Corriere 22.3.15
Dimenticare Platone con la pillola della bontà
di Paolo Di Stefano
Si nasce buoni o cattivi? Domanda affascinante su cui intelletti eccelsi si sono arrovellati per secoli con risposte mai decisive. Del resto, che cos’è la bontà? Basta dire che si tratti della capacità di compassione e di empatia, come sembra sostenere lo psicologo dell’età evolutiva Paul Bloom nel saggio Buoni si nasce (uscito l’anno scorso in Italia da Codice Edizioni), che sin dal titolo parrebbe aver trovato una risposta definitiva? Forse ha ragione, forse no. Nel dubbio, meglio andar cauti su certi temi.
Chissà come la pensano i ricercatori della University of California di Berkeley e San Francisco, che hanno testato su un campione di 35 persone un farmaco «in grado di produrre artificialmente sentimenti di bontà». I risultati dello studio sono apparsi sulla rivista Current Biology e dimostrerebbero che il «tolcapone» contribuisce ad aumentare il tasso di equanimità per esempio nella distribuzione di denaro agli sconosciuti e a rendere più sensibili alle iniquità sociali.
Dunque, tra poco verrà distribuita in tutte le farmacie del globo la «pillola della bontà»? Niente più stupratori e infanticidi? Niente più ladri e razzisti? Niente più concussori, corruttori e corrotti? L’Italia recupererà finalmente i leggendari 60 miliardi del malaffare risolvendo per via farmacologica tutti i problemi di Pil? Il doping dell’anima, della generosità, della magnanimità, della giustizia e delle virtù cardinali. Platone, Aristotele, San Tommaso e Sant’Agostino, Hobbes, Kant e Nietzsche, eserciti di pensatori e teologi annientati per sempre da una combinazione chimica, dal viagