La Stampa 23.3.15
D’Alema non fa breccia tra gli scontenti del Pd
Speranza: “No a segnali di debolezza interni”
Bindi e Fassina in piazza con la Fiom sabato 28
di Francesca Schianchi
«Abbiamo avviato un percorso. Peccato per qualche intervento che ha complicato la giornata e non ha aiutato…», sospira Stefano Fassina, facendo riferimento alla riunione di sabato delle minoranze Pd e al discorso di D’Alema. Dando voce a un fastidio che è condiviso da molti della minoranza per l’intemerata dell’ex premier: perché se Matteo Renzi risponde all’attacco dalemiano alla conduzione «arrogante» del Pd e all’invito fatto alle minoranze di assestare «colpi» che «lascino il segno» dicendo in un’intervista a «Repubblica» che si tratta di «espressioni che stanno bene in bocca a una vecchia gloria del wrestling», le anime della minoranza registrano a malincuore come un’iniziativa nata per cercare un’unità sia finita invece sui giornali per le accuse durissime di D’Alema a Renzi («una riunione importante – l’ha definita il presidente del Pd Orfini – in parte rovinata da chi ha tentato di trasformarla in un incontro di lotta nel fango»). E la proposta di D’Alema di una associazione che rianimi la sinistra viene più o meno gentilmente rispedita al mittente. Da Fassina («le proposte le facciamo noi, non D’Alema») ad Alfredo D’Attorre («di associazioni ce ne sono tante, può essere interessante creare una rete purché l’obiettivo sia quello di restare nel Pd») al leader di Area riformista, Roberto Speranza: «Qualsiasi cosa possa dare un segnale di uscita o indebolimento del Pd è sbagliata», chiarisce. Perché loro, come ha sottolineato nel suo intervento, a qualsivoglia ipotesi di scissione dicono «no no no». Anche per questo, per evitare di alimentare suggestioni di adesione o vicinanza alla «coalizione sociale» di Landini, è probabile che da Area riformista non molti parteciperanno alla manifestazione della Fiom di sabato 28: anche chi, come D’Attorre, sfilò il 25 ottobre scorso, oggi si sta interrogando se andare o «se sia più utile che mantenga il suo carattere più sociale». Ma, a dimostrazione della frammentarietà delle posizioni, diversa valutazione hanno fatto altri dem: Fassina ci sarà, e così Rosy Bindi, «non possiamo rassegnarci a chiamare di sinistra un governo che non fa cose di sinistra: il 28 sarò in piazza».
Corriere 23.3.15
Bindi: andrò in piazza assieme agli operai
Sembro all’opposizione? Non mi dispiace
intervista di Alessandro Trocino
ROMA «Se non fermiamo questa riforma elettorale e costituzionale, l’evoluzione più probabile è la mutazione genetica del Pd in partito della nazione. E, inevitabilmente, nascerà una nuova forza a sinistra». Rosy Bindi è una delle esponenti più combattive nel sostenere la necessità di rispondere al «renzismo».
Per Renzi, la minoranza «ha la simpatica abitudine di trattarci da usurpatori».
«Fa male ad archiviare i problemi così. Dire che lo trattiamo da usurpatore è una semplificazione vicina alla mistificazione. So che ha vinto un congresso. So anche che è andato al governo senza candidarsi alle elezioni. So anche, e glielo riconosco, che sta facendo riforme che in passato altri non sono riusciti a fare, ma non può ignorare che in molti stanno lasciando il Pd».
Riforme che però non le piacciono.
«Ci sono provvedimenti che, se ci fossero stati proposti da altri governi, avrebbero avuto la nostra netta opposizione. Penso alla responsabilità civile dei giudici, al Jobs act. La riforma della Costituzione porta a uno snaturamento della democrazia parlamentare e a uno scivolamento verso un presidenzialismo di fatto, senza garanzie. E poi vedo che su lotta alla mafia ed evasione fiscale, vere palle al piede della ricrescita, si temporeggia, quando si dovrebbe volare».
Parla come fosse all’opposizione.
«Non ho mai votato contro, ma non mi dispiace essere definita così. Non ci siamo astenuti su dettagli ma su provvedimenti che sono l’ossatura del Paese. C’è un’anomalia: il governo non ha opposizione. I 5 Stelle devono imparare a farla, gli altri vengono delegittimati come gufi. Un errore, visto che c’è una parte del Paese che non si sente rappresentata. Sabato ero a Bologna: al corteo antimafia di Libera non ci doveva andare solo il presidente dell’Antimafia, ma anche il Pd. Dobbiamo ricominciare a parlare a questi mondi».
È la «coalizione sociale» di Landini.
«Landini credo sia sincero quando dice che non vuole fare un partito. Il 28 andrò a Roma, alla sua manifestazione su lavoro e democrazia. C’è una parte del Paese che non si sente rappresentata né dal Pd né dal governo».
Come si deve organizzare la minoranza del Pd?
«Non può limitarsi a non partecipare al voto ma elaborare un progetto e proporlo al Paese. Deve bloccare queste riforme che rischiano di far nascere un partito non di centrosinistra, ma pigliatutto. Sarebbe la fine del bipolarismo. Per evitarlo, bisogna evitare ambiguità: ci si può candidare a un’alternativa a Renzi avendo ministri e sottosegretari al governo e membri nella segreteria del partito? Non credo».
La minoranza propone un coordinamento parlamentare (Cuperlo), una «grande associazione della sinistra» (D’Alema) e un evento in «un palazzetto» (Bersani). Con quali è d’accordo?
«Per una volta sono ecumenica e dico che andrebbero fatti tutti e tre. Servono nuovi strumenti, non bastano le vecchie fondazioni».
Chi ha ragione nello scontro D’Alema-Cuperlo?
«Gli eredi del partito della sinistra italiana non sanno volersi bene. Se ne dovrebbero volere un po’ di più. In parte ha ragione Cuperlo: non sempre D’Alema ha fatto cose di sinistra. Ma ha ragione anche D’Alema: serve un’opposizione più determinata».
È anche uno scontro generazionale. Voi big siete considerati un po’ ingombranti.
«Sono contro la rottamazione, c’è bisogno di tutti. Ma devono andare avanti i giovani».
Quali giovani? C’è un problema di leadership.
«È vero, c’è. Ma per ora leadership alternativa a Renzi non se ne vedono. Vanno cercate e lanciate».
La Stampa 23.3.15
Claudio Velardi
“Ha rimproverato a Matteo quello che un tempo veniva rimproverato a lui”
di Antonio Pitoni
«Massimo D’Alema è entrato come un elefante in una cristalleria». Parola di Claudio Velardi, ex consigliere del governo che lo stesso D’Alema guidò tra il 1998 e il 2000: «Il suo intervento è stato di una violenza impressionante al punto da provocare la reazione di una persona notoriamente misurata come Gianni Cuperlo e di uno dei suoi ultimi figliocci come Matteo Orfini».
D’Alema ha definito il Pd a guida renziana «un partito a conduzione personale» con «una certa carica di arroganza»…
«Come qualcuno ha detto forse si stava guardando allo specchio mentre parlava. Ha rimproverato a Matteo Renzi quello che, a suo tempo, veniva rimproverato a lui. Ascoltandolo mi è sembrato di assistere ad una seduta psicanalitica di autocoscienza. Il suo intervento è da studiare attentamente».
E lei lo ha studiato?
«Ha iniziato dicendo di voler dare dei consigli. Il primo è stato: dobbiamo stare uniti. Il secondo, però, era in contraddizione con il primo: dobbiamo essere intransigenti, ma l’unità si ottiene mettendo d’accordo le diverse sensibilità. Insomma, un intervento violento non tanto verso Renzi quanto verso una sinistra Pd in cerca d’autore e, soprattutto, in cerca di un leader».
Vede un futuro per la minoranza dem?
«L’unica possibilità è quella di fare un altro partito uscendo da un Pd al cui interno Renzi li ha praticamente asfaltati. E l’associazione lanciata da D’Alema va in questa direzione. Ma resta un nodo: chi comanda? Nella vecchia sinistra il principio di fondo è sempre lo stesso: il leader sono io e nessun altro».
Repubblica 23.3.15
Orfini a D’Alema: “È finita l’era della meglio classe dirigente Adesso usciamo dall’acquario”
Il presidente del partito: la mutazione genetica del Pd parla al popolo più di noi
di Antonio Fraschilla
ROMA «Renzi è riuscito dove noi abbiamo fallito. È finita l’era della “meglio classe dirigente”. Viva la mutazione genetica». Matteo Orfini, presidente del Partito democratico, critica duramente l’ex leader Massimo D’Alema e il suo affondo contro il presidente del Consiglio «arrogante» e che «va colpito». Dando cosi manforte alla maggioranza guidata da Matteo Renzi, che torna a lanciare bordare ai ribelli interni: «Compiamo le nostre scelte pensando ai nostri connazionali, non alle correnti o agli spifferi», dice.
Lo scontro interno è fortissimo, da una parte i renziani che guadagnano campo anche in chi fino a ieri è stato al fianco di D’Alema e Bersani, come Orfini, e dall’altra una sinistra Pd che teme una svolta a destra ma si divide a sua volta di fronte alle sferzate dalemiane. Renzi ribatte agli attacchi di D’Alema riguardo a un «partito che non è certo grande come lo sono stati i Ds»: «Un anno e mezzo fa, prima gli iscritti e poi milioni di elettori con le primarie ci hanno affidato la guida del Pd — dice — ci hanno chiesto di rimettere in moto l’Italia, realizzando finalmente le riforme. Gli italiani con il voto alle europee hanno sostenuto questo percorso con una percentuale che non si vedeva in Italia dal ‘58». E il vicesegretario Lorenzo Guerini precisa: «Segnalo a chi spara cifre a caso che gli iscritti sono oltre 390 mila».
Ma sono le parole di Orfini a segnare una profonda frattura anche all’interno dell’area della sinistra: «Se ci sono dei difetti nell’azione di governo stanno proprio nella fatica a smaltire fino in fondo le scorie della subalternità politica e culturale degli ultimi venti anni — scrive su “Left swing” — difficile che possano riuscire a correggere quegli errori i protagonisti di quella stagione, che peraltro continuano a considerarla l’era della “meglio classe dirigente”». Orfini, che con i suoi Giovani turchi ha sostenuto Cuperlo e perso il congresso, spiega così la vittoria di Renzi: «A volte in politica è utile guardare alla realtà — continua — noi abbiamo perso il congresso perché quel mondo delle fasce più deboli non abbiamo saputo rappresentarlo». Poi lancia una stoccata all’ex segretario Bersani: «Il Pd più “di sinistra” arrivò terzo tra giovani, operai, disoccupati. Un disastro. Al 40 per cento delle europee siamo arrivati proprio recuperando parte di quei voti. Se questa è la mutazione genetica, evviva la mutazione genetica». Orfini boccia anche i governi del centrosinistra prodiano: «Con buona pace di Bersani esiste un prima e un dopo. Certo, questo non significa che Prodi e Berlusconi siano la stessa cosa. Ma il centrosinistra al governo è stato un fallimento».
Dalla minoranza c’è chi prova a gettare acqua sul fuoco, come Alfredo D’Attore che definisce «fuori luogo» gli attacchi dei renziani: «D’Alema non ha ipotizzato alcuna scissione». Ma è inutile nascondere l’irritazione che l’intervento ha provocato anche dentro la stessa minoranza: «Non è con le battute che si fanno le scelte politiche», dice il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina.
Intanto in casa Pd scoppiano due casi in Sicilia in vista delle prossime amministrative. Ad Enna l’ex senatore Vladimiro Crisafulli, non candidato alle politiche per «motivi di opportunità», è pronto a scendere in campo nella corsa a sindaco: «Me lo chiedono i compagni del partito — dice — io ancora non ho deciso, ma non vedo perché non potrei farlo. Sono il segretario provinciale del Pd e non ho alcuna vicenda giudiziaria in corso». Ma da Palazzo Chigi l’input di Renzi è stato un netto no e Guerini sta provando a risolvere la vicenda evitando questa candidatura: «Ma come, De Luca sì e io no?», ribatte Crisafulli. Ad Agrigento invece le strampalate primarie del centrosinistra vedono in testa il candidato della lista civica messa in piedi dal vicesegretario regionale di Forza Italia, Riccardo Gallo Afflitto.
«Noi siamo in sintonia con Papa Francesco per la dignità dei lavoratori»
Repubblica 23.3.15
Stefano Fassina
“Ricambio a sinistra anche Bersani pensi a un passo indietro”
Siamo finiti qui per la subalternità dei nostri vecchi big
Sul lavoro D’Alema ha aperto la via che ora batte Renzi
I bersaniani: nessuno vuole la scissione
intervista di Giovanna Casadio
ROMA «D’Alema, ma anche Bersani, devono comprendere che abbiamo bisogno di discontinuità di cultura politica, di agenda e di classe dirigente». Stefano Fassina assesta un altro colpo nel “parricidio” in corso nella sinistra del Pd, dopo la riunione all’Acquario Romano di sabato.
Fassina, chi l’ha voluta l’assemblea delle sinistre dem finita nel “tutti contro tutti”? «L’abbiamo organizzata in tanti. Voleva rispondere a una domanda di unità a sinistra nel Pd. E abbiamo cominciato a dare una risposta». A parte l’anti-renzismo, eravate in disaccordo su tutto. È solo un’impressione?
«Non ci definiamo in contrapposizione con nessuno. Abbiamo differenze. Ma sull’insostenibilità del “pacchetto” delle riforme, la valutazione era condivisa. Faremo un coordinamento tra Camera e Senato di chi c’era all’Acquario. E l’unità sarà sul territorio».
Nessuna “associazione di rinascita della sinistra” come proposto da D’Alema?
«Nessuna. Di associazioni ce ne sono già tante, casomai vanno collegate».
Prende le distanze da D’Alema?
«Renzi è frutto degli errori di coloro che hanno avuto le maggiori responsabilità nel Pd, nel Pds, nei Ds e nei governi di centrosinistra. Matteo interpreta in modo estremo e abilissimo la subalternità al liberismo che, ad esempio sul lavoro, ha introdotto il D’Alema innamorato della Terza Via».
La parola d’ordine è “liberarsi dalle vecchie glorie come D’Alema”?
Anche di Bersani?
«Devono capire che abbiamo bisogno di discontinuità di cultura politica, di agenda, di classe dirigente».
Le sinistre dem vogliono “rottamare” i loro padri?
«Sarebbe ridicolo scimmiottare la rottamazione renziana, che è stata un’operazione coraggiosa ma gattopardesca con molti trasformismi. Il ricambio è necessario non per ragioni anagrafiche. Ma se la sinistra è arrivata a condizioni di marginalità, è perché è stata subalterna su questioni fondamentali».
D’Alema vuole la scissione?
«Non mi pare».
Lei vuole la scissione?
«Una scissione molecolare è in corso. Il Pd non coincide con il premier o la maggioranza dei gruppi parlamentari. C’è un Pd fuori dai Palazzi che non si rassegna allo spostamento verso gli interessi più forti».
Orfini vi invita a uscire dal recinto minoritario?
«Sono minoranza, non minoritario. La linea seguita da Renzi allontana il partito dagli interessi che dovrebbe rappresentare».
È vero, come dice Renzi, che lo considerate un usurpatore?
«No, il problema è il riposizionamento del Pd verso l’establishment. Noi siamo in sintonia con Papa Francesco per la dignità dei lavoratori».
Repubblica 23.3.15
Matteo Richetti
“Basta farci prediche la minoranza vuol solo garantirsi posti in lista”
“L’ex premier che ci accusa di arroganza è più paradossale di Casanova che accusa di tradimento”
intervista di Annalisa Cuzzocrea
ROMA «Essere accusati di arroganza da Massimo D’Alema è peggio che essere accusati di infedeltà da Casanova». Matteo Richetti non pensa che nel Pd sia alle porte una scissione: «Vedo piuttosto il tentativo di ottenere delle garanzie per il futuro, è per questo che cercano di far salire la temperatura — dice il deputato pd dei leader della minoranza — . Sono di un’irresponsabilità assoluta».
Non crede però che, davanti a queste accuse, da parte della dirigenza democratica sia necessaria un po’ di autocritica?
«La leadership del Pd di oggi lascia molti più margini di discussione e di dialogo rispetto ai tempi di D’Alema. L’accusa di autoritarismo è incomprensibile. Piuttosto c’è un puntuale boicottaggio di ogni invito a discutere. Ogni fine settimana ci si inventa un appuntamento per far emergere la conflittualità».
D’Alema ha invitato le minoranze a unirsi, crede che possa accadere?
«Siamo entrambi interessati ai numeri, noi a quelli per ridurre disoccupazione e povertà, loro a quelli che servono per tutelare posizioni politiche. Sabato ho avuto la sensazione plastica di trovarmi di fronte a qualche sindacalista dell’apparato. Le generiche accuse di autoritarismo nascondono la richiesta di una trattativa chiara per avere garanzie per il futuro».
Si riferisce alle critiche sulla legge elettorale?
«Quando i listini bloccati li riempivano D’Alema e Bersani non erano poi così male. Ora che vogliamo introdurre due terzi di preferenze, dicono che è troppo poco. È un dibattito strumentale, si vuol far salire la febbre per ottenere qualcosa».
Sul Jobs act si è andati spediti, il ddl anticorruzione è appena arrivato in aula. È così assurdo chiedere più sinistra?
«Per la prima volta stiamo attuando il principio di meno tasse sul lavoro, più tasse sulle rendite. Lo abbiamo fatto con gli 80 euro, con l’Irap. Abbiamo reso banche, giustizia e Rai temi dell’azione di governo, invece che tirarli fuori solo in campagna elettorale. Se la minoranza ha intenzione di incalzare su questo è la benvenuta, ma è mortificante ricevere ogni fine settimana la predica su una fantomatica deriva autoritaria. Sono lezioni di superiorità morale che speravamo di non dover più ascoltare».
Non crede all’intenzione di migliorare le riforme?
«Ci dicono “ora che non c’è più l’alibi del Nazareno” riapriamo il dibattito sulle riforme, ma c’è una cosa chiamata maggioranza parlamentare. Li conoscono i numeri al Senato? Vogliono fare naufragare il percorso? Se l’onere di governare è solo in carico a noi ce lo devono dire, io avevo capito fosse di tutto il Pd. Ma se emergono espressioni come “il Pd di Renzi” vuol dire che loro ne hanno in mente un altro. Se pensano di essere fuori lo dicano, perché io, di contributi, ne vedo pochi».
Corriere 23.3.15
Bologna, Procura contro Pd per le accuse sulla donna suicida
L’infermiera interrogata che si è tolta la vita: «Trattata da criminale»
Manconi: ispezione. Il partito si divide
di Andrea Pasqualetto
Quella sera la farmacista Vera Guidetti decise che la sua esistenza e quella della madre erano giunte al capolinea. Ha scritto un breve testamento a favore di due lontani e vecchi parenti e ha lasciato il suo messaggio d’addio: «Il magistrato mi ha trattata da criminale...». Poi ha proceduto con le fiale: un’iniezione d’insulina all’anziana madre e un’altra a se stessa. Entrambe letali. L’11 marzo scorso la badante le ha trovate riverse sul letto di casa, a Bologna, come se stessero dormendo. Ma la farmacista, 62enne, era già morta. Sua madre, Lea Sacchi, 95 anni, è invece deceduta venerdì, dopo nove giorni di coma. Per gli inquirenti non ci sono dubbi: omicidio-suicidio. E forse il caso sarebbe già stato archiviato come una tragedia familiare se non ci fosse stata quella lettera d’addio carica di disperazione per una vicenda giudiziaria che l’aveva coinvolta in quei giorni.
