elitismo o dell’uso sociale della cultura. È chiaro che per rivolgersi a tutti occorre rivolgersi non solo ai curiosi di storia e di arte, ma anche ai bambini, agli amanti della natura e dell’esplorazione dei territori (magari in bicicletta) etc. Bisogni diversi implicano una offerta culturale variegata come la società (qui utile è apprendere dal marketing). Bisogna combinare la pratica burocratica con quella dell’intrapresa (qui è utile apprendere dal management). Bisogna ridare alla cultura la dimensione settecentesca del «godimento», che non è intrattenimento, e il godimento sta sovente non soltanto nell’ammirazione estetica e del sublime, ma anche nel racconto delle vicende umane materializzatesi in paesaggi, che sono sistemi, e in singole opere che sono i monumenti, che vanno interconnessi.
La ragione di tanto turismo «mordi e fuggi», che danneggia gravemente le maggiori città, sta in una nostra incapacità di trasformare il patrimonio in cultura per la società di oggi, fatta anche di cinesi e indiani, nella nostra inabilità nel «promuovere lo sviluppo della cultura», come vuole la Costituzione all’articolo 9).
Un certo umanesimo elitistico ed estetizzante è il rovescio della medaglia del turismo barbarico. La mancanza di musei delle città e dell’Italia che sappiano raccontare non singole opere ma ampi contesti, l’incapacità di mostrare i monumenti antichi in modo comprensibile — cioè un Colosseo dotato di arena — è una delle ragioni del «mordi e fuggi» (il Lazzaretto vecchio in un’isola a soli 70 metri dal Lido, restaurato e destinato a un museo di Venezia mai attuato, va in rovina, mentre navi immani e orripilanti gremite di ignari sfiorano San Marco).
Uno dei problemi più ardui da risolvere e dalle maggiori conseguenze è che nell’amministrazione statale la funzione d’indirizzo, controllo e valutazione — riservata giustamente allo Stato — è confusa con quella di gestione, per cui il controllato è allo stesso tempo il controllore, mentre esse andrebbero distinte, anche avvalendosi degli operatori della società civile, nel quando della sussidiarietà orizzontale, come Manacorda propone. Molto altro vi sarebbe da aggiungere (sui sistemi informativi territoriali, sulla manutenzione programmata etc.), per cui il librino va letto tutto e meditato .