Vera Guidetti accusava il procuratore aggiunto, Valter Giovannini, di non averle creduto dopo essere stata a lungo sentita nell’ambito di un’indagine per furto di gioielli: bottino 700 mila euro, indagato il giostraio sinti Ivan Bonora (amico della farmacista), vittima la moglie di un noto medico della città. Gli inquirenti l’avevano messa sotto torchio dopo aver capito dai tabulati telefonici che Bonora era in contatto con lei. L’audizione della donna come testimone era stata fissata il 9 marzo, in questura.
Quel giorno provocherà un polverone politico e giudiziario. La testimonianza è fiume, incalzante, la signora riconosce l’amicizia con Bonora e con la sua compagna e precisa di essere affezionata ai loro due figli. Dice che l’uomo le aveva dato un sacchetto e dei quadri, chiedendole di tenerli. L’audizione viene sospesa, lei porta i poliziotti a casa, consegna la refurtiva e i quadri: «Ma dei furti non so nulla», precisa lei.
Ebbene, due giorni dopo Vera Guidetti decide di farla finita accusando il pm e dicendo di temere la gogna mediatica. Il seguito è tutto politico e giudiziario. Giovannini viene accusato di essere andato oltre, di non aver condotto un’audizione ma un interrogatorio di persona indagata, senza però garantire un legale alla signora. In città compaiono scritte ingiuriose: «Valter, il vero criminale sei tu». Parte un’interrogazione parlamentare del senatore pd Luigi Manconi che chiede un’ispezione. Il partito si divide: il deputato Andrea De Maria prende le distanze da Manconi, il senatore Sergio Lo Giudice lo difende. Volano stracci: «Berlusconiano». «Giustizialista». Interviene il capo della Procura, Roberto Alfonso: «È una loro polemica, se la facciano». Giovannini si difende come può: non c’era abbastanza per indagare la donna. Ma finisce comunque sotto accusa ad Ancona, competente a indagare sui magistrati bolognesi. «So che qualcuno vuole accoltellarlo», allerta un uomo il 113. Insomma, una bagarre.
Nel frattempo, a undici giorni dalla morte, nessun parente si è fatto avanti per chiedere la sepoltura di Vera Guidetti.
Repubblica 23.3.15
La nuova tangentopoli. Le carte
Il sistema Incalza anche negli appalti della metropolitana più cara d’Europa
I sondaggi con Burchi perché assumesse la guida della società committente a Roma
e l’imposizione dell’onnipresente Perotti
I pm di Firenze inviano gli atti nella capitale
di Carlo Bonini e Fabio Tonacci
ROMA Le intercettazioni telefoniche sugli appalti per la Metropolitana C di Roma rimaste impigliate negli ascolti del Ros dei carabinieri sul Sistema Incalza-Perotti prendono la strada di Roma, dove la Procura di Firenze ne ha trasmesso copia “per conoscenza” e dove è aperta un’indagine che promette di spalancare altri abissi di malversazione. Del resto, il filo che annoda il Grande Mandarino delle Infrastrutture alla più costosa opera pubblica della storia repubblicana (per 25 chilometri di linea, dai 2,7 miliardi di euro di costo in sede di aggiudicazione, si è oggi a 3,7), passava non solo attraverso il lavoro istruttorio della Struttura tecnica di missione del Ministero, ma, come sempre, attraverso Stefano Perotti e la sua Spm, che si era aggiudicata la direzione dei lavori del terzo tronco della linea, da San Giovanni ai Fori Imperiali (incarico che è stato revocato il giorno dell’arresto).
UN LOTTO A TUTTI COSTI
È ancora una volta Giulio Burchi, ex presidente di Italferr e indagato nell’inchiesta fiorentina, a portare involontariamente l’indagine nei cantieri della Metro C. «Grazie a Incalza — si sfoga al telefono parlando del ruolo da asso pigliatutto di Perotti — gli hanno dato un lotto che non volevano dargli a tutti i costi quando c’era Bortoli... di Roma Metropolitane». Ed è ancora Burchi che, al telefono, prima con l’assessore alla mobilità del Comune di Roma ed ex sottosegretario alle Infrastrutture del governo Monti, Guido Improta, e quindi con l’ex tesoriere del Pd Sposetti, evoca il nome di Incalza sullo sfondo della Metro C. Accade infatti che, nel gennaio 2014, Improta chieda a Burchi la sua disponibilità per assumere la guida di “Roma Metropolitane”, la società controllata dal Comune committente dell’appalto. Un carrozzone che impiega quasi 200 persone e spende di soli stipendi 13 milioni l’anno. «Ovviamente — dice l’assessore a Burchi — è una situazione prestigiosa perché è la più grande opera pubblica che si sta realizzando. Quindi, ci vuole qualcuno che abbia competenze giuridiche, tecniche, sensibilità politica e abbia fatto già tanti soldi...». Ma, a sentire Burchi in una telefonata successiva al suo incontro con l’assessore Improta durante il quale si è discusso del suo possibile incarico, c’è anche dell’altro. «L’assessore mi ha detto: “Lei conosce Ercole Incalza?”. E io gli dico: “Lo conosco da 30 anni perché eravamo nello stesso partito. Ma non mi gode. Incalza ha ancora un ottimo rapporto con Lunardi e io l’ho guastato”».
Burchi e l’assessore capitolino non si incontreranno più. E, in quel gennaio 2014, presidente di “Roma Metropolitane” sarà nominato Paolo Omodeo Salé. Ma perché, dunque, quella domanda su Incalza? E perché bussare alla porta di Burchi?
LA VERITÀ DELL’ASSESSORE
Raggiunto telefonicamente, l’assessore Improta la ricostruisce così. «Ho incontrato Burchi due volte. La prima, si presentò da me per illustrarmi un progetto della società del fratello. Mi disse che era stato presidente di Italferr e prima ancora della Metropolitana milanese, durante Tangentopoli e che in quella circostanza aveva collaborato con la magistratura di Milano. Mi lasciò un curriculum e, quando con il sindaco Marino decidemmo che era venuto il momento di azzerare i vertici di “Roma Metropolitane”, da cui arrivavano “rumori” che non ci piacevano, pensai a lui. Proprio per quell’esperienza milanese di collaborazione con la magistratura. E così lo chiamai per sondarlo. Anche perché avevamo bisogno di qualcuno disposto ad andare a Roma Metropolitane non solo accettando il tetto di stipendi fissato in 65mila euro l’anno, ma anche impermeabile alle “sirene” che un’opera di quel genere, con quella quantità di denaro che muove, produce. Dopodiché, non se ne fece nulla. Burchi non arrivò neppure al lotto ristretto di candidati tra i quali venne scelto Salé». Forse perché non era in buoni rapporti con Incalza? «Il senso della domanda che feci a Burchi durante il nostro colloquio aveva esattamente il significato opposto. Cercavamo una figura indipendente. A maggior ragione da Incalza. Tanto è vero che quando decidemmo di procedere alla nomina del nuovo presidente di Roma Metropolitane mi limitai a comunicarlo a Incalza. E il nome della persona che avevamo scelto la apprese dai giornali. A cose fatte».
LE VARIANTI MIGLIORATIVE
Che Incalza non sia “neutro” nella storia della Metro C è del resto una di quelle circostanze che, ancora una volta, non solo sono scritte nella gestazione dell’opera (la gara venne affidata nel 2006, proprio con la “Legge Obiettivo” di cui lo stesso Incalza e l’ex ministro delle Infrastrutture Lunardi sono “padri”), ma anche in quel che accade lungo la strada della sua realizzazione. Tanto per dirne una, la commissione di collaudo di Metro C è presieduta dall’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, legatissimo ad Incalza e padre di quel Giandomenico che insieme a Perotti ha le direzioni dei lavori della tratta ad Alta velocità Milano-Genova. Metro C nasce con il progetto di una “galleria unica”, ma, immediatamente dopo, cambia fisionomia, collezionando ben 45 varianti in corso d’opera. Lo strumento capace di gonfiare come una mongolfiera i costi. Ebbene, come documentano gli atti del primo troncone dell’indagine della Procura di Firenze sulla Tav (quella che ha visto recentemente rinviata a giudizio Maria Rita Lorenzetti, ex presidente Pd dell’Umbria ed ex presidente di Italferr, dove era succeduta proprio a Burchi) si scopre che, proprio nei cantieri della Metro di Roma, è stata per la prima volta «sperimentata con successo» un tipo particolare di variante. La cosiddetta “variante migliorativa”. Apparentemente, necessaria a risparmiare denaro rispetto al progetto iniziale. In realtà, con la sola funzione di evitare che il committente pubblico chieda conto al general contractor di progetti esecutivi errati eppure già pagati.
Corriere 23.3.15
I sottosegretari che firmano per l’eutanasia
di Margherita De Bac
ROMA È uno dei temi etici, dunque pericolosi perché dividono, che il governo Renzi ha accortamente sorvolato. Stavolta il problema dell’eutanasia e delle decisioni nell’approssimarsi della morte si ripropone sotto forma di una lettera inviata a deputati e senatori. L’iniziativa è di Luigi Manconi che da sempre si batte per il diritto all’autodeterminazione dei malati che coscientemente vogliono esprimere una volontà quando le cure non bastano. La novità è che è stato sottoscritto da 4 sottosegretari. Oltre che da Ivan Scalfarotto (Riforme e Rapporti col Parlamento) e Benedetto Della Vedova (Esteri), anche Ilaria Borletti Buitoni (Beni Culturali) e Sesa Amici (Presidenza del Consiglio e Riforme) la cui adesione, condivisa da circa 40 firme, non era scontata. La lettera contiene passaggi molto espliciti: «Si rende necessario che l’eutanasia sia depenalizzata e che, dunque, non venga sanzionato chi all’interno di una relazione di cura, su richiesta consapevole del paziente, acconsenta a sospendere la cura, ad accelerare un processo di morte, a prestare assistenza al suicidio o a compiere un atto eutanasico». I firmatari chiedono che venga calendarizzata la proposta di legge di iniziativa popolare depositata alla Camera a settembre 2013.
La Stampa 23.3.15
La politica con gli occhi bendati
Un egocentrismo fortemente miope
di Mario Deaglio
Una delle caratteristiche non solo della vecchia ma, purtroppo, anche della nuova classe politica italiana è quella di essere prevalentemente assorbita dai propri problemi interni, di essere affetta da un egocentrismo fortemente miope. Lo si è visto chiaramente nel dibattito politico di questi giorni: la discussione sulla necessità delle dimissioni dei sottosegretari che hanno problemi con la giustizia ha oscurato le anticipazioni sul passaggio della Pirelli, una delle maggiori società industriali private di questo paese, da una proprietà italiana a una proprietà cinese. Questo passaggio, che è stato annunciato ieri sera, avrà certamente, nel bene o nel male, un’influenza rilevante sul futuro economico dell’Italia. Eppure di un fatto relativamente secondario come le possibili dimissioni dei sottosegretari, sono piene e zeppe le cronache.
Lo spazio per le vicende della Pirelli è molto inferiore.
Il nome Pirelli è il più recente di una lunga lista di acquisizioni estere di imprese italiane di prima grandezza. Negli ultimi anni sono passate sotto controllo estero imprese leader del lusso come Bulgari e Loro Piana, importanti società alimentari come Parmalat. Una società algerina ha preso il controllo delle Acciaierie di Piombino, una società di Abu Dhabi è entrata in Alitalia con il 49 per cento, trasformandola in una semplice pedina, per quanto significativa , di un gruppo aereo estero. Un altro gruppo estero potrebbe comprare l’Ilva. Imprese cinesi hanno stretto accordi strategici con Finmeccanica. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Tutto questo non è naturalmente un male ed è parzialmente controbilanciato da acquisti, peraltro solo raramente di quest’importanza, di imprese estere da parte di società italiane. Il fatto grave è che tutto questo avviene «per caso». Pressoché nessuno a livello politico si domanda quale significato possano avere questi mutamenti di controllo sul futuro dell’economia italiana; ci si interroga al massimo sul futuro che attende i lavoratori di oggi, sovente in soprannumero al momento dell’acquisizione estera. Si tratta di una preoccupazione certo giustificata ma non ci si preoccupa del futuro che attende i giovani di oggi e i lavoratori di domani, quando le decisioni sugli investimenti, le assunzioni, le aperture e le chiusure di nuovi centri produttivi saranno prese a Pechino oppure ad Abu Dhabi.
All’Italia non manca soltanto una politica industriale ma anche la consapevolezza della necessità di averne una. La riflessione sul futuro dell’economia e la trasformazione di questa riflessione in un indirizzo politico a carattere generale è infatti largamente carente. Andiamo incontro al futuro economico e industriale del Paese con gli occhi bendati, nella convinzione che la politica industriale sia un vecchio arnese da museo, reliquia di un passato socialista e che «il mercato» faccia tutto da solo. Eppure anche il governo della Signora Thatcher, che socialista proprio non era, attuò in maniera chiarissima una politica industriale che, per quanto non priva di errori, è una delle cause dell’attuale ripresa dell’economia britannica.
La volontà di «fare le riforme», ritualmente enunciata in tutta Europa in quasi tutte le occasioni ufficiali, non sostituisce la necessità che le forze politiche propongano un futuro economico per l’Italia e cerchino di realizzarlo. Senza una visione di tale futuro, senza la creazione di un ampio consenso attorno a tale visione le riforme rischiano di cadere nel vuoto: e infatti l’Italia di oggi, proprio perché i suoi politici non sanno guardare abbastanza lontano, appare disorientata. E’ un Paese che non sa che cosa farà da grande e non vuole neanche pensarci.
Non si tratta di una debolezza temporanea. Otto anni fa, si accettò senza batter ciglio l’offerta della Borsa di Londra di acquistare la Borsa Italiana. Di fatto questo passaggio di proprietà segnò l’uscita di Milano dall’elenco delle piazze finanziarie veramente importanti a livello non solo mondiale ma anche europeo e da allora all’Italia è mancato un strumento veramente efficace per far affluire capitali di ammontare significativo alle imprese veramente importanti.
Con poche, notevoli, eccezioni, per garantirsi il futuro le imprese italiane medio-grandi sono state sospinte verso alleanze internazionali in cui spesso non sono il partner forte. Pur essendo la presenza economica italiana significativa in molti settori, alle imprese italiane è mancato, e tuttora largamente manca, un retroterra finanziario nazionale: pur essendo l’Italia uno dei Paesi in cui le famiglie sono maggiormente dotate di capitale finanziario, il collegamento diretto tra imprese italiane e risparmi degli italiani ha difficoltà a realizzarsi. Per questo, sono solo i giovani italiani più preparati a cercare e trovare occasioni di lavoro all’estero: anche le imprese italiane maggiormente dotate di progetti e di idee trovano spesso solo all’estero situazioni favorevoli alla propria crescita, una ragionevole speranza per il proprio futuro.
La Stampa 23.3.15
Primo summit per legalizzare la cannabis
di Carlo Bertini
Sarà una «prima» a tutti gli effetti: decine di parlamentari di vari partiti si vedranno questa settimana per provare a stendere un testo trasversale su un tema sensibile come la legalizzazione della cannabis. Giovedì pomeriggio si terrà alla Camera un «inter gruppo» di ottanta deputati e senatori, un’iniziativa promossa da Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Esteri, con una storia personale di militanza con i Radicali. E sarà fatta una prima ricognizione dei progetti di legge depositati e delle varie posizioni. Finora hanno aderito deputati del Pd, dai renziani Giachetti e Realacci, a Civati e Fassina della sinistra, di M5S, Sel, Psi, Scelta Civica; e anche Antonio Martino, liberale di Forza Italia. L’idea nasce dopo che la Direzione Nazionale Antimafia, nella relazione del 25 febbraio scorso, ha ammesso che le politiche proibizioniste sono fallite, suggerendo in sostanza una depenalizzazione dei reati connessi all’uso e consumo della cannabis. A quel punto Della Vedova ha inviato una lettera ai parlamentari. «C’è stato un numero di adesioni al di là delle previsioni e spero in una maggiore partecipazione dei partiti della destra. Contiamo di arrivare ad una proposta di legge trasversale». Se si arriverà ad un testo comune, sarà presentato alle commissioni Giustizia e Affari sociali. Tra i progetti di legge già depositati, alcuni propongono la depenalizzazione dell’autoproduzione e della cessione gratuita, altri l’autorizzazione della produzione e della vendita.
Corriere 23.3.15
Pisapia non si ricandida: Stanchezza? No, soltanto coerenza
Il sindaco: nessuna pressione dai partiti. Si apre la corsa per il 2016
La nuova sfida di Milano
di Maurizio Giannattasio
Giuliano Pisapia, sindaco di Milano, non si ricandiderà alle elezioni comunali del 2016: «È venuto il momento di dire che non sarò candidato a diventare il tredicesimo sindaco di Milano». Parla di una scelta compiuta per «coerenza» e non per «stanchezza». «Fin dal 2011 ho sempre detto che se avessi vinto avrei fatto un solo mandato». E parte la caccia al successore.
MILANO Un’ora con i suoi collaboratori più stretti. Un’altra ora al telefono con tutti gli assessori della sua squadra per informarli di quello che sarebbe successo da lì a poco. Giuliano Pisapia, sindaco di Milano, sceglie una domenica pomeriggio condita da una pioggerellina uggiosa per annunciare che non si ricandiderà alle elezioni comunali del 2016: «È venuto il momento di dire che non sarò candidato a diventare il tredicesimo sindaco di Milano».
Il dado è tratto. Le voci sempre più insistenti del passo indietro, i partiti sull’orlo di una crisi di nervi, le fibrillazioni del mondo arancione. E lui, il sindaco, tetragono, che procedeva per la sua strada: «Lo dirò al momento opportuno». L’annuncio era previsto prima dell’apertura di Expo. Ieri, l’accelerazione con una convocazione urgente di una conferenza stampa. «Fin dalla campagna elettorale del 2011 ho sempre detto tre cose. La prima: che se avessi vinto avrei fatto un solo mandato». Parla di una scelta fatta per «coerenza» e non per «stanchezza». «Perché la politica non deve essere una professione ma un servizio». Ricorda che non è mai stato uno «attaccato alla poltrona» tanto che si dimise da presidente della commissione Giustizia. «E poi, nessuno è indispensabile». Per il futuro non vede ruoli politici nazionali o di altro genere e rispedisce al mittente l’accusa di essere un traditore: «È un tradimento fare cose diverse rispetto a quelle che si dicono. Io ho fatto quello che ho sempre detto alle persone con cui ho parlato».
Assicura di non aver parlato della sua decisione con il presidente del Consiglio Matteo Renzi e di non aver ricevuto pressioni dai partiti. Soprattutto, quello di maggioranza, il Pd. Ma avverte anche che sarà il sindaco di tutti i milanesi fino all’ultima ora dell’ultimo giorno del suo mandato «con tutto l’amore e la stessa fermezza». Quindi, ogni decisione sul futuro candidato e sulle future alleanza del centrosinistra, dovrà per forza fare i conti con la sua persona e con quello che chiama il «progetto»: un’alleanza che tenga insieme la sinistra, a partire dal Sel, continuando con i movimenti civici. Non fa nomi: «Parlare ora di candidati è la cosa più sbagliata in assoluto». Ma i possibili papabili già ci sono e si stanno muovendo dietro le quinte. C’è il parlamentare Emanuele Fiano, c’è l’assessore al Welfare, Pierfrancesco Majorino, c’è Umberto Ambrosoli, c’è Ivan Scalfarotto. E altri si aggiungeranno in un futuro molto prossimo. La grande corsa a sindaco di Milano è appena iniziata.
Corriere 23.3.15
Le battaglie e gli strappi con i suoi alleati
Dalle critiche ai sindacati alle tensioni con i dem
di Maurizio Giannattasio e Elisabetta Soglio
MILANO In principio la madre di tutte le battaglie all’interno della coalizione fu Expo. Sarà stata anche l’alleanza che ha portato Giuliano Pisapia alla schiacciante vittoria del 2011 contro Letizia Moratti, ma gli anelli della lunghissima catena arancione che va (andava) da un centrista come Bruno Tabacci fino a Rifondazione comunista passando per il Pd, Sel e i movimenti civici, ha subito pesanti sfilacciamenti in questi tre anni e mezzo di legislatura. Il primo strappo dopo soli tre mesi dall’insediamento, quando la giunta Pisapia sottopose al Consiglio comunale l’accordo di programma sulle aree di Expo. Il presidente dell’aula, Basilio Rizzo, storico esponente della sinistra milanese, lasciò la sua poltrona, andò a sedersi in mezzo ai consiglieri e annunciò il voto contrario, contestando i contenuti del documento «che non dà garanzie sul dopo Expo e soprattutto che ci fa partecipi di scelte sbagliate fatte dalla giunta precedente che noi dovremmo correggere».
È stata solo la prima di una lunga serie di scaramucce tra l’avvocato penalista vicino a Sel e i suoi alleati di sinistra-sinistra. Ma anche con il partito di maggioranza relativa le cose non sono sempre andate lisce. Anzi. Come non ricordare la lunga battaglia che portò alla cacciata dell’assessore, Stefano Boeri, il candidato Pd alle primarie sconfitto dallo stesso Pisapia? Anche in questo caso ci fu di mezzo lo zampino di Expo. Boeri architetto e progettista del concept iniziale del sito espositivo si aspettava deleghe e competenza piene sull’argomento, che invece furono molto limitate. Da qui la guerra fredda che avrebbe portato, di lì a pochi mesi, alle dimissioni dell’archistar. Fuori uno.
Poco dopo cominciò a incrinarsi il rapporto di fiducia con il direttore generale Davide Corritore, attivissimo in tutta la campagna elettorale, messo a guidare la macchina comunale, ma finito nel mirino della giunta. La rottura consensuale arrivò nel giugno 2013. A pesare nei due anni di difficili rapporti fu tra l’altro l’operazione di vendita delle quote di Sea. Operazione su cui si era molto speso anche l’assessore al Bilancio, Bruno Tabacci che poco dopo lasciò la squadra per candidarsi in Parlamento. Il voto del 2013 fece uscire di scena anche l’assessore Lucia Castellano (eletta in Regione e il vicesindaco, Maria Grazia Guida che, a differenza di Tabacci, non vinse la corsa verso Roma e restò senza incarico).
Più o meno in contemporanea con l’ascesa di Matteo Renzi si modificarono anche i rapporti fra Pisapia e il Pd. Il nuovo segretario cittadino Pietro Bussolati, renziano doc e alfiere del nuovo corso, lanciò il guanto di sfida con un intervento sulle candidature ai vertici delle partecipate. Per la prima volta il Pd annunciò di voler esprimere proprie candidature da sottoporre al sindaco. Pisapia lesse l’intervento, sia per i toni usati sia per l’insistenza, come una ingerenza.
Arriviamo all’ultimo capitolo. Quello, forse, più doloroso per il mondo della sinistra. Quando a fine settembre Pisapia invitato a Ballarò attaccò duramente il sindacato: «Ci credo sempre meno». E portò due esempi concreti. Lo spostamento di due lavoratori da un settore all’altro? «La risposta del sindacato è stata lo sciopero generale». Analoga resistenza quando il Comune ha tentato di spostare i commessi che stazionano ai piani di Palazzo Marino: «Volevamo metterli nelle scuole... C’è una difesa corporativa che non è più accettabile».
Alla fine Pisapia con sforzi da funambolo è riuscito a tenere unita la coalizione. Ora, vorrebbe che il Modello Milano venisse replicato anche alle Comunali del 2016. Ma senza di lui sarà un’impresa ai limiti del possibile.
Corriere 23.3.15
La breve stagione dei sindaci outsider (con il Pd gregario)
Zedda: «C’era bisogno di sobrietà Non credevo a un modello nazionale»
di Massimo Rebotti
Milano Maggio e giugno 2011: fu una breve e intensa stagione arancione. Non solo a Milano, che detiene il copyright del colore simbolo delle alleanze progressiste nelle città, ma anche a Napoli, Cagliari e, un anno dopo, Genova.
La corsa dei sindaci arancioni ha avuto per tutti le stesse caratteristiche: dentro il centrosinistra partivano sfavoriti, poi battevano a sorpresa i candidati del Pd e quindi, sull’onda dell’entusiasmo dei sostenitori, conquistavano i municipi. In tre casi — Giuliano Pisapia a Milano, Massimo Zedda a Cagliari e Marco Doria a Genova — i candidati erano espressione di Sel e avevano vinto, contro le attese, le primarie. A Napoli Luigi de Magistris proveniva invece dall’Italia dei Valori e vinse direttamente alle Comunali, superando al primo turno il candidato del Pd e al secondo quello del centrodestra.
Nel 2011, e poi nel 2012 con Genova (e volendo anche nel 2013 con Ignazio Marino a Roma), si verificò nel centrosinistra un’alchimia singolare: diventavano sindaci gli outsider e il partito più grande, il Pd guidato allora da Pier Luigi Bersani, otteneva grandi percentuali nelle urne, quasi a risarcimento dopo la sconfitta dei candidati ufficiali del partito.
Quella fiammata di partecipazione, un po’ eretica, nel centrosinistra non si fermò nella primavera del 2011 alle città ma proseguì con il referendum a favore dell’acqua pubblica: si votò il 12 e 13 giugno e, dopo tanti anni di flop, il quorum (a sorpresa) venne superato. «È stata una stagione di rinnovamento» ricorda Massimo Zedda che a 36 anni divenne sindaco a Cagliari, la prima volta per la sinistra dal Dopoguerra. «Ci furono candidati che entrarono in sintonia con ciò che i cittadini cercavano: sobrietà, attenzione alla tutela dei diritti da parte delle istituzioni pubbliche, semplicità. A quei tempi c’era ancora Berlusconi: ognuno ha il suo stile, per carità, noi avevamo il nostro».
Il rapporto tra Pisapia e Zedda è forte: «Se penso a Milano mi auguro che ci ripensi; se penso invece al gesto che ha fatto, quell’indicare a sé stessi un limite, credo sia un valore, che gli faccia onore».
Di quel gruppo di sindaci solo Luigi de Magistris pensò, senza successo, che gli «arancioni» potessero avere una «proiezione nazionale». «Io non ci ho mai creduto — argomenta Zedda — ognuno di noi voleva dare un contributo alla propria città, senza che diventasse un trampolino di lancio per altre esperienze. Anche se fa piacere quando da Roma si interessano a ciò che stai facendo». Per i sindaci arancioni, dopo campagne trionfali, arrivarono i giorni duri della crisi economica e dei tagli al bilancio: «Capisco Giuliano — conclude Zedda — in questi anni per un Comune è durissima».
Quel patto tra Pd e Sel del 2011 fu anche alla base della coalizione «Bene comune» che, guidata da Bersani, fallì nel 2013: «Quel sussulto di partecipazione nelle città — dice Paolo Natale, sociologo alla Bicocca di Milano e autore di un libro sulle origini del M5S — aveva caratteristiche simili a quelle che poi fecero decollare i Cinquestelle: l’idea di poter cambiare la politica con facce nuove rispetto ai vecchi partiti. Due anni dopo, una parte di quell’onda l’avrebbe intercettata Beppe Grillo».
Repubblica 23.3.15
Il passo indietro di Pisapia
di Gad Lerner
IL TRATTO di riluttanza e timidezza personale con cui Giuliano Pisapia ha sempre tenuto a contraddistinguere il suo impegno pubblico — un po’ gran professionista borghese, un po’ dirigente comunista vecchio stile — non deve trarre in inganno, ora che annuncia il passo indietro da sindaco di Milano. Non di pensione anticipata si tratta, almeno nelle intenzioni. Semmai, anche attraverso l’esempio della rinuncia, Pisapia aspira a realizzare un’impresa mai riuscita a nessuno dei suoi predecessori, da Carlo Tognoli a Gabriele Albertini: diventare protagonista milanese nella politica nazionale, innestandovi il modello sperimentato quattro anni fa, quando proprio a lui, il modesto Pisapia incapace di alzare la voce in un comizio, riuscì l’impresa di liberare Palazzo Marino dopo vent’anni di egemonia assoluta della destra.
Giuliano Pisapia, sindaco di Milano
NEL caso specifico, Pisapia non ha alcuna intenzione di aderire al Pd — rispetto al quale si è collocato più a sinistra, a Milano, in materia di diritti civili e politiche sociali — ma al tempo stesso teme le conseguenze nefaste di una eventuale scissione in quel grande partito. Dall’anno prossimo, se farà in tempo, Pisapia vorrebbe modificare il copione già scritto della contrapposizione fra le diverse anime della sinistra: governo Renzi da una parte, opposizione minoritaria dall’altra. Immagina per sé, fra gli altri, uno spazio di possibile garante unitario; disposto a rinunciare a un incarico pur di offrire un servizio.
Ingenuo? Nostalgico? In fuga perché sovrastato dalle incombenze? Dicevano così di lui anche quando Pisapia si candidò sindaco di Milano: “Figuratevi se un esponente dell’estrema sinistra potrà mai insidiare il blocco di potere moderato nella capitale degli affari”. E invece sappiamo com’è andata. Usando più volentieri il “noi” che l’”io”, quasi scusandosi per aver dovuto avanzare una candidatura personale, Pisapia innanzitutto galvanizzò una sinistra popolare milanese dispersa nelle periferie. La trasformò in energia vitale sui temi della trasparenza e della buona politica, così conquistando la simpatia dei giovani e infine pure il credito di settori borghesi delusi dall’affarismo berlusconiano e ciellino.
Risale ad allora la scelta di non candidarsi per un secondo mandato da sindaco, anche se fino all’ultimo Pisapia l’ha tenuta in sospeso nel dubbio che ciò significasse riconsegnare Milano a una destra acefala ma tuttora bene inserita nei gangli del potere ambrosiano. Di mezzo, poi, c’era l’Expo, un appuntamento concepito dai predecessori su cui Pisapia è intervenuto solo di rimessa. Dapprima lo imbarazzava l’inevitabile condominio con Formigoni. Poi, dopo il crollo del Celeste, è stato il binomio nazional governativo Lupi-Martina a prendere le redini della Grande Opera.
Quel che Pisapia può sostenere con legittimo orgoglio, è che nessuno dei numerosi scandali o ruberie venuti alla luce in questi anni ha mai lambito la sua giunta di sinistra. Trasparenza e onestà sono le virtù civiche che anche gli avversari e i numerosi critici devono riconoscerle. La differenza con le amministrazioni del passato in materia di legalità risalta felicemente. Così come risalta la battaglia vinta per una forte limitazione del traffico automobilistico privato.
La lista delle inadempienze, oltre che dei provvedimenti impopolari dovuti ai tagli di bilancio, non può essere certo occultata. Molti elettori di Pisapia si dichiarano oggi delusi, e con molti buoni motivi. Ma chi ricorda il marasma e l’avidità ostentata dalla politica milanese prima di Pisapia, deve riconoscere almeno un successo d’immagine conseguito da questo pessimo comunicatore: il sindaco uscente può legittimamente chiedere di essere ricordato come il “liberatore” di Milano, dopo decenni di malgoverno amministrativo. In questo senso oggi Pisapia può parlare di “missione compiuta”. E guardare con una certa serenità alla competizione già iniziata all’interno del centrosinistra milanese per succedergli a Palazzo Marino.
Da professionista della politica navigato, in questi anni Pisapia ha sempre mantenuto un legame di collaborazione con Renzi; dialogo mai interrotto, neanche quando altri esponenti della sua area d’appartenenza, come Vendola o Landini, iniziavano a accusare il premier di essere diventato un uomo di destra. Ora la speranza di Pisapia è che Renzi non spinga il Pd locale all’incasso, ma al contrario apprezzi i benefici nazionali derivanti anche per il Pd dall’equilibrio unitario che la sinistra milanese ha saputo preservare.
A Milano gli emiri del Golfo si comprano i grattacieli e i cinesi si comprano la Pirelli, mentre nei quartieri popolari cova un disagio sociale ai limiti dell’incendiario. La figura del sindaco, davanti a simili macrofenomeni, appare rimpicciolita, per non dire impotente. Neanche la prossima benefica invasione cosmopolita dell’Expo basterà a invertire queste dinamiche di separazione dentro la metropoli.
Pisapia con la sua scelta di rinuncia al potere sollecita i cittadini milanesi: cominciate a pensare al dopo. Non lasciate che ci pensino altri, sopra la vostra testa. Ricordate come furono vere, appassionate, partecipate le campagne elettorali delle primarie e delle amministrative fra il 2010 e il 2011.
È il commiato di un sindaco di sinistra che crede per davvero nella democrazia.
La Stampa 23.3.15
In Andalusia irrompe Podemos
Vittoria dei socialisti nelle regionali, ma il partito degli “indignados” va oltre il 15%
Crollo dei popolari di Rajoy che perdono 14 punti
L’astensione arriva al 40 per cento
di Gian Antonio Orighi
Vittoria dei socialisti (Psoe) nella regione in cui governano ininterrottamente da 33 anni, débâcle dei popolari (Pp, centro-destra) del premier Mariano Rajoy e dei comunisti (Lu), ottima performance di Podemos, sinistra radicale, che con appena 14 mesi di vita si piazza al terzo posto nel suo primo test territoriale dopo le europee 2014, ed in misura minore di Ciudadanos, che irrompe sempre per la prima volta nel parlamentino di Siviglia. E crisi del bipartitismo Pp-Psoe, che insieme raggiungono il 62% dell’elettorato, 18% in meno rispetto all’80% delle omologhe elezioni del 2012, in un anno che prevede altre tre competizioni, amministrative il 24 maggio, regionali catalane il 27 settembre e legislative a fine anno in data ancora da definire.
Questa la sintesi dei risultati delle regionali anticipate di ieri in Andalusia, a turno unico, in cui 6.496.685 elettori hanno rinnovato 109 parlamentari. Astensione del 39,8 %, 6 punti in più rispetto alle ultime regionali del 2012.
Vince ma non convince
Con il 83% dei voti i scrutinati, il Psoe della presidentessa regionale della Rosa, Susana Díaz, avvocata di 40 anni, in carica dal 2013, ha ottenuto il 35,5% (aveva il 39,5%) e 49 seggi. Per il Pp, che nel 2012 era il primo partito con il 40,6% e 50 seggi, è una batosta: consegue solo il 26,6% e 33 deputati, 17 in meno, un responso che vaticina un’altra sconfitta nelle amministrative per un partito che governa in tutte le principali città dell’Andalusia. Anche per Lu il risultato è catastrofico: prende 5 seggi.
Piena conferma, invece, di Podemos, sinistra radicale, La sua candidata, la vulcanica Teresa Rodríguez, 33 anni, insegnante di letteratura, ex Lu, ottiene il 15,2% e 15 seggi. Ciudadanos, un partito catalano che è diventato nazionale, centralista e liberale, entra con 9 deputati.
Gli analisti
Tutti gli osservatori sono concordi nell’affermare che le regionali dell’Andalusia, la regione con più disoccupati di Spagna, dove la corruzione dilaga vede sul banco degli indagati tutto l’ex esecutivo socialista regionale, siano un laboratorio politico per il futuro del Paese, guidato con maggioranza assoluta dal Pp. Non solo per il futuro della governabilità, visto che tutti i sondaggi piazzano Podemos primo nelle intenzioni di voto diretto e tra il primo e il terzo nelle stime di voto. Ma soprattutto per le alleanze post-elettorali. Sia Pp che Psoe, che sono abituati a governare al massimo con appoggi esterni dei nazionalisti baschi o catalani, adesso dovranno cercarsi nuovi alleati. Díaz, che chiedeva un maggioranza socialista per un governo stabile, ha fallito il bersaglio e dovrà scendere a patti.
Corriere 23.3.15
Andalusia, irrompe Podemos. Ma non trionfa
Susana Díaz trascina il Psoe alla vittoria. I popolari seconda forza davanti alla «nuova sinistra»
di Andrea Nicastro
Podemos e Ciudadanos, le due formazioni che vogliono ribaltare il potere spagnolo, non sfondano. Nel voto di ieri in Andalusia i socialisti del Psoe restano maggioranza relativa e potrebbero ancora trovare alleati per continuare a governare la grande regione del Sud come fanno da 33 anni di fila. Difficile, ma possibile. In compenso, la frammentazione politica è ormai realtà. Psoe e Pp, i due grandi partiti che hanno governato in alternanza dalla fine del Franchismo, raccolgono assieme poco sopra il 60% contro l’80% di tre anni fa. Gli altri si dividono quel che resta: tanto, ma non abbastanza per stravolgere i rapporti di forza. La staffetta tra vecchi e nuovi è stata sventata grazie all’intuizione di una donna, Susana Díaz. È stata la presidentessa socialista dell’Andalusia a volere queste elezioni anticipate per separare il destino del socialismo andaluso dalla crisi del partito nazionale. Ed ha avuto ragione. Il Psoe ha retto grazie alla peculiarità della sua presenza nella regione. Nel 2012 aveva ottenuto 47 seggi, ieri, a scrutinio quasi finito, dovrebbe aver uguagliato il risultato. Sono calati i voti sì, ma, grazie alla frammentazione, i seggi sono rimasti gli stessi. Già perché in Andalusia il Psoe è da sempre mamma e papà per contadini inefficienti e disoccupati, dipendenti pubblici e cooperative fiancheggiatrici. È il «sistema andaluso» che negli anni ha generato migliaia di scandali, processi, condanne. Almeno 6 miliardi il costo della corruzione e sono migliaia i politici indagati in una terra con un quinto della popolazione spagnola, ma solo un settimo del Pil, record di disoccupazione, di bassa crescita e di sussidi pubblici. Susana Díaz, incinta di 5 mesi, ha puntato sulla paura degli andalusi di restare orfani. La presidentessa non ha neppure tentato una rigenerazione ideologica che è invece il difficile compito del segretario nazionale Pedro Sánchez. Tant’è che Susana non ha praticamente voluto Sánchez ai suoi comizi. Non è stata solo una questione di rivalità personale. Lei parla di continuità, un messaggio che può funzionare solo in Andalusia, lui di un rinnovamento che è invece ciò che il resto della Spagna chiede. Stesso partito, politiche incompatibili. La vittoria a Siviglia non cambia la crisi nazionale del Psoe.
Temeraria la campagna della giovane rivale della Díaz messa in campo da Podemos, Teresa Rodríguez. La pupilla di Pablo Iglesias è arrivata a parlare di corda in casa dell’impiccato: «Il Plan de Empleo Rural (i sussidi ai lavoratori agricoli che garantiscono lavoro a 400 mila andalusi) è una rete clientelare». Nonostante la denuncia choc, Podemos si piazza al terzo posto guadagnando da zero 15 deputati nel Parlamento regionale. In chiave nazionale, nei prossimi appuntamenti elettorali di cui è costellato l’anno spagnolo, la coerenza potrebbe rivelarsi premiante.
Soffre il Partido Popular del premier Marian Rajoy. Nel 2012 aveva ottenuto qui il suo miglior risultato storico: 50 seggi e maggioranza relativa. Era il momento in cui la teoria dei bilanci virtuosi, dei sacrifici duri, ma necessari era al massimo della popolarità. Ora la modestia della ripresa economica fa pagare il conto e i seggi guadagnati sono solo 33. Per Rajoy, però, un Psoe vincente a Siviglia è meno fastidioso di un Podemos al potere andaluso.
Ago della bilancia si prospetta la nuova formazione di centrodestra Ciudadanos con i suoi 9 deputati. Per il leader nazionale Albert Rivera si presenterà il dilemma se governare a Siviglia come socio di minoranza con il rischio di bruciarsi o attendere le altre elezioni dell’anno da una più comoda opposizione.
La Stampa 23.3.15
Zapatero: “Macché populisti. Sono dei socialdemocratici”
L’ex premier sul movimento di Iglesias: sono giovani utopisti
Non cambieranno la politica, sarà il sistema a cambiare loro
di Francesco Olivo
«Sono un partito giovane, stanno cambiando la politica spagnola, ma alla fine saranno loro a cambiare». José Luis Zapatero parla di Podemos dal suo ufficio spartano del Consiglio di Stato. L’ex premier spagnolo è molto rilassato, parla di tutto con il tono dello studioso, più che del politico. Così pur giurando fedeltà eterna al Psoe (è stato segretario per 12 anni) non liquida i nuovi avversari.
Non vi fanno paura?
«No. Rispondono a una domanda istintiva delle persone: dare un’alternativa al sistema. Sono giovani, vivono nel cielo, senza tetto, né pavimento. Scopriranno che le alternative al sistema sono solo parziali e cambieranno. La democrazia ti fa cambiare».
Sono populisti?
«Si figuri, per me sono socialdemocratici e cambieranno presto. Il paragone con il M5S è sbagliato».
Lei ha incontrato il loro leader, Pablo Iglesias, un pranzo che ha fatto scalpore. Chi si è trovato davanti?
«Una persona educata e colta. Ha militato sempre nella sinistra più utopista. Ama la politica più di me».
La impressiona la forza di Marine Le Pen?
«I suoi discorsi mi fanno venire i brividi, ci fanno tornare indietro di almeno un secolo. Credo che comunque il Fn non vincerà le elezioni. L’Europa già si è suicidata una volta nella sua storia».
I socialisti spagnoli faranno la fine del Pasok greco?
«Questa è una barzelletta».
In questi giorni in Spagna Zapatero è accusato di interferire con la politica estera per essere stato ricevuto da Castro a Cuba e per aver parlato a un convegno in Marocco. I giornali dicono: «Ha perso l’aplomb». È vero?
«Sono andato a Cuba, perché quando ero primo ministro non ci ero mai riuscito. Sono stato invitato e ho accettato, il ministro degli Esteri spagnolo mi ha criticato, ma ha sbagliato lettura».
Nel suo libro ha accennato a quello che successe all’Italia al G20 di Cannes, perché le sono rimasti impressi quei giorni?
«Non dimenticherò mai quello che ho visto in Francia. Andai con il timore che potessimo essere nel mirino dei sostenitori dell’austerità, ma l’obiettivo era l’Italia».
Cosa successe?
«Berlusconi e Tremonti subirono pressioni fortissime affinché accettassero il salvataggio del Fmi. Loro non cedettero e nei corridoi si cominciò a parlare di Monti, mi sembrò strano».
Monti poco dopo divenne premier e Berlusconi parla di golpe.
«Io mi limito a raccontare quello che ho visto: gli Usa e i sostenitori dell’austerità volevano decidere al posto dell’Italia, sostituirsi al suo governo. Era vero che l’Italia aveva problemi finanziari e politici, ma qui stiamo parlando della sovranità di una nazione. È un caso che va studiato».
È un invito?
«Sì, vorrei parlarne in una sede pubblica in Italia, facciamolo presto. Sono pronto».
Conosce Renzi?
«L’ho incontrato una volta. Ho capito da come si muove che è un leader vero. C’è differenza tra essere famosi ed essere leader».
Berlusconi sarebbe quello famoso?
«Non dirò una parola contro di lui. Oggi sarebbe facile, ma ho lavorato bene con Berlusconi. Mi stupisce soltanto che sia ancora lì a far politica».
La sinistra deve combattere l’austerità?
«Non si può dare la colpa dei tagli solo alla destra o a cento fantomatici cattivi di Wall Street. Lo stato sociale è stato colpito e oggi il compito della sinistra è recuperare quello che si è perso. La destra non lo farà mai».
È quello che sta facendo Tsipras?
«Lui e l’Ue si stanno studiando, come pugili al primo round, serve tempo. La Grecia deve capire che l’euro non è il male e che i debiti si pagano. Ma vorrei sentire dall’altra parte qualche parola sulle famiglie messe ai margini della società a causa della crisi. È ora che l’Europa chieda scusa per la povertà che è dilagata in Grecia e non solo».
Cosa fa oggi Zapatero?
«Il potere non mi manca. Per me è un periodo molto bello, oggi vado a pranzo con le mie figlie, una cosa impensabile un tempo. Sto scrivendo un libro sulle riforme dei diritti sociali del mio governo».
Quelle per cui lei divenne un mito per la sinistra italiana. Se ne rese conto?
«Sì, ho anche visto Viva Zapatero, il film della Guzzanti. Diventai popolare per il ritiro delle truppe in Iraq e per l’allargamento dei diritti sociali. Le chiamarono leggi sexy, ma matrimoni gay, aborto, diritti delle donne sono conquiste democratiche talmente radicate che la destra non le ha cancellate. Ho lottato per ottenerle, i vescovi mi chiamavano relativista, un modo gentile di dire eretico».
Perché quel mito è tramontato?
«È arrivata la crisi, uno tsunami, gli obiettivi divennero altri».
Ci sono due Zapatero?
«Forse sì».
La Stampa 23.3.15
La Francia va a destra, Sarkozy argina Le Pen
Vince l’Ump dell’ex presidente. Per il secondo posto bagarre tra socialisti e Front National
Esulta il premier Valls: «L’estrema destra non è il primo partito». Marine: «Si dimetta»
di Leonardo Martinalli
qui
La Stampa 23.3.15
Ma il male oscuro non è guarito
di Cesare Martinetti
qui
La Stampa 23.3.15
“Il Front ha mancato il vero obiettivo. Ma ora fa meno paura ai francesi”
Il politologo Camus: risultato enorme, anche se voleva sfondare il 30%
intervista di Leo. Mart.
«La maggioranza dei francesi non ha più paura del Front National ma ritiene che non sia ancora capace di governare». È la prima riflessione di Jean-Yves Camus, politologo francese, esperto di estrema destra, mentre arrivano i risultati delle elezioni.
Non è andata esattamente come l’Fn si aspettava...
«Non proprio. Hanno ottenuto una percentuale di voti relativamente alta, all’incirca quella delle europee del 2014. Ma loro volevano superare la quota del 30% e non ci sono riusciti. E volevano essere il primo partito di Francia: non hanno centrato neanche questo obiettivo. Molti francesi hanno votato per la formazione di Marine Le Pen e non hanno più paura dell’Fn. Ma in tanti sono convinti che non siano ancora in grado di esercitare il potere».
La strategia della paura del Fn è quella che è stata adottata dal premier Valls nella campagna elettorale. Ha fatto bene ?
«Ero un po’ scettico sulla sua tattica ma in realtà ha funzionato, almeno su una parte dell’elettorato di sinistra, che è andata a votare e che forse non l’avrebbe fatto senza il timore della vittoria della Le Pen. Ma al di fuori di quel bacino di elettori, la paura del Front National non esiste più».
Sarkozy è il grande vincitore di questa consultazione ?
«Ho i miei dubbi su questo punto: non esageriamo. Alle amministrative, per il maggior partito di opposizione, in Francia l’Ump, è sempre abbastanza facile imporsi quando il partito al potere è così basso nei consensi, come lo è attualmente quello socialista. Poi il rapporto con il Front National genera diversi problemi a Sarkozy e alla sua formazione politica».
Di che tipo?
«I sondaggi indicano che la metà dei simpatizzanti dell’Ump sarebbe d’accordo con un’intesa con il Fn, almeno a livello locale. Sarkozy, invece, si oppone assolutamente: esiste una contraddizione con la base. D’altra parte, nell’Ump in molti, a livello della dirigenza, vorrebbero che al secondo turno delle amministrative l’Ump chiedesse ai suoi elettori di votare per il Ps, se è quel partito che si ritrova al ballottaggio con l’Fn. Mentre Sarkozy rifiuta tale possibilità, preferisce il voto in bianco: in un senso o nell’altro si ritrova a camminare sulle sabbie mobili.
Un tempo il Front National non riusciva a trovare candidati a livello locale. I risultati di queste provinciali, comunque buoni per il partito, fanno pensare che non sia più il caso.
«È vero, quello per loro è un problema superato. L’Fn offre oggi ai candidati la possibilità di fare una rapida carriera rispetto agli altri partiti, che, invece, hanno già il loro apparato. Accoglie giovani che per di più non devono avere chissà quali diplomi. E possono venire da classi sociali diverse da quelle alte, che in genere alimentano le élites francesi».
Cosa spinge comunque tanti francesi a votare il partito di Marine Le Pen?
«I socialisti in Francia non rimettono in discussione il modello economico prevalente: dicono che si può adattare ma niente di più. Lo stesso vale per la destra tradizionale. Marine Le Pen, invece, porta avanti un discorso di trasformazione della società, quello che tanti cittadini vogliono ascoltare da un politico. A differenza degli altri, il Front National dà prova di volontarismo e di una capacità utopistica».
Corriere 23.3.15
Il fragile argine all’onda populista
di Massimo Nava
Per quanto locali, i risultati delle elezioni dipartimentali in Francia rimandano all’opinione pubblica europea un segnale forte e controverso. Il Fronte Nazionale di Marine Le Pen conferma il radicamento nella società: è il secondo partito. Ma l’Ump, i gollisti di Nicolas Sarkozy, al primo test come presidente del partito, marca un successo e riconquisterà al secondo turno molti dipartimenti perduti nel 2011. È un fatto, tuttavia, che il recupero sul serbatoio populista e xenofobo avvenga inseguendo tematiche care al Fronte in materia di sicurezza e immigrazione, ormai banalizzate nel dibattito quotidiano. Il partito socialista del presidente Hollande, pur limitando lo smottamento, rischia di perdere tradizionali bastioni elettorali e di ingigantire, al ballottaggio, la vittoria dell’Ump per fare barriera contro Le Pen.
Logica conseguenza la valutazione in chiave nazionale. L’asse della Francia si sposta sensibilmente a destra. La sinistra, divisa e conflittuale al proprio interno, è minoritaria nel Paese. Il risultato fa evaporare lo spirito di gennaio, l’orgogliosa riscossa della Francia dopo l’attacco a Charlie Hebdo . Un sussulto unitario rivelatosi una coperta corta. A dieci anni dalla rivolta delle periferie, i problemi d’integrazione, immigrazione clandestina, marginalità e insicurezza sono gli stessi. Anzi, aggravati dall’islamismo radicale che appare oggi un surrogato dell’esclusione, l’alternativa militante per chi ha tentato invano di sentirsi parte della società francese.
Q uesti problemi sono finiti nelle urne, essendo il tema più facile e sensibile per un elettorato quotidianamente traumatizzato e sempre più sordo alla cultura della gauche . Il presidente Hollande naviga a vista fra marosi sociali interni e venti minacciosi da Bruxelles che sollecitano invano un’azione riformatrice più incisiva. Così scontenta tutti, riformisti e radicali.
Un cenno merita un’altra elezione svoltasi ieri, il risultato dell’Andalusia, che conferma l’emergere del movimento Podemos e vede una prima affermazione dei «Ciudadanos», il partito dei cittadini. Entrambi risulteranno indispensabili alla formazione del governo regionale della socialista Susana Díaz, astro nascente della sinistra spagnola. Qui la corruzione, la rivolta contro i partiti tradizionali, l’opposizione al centralismo statuale hanno avuto un peso maggiore, ma c’è una lettura comune, che comprende anche altri Paesi europei.
È esplicita la critica all’Europa, così come funziona oggi. Critica a volte ingenerosa, a volte strumentalizzata ad uso interno, ma pur sempre critica a un modello che ha tradito attese e aggravato disparità sociali. È forte il bisogno di protezione da nemici interni o esterni, veri o presunti. La tenuta dei partiti tradizionali, la loro capacità di interpretare la volontà popolare e di assumere un ruolo d’indirizzo, persino pedagogico, è messa a dura prova.
Saranno forse i sistemi elettorali, vecchi o riformati, ad arginare la fine dei bipartitismi e i rischi d’ingovernabilità. Ma intanto i populismi, pur partendo da culture e ideologie persino opposte, sembrano convergere. La loro grammatica politica esalta reazioni emotive non più liquidabili come pregiudizi. La loro narrazione sociale, confortata da saggi e romanzi di successo — da Eric Zemmour a Michel Houellebecq — racconta la sconfitta del «politicamente corretto».
Soltanto un cieco non vede che i ceti più deboli e i ceti medi impoveriti pagano il prezzo più alto delle politiche finanziarie degli ultimi anni, dell’immigrazione indiscriminata, dell’insicurezza. E risulta sempre meno facile distinguere le differenze fra argomentazioni rozze di leader populisti e dotte analisi di autorevoli economisti, dall’autore di best seller Thomas Piketty al Nobel Paul Krugman, i quali — cifre alla mano — raccontano in fondo le stesse cose. In questo quadro, la Francia — dal tempo in cui fu bocciato il trattato costituzionale europeo — è il laboratorio più interessante e drammatico delle tendenze che tormentano il Vecchio Continente. È il grande malato, afflitto dall’onda populista e incapace di mettere mano alle riforme, quindi impossibilitato a esercitare un ruolo leader in Europa e di riequilibrio nei confronti della Germania.
L’impressione è che i margini di recupero siano ristretti, salvo rapidi ripensamenti di strategia e metodi. È questa in fondo la scommessa di Sar-kozy, ossessionato da rivincite a qualsiasi prezzo. Lo stato comatoso della sinistra e la sensibilità popolare soffiano in suo favore.
Corriere 23.3.15
«Mio zio Mitterrand parlava alla Storia. Questi politici non hanno una visione»
L’ex ministro della Cultura di Sarkozy: «Sbagliato inseguire il Front National»
«Hollande né carismatico né colto. Legge solo le note di lavoro che gli passano»
di Stefano Montefiori
PARIGI «De Gaulle e Mitterrand parlavano della Storia e della Francia, gli uomini politici di oggi parlano del quotidiano, e dei francesi. Non è la stessa cosa. Manca una visione. A destra si prendono posizioni miserabili, per esempio obbligando i bambini a mangiare carne di maiale nelle mense scolastiche anche se sono musulmani. È una vergogna». Nicolas Sarkozy è il vincitore di questo turno elettorale, ma a Frédéric Mitterrand l’uomo che lo portò al governo non piace più. Sarkozy e Hollande, eredi di De Gaulle e Mitterrand, sono per lui il segno di una certa decadenza della politica.
Signor Mitterrand, nel suo nuovo libro autobiografico «Une adolescence» (Robert Laffont) lei parla dell’affetto personale per i due grandi miti nazionali: suo zio François, futuro grande presidente della Repubblica, e il generale De Gaulle, la sua vera passione. Nostalgie di grandeur, visti i tempi che corrono?
«Non rimpiango quegli anni, nella Francia del 2015 io mi trovo benissimo, ma quegli uomini, che peraltro si odiavano, erano di un altro livello. Entrambi parlavano un francese meraviglioso, ed entrambi erano molto colti. Mio zio Mitterrand anche in viaggio aveva sempre un libro con sé, De Gaulle parlava un francese bellissimo, allo stesso tempo letterario e popolare».
Dopo di loro il diluvio? La Francia non si è mai più ripresa?
«Sì ma solo a momenti, a parte Giscard che è stato un presidente importante. Ho molta simpatia per Chirac ma con lui abbiamo dormito per 15 anni. Quanto a Sarkozy...».
Ma lei è stato ministro di Sarkozy, ha guidato il dicastero della Cultura che in Francia è molto importante.
«Ho colto la mia occasione. Ma l’evoluzione attuale di Sarkozy, al di là dei risultati elettorali, è terribile».
Parla degli scandali?
«No, mi riferisco a questa deriva a destra, al suo copiare i temi del Front National sull’Islam e l’immigrazione. A forza di inseguire Marine Le Pen, Sarkozy legittima quella politica con il rischio che alla fine gli elettori sceglieranno lei, l’originale, e non la copia. Mi spiace parlarne male, ma il suo appiattimento sull’estrema destra è preoccupante».
Però la strategia di Sarkozy sembra funzionare. È la prova che il Fn sta vincendo la battaglia delle idee?
«No, che idee, il Front National sta solo vincendo la battaglia dell’agitazione».
Quindi ha fatto bene Manuel Valls a impegnarsi a fondo per denunciare la minaccia Marine Le Pen?
«Sì, il premier mi piace molto: coraggioso nel mettere in guardia contro il pericolo di un Fn al primo posto ieri sera, e ha avuto ragione».
Valls premier più efficace di Hollande presidente?
«Hollande ha fatto molti progressi, ma non è carismatico, e non è colto. È un vero guaio. Legge solo le note di lavoro che gli preparano. I due politici del momento in Francia sono Alain Juppé a Bordeaux e Martine Aubry a Lille, uno di destra l’altra di sinistra, e entrambi puntano sulla cultura. Questione di lungimiranza».
Marine Le Pen è riuscita ormai nell’opera di sdoganamento?
«Certo, adesso si pone come una specie di Margaret Thatcher, di salvatrice della nazione. È molto intelligente, ha talento, non è totalmente antipatica, le sue idee sono pessime e intorno a lei ha persone orribili. Guarderà sempre alla sua base, che resta spaventosa».
Signor Mitterrand, al di là di questo voto, lei che pensa del futuro della Francia?
«Sono prudente. Può succedere qualsiasi cosa, come un altro dramma alla Charlie Hebdo . Poi ho molta paura di un pazzo alla Breivik (il norvegese che nel 2011 fece 77 morti, ndr ). Qualcuno che metta una bomba in una moschea, per esempio. I politici che oggi cavalcano le divisioni dei francesi si ritroverebbero allora con una grande responsabilità».
Repubblica 23.3.15
Il ritorno di Nicolas che scippa la vittoria al Front National cavalcando le stesse paure
di Bernardo Valli
IL PRIMATO del Front National è durato poco. La sua corsa, in testa ai partiti francesi, ha subito una frenata alle elezioni dipartimentali, equivalenti alle nostre provinciali. Al di là del suo valore come consultazione amministrativa, il voto di ieri era un test nazionale. Precede le regionali in programma quest’anno, dopo le quali ci sarà una pausa sino alle presidenziali del 2017. Per Marine Le Pen è una delusione e potrebbe essere un cattivo presagio per i partiti europei che si sono accodati al Front National. È un segnale di ritirata (sia pure lenta) per l’estremismo populista che anche grazie alla crisi economica si stava estendo nei nostri vecchi paesi occidentali.
Secondo le proiezioni, il Front National arriva secondo dopo il centro destra, in cui sono compresi i voti dell’Ump di Nicolas Sarkozy e delle liste indipendenti, numeroporco se nelle elezioni amministrative. Per l’ex presidente della Repubblica significa un eccezionale ritorno sulla ribalta. È di nuovo in prima fila. Ha in sostanza sottratto a Marine Le Pen il primato che sembrava acquisito alla figlia di Jean-Marie, il fondatore del Front National. Sarkozy ha ricalcato, quasi punto per punto, il programma dell’estrema destra: ha sostenuto l’arresto dell’immigrazione; la revisione, vale a dire la chiusura, dello spazio Schengen; persino una riforma dei pasti nei refettori scolastici, dove a tutti, musulmani compresi, dovrebbe essere servita carne di quando figura nel menù. In quanto al velo, finora proibito fino al liceo, dovrebbe essere messo all’indice anche all’università.
Su un unico importante punto Nicolas Sarkozy non ha seguito le orme di Marin Le Pen. È rimasto europeista e fedele alla moneta unica, aborrita invece dal Front National. Cosi Sarkozy ha soffiato il primo posto di partito di Francia al leader dell’estrema destra che pensava di essersene ormai appropriata, dopo le elezioni europee.
Domenica prossima, ai ballottaggi, gli elettori di Sarkozy non dovranno ubbidire alla “disciplina repubblicana” che secondo la tradizione impegna a votare contro l’estrema destra. L’ex presidente della Repubblica anche in questo ha cercato di recuperare gli elettori di estrema destra, poiché rompendo la disciplina repubblicana mette sullo stesso piano destra democratica ed estrema destra. Di fronte a un duello tra candidati della due destre, i socialisti dovrebbero invece scegliere quello democratico, e quindi sbarrare la strada al Front National.
La sinistra non ha troppo usufruito dello spirito di gennaio, del clima di solidarietà democratica creatosi dopo l’attentato a Charlie Hebdo . Ha tenuto le sue posizioni. La decisione con cui il presidente socialista aveva affrontato la crisi e la sua capacità di riunire attorno a sé, l’11 gennaio in place de la République, gran parte della Francia, e numerosi presidenti e primi ministri stranieri, in particolare europei, avevano fatto lievitare i suoi appiattiti consensi virtuali. La dignità dimostrata in quell’occasione aveva avuto sensibili riflessi sui sondaggi. Il quoziente ottenuto dal partito socialista, insieme ai più stretti alleati, radicali e liste indipendenti, è dignitoso, se si considerano quelli disastrosi registrati negli scorsi anni. Quando sul presidente, ritenuto non particolarmente carismatico, si scaricava anche lo scontento provocato dalla crisi economica, soprattutto dalla deprimente disoccupazione. Se al quoziente si aggiungono i voti ottenuti dal Front de Gauche, cioè dalla sinistra della sinistra, e dagli ecologisti, in rapporti agitati con il partito socialista, la sinistra nel suo insieme ha ottenuto il 35 per cento.
La campagna elettorale socialista è stata dedicata in gran parte, con energia, a contrastare una nuova crescita del Front National.
Il primo ministro Manuel Valls ha parlato di una Francia che rischiava «di fracassarsi» contro l’estrema destra. Il rischio è stato evitato anche grazie ai leggeri miglioramenti dei dati economici. Ma Nicolas Sarkozy ha avuto i maggiori vantaggi appropriandosi dei temi del Front National. Il successo ottenuto con quella tattica lo riportano nel gioco politico, e migliorano la sua situazione nello stesso Ump. All’interno del quale si è scavata una profonda divisione tra lui e i più tenaci avversari di un’intesa con il Front National, tra i quali l’ex primo ministro e sindaco di Bordeaux, Alain Juppé. Sarkozy non ha concluso un’intesa ma ha scippato gli argomenti di Marine Le Pen e rinunciando al principio della disciplina repubblicana domenica prossima i suoi elettori saranno liberi di dare il loro appoggio all’estrema destra.
Repubblica 23.3.15
Il politologo Dominique Reynié
“La retorica anti-Ue ora non basta più per poter governare”
intervista di A. G.
PARIGI . «La marcia trionfale di Marine Le Pen si è interrotta». Per il politologo Dominique Reynié non ci sono dubbi: «I dirigenti Fn possono rigirare i dati come vogliono, ma dal loro punto di vista è un risultato deludente», spiega Reynié, esperto di populismi e uno dei maggiori esperti del voto Fn.
Le Pen non vince più come prima?
«In termini assoluti si tratta del migliore risultato nella storia del Fn alle elezioni dipartimentali. Ma nella traiettoria vincente del partito è una frenata. Da quando Le Pen ha preso la leadership ha fatto il miglior risultato alle elezioni presidenziali del 2012, poi alle municipali del marzo 2014 e alle europee del giugno 2014. Questa volta, c’erano già i manifesti pronti con la scritta “primo partito di Francia”. Non è stato così».
È solo grazie al fatto che l’Ump si è alleato con i centristi?
«È quello che dicono i Le Pen, Marine e sua nipote Marion, ma mi sembrano argomenti da perdenti. La verità è che per il Fn c’è una narrazione che si è interrotta. Una sorta di usura dell’ideologia frontista. Dal 2012 non c’è stato alcun rinnovamento del discorso politico. Inoltre, sono convinto che nei potenziali elettori del Fn sia in corso una presa di coscienza».
Quale?
«L’esempio di Tsipras in Grecia sta mostrando che quando un partito anti-sistema vince le elezioni poi non riesce a governare. La retorica anti-Ue svanisce davanti alla dura realtà. Inoltre, il Fn si sta mettendo in un’impasse politica. Anche questa stavolta sarà al secondo turno in alcuni scrutini ma perderà: nell’elettorato si insinua il dubbio che un voto al Fn sia un voto perso».
Sarkozy è riuscito a risollevare le sorti della destra?
«Ha ripristinato l’alleanza con il centro, una strategia politica talvolta contestata. Rispetto al Fn, ha ribadito che non ci sarà nessuna alleanza con l’estrema destra. Sarkozy ha lanciato la sua dottrina in vista delle presidenziali del 2017. Se dovessi fare oggi un pronostico direi che tra due anni ci sarà un ballottaggio tra Ump e Fn».
Sarkozy fa bene a non dare indicazioni di voto per il secondo turno contro il Fn? «Intanto il cosiddetto “fronte repubblicano” non sempre funziona, anzi. E poi chiedere agli elettori di votare per l’avversario politico, che sia il Ps o l’Ump, è politicamente nefasto. È come far scomparire l’opposizione tra i due principali partiti dell’alternanza, facendo di fatto esistere una sola opposizione, quella del Front National» La sinistra è ormai fuori gioco?
«Dopo le municipali e le europee si conferma un’esplosione della gauche di governo, del suo apparato di eletti locali. La divisione elettorale della sinistra non è solo nelle urne: è dogmatica. Siamo davanti a un dato ormai strutturale. La sinistra non ha più un’unità ideologica e programmatica. Non c’è più possibilità di andare da Jean-Luc Melenchon (leader del Front de Gauche, ndr.) a Emmanuel Macron (attuale ministro dell’Economia, ndr.). Il risultato delle dipartimentali è la conferma di un processo di evaporazione della sinistra. Con un’altra sorpresa».
Una sorpresa?
«Il tracollo della sinistra del partito socialista. Di fronte al successo del Front National, si poteva prevedere un’ascesa di partiti di estrema sinistra come Tsipras o Podemos. E invece la gauche di protesta in Francia non esiste quasi più. Una parte ha anzi votato per il Front National».
Corriere 23.3.15
Tsipras a Merkel: aiuti alla Grecia o non paghiamo
Allarme Ue: Atene ha liquidità fino all’8 aprile
di Danilo Taino
BERLINO Domenica 15 marzo, quattro giorni prima del mini-summit a sette a Bruxelles, a margine del Consiglio Europeo, il premier greco Alexis Tsipras avrebbe scritto alla cancelliera tedesca Angela Merkel una lettera dal tono quasi ricattatorio. Nella lettera, di cui il Financial Times ha ottenuto copia, Tsipras chiariva che sarebbe stato «impossibile» per la Grecia pagare le prossime tranche del debito se Bruxelles non avesse fornito, a breve, assistenza economica, come poi avvenuto (il giorno dopo, Atene ha ottenuto due miliardi di euro di fondi per lo sviluppo Ue).
Ieri Tsipras ha detto al quotidiano greco Kathimerini che «è tempo di cambiare e questo dipende solo da noi». Si riferiva alla necessità «di spingere per riforme che il precedente governo non ha osato fare». Se alla dichiarazione seguiranno le azioni, l’incontro che il primo ministro ellenico avrà oggi pomeriggio con la Merkel potrebbe lanciare segnali positivi.
Il primo ad avere bisogno di un clima di fiducia è proprio il governo di Atene, che nel giro di un paio di settimane rischia di trovarsi senza fondi in cassa per pagare salari e pensioni e per restituire le rate del debito in scadenza. Il dato di fatto, al momento, è che se non ci saranno novità nei negoziati tra Grecia e i creditori il rischio di default prima o poi evolverà in crisi piena.
Ieri, il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine della domenica ha scritto, citando funzionari della Ue, che Atene ha a disposizione liquidità fino all’8 aprile. Giorno più, giorno meno, di certo la situazione non è tranquillizzante.
L’incontro di oggi tra Tsipras e la cancelliera tedesca non porterà soluzioni: quelle dipendono dalle analisi dei tecnici e dalle riunioni dell’Eurogruppo, cioè dei ministri finanziari della zona euro. Potrebbe però dare una spinta politica. Ma solo se il premier greco darà il segno chiaro e credibile di volere finalmente iniziare a parlare di riforme concrete: quelle che deciderà il suo governo, l’importante è che rimettano la Grecia su una strada di crescita economica e non minaccino una crisi di bilancio che farebbe danni in tutta l’eurozona.
I precedenti non sono granché incoraggianti. Ogni volta che il nuovo governo di Atene ha promesso un programma di interventi ha poi deluso le attese con documenti generici e alzando lo scontro verbale, soprattutto con Berlino. È vero che il più discusso dei ministri ellenici, Yanis Varoufakis, da qualche giorno tace, forse su ordine di Tsipras.
Resta però il fatto che, anche dopo l’incontro della settimana scorsa con Merkel, François Hollande, Mario Draghi e i vertici della Ue — nel quale aveva assicurato un nuovo clima di fiducia da concretizzare questa settimana con una lista di proposte di riforme — lo stesso Tsipras ha polemizzato con la reale interpretazione dei risultati della riunione. Solito cartamodello.
Frau Merkel ha ribadito che, senza un nuovo programma concordato, la Grecia non riceverà i denari — in tutto 7,2 miliardi — che ancora deve incassare dal secondo intervento di aiuti dei creditori, dal momento che il programma su cui erano stati promessi è stato rinnegato dal nuovo governo di Atene. Sulla posizione della cancelliera ci sono praticamente tutti i 18 partner della Grecia nell’area euro.
La Stampa 23.3.15
La cantante Noa insultata in aeroporto da connazionali: “Nemica di Israele”
Di rientro dall’Italia, denuncia su Facebook: «Una situazione da incubo»
qui
La Stampa 23.3.15
«Sei una nemica di Israele»
La cantante israeliana Noa è stata aggredita verbalmente all’aeroporto di Tel Aviv al suo ritorno dall’Italia. «Nemica di Israele. Ti tratteremo come Yehonatan Geffen» (lo scrittore israeliano di sinistra aggredito venerdì scorso, ndr.). «Ho la sensazione che questo posto sia diventato pericoloso. Tutti i diavoli sono usciti dalle loro bottiglie», è stato il triste commento della cantante.
Corriere 23.3.15
Clima arroventato dopo il risultato che ha visto la vittoria di Netanyahu
Noa aggredita all’aeroporto di Tel Aviv «Nemica di Israele»
La cantante, di rientro dall’Italia, denuncia su Facebook: «Una situazione da incubo»
Già in passato era finita al centro della polemica politica per le sue posizioni pacifiste
di Matteo Cruccu
qui
Repubblica 23.3.15
Noa assalita all’aeroporto di Tel Aviv “Sei nemica d’Israele, la pagherai”
GERUSALEMME La cantante Noa è stata assalita verbalmente all’aeroporto di Tel Aviv al suo ritorno da un breve viaggio in Italia.
«Nemica d’Israele», le è stato urlato, «ti tratteremo come Yehonatan Gefen», uno scrittore di sinistra aggredito sull’uscio di casa pochi giorni fa. È stata la stessa cantante, da anni impegnata sul fronte del dialogo e della trattativa con i palestinesi, a denunciarlo su Facebook. «All’aeroporto mi aspettava proprio una bella accoglienza», scrive ancora con sarcasmo Noa, «benvenuti nell’incubo in cui ci siamo risvegliati». In successive dichiarazioni al sito Walla, Noa imputa questo ed altri episodi analoghi al clima di radicalizzazione politica impresso a suo avviso dal premier Netanyahu e al clima di scontro che regna dopo il risultato delle elezioni di martedì scorso: «Ho l’impressione di trovarmi in un luogo pericoloso. Sta a lui esprimere una dura condanna». La cantante collega gli insulti contro di lei all’aeroporto all’attacco contro lo scrittore di sinistra Yehonatan Gefen. Gefen, padre della rockstar Avis, è stato aggredito venerdì a casa sua vicino Netanya. Un uomo ha bussato alla sua porta e tirandogli delle uova gli ha urlato contro «traditore di sinistra». Il figlio Avis, giovedì della scorsa settimana , prima dei risultati elettorali, aveva a sua volta mandato al diavolo Netanyahu durante un concerto. Anche il famoso cantante Assaf Avidan è stato apertamente minacciato da un noto estremista di destra. «Tutti i diavoli — avverte Noa — sono adesso usciti dalla bottiglia».
Repubblica 23.3.15
La sfida di Obama a Netanyahu “Quella dei due Stati è l’unica scelta”
Il presidente americano a “The Huffington Post”
“Ho spiegato al premier che non c’è altra soluzione per la difesa di Israele, se vuole rimanere un paese democratico”
“Lo status quo con la Palestina non può essere mantenuto per sempre. Basta insediamenti”
“Le parole del primo ministro sugli arabi è retorica contraria al senso di democrazia della sua nazione”
intervista di Sam Stein
L’accordo nucleare con l’Iran? Il nostro obiettivo è di trovarlo nel giro di qualche settimana non di mesi
WASHINGTON BARACK Obama sfida Benjamin Netanyahu e nella sua prima intervista, concessa in esclusiva all’ Huffingtonpost , dopo le elezioni in Israele ammette, facendo riferimento ai rapporti tra Israele e la Palestina, che «lo status quo deve cambiare». Un messaggio chiaro su quale deve essere il futuro dei due popoli: «Non si possono estendere gli insediamenti». L’inquilino della Casa Bianca parla anche di Iran e nucleare e afferma: «Il nostro obiettivo è trovare un accordo nel giro di qualche settimana, non di mesi».
Dopo gli ultimi commenti di Netanyahu sulla soluzione a due Stati, gli Usa continueranno ad opporsi agli sforzi della Palestina per essere riconosciuta come Stato attraverso l’Onu?
«Ho avuto modo di parlare con Netanyahu, congratulandomi con lui per la vittoria. Gli ho spiegato che continuiamo a credere che una soluzione a due Stati sia l’unica scelta per la difesa d’Israele, se vuole restare un paese democratico. Gli ho spiegato che, date le sue dichiarazioni prima dell’elezione, sarà difficile fare in modo che le persone possano ritenere realizzabili le trattative. Stiamo valutando cosa potrebbe succedere. Credo che Netanyahu debba ancora formare il governo. Ci consulteremo frequentemente. Dovremo assicurarci che, nonostante le nostre divergenze, continui la nostra cooperazione militare e d’intelligence per difendere il popolo israeliano, aiutando anche gli americani a evitare pericoli. Continueremo ad insistere che dal nostro punto di vista lo status quo è insostenibile e che, mentre teniamo conto della sicurezza d’Israele, non possiamo mantenere lo status quo per sempre o estendere gli insediamenti, non è questa la soluzione per la stabilità di quell’area».
C’è motivo di credere che Netanyahu faccia sul serio sulla Palestina?
«Beh, gli crediamo sulla parola, ha detto che non sarebbe avvenuto durante il suo mandato. Ed è per questo che dobbiamo valutare le altri opzioni disponibili per assicurarci di non avere una situazione caotica in quella zona».
Qual è stata la sua reazione agli allarmi lanciati da Netanyahu il giorno delle elezioni sulla presenza di elettori arabi pronti ad andare alle urne in massa?
«Abbiamo chiarito che quel tipo di retorica era contraria a quanto di meglio c’è nelle tradizioni israeliane. Anche se Israele affonda le sue radici nella necessità di avere una patria ebraica, la democrazia israeliana si basa sulla premessa che tutti nel paese devono essere trattati equamente e giustamente. Credo che questo sia il meglio del loro governo. Se dovesse andare perduto, non solo si darà man forte a chi non crede nello Stato ebraico, ma credo anche che verrà minato il senso di democrazia del paese».
Quale impatto crede che avranno le elezioni in Israele sulla vostra capacità di convincere gli americani e il Congresso sull’accordo nucleare iraniano?
«Non credo che avranno un grande impatto. Ovviamente c’è molto scetticismo in Israele sull’Iran, comprensibilmente. L’Iran ha fatto dichiarazioni vili, antisemite e sulla distruzione di Israele. È per questo motivo che ancor prima di diventare presidente ho affermato che l’Iran non dovrebbe possedere armi nucleari. Ciò che potrebbe influire sul nostro possibile accordo è, in primis, capire se l’Iran è pronto a mostrare, a provare al mondo che non sta sviluppando armi nucleari e che ci sia data la possibilità di verificarlo costantemente. Onestamente, non hanno ancora dato le concessioni che sono, a mio parere, imprescindibili per raggiungere un accordo finale. Ma si sono smossi, quindi c’è una possibilità. Un altro punto riguarda me. Dovrò essere capace di mostrare, non solo agli americani e agli israeliani, ma al mondo, che abbiamo iniziato delle procedure che impediranno all’Iran di avere armi nucleari, e che l’accordo fatto sarà non so- lo verificabile, ma diminuirà le possibilità di un attacco dell’Iran, cosa non così sicura in assenza di un accordo. Ed è una discussione che dobbiamo affrontare, se avremo un’intesa. Ma c’è ancora altro da fare».
Notizie recenti dicono che ci sia una bozza di accordo, ma altre informazioni riportano che ci sono ancora dei punti di scontro. A che punto siete?
«Non ci sarà nessun accordo finché non sarà tutto risolto. Credo sia prematuro insinuare che ci sia già una bozza. La verità è che ci sono state manovre sul fronte Iran. Ci stiamo consultando con i 5+1. I negoziati si sono interrotti per una settimana per le celebrazioni del Nowruz ( nuovo anno) in Iran e questo ci ha dato il tempo di assicuraci che tutti i membri dei 5+1 fossero d’accordo con le posizioni che stiamo prendendo. Hanno avuto modo di consultarsi, riprenderemo fra una settimana. Il nostro obiettivo è trovare un accordo nel giro di qualche settimana, non di mesi».
Al suo settimo anno in carica, cos’ha imparato sull’autoregolarsi e gestire lo stress del lavoro?
«Sa, la verità è che ho la fortuna di essere abbastanza equilibrato per carattere e temperamento».
Lei non è su Twitter.
«Già, è vero. Ma ci sono emergenze ovunque. Ogni giorno sembra il giorno del giudizio. Si crede che la presidenza stia vacillando ogni volta che un problema non viene risolto nell’immediato. Mi spiego: devono pur esserci stati 15, 20 problemi negli ultimi sette anni che sono stati risolti. Abbiamo avuto il disastro petrolifero nel Golfo del Messico, il peggior disastro ambientale della storia. Tutti dicevano che la stavo gestendo malissimo. Un anno dopo, nessuno ne parlava più e, a posteriori, la nostra gestione si è rivelata efficace quanto quella di altre crisi ambientali. Vi ricordate Ebola? Ovviamente è ancora un problema serio e siamo riusciti a ridurla al minimo, ma è stato forse uno degli interventi più efficaci in un caso di salute pubblica internazionale, e lo abbiamo condotto noi. Se non lo avessimo fatto, il virus sarebbe ancora aggressivo e tutti sarebbero a rischio. Queste esperienze possono servire a ricordarvi che, per fare il mio lavoro, devo essere sempre allerta e concentrarmi sulle cose da fare, ogni singolo giorno, per far progredire le idee e i valori che mi hanno condotto fin qui».
Quante ore dorme la notte?
«Probabilmente non abbastanza». © The Huffington Post ( Traduzione di Milena Sanfilippo)
La Stampa 23.3.15
Era innocente, aggredita e uccisa dalla folla di fronte alla moschea
Kabul, linciata in piazza: “Ha bruciato il Corano”
Sfida alla tradizione del corteo funebre: la bara portata dalle donne
di Monica Perosino
L’hanno uccisa cento uomini a sassate, l’hanno onorata tredici donne sfidando inviolabili «costumi» afghani. Ieri a Kabul la bara di Farkhunda, lapidata da una folla impazzita che l’accusava di blasfemia, è stata portata verso la tomba di famiglia da spalle femminili, una provocazione al rigido cerimoniale funebre che prevede che siano solo gli uomini a farlo.
Aveva 27 anni, Farkhunda, ed era innocente. Giovedì scorso era stata aggredita di fronte alla moschea Shah-Du-Shamshaira di Kabul: la accusavano di aver bruciato una copia del Corano. Calci, pietre, pugni. La polizia guardava. Ma ucciderla non era sufficiente: gli aguzzini di Farkhunda avevano trascinato il suo cadavere per alcune centinaia di metri, fino alle rive di un fiume, per poi darlo alle fiamme.
Il video del linciaggio, macabro trofeo dei «veri fedeli», mostra poliziotti immobili, inerti di fronte a un centinaio di persone che circondano la piccola e esile Farkhunda, la colpiscono con pietre e bastoni.
«Innocente»
E ieri, al funerale, le parole del capo della polizia investigativa si sono abbattute come un macigno sulla coscienza del popolo afghano, già messa alla prova dalle parole di chi aveva definito il linciaggio «un atto giustificato», come il religioso islamico Ayaz Niazi. Mentre centinaia di persone «proteggevano» il corteo funebre delle donne afghane, il generale Mohammad Zahir ha confermato quelli che molti già sapevano: «Farkhunda era completamente innocente: non c’è uno straccio di prova a sostegno delle accuse di aver oltraggiato il Corano». Tredici uomini, ha annunciato il generale, tra cui due che vendevano amuleti di fronte alla mosche, sono stati arrestati e altrettanti poliziotti sono stati sospesi in attesa degli sviluppi dell’indagine. «I colpevoli saranno puniti», ha promesso Zahir.
Sull’assalto, che ha commosso tutto il Paese, il presidente Ashraf Ghani ha disposto, prima di partire per gli Gli Stati Uniti, la costituzione di una commissione di indagine di alto livello formata da giuristi, studiosi dell’Islam, esponenti di movimenti femministi e giornalisti. «Il comitato - si legge in un comunicato ufficiale - avrà la responsabilità di indagare sull’incidente in modo appropriato e tenendo presenti le leggi afghane, presentando quindi il suo rapporto al palazzo presidenziale».
Ma l’insistenza del ministro dell’Interno, Norulhaq Ulomi, e quello degli Affari religiosi, Mohammad Yousuf Niazi, nel ribadire che «non esiste alcuna prova che la donna avesse davvero bruciato copie del Corano», non fa che gettare benzina sul fuoco tra i gruppi di attivisti civili e femministi: «Anche l’avesse fatto non avrebbe dovuto essere massacrata a bastonate».
La futura maestra
Il padre di Farkhunda era stato costretto a dire, nei primi momenti dopo il linciaggio, che la figlia «era malata, soffriva di disturbi mentali», nel tentativo di proteggere il resto della famiglia da eventuali rappresaglie. Farkhunda era tutt’altro che matta: era riuscita, anche attraverso gli aiuti della comunità internazionale che da anni investe miliardi in Aghanistan nei programmi di istruzione per le donne, a entrare in una scuola di perfezionamento per insegnanti di religione.
Corriere 23.3.15
Quel gesto ribelle per le vie di Kabul delle donne stanche di violenza
di Viviana Mazza
La ribellione delle donne di Kabul che dicono no alle violenze. Sono loro a portare la bara di Farkhunda, la studentessa ventisettenne picchiata a morte dalla folla che l’accusava di aver bruciato una copia del Corano. L’hanno accompagnata in processione fino alla sua tomba. Una protesta senza precedenti che ricorda i funerali di Özgecan Aslan, anche lei studentessa, stuprata, uccisa e data alle fiamme un mese fa in Turchia. Allora le donne turche (sfidando l’opposizione dell’imam locale) vollero trasportare la bara: «Nessun uomo deve più toccarla». Intanto a Kabul un religioso che aveva giustificato l’uccisione di Farkhunda è stato cacciato dalla cerimonia. E la rabbia cresce contro la polizia
afghana, che è rimasta a guardare mentre la ragazza, laureata in studi religiosi veniva presa a calci e a bastonate e poi ormai senza vita data alle fiamme.
Sono state le donne afghane — non gli uomini com’è tradizione — a portare la bara di Farkhunda fino alla sua tomba ieri a Kabul. Un’immagine potente, senza precedenti. «Era una figlia dell’Afghanistan, ieri è toccato a lei, domani toccherà a noi!», hanno gridato. E poi: «Allahu Akbar», Dio è grande — proprio come aveva fatto la folla che giovedì scorso ha picchiato a morte la ragazza ventisettenne, con l’accusa (peraltro falsa) di aver bruciato una copia del Corano. Una protesta che ricorda i funerali della studentessa Özgecan Aslan, stuprata, uccisa e data alle fiamme un mese fa in Turchia. Allora le donne turche (sfidando l’opposizione dell’imam locale) vollero trasportare la bara: «Nessun uomo deve più toccarla».
Adesso a Kabul un religioso che aveva giustificato l’uccisione di Farkhunda è stato cacciato dalla cerimonia. C’è rabbia anche contro la polizia afghana, che è rimasta a guardare mentre la ragazza, laureata in studi religiosi — dopo una disputa per strada con alcuni venditori di amuleti — veniva presa a calci e a bastonate, e poi ormai senza vita data alle fiamme. Il presidente Ashraf Ghani ha risposto con un’inchiesta (13 arresti) ma anche dicendo che le forze di sicurezza sono troppo impegnate dai talebani per mantenere l’ordine cittadino. Le attiviste replicano però che nel nuovo Afghanistan troppo poco è cambiato. Nonostante l’accesso all’istruzione e a diversi ambiti della vita pubblica, l’87% delle donne subisce violenze. Alcuni uomini le appoggiano: una catena di decine di afghani circondava ieri la loro processione.
Repubblica 23.3.15
Quei selfie a capo scoperto: “Noi contro Teheran”
I politici alle mie domande scomode replicavano sempre: zitta e sistemati i capelli
di Anna Lombardi
«ESSERE donna in Iran è una battaglia continua. Devi lottare ogni giorno per affermare diritti basilari». E lei, Masih Alinejad lo sa bene. Attivista iraniana, 38 anni, vive in esilio fra Londra e New York. Appena premiata a Ginevra con il Women’s Right Award, il premio per i diritti delle donne assegnato dal Summit for Human Rights and Democracy, ricorda bene quando, giornalista in patria, alle sue domande scomode i politici di Teheran rispondevano aggredendo la sua femminilità. «Zitta tu. Prima di parlare sistemati i capelli». Quei capelli folti e ricci che sono sempre stati il suo tormento e il suo orgoglio. Al punto da trasformarli in bandiera: capelli al vento contro il regime di Teheran. Eccola la blogger che ha, letteralmente, svelato le donne iraniane: invitandole a mostrarsi a capo scoperto sul sito My Stealthy Freedom. Una sfida. Di più: per l’Iran, un crimine.
Come ha fatto?
«Da quando ho lasciato l’Iran nel 2009, costretta a fuggire per le mie inchieste sulle brutalità del regime, sono sempre stata molto attiva in rete. Faccio da megafono a quelli che sono rimasti in patria. Ma la mia pagina Facebook era un cimitero: postavo solo esecuzioni, torture, arresti. Così un giorno postai una mia foto a capo scoperto: per cambiare atmosfera. Ebbi centinaia di commenti: “Facile per te. Sei all’estero, puoi permettertelo”. Ma non era quello il punto. Il giorno dopo postai una foto di me a capo scoperto scattata in Iran qualche anno prima. Una bravata, un attimo di libertà rubata. Con la scritta: “Andiamo, chi di voi non ha una foto così scattata in Iran?”. La risposta ha sorpreso anche me: sono stata bombardata di foto. Centinaia di migliaia: così tante da spingermi a creare una pagina dove le donne possono esprimere se stesse e mostrare il vero volto dell’Iran».
Di cosa hanno paura?
«In Iran quando ti vogliono zittire non attaccano mai le tue opinioni. Puntano sempre alla tua sessualità. Ti chiamano brutta perché pensano sia un modo di spezzarti. Ti chiamano prostituta. Io sono stata diffamata in ogni modo.» È stata costretta a lasciare l’Iran, riceve minacce continuamente. Ne è valsa la pena?
«È vero, ho perso tutto. La mia famiglia, gli amici, la mia casa, i miei libri, le mie memorie. È rimasto tutto lì. Sono partita senza nulla perché non potevo restare in silenzio. Ma in esilio ho costruito una famiglia più grande …».
Le donne che postano le loro foto svelate cosa rischiano?
«Farsi fotografare a capo scoperto è pericoloso. Rischiano il carcere e anche peggio. Ma è un rischio che prendono per essere se stesse. Essere donna in Iran è pericoloso comunque. Con le foto hanno trovato un modo per unirsi e farsi sentire».
Corriere 23.3.15
Se Mosca agita lo spettro atomico contro i danesi
di Luigi Ippolito
«Le navi militari danesi saranno obiettivo delle forze nucleari russe». Lo scrive l’ambasciatore di Mosca a Copenaghen. Motivo: il governo danese vuole aderire allo scudo antimissile della Nato, che per la Russia è un’iniziativa ostile.
E’ accaduto di nuovo. A ogni passo di un Paese europeo percepito come potenzialmente ostile, la Russia reagisce brandendo la minaccia nucleare. Questa volta nel mirino, è il caso di dirlo, è finita la Danimarca, «colpevole» di aver intenzione di aderire allo scudo antimissile della Nato, un dispositivo che Mosca considera diretto a neutralizzare le sue difese. L’ambasciatore russo a Copenaghen ha scritto, in un commento pubblicato su un giornale locale, che «le navi militari danesi saranno obiettivo delle forze nucleari russe». Si tratta senza dubbio di uno degli attacchi verbali più violenti mai diretti contro un Paese membro della Nato: ma non è cosa che giunga del tutto inaspettata. Già nel 2012 il capo di Stato maggiore russo aveva avvertito che ogni Paese che ospiti lo scudo anti-missile potrebbe essere oggetto di un colpo nucleare preventivo. E ormai da anni le esercitazioni militari russe prevedono il lancio delle atomiche sulle capitali europee: ora su Varsavia, ora su Stoccolma, e così via... Mosca sta già dislocando i missili Iskander, che hanno capacità nucleare, nell’enclave di Kaliningrad, incastonata fra i Baltici e la Polonia, e ha ventilato la possibilità di schierare bombardieri strategici nella penisola di Crimea annessa l’anno passato. Per ultimo, lo stesso Vladimir Putin ha evocato il fantasma atomico la scorsa settimana, quando ha rivelato che durante la crisi di Crimea era stato sul punto di allertare le forze nucleari russe. Qualcuno dirà: il mondo è sopravvissuto alla Guerra fredda e alla sfida Usa-Urss. E’ vero, ma l’Unione Sovietica era un Paese interessato al mantenimento dello status quo attraverso l’equilibrio del terrore. La Russia odierna è una nazione «revisionista» che mira a riscrivere l’ordine europeo nato dalla caduta del Muro di Berlino. Come segnalava in copertina qualche settimana fa il settimanale britannico The Economist , la minaccia nucleare non è mai stata così attuale. Il Cremlino ne fa ovviamente un uso soprattutto politico, teso a intimorire e dividere fra di loro i Paesi europei. Ma la possibilità di un errore di calcolo è sempre presente. Con conseguenze, quelle sì, incalcolabili.
La Stampa 23.3.15
Ora anche in Italia si può investire sulle azioni cinesi
East Capital ha portato sul mercato italiano il primo fondo che potrà investire il 100% del proprio portafoglio nelle azioni quotate a Shanghai e Shenzen. East Capital China, questo il nome del nuovo fondo azionario di diritto lussemburghese, sarà interamente focalizzato sulle azioni cinesi di classe A. Il fondo potrà accedere a questi titoli, fino a poco tempo fa inaccessibili per gli investitori non cinesi, attraverso lo Stock Connect Program, nuovo programma di connessione delle Borse di Hong Kong-Shanghai.
Con il via libera alla connessione Hong Kong-Shanghai, operativa dal novembre 2014, gli stranieri possono accedere direttamente alle azioni A cinesi di Shanghai. Fino allo scorso anno gli investitori potevano accedere soltanto alle azioni cinesi quotate a Hong Kong. Le azioni di classe A cinesi sono quotate sulle borse di Shanghai e Shenzhen e sono denominate in Renminbi. Lo Stock Connect Program tra i due mercati rappresenta un passo molto importante nel processo di riforma e apertura nel panorama d’investimento in Cina. Questo piano apre a nuove opportunità d’investimento in quello che oggi è il secondo al mondo per capitalizzazione.
Inoltre il mercato domestico cinese ha attuato diverse riforme che fanno ben sperare per il futuro inserimento delle azioni di classe A all’interno dei benchmark globali. «Questo passo - secondo East Capital -. ormai non è più così lontano, e data la dimensione del mercato azionario cinese porterà un cospicuo aumento dei flussi». In termini di valutazioni, e nonostante il forte rally di fine 2014, East Capital sottolinea che «il mercato continua a scambiare con un rapporto prezzo/utile di 14, il 20% al di sotto della propria media degli ultimi 10 anni».
In quanto prima società nordeuropea ad ottenere la licenza Qfii (Qualified Foreign Institutional Investor), East Capital ha investito oltre 100 milioni di dollari in azioni cinesi classe A da fine 2013. «Pensiamo che questo sia un mercato attraente per diverse ragioni – dice Karine Hirn, Partner di East Capital e a capo del fondo con base a Shanghai-. Ci sono tante società private interessanti, guidate da manager con forte spirito imprenditoriale, nei settori dell’healthcare, dei beni di consumo, dei servizi e di specifiche industrie quotate sul mercato delle azioni di classe A. La nostra presenza sul campo ci consente di minimizzare i rischi che sono ancora molto alti, sia in termini di qualità degli emittenti che di trasparenza».
Repubblica 23.3.15
L’allarme degli Stati Uniti “Pechino fa shopping e l’Europa non ha strategie”
Obama ha fermato investimenti che minavano sicurezza e superiorità tecnologica ma teme che i Paesi di oltreoceano non abbiano la stessa determinazione
di Federico Rampini
NEW YORK . La notizia della scalata cinese alla Pirelli arriva pochi giorni dopo un’altra, che ha messo in allarme gli Stati Uniti: l’adesione di quattro paesi europei alla nuova Banca Asiatica d’Investimenti in Infrastrutture, voluta da Pechino per “sfidare” l’egemonia Usa sulla Banca mondiale e il Fondo monetario. Da Washington si moltiplicano le accuse agli europei: «ingenui, incoerenti», sono le espressioni più cortesi usate dalla Casa Bianca. L’Amministrazione Obama non è contraria per principio agli investimenti cinesi in Occidente. Anzi, li considera benefici per “riciclare” in parte l’attivo commerciale che la Cina accumula con le sue esportazioni. Il riciclaggio del surplus di bilancia dei pagamenti tradizionalmente avveniva acquistando Buoni del Tesoro americani, creando una simbiosi fin troppo soffocante tra il massimo debitore sovrano (Usa) e il massimo creditore sovrano (la Repubblica Popolare). E’ meglio – sottolineano i consiglieri economici di Obama come Michael Froman – se la Cina diversifica i suoi investimenti, aumentando il portafoglio azionario. Ma l’Occidente – proseguono – deve avere una visione strategica dei propri interessi. Quando la sicurezza nazionale o la salvaguardia della propria superiorità tecnologica lo richiedono, deve saper dire di no ai capitali cinesi. L’ingresso della Cina in infrastrutture nevralgiche come il porto di Atene; o l’elenco di partecipazioni nei “campioni nazionali” dell’economia italiana (da Ansaldo a Reti, più le partecipazioni di minoranza in Eni, Enel, Telecom, Saipem), visti da Washington sono altrettanti punti interrogativi.
A casa sua, il governo degli Stati Uniti ha deciso da tempo quali sono i settori strategici, quali le regole di politica industriale che giustificano le barriere. Un episodio chiave avvenne nel 2005, quando Washington sbarrò la strada all’acquisizione di una compagnia petrolifera californiana, Unocal, da parte dell’ente di Stato China National Offshore Oil Corp. L’energia è uno di “quei” settori. Altra pietra miliare, anno 2012, è l’inchiesta del Congresso su due colossi delle telecom cinesi, Huawei e Zte, accusati di spionaggio industriale, anche a fini militari. Da allora la penetrazione di Huawei e Zte attraverso investimenti in aziende Usa è bloccata. L’ultima parola spetta al Committee on Foreign Investment in the United States (Cfius), un’agenzia governativa che è la cabina di regìa, dove si elabora e si gestisce la strategia sugli investimenti esteri. Per Washington non va sottovalutato il fatto che tuttora il 90% degli investimenti esteri diretti compiuti dalla Cina fanno capo ad aziendi de di Stato, che quindi rispondono a un disegno politico.
Non per questo l’America è refrattaria ad ogni sorta d’investimenti. Anche quando passano in mani cinesi dei “trofei”, dei simboli, dei pezzi di storia. Come l’hotel Waldorf Astoria di recente acquistato per quasi due miliardi dalla compagnia assicurativa Anbang, diretta dal nipote di Deng Xiaoping. Un risvolto “politico- strategico” esiste anche lì: il Waldorf è da un secolo la residenza newyorchese dei presidenti americani, nonché di tanti leader stranieri quando vengono all’assemblea annua Onu; ora l’intelligence Usa medita di ricorrere ad altri alberghi per evitare intercettazioni e simili sorprese… Due importanti think tank americani, l’American Enterprise Institute e la Heritage Foundation, hanno una mappatura degli investimenti esteri cinesi, che rivela un cambiamento profondo in soli quattro anni. Mentre il totale cresceva del 30% e oggi sfiora i 90 miliardi, la composizione ha subito una metamorfosi. Ancora nel 2010 la strategia mirava all’accaparramento di energia, miniere, e materie prime agricole: questi tre settori assorbivano 70% del totale. Oggi è cresciuto il peso dell’immobiliare, e si è decuplicato l’investimento in tecnologie da 0,9% a 9,7%.
Per l’Amministrazione Obama un obiettivo comune dell’Occidente dovrebbe essere quello consolidare il ruolo della Cina come “responsible stakeholder” (azionista e partner responsabile); anche per contrastare le spinte nazionaliste e protezioniste che risorgono sotto Xi Jinping, e rendono il mercato interno cinese più chiuso alle nostre imprese (l’accusa è nel Libro Rosso della Camera di Commercio europea a Pechino). Il massimo allarme è scattato per l’operazione della Banca asiatica Aiib. Concorrente locale della Banca mondiale, l’Aiib finanzierà opere pubbliche, grandi infrastrutture. «Con quale trasparenza finanziaria? Con che garanzie per la sostenibilità ambientale, i diritti dei lavoratori?» si è chiesto Obama criticando David Cameron, Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi per essere entrati in quella banca. «Da decenni lavoriamo per migliorare la qualità dei progetti finanziati dalla Banca mondiale – aggiunge la Casa Bianca – e nulla garantisce che quei progressi siano imitati dalla nuova istituzione progettata a Pechino». L’inquietudine di Obama ha anche una motivazione più profonda. E’ la prima volta che la Cina fa un passo concreto verso la costruzione di un sistema alternativo alla Pax Economica Americana, quella fondata a Bretton Woods nel 1944 con Fmi, Banca mondiale e Gatt (poi Wto). La Casa Bianca si chiede se gli europei abbiano capito in quale disegno sono entrati.
Corriere 23.3.15
Lo sciamano Bertolucci
Un romanziere in versi. Al quale bastava un dettaglio del 1790 o del 1930 per resuscitare un mondo
di Pietro Citati
Paolo Lagazzi, il miglior studioso di Attilio Bertolucci, ha raccolto in un libro ( Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto , a cura di Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni, Diabasis ) i bellissimi versi inediti del poeta parmigiano. Essi risalgono in parte alla sua giovinezza: ma, nella maggior parte, sono frammenti caduti dal capolavoro, La camera da letto .
Appena pensa al Viaggio d’inverno , il precedente libro di versi di Bertolucci, il lettore si accorge che ogni paragone è fuori luogo. La camera da letto non è una r accolta di liriche, perché rinuncia al tentativo di vincere il tempo in una folgorazione. Bertolucci sembra trattenere, moderare, mitigare i propri toni lirici. La camera da letto raccoglie l’ambizione suprema del romanzo: concentrare in un volume lo spazio e il tempo, percorrendo inquietamente gli spazi che dividono l’Appennino tosco-emiliano, la Pianura padana e la Versilia, accumulando il tempo di due secoli, il tempo minuzioso di infinite giornate, cosicché, alla fine, ci sembra che i nostri occhi, le nostre mani e le nostre membra si facciano tempo e grondino tempo.
Tra i romanzi, il libro di Bertolucci pare avvicinarsi ai «romanzi di formazione», come i Lehrjahre di Goethe ( Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister ) e la Recherche di Proust, dove la vocazione dell’artista è raccontata nel suo svolgimento; e questo libro è immerso, a sua volta, nella storia di una famiglia, come ne conobbe l’Ottocento. Appena il lettore ha avanzato questi raffronti, deve di nuovo cancellarli dalla mente. Il miele dolcissimo e vischioso nel quale affonda è il miele della poesia, l’attenzione meticolosa che deve portare a ogni aggettivo e a ogni virgola è la stessa che deve portare agli aggettivi e alle virgole di Keats e di Baudelaire. Così egli viene posto di nuovo di fronte allo scandalo di questo libro — ora poema, ora romanzo, ora lirica, per combinare tutte le forme in una forma mai vista.
Con la Recherche , La camera da letto ha un altro punto in comune: la convinzione che tutta la realtà, soprattutto la realtà minima, quotidiana, insignificante, possa essere riflessa nello specchio dell’opera d’arte. Non c’è altro libro moderno che rappresenti in maniera così indimenticabile la vita familiare italiana nell’ultimo secolo. C’è tutto quello che vogliamo conoscere: il nonno, il padre e la madre, i rapporti tra i membri della famiglia: le domestiche, le stiratrici, le cucitrici, le bambinaie, i mezzadri: tutti gli usi e le abitudini — quando e come si pranza e si cena, le ore delle colazioni e dei sonni, come si guida la carrozza, come si passeggia, come si chiude la cuffia da bagno, come ci si spalma lentissimamente l’olio di noce sulle membra nude —: l’arnia ronzante della casa, i mobili e gli oggetti che la riempiono, le luci e le ombre che tingono i muri; la pellicciaia, la pescivendola, il macellaio, il panettiere, il droghiere che si frequentano in città. Nessuna tensione metafisica attraversa questo mondo come folgora il mondo di Giorgio Caproni. La religione di Bertolucci è una religione dei corpi, del sonno oscuro, del cibo cieco, dei sensi opachi, della vita ripetuta e rituale della famiglia. Tutto ciò che esiste — il tempo, la vita, la morte, i desideri, i colori, le ombre — viene accettato, giustificato e santificato.
Come ogni vero romanziere, Bertolucci possiede un senso straordinario delle diverse epoche storiche. Non ha bisogno di molto per rievocarlo: gli basta ricordare un nome, un colore, un’abitudine, il titolo di un libro, perché il 1790 o il 1910 o il 1930 risuscitino davanti ai nostri occhi. Eppure, il tempo storico non è il vero protagonista di questo libro. Chi regna, sopra la casa di campagna, la casa di città e quella di montagna, è il tempo atmosferico e ciclico della natura. Questo libro familiare è retto da una sapienza meteorologica simile a quella di uno sciamano o di un contadino — l’unica, forse, che possa conoscere un uomo. Bertolucci sa cosa siano le dieci di mattina, le tre o le cinque di sera — le loro varie forme e combinazioni nelle stagioni dell’anno; e qualche volta si direbbe che egli voglia raccogliere nel proprio libro tutti i soli, le lune, i cieli, i temporali, le piogge, le nebbie, le brume che si sono avute nell’Appennino e nella Pianura padana nel corso di un secolo. Mai (o con una sola eccezione) abbiamo sentito, come qui, che le ore possono essere dei veri personaggi romanzeschi.
Alla fine le scene, sebbene così fitte di richiami precisi, lasciano la loro epoca storica e si adunano in un sterminato presente, nel regno «del vergine, del vivace, del bel giorno d’oggi», come dice Mallarmé amorosamente tradotto. Nessuna evoluzione conduce dalla migrazione dei cavalli maremmani, avvenuta nel Seicento, al 1933, quando la prima parte del poema si arresta. Per avere una giusta idea del libro non dobbiamo immaginarlo diviso in parti, o canti o sequenze. Con gli occhi della mente dobbiamo immaginare una sola immensa tela, dipinta da un emulo di Monet o di Bonnard: dove le ninfee e le barche, i personaggi, gli eventi e le sensazioni — segnati dal tempo ma avulsi da lui — si frequentano e si visitano, abitando la stessa giornata interminabile nella quale le stagioni si alternano.
Quanta luce vi è in questo libro: come il sole illumina, splende, barbaglia, acceca — attira nel plein air dei campi o dei sentieri di montagna l’innamorato della chiusa vita familiare. Sembra che nulla possa ostacolare la luce: bagna tutta la terra e poi penetra negli interni, nella camera da letto o nella stanza da pranzo. Quando cala la sera, la luce delle candele, delle lucerne, delle stufe, dei camini e delle lampadine la prolungano, per impedire che «si avveri senza resistenza il dominio del nero». Ma quanta ombra si allunga. Non sappiamo se sia un riflesso simbolico della luce, o se l’ombra nasca da un principio più remoto e più profondo della stessa notte e si insinui dovunque si è posata la luce e la cancelli, senza pietà per le creature che Bertolucci ha evocato.
Il cuore del libro è la camera da letto. Qui avviene il doppio peccato: il peccato amoroso, che bagna le membra dei coniugi, e il peccato edipico; doppio peccato che costituisce l’essenza della famiglia borghese e la rende compatta e l’incrina e l’avvolge con la sua ombra lunghissima. Così, nell’anima del figlio bambino, che diventerà poeta, nasce l’ansia. Il cuore batte troppo forte e veloce nel piccolo petto; e d’ora in poi il libro è segnato da questo battito fittissimo, che si sovrappone al ritmo dell’universo.
L ’ansia uccide l’indifferenza: accresce l’intensità di tutte le cose: getta il bambino, l’adolescente, il giovane verso tutte le superfici, e queste risvegliano in lui un eccesso di gioia e di dolore, una furia di passione, uno stato febbrile di sentimenti. I l ragazzo non vuole che il tempo passi e si consumi: non tollera che una giornata si sostituisca a un’altra giornata, e cerca di arrestarla e di trattenerla accanto a sé, come un presente rallentato.
Il bambino, predestinato a diventare poeta, cresce nella solitudine: «Se piange non si fa sentire, se gioca vuole stare solo»; ora nell’ossessione delle mura familiari, ora nella levità del plein air . L’ansia, che lo fa soffrire, è anche il suo talismano e la sua difesa: genera in lui una malattia, una piccola febbre quotidiana che gli permette di crescere senza partecipare alla realtà. Sebbene così sensibile, egli riesce a sottrarre all’esistenza ogni possibilità di tragedia e a viverla come quella cosa «così bella, così leggera, così breve» di cui parlava Tolstoj.
Non vuole maturare, innamorarsi e sposarsi, avere un mestiere, come gli uomini della realtà: vuole continuare a vivere «nel bozzolo dorato e sonoro» dell’adolescenza e della poesia giovanile; e, quando si innamora e si sposa, con le sue arti metà inconsce e metà consce riesce a conservare intorno a sé l’irresponsabilità febbrile del giovane.
Molti diranno che questo è soltanto l’itinerario classico di un nevrotico. Credo che, davanti a questo libro, sia molto più importante osservare come la malattia abbia permesso a Bertolucci di accogliere tutti i tesori dell’esistenza nel lago della sua anima, senza alzare mai la voce, senza un solo attimo di volontà o di tensione, senza deformare le sensazioni. Il poeta che ha scritto La camera da letto possiede un equilibrio sovrano del cuore, una delicata equanimità e mitezza della mente, una giustezza sottile dello sguardo, come se tutta la passione dei nervi si fosse estenuata e rovesciata nel proprio contrario.
Lo stile della Camera da letto è il più molteplice della letteratura italiana. Vi è il verso libero, endecasillabi e settenari, falsi endecasillabi e falsi settenari della tradizione leopardiana, che meglio si presta a raccontare: il verso petrarchesco chiuso in sé stesso: la prosa da cronaca familiare: il verso esametrico o iperesametrico, che discende da Omero e da Whitman con aggettivi formulari che sanno di Odissea : versi tronchi che ricordano i versi incompiuti di Virgilio, e improvvise tensioni liriche.
Come talvolta nel Viaggio d’inverno ma con una maestria più scopertamente ironica, abbiamo immensi periodi ramificati: i periodi-proustiani, i periodi-rete, i periodi-maglia, i periodi-cappotto, i periodi-lenzuolo, i periodi onniavvolgenti che stringono e amalgamano insieme — con incisi e parentesi successivi e arditi gerundi e participi presenti — gli eventi, i personaggi e le sensazioni più remote e dissonanti, le analogie più fuggitive dell’immaginazione. Noi siamo sempre meravigliati sia dalla mite malleabilità di una mente che accoglie tutti i rapporti della materia, sia dalla deliziosa sconnessione di questi rapporti.
Malgrado una simile sintassi, i fatti (soprattutto i grandi fatti) sono sempre elusi: c’è l’antefatto e l’eco o le cause e le assonanze dell’evento, non c’è mai l’evento: tutto è sfocato; il profilo, le linee e le dimensioni di un oggetto si perdono nell’atmosfera indefinitamente vibrante. Alla fine non ricordiamo più l’immagine: come se Bertolucci, supremamente lieve, le avesse disegnate col dito su un vetro, in un giorno d’inverno; ora tutto si è cancellato – e noi ricordiamo soltanto il vasto fondo risonante di ansia, trepidazione, inquietudine, felicità.
Corriere 23.3.15
«Dante Alighieri», la guida a Riccardi
L’ex ministro presidente della Società. «Fare rete senza perdere l’identità»
di Severino Colombo
Andrea Riccardi è il nuovo presidente della Società Dante Alighieri; la nomina è avvenuta ieri alla sede di Palazzo Firenze, a Roma, in una assemblea straordinaria presieduta da Gianni Letta, presidente facente funzioni, e Paolo Peluffo, vicepresidente.
Riccardi è stato eletto alla guida dello storico ente — fondato nel 1889 da un gruppo di intellettuali tra cui Giosue Carducci per tutelare e difendere lingua e cultura italiane nel mondo — con un ampio margine ovvero 16.594 dei 19.012 voti espressi dai soci; seguono Salvatore Italia, docente di Diritto e legislazione dei Beni culturali all’università di Chieti con 608 voti; Gianni Letta, politico già sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio con 400 preferenze; e Giovanni Di Peio, professore di latino e italiano, presidente del Comitato di Roma della Dante Alighieri, che ha ottenuto 272 voti.
Docente di Storia contemporanea all’università di Roma Tre e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Riccardi, 65 anni, romano, è stato ministro per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione del governo Monti, tra il novembre 2011 e l’aprile 2013. Rispetto alla scelta, il sottosegretario Mario Giro ha evidenziato la professionalità di Riccardi «che ha saputo operare in tanti anni di attività, come storico e come profondo conoscitore dei più importanti dossier internazionali». Il neopresidente Riccardi nel definirsi un «novizio» della Dante Alighieri lancia la sua idea di «fare rete» raccogliendo il favore di chi «ha simpatia per l’Italia» e «usando la lingua come asse portante per promuovere all’estero l’italianità».
La Dante Alighieri conta su 423 Comitati in sessanta Paesi nel mondo che propongono corsi di lingua e cultura; 87 i comitati presenti in Italia, in quasi tutte le regioni, che organizzano corsi frequentati da 6 mila studenti stranieri. «Le attività della Società sono molteplici — aggiunge Riccardi —. Puntare sull’aspetto internazionale non vuol dire perdere la propria identità ma favorire una migliore conoscenza nel mondo delle risorse e del patrimonio dell’Italia».
Repubblica 23.3.15
La gaia scienza
A dispetto dei luoghi comuni gli italiani, e soprattutto i giovani, si interessano ai contenuti scientifici e tecnologici
Una tendenza confermata dall’aumento degli ascolti dei programmi dedicati in prima serata, dal successo dei libri di divulgazione e di film e serie televisive. E dai dati di un ultimo studio
di Massimiano Bucchi
UN DIFFUSO stereotipo descrive gli italiani come disinformati, scarsamente interessati e perfino pregiudizialmente ostili alla scienza. È davvero così?
A giudicare dai dati più recenti dell’Osservatorio Scienza Tecnologia e Società (da oltre dieci anni il più ampio e continuativo studio in questo ambito), si direbbe proprio di no. E se forse è eccessivo vedere nel 2014 un anno di svolta nell’interesse degli italiani per la scienza, non c’è dubbio che molti luoghi comuni debbano essere rivisti, soprattutto per quanto riguarda il pubblico giovanile.
Innanzitutto l’idea che gli italiani siano “analfabeti” sul piano scientifico e scarsamente interessati ai contenuti scientifici. Ciò che i dati rilevano è un livello di competenze in linea con le tendenze europee e in lieve crescita negli ultimi anni; una propensione rilevante e crescente ad informarsi di scienza e tecnologia. Negli ultimi cinque anni gli spettatori assidui di programmi televisivi dedicati a scienza e tecnologia sono aumentati di 20 punti; è cresciuta notevolmente anche la fruizione di contenuti scientifico- tecnologici su internet, soprattutto tra i più giovani (arrivando a coinvolgere, almeno occasionalmente, addirittura il 93% tra i 15-29enni). Tendenze confermate in questi anni dagli ascolti dei programmi dedicati alla scienza in prima serata, dalla notevole affluenza ai festival della scienza, dal grande successo di libri di divulgazione e di film e serie televisive che sempre più spesso hanno come protagonisti figure del mondo scientifico. Fiction che tra l’altro i ragazzi spesso citano anche come elemento di stimolo o motivazione per le proprie scelte formative.
Permangono, indubbiamente, alcune lacune e significative differenze tra le diverse fasce di popolazione, soprattutto in termini di età e livelli di istruzione. Solo il 5% dei giovani tra i 15 e 29 anni e il 2% dei laureati si colloca al livello più basso di alfabetismo scientifico. Tra gli studenti quindicenni quasi sei su dieci ritengono che le ore dedicate alle materie scientifiche abbiano accresciuto la propria curiosità e interesse e considerano queste materie di grande utilità anche per la propria vita quotidiana. La possibilità di “toccare con mano” la scienza attraverso esperimenti di laboratorio a scuola fa addirittura quadruplicare la propensione di ragazze e ragazzi verso studi scientifici universitari (tra chi non ha avuto questo tipo di opportunità, la propensione agli studi scientifici scende sotto il 7%).
I dati dell’Osservatorio registrano anche rilevante fiducia e significative aspettative da parte degli italiani nei confronti degli scienziati (sempre più spesso indicati come l’interlocutore più credibile quando emergono questioni legate a scienza e tecnologia, come nel caso del clima o di emergenze sanitarie, con un aumento di 11 punti percentuali negli ultimi anni) e dei risultati della ricerca. Aspettative, che come tra le nuove generazioni, anche tra gli adulti si concentrano però soprattutto sugli aspetti più pratici e concreti: dalla scienza ci si attendono in particolare nuove applicazioni tecnologiche ed opportunità terapeutiche o possibilità di migliorare il proprio “benessere” in senso lato.
È in questa chiave che possono essere lette anche le tendenze rilevate sulle questioni biomediche più attuali. Le trasformazioni degli orientamenti degli italiani su temi quali la fecondazione assistita o la ricerca su cellule staminali non sembrano il risultato di un’effettiva interiorizzazione culturale di contenuti e metodi scientifici. Tali orientamenti appaiono piuttosto definibili come aperture in senso sostanzialmente pragmatico — o, per certi versi, perfino opportunistico — verso quelle che sono percepite come opportunità offerte da scienza e tecnologia in ambito biomedico. Drammatiche vicende recenti ci hanno fatto toccare con mano, tra l’altro, quali pressioni e urgenza di soluzioni nel breve periodo possano associarsi a simili aspettative. Questi atteggiamenti vanno inoltre inquadrati — come confermano anche gli orientamenti su questioni come il “fine vita” o il testamento biologico — nell’ambito di una più profonda trasformazione delle concezioni di salute e di cura, in cui il controllo e la plasmazione del proprio corpo e del proprio benessere sono ricondotti in misura crescente entro il raggio delle scelte individuali.
Nel complesso, i dati ci dicono che il vero problema non è l’assenza di una cultura scientifica.
Il nodo critico resta la fragilità di una cultura della scienza e della tecnologia nella società : di una cultura che sappia discutere e valutare i diversi sviluppi e le diverse implicazioni, potenzialità e limiti della scienza e della tecnologia evitando le opposte scorciatoie della chiusura pregiudiziale e dell’aspettativa miracolistica. È in questa direzione che forse varrebbe la pena indirizzare discussioni e iniziative, anziché fermarsi alla consueta litania (mai “scientificamente” documentata) degli “italiani antiscientifici”.
Repubblica 23.3.15
Dalle staminali alle scoperte, la ricerca conquista i ragazzi
di Elena Cattaneo
«COME si diventa scienziato?» La risposta potrebbe sembrare disarmante: non si smette mai di diventarlo. Continue, le domande su come scegliere per il futuro, tanti i cuori colmi di speranza: «Io vorrei studiare per capire l’Alzheimer, mia mamma ce l’ha da tempo ma mi interessa ancora di più aiutare gli altri». Tanta la fantasia: «Magari posso con un microrobot entrare nelle cellule e aggiustare quel gene impazzito».
Queste sono solo alcune delle voci dei ragazzi dell’Unistem Day 2015 del 13 marzo scorso, 20.000 studenti delle scuole superiori che sono stati accolti dai 46 atenei italiani e stranieri partecipanti, per parlare e ascoltare di scienza e rendersi conto che non è vero che farlo è difficile o noioso. Questi giovani hanno discusso di staminali insieme agli scienziati e del perché sembrano, a chi le studia, ogni giorno così affascinanti, e di come può funzionare la medicina rigenerativa, di quello che è stato fatto davvero e di cosa si sta facendo oggi. Ma le staminali sono solo un pretesto (non di minore conto) per raccontare il mestiere dello scienziato, la passione per l’esplorazione e la scoperta. Quando si parla di scienza si parla di un metodo, di un approccio analitico ai problemi, che dovrebbe costituire il naturale fondamento di ogni successivo apprendimento, una preliminare formazione all’uso della ragione. La risposta che arriva dai volti dei ragazzi, dal loro coinvolgimento, da quel silenzio attento e educato, è ogni volta un grande incoraggiamento. All’inizio, durante il collegamento tra più sedi, i colleghi svedesi dell’Università di Lund hanno salutato gli studenti raccolti all’Università di Caso, gliari con alcune frasi in dialetto sardo. Come dire: nessun mare o montagna ci divide. Solo idee, metodi, risultati e la fitta rete di meccanismi per ancorare i propri argomenti ai fatti.
Il tema di quest’anno era “Scienza e diritto”: in tutta Italia si è discusso delle ragioni per cui giudici e scienziati possono arrivare a conclusioni diverse, come nel caso delle prescrizioni degli pseudo-trattamenti Stamina. Ovunque, in Italia, il monito della giornata era lo stesso: l’inconciliabilità tra scienza e pseudoscienza, l’esortazione a stare sempre dalla parte delle prove e dei fatti, non delle convenienze. Sempre, e soprattutto in materia di salute.
Il fatto che la giornata non tratti solo di staminali è molto apprezzato dagli studenti. Gioele, che ha partecipato alle conferenze organizzate alla Sapienza di Roma, era felice che l’argomento principale fossero la scienza e il progresso umano, cioè «come le cose sono migliorate, per esempio nel modo in cui si pratica la medicina». Gli fa eco un altro diciassettenne presente all’evento dell’Università di Firenze: «Abbiamo capito che ci vuole tanta fantasia e creatività per fare ricerca, ma anche la capacità di produrre ipotesi verificabili». E, sempre a Firenze, i diplomandi si dicevano «colpiti dalla chiarezza e onestà con cui i ricercatori hanno presentato fatti e dati difficili». Gli alunni del Liceo Scientifico Lavinia Mondin di Verona hanno riempito i loro insegnanti (e noi) di commenti. Alcuni riflettevano sul fatto che «la ricerca è frutto di dedizione, passione, curiosità, e che per conoscere si deve avere il coraggio di osare». Valeria si è sentita «immersa nel mondo vero della ricerca». Molto più capaci degli adulti di smascherare il fal- si stupiscono, come nel caso di Lorenzo, di «quante persone nell’era dell’informazione, scelgono l’ignoranza».
L’edizione di quest’anno si è rivelata anche un’occasione per supplire a una delle mancanze della riforma della scuola in discussione, tutta concentrata sull’assunzione dei precari e i poteri dei presidi, mentre nessuno si è preoccupato di spiegare in che modo il piano del governo fornirà agli studenti gli strumenti conoscitivi necessari per essere competitivi e innovare in una società ed economia fondata sulla conoscenza. In più sedi d’Italia, gli insegnanti che hanno accompagnato gli studenti agli incontri hanno evidenziato la «disattenzione della politica per quanto riguarda la formazione dei giovani sul fronte delle conoscenze scientifiche». Hanno mille ragioni.
L’evento in Statale a Milano si è chiuso con l’intervento di un medico, Salvo di Grazia, il primo ad avere fatto della sfida ai «narratori di bufale» un motivo d’impegno costante. Racconta ai giovani le “bufale” che abbindolano gli adulti. Anche di come a quel «congresso scientifico in Cina», tutt’altro che serio, che qualche mese fa avrebbe rilanciato il cosiddetto «metodo di Bella» (notizia ripresa da alcuni media), egli sia riuscito a piazzare come comunicazione scientifica una ricetta americana per la pasta alla carbonara con tanto di titolo (in inglese), “Il metodo sbudella a base di carbonara cura il buco allo stomaco” e autori, dott. Massimo della Serietà ecc., guadagnandosi persino l’invito a fare da moderatore per la sua “scoperta”.
Il messaggio più forte veniva dalle risate dei ragazzi, increduli davanti a bufale così incredibili, a come si possano montare (false) correlazioni tra autismo e vaccini, con tanto di studi legali o tribunali impegnati per provare ciò che la sperimentazione medica non ha mai trovato, o a come, applicando lo stesso (non) metodo, sia possibile mettere in grafico e stabilire una correlazione tra i nati in un certo paese e la migrazione delle cicogne per affermare che — nuova scoperta! — “i bambini li portano le cicogne”.
Quei giovani ridevano, ma hanno mostrato un’attenzione più che rincuorante, soprattutto promettente. Ora quei ragazzi sono sparsi per l’Italia. Il nostro auspicio è che la giornata UniStem sia servita a vaccinarli ancora di più. Contro ciò che non è vero e dimostrato e che, ogni giorno, minaccia la loro vita e il loro Paese.
( Elena Cattaneo, senatrice a vita, insegna all’Università degli Studi di Milano. La giornata con gli studenti è coordinata da Uni-Stem, Centro di ricerca sulle cellule staminali)
Repubblica 23.3.15
Il martirio silenzioso della cristianità
Ieri torturati e dati in pasto alle belve, oggi vittime di attentati terroristici La nuova persecuzione che colpisce i fedeli della religione più diffusa
di Adriano Prosperi
AL consueto, affollato appuntamento dell’Angelus, qualche domenica fa, papa Francesco ha pregato per i cristiani uccisi dall’attentato talebano di Lahore in Pakistan e ha detto che il mondo cerca di nascondere la persecuzione religiosa in atto. Ora, non c’è dubbio che i cristiani sono spesso vittime di attentati. Ma è vero che si cerca di nasconderlo? Non risultano prove di una congiura mondiale, ma forse l’attenzione non è adeguata all’importanza di un fenomeno come il ritorno del martirio dei cristiani sulla scena del mondo: un mondo assai più grande e terribile di quello dell’antico Impero romano.
Restiamo ai fatti e cerchiamo di capire le percezioni che se ne hanno. In apparenza, nessun dubbio sui dati: lo mostrano le cifre del rapporto del Pew Research Center sulla discriminazione religiosa nel mondo. Oggi i cristiani sono il gruppo religioso che soffre maggiori forme di ostilità sociale e di discriminazione. Si parla di 118 paesi del mondo. Gli altri, musulmani inclusi, li seguono a distanza. Eppure ben maggiore attenzione si registra sulla stampa internazionale per le distruzioni da parte dei jihadisti del-l’Is dei siti archeologici e delle antiche testimonianze di comunità cristiane o precristiane in Medio Oriente e in Africa.
Ma se è vero che i cristiani sono i più perseguitati al mondo, bisognerà fare i conti col fenomeno di una inavvertita “cristianofobia”: e questo mentre ancora siamo alle prese con l’”islamofobia”. Così sostiene ad esempio il giornalista cattolico americano John Allen. E tuttavia si dovrà almeno citare una versione scettica della lettura di questa contabilità. È giusto contare a parte i cristiani estrapolandone le cifre dal complesso delle moltissime vittime dei conflitti civili nel mondo? O non sarà perché il cristianesimo è la religione più diffusa che il loro numero è il più alto?
Quanto al tentativo del “mondo” di nascondere la realtà della persecuzione, va detto che la logica dei grandi numeri stempera e annebbia quella percezione delle sofferenze che solo il caso singolo è capace di dare — il volto del martire, la venerata immagine antica del suo corpo piagato. Ed è anche innegabile la diffusa assuefazione alle storie di violenza e di brutalità, ai grandi e grandissimi numeri dei massacri. La sensibilità è smussata, lo sdegno naufraga nell’indistinto grigiore di un orizzonte di ingiustizie e sofferenze. È un effetto della mondializzazione: «Ma conosciuto il mondo non cresce, anzi si scema», diceva Leopardi.
La sfera terrestre brulicante di miliardi di esseri umani resta una immagine mentale fredda, remota: formicai fatti per essere schiacciati dal feroce passo della storia. Il mondo si allarga e nello stesso tempo diventa più piccolo: nella sensibilità del nostro orizzonte quotidiano fa più rumore l’immigrato che ruba la bicicletta del vicino, della strage remota di intere comunità.
E poi, la parola stessa “martirio” ha cambiato significato. Un tempo i martiri erano per definizione quelli cristiani. La fantasia pietosa dei fedeli si è concentrata per secoli sulle immagini delle loro sofferenze. Nel trattato cinquecentesco di Antonio Gallonio le incisioni del Tempesta raffiguranti «gli instrumenti di martirio e le varie maniere di martoriare usate da’ gentili contro i cristiani» segnarono un’autentica vetta nella visualizzazione dell’arte di far soffrire. Ne sopravvive un pallido, rozzo simulacro negli squallidi “musei della tortura”.
Martirio, martoriare: una intera famiglia linguistica pronta a trasferirsi in altro campo. Significava in antico la “testimonianza” di chi si rifiutava di adorare la statua dell’imperatore romano e affrontava le belve al Colosseo. Oggi del Colosseo si vorrebbe fare un campo di calcio: e martire si definisce il seguace di sette terroristiche che in nome del suo Paradiso si fa saltare in aria per uccidere quanti più cristiani o sciiti gli è possibile.
E intanto è finita l’era delle potenze cristiane europee pronte a ricorrere alle armi in nome della Chiesa. Restano sussulti di antiche abitudini nelle reazioni politiche della Francia, per lunghi secoli responsabile della tutela dei Luoghi Santi. Le succedette l’Inghilterra che mise così le mani sull’area mediorientale. Come finì nel 1947 lo sappiamo e ne paghiamo ancora le conseguenze.
Oggi niente è più come prima. Mutato il mondo e mutata la Chiesa: che deve affidarsi non ai cannoni delle guerre cristiane ma alla recuperata forza morale della testimonianza disarmata, di quell’esempio di paziente sopportazione senza odio che tanti cristiani riescono a dare nei contesti più difficili. Anche nel mondo islamico si riflette seriamente sul rapporto tra religione e violenza: ne abbiamo avuto un esempio in un convegno organizzato nel maggio dell’anno scorso ad Amman per iniziativa del principe Hassan. Un punto vi fu chiaro: Islam, jihad, sono parole che oggi nella comunicazione pubblica hanno assunto un significato del tutto diverso rispetto a quello tuttora prevalente nell’antica religione di Maometto. E per noi europei si tratta intanto di prendere atto del significato nuovo che ha assunto nel frattempo l’evocazione del martirio cristiano; un tema così tante volte richiamato e in così numerose e diverse circostanze da contribuire a quella distrazione oggi lamentata.
Papa Wojtyla, testimone dei tempi duri del ’900, parlò spesso del ritorno dei martiri. Li definì «militi ignoti della grande causa di Dio». Pensava alle persecuzioni nazista e stalinista, ma anche al soggettivismo, all’indifferenza religiosa delle società ricche. L’ammonimento di papa Francesco ha stile e obbiettivi diversi. Guarda con l’occhio di un Tertulliano al sangue vero, quello versato dai martiri più umili, come seme dei futuri cristiani di una Chiesa “servente e povera”. Torna in memoria l’episodio celebre di Francesco d’Assisi che predica la fede al sultano d’Egitto. E, per quel tanto di profetico che affiora spesso nei messaggi dell’attuale pontefice, c’è da chiedersi se non voglia egli stesso tentare una missione simile, una predicazione disarmata in mezzo a chi odia i cristiani. La breve durata del suo pontificato misteriosamente preannunciata (cinque anni) potrebbe significare una intenzione di concluderlo con una testimonianzamartirio. C’è da chiedersi quale potrebbe essere oggi il volto moderno del tollerante e ospitale sultano d’Egitto che rimandò Francesco vivo e protetto alle tende cristiane.
Repubblica 23.3.15
Guerra a Zeus la fantascienza secondo Graves
Esce il romanzo del 1949 del grande studioso dei miti dell’antica Grecia
Un mondo senza progresso governato da una Dea madre
di Francesco Pacifico
QUANDO usiamo il termine fantascienza per i romanzi ambientati nel futuro stabiliamo implicitamente che il solo criterio che fa cambiare le civiltà è il progresso scientifico e tecnologico. Cosa succede, invece, se immaginando il futuro ci inventiamo che l’umanità a un certo punto ha cambiato paradigma e ha smesso di dare per scontato il primato della scienza, praticamente levandola di mezzo? Per un romanzo che parli della fine delle macchine e del potere di una casta di maghi si può usare il più ampio termine ombrello speculative fiction.
Il romanzo di Robert Graves, romanziere, poeta e autore dei saggi ormai classici I miti greci e La dea bianca, specula su una civiltà del Tremila che si definisce “neocretese”, e regala la prima persona del racconto a un poeta novecentesco che viaggia nel tempo e annota le sue impressioni con eleganza, ironia e passione.
Il poeta, Edward Venn-Thomas, non è arrivato nel futuro in una macchina del tempo, ma è stato evocato dalla casta dei maghi neocretesi: la società che si trova davanti non è una proiezione iperbolica della nostra, come succede tanto spesso nella fantascienza, ma si basa su un paradigma completamente diverso. Nel mondo neocretese il calendario ha tredici mesi perché è lunare; «ore e minuti non si misurano, il tempo è stato abolito insieme al denaro»; è «sconveniente dire l’età delle persone»; «gli archivi non forniscono alcuna informazione su filosofia, matematica avanzata, fisica o chimica, né sulla spiegazione di macchine più complesse della ruota idraulica, della carrucola o del tornio»; «di Shakespeare conservano solo tre libri sui 274000 [un tempo] in circolazione su di lui». È insomma agli antipodi della nostra età dell’informazione.
Ma non è solo l’informazione a essere ridimensionata: il mondo neocretese raccontato in Sette giorni fra mille anni ( Nottetempo, ottima la traduzione di Silvia Bre, non a caso poetessa e traduttrice di Emily Dickinson) è tutto fondato sulla decrescita. I più grandi nemici dell’umanità sono «il gabinetto, l’inceneritore di rifiuti, che derubava la terra delle sue ricchezze, e il trattore che consentiva ai contadini di arare e desertificare vaste aree di terreno meno fertile…».
Come in una corte medievale, per tutto il tempo in cui il poeta novecentesco visita il futuro per raccontarlo, si parla d’amore. Del suo amore per una ninfa del re; del suo amore per la moglie lasciata nel passato; dell’amore per lui della maga Sally; e dell’amore del poeta per quel che oggi è il fantasma di un’antica amante: da questi intrecci, si svela lentamente per quale ragione proprio lui, poeta e grande amante delle donne, è stato portato indietro nel futuro. La Dea madre che governa il mondo neocretese, dopo aver lasciato alla nostra epoca un po’ di tempo per sbizzarrirsi con l’idea di un Dio maschio, tutto guerra e astrazione, sta solo cercando di portare un po’ di igienico rivolgimento in un cosmo governato perfettamente dalle fasi lunari e dalle intuizioni dei maghi, in una società divisa in caste. Un poeta dotato di passione basta a sconvolgere un luogo alato in cui si confonde realtà e allegoria, tanto che per descrivere l’atto sessuale c’è chi dice: «Ci astraiamo e i nostri corpi rimangono laggiù, lontani…». E il poeta novecentesco commenta: «I neocretesi raccontavano molte storie le quali, pur non essendo propriamente false, erano vere solo per modo di dire».
È affascinante pensare che un libro così allegro e ispirato sia uscito nel 1949, nel secondo dopoguerra e un anno dopo 1-984 di Orwell. Orwell ragionava pragmaticamente su ogni risvolto psicologico del totalitarismo. Graves pensa alla poesia. Nel suo saggio pubblicato proprio nel 1948, La Dea bianca, Graves propone la tesi «che il linguaggio del mito poetico anticamente usato nel Mediterraneo e nell’Europa settentrionale fosse una lingua magica in stretta relazione con cerimonie religiose in onore della dea-Luna, ovvero della Musa… e che resta a tutt’oggi la lingua della vera poesia…».
Per Graves, la cultura puramente patriarcale, «senza più alcuna traccia di dee», in Inghilterra si era pienamente raggiunta «all’epoca di Cromwell, perché nel cattolicesimo medioevale la Vergine e il Figlio (che avevano sussunto i riti e gli onori della Luna e del Figlio-stella) avevano maggiore importanza religiosa del Dio-padre». A distruggere la vera lingua poetica furono i primi filosofi greci, «fortemente ostili alla poesia magica, nella quale ravvisavano una minaccia per la nuova religione della logica».
In questo quadro, parlare della poesia vuol dire parlare della guerra. Come spiega un neocretese: «Quando i vostri antenati si ribellarono contro di lei [la Dea], inventarono un Dio-padre il cui solo interesse era la guerra». Il cristianesimo è considerato una deviazione, un tentativo di «regolare e purificare il culto del Dio-padre mediante la definitiva soppressione del culto della Dea».
Come si è tornati al culto della Dea, nel futuro inventato da Graves? Di guerra in guerra, passando per una pioggia radioattiva artificiale, lo spopola- mento e la fine del predominio della scienza. La civiltà neocretese nasce come esperimento: formare alcune colonie (di galeotti) in cui riavviare antiche forme di vita, come per esempio l’età del ferro, lasciando che si sviluppi «fino alla vigilia dell’invenzione della polvere da sparo e della stampa». Questo mondo senza macchine e senza informazione riscopre il potere della magia. È una forma radicale di decrescita: il sistema è vincente e si impone praticamente in tutto il mondo.
E qui arriviamo al paradosso di questo romanzo: se prende in giro l’ingenuità dei neocretesi quasi per necessità drammaturgiche, allo stesso tempo è impegnato in tre grandi profezie che sembra considerare positive. Le sintetizza Silvia Ronchey nella postfazione, giudicandole esatte seppure in maniera complessa: «La fine del cristianesimo, il sostituirsi al predominio del maschio di un nuovo dominio femminile e il ritorno di un nuovo paganesimo legato al culto magico della natura».
IL LIBRO Sette giorni fra mille anni di Robert Graves (Nottetempo, pagg. 411, euro 20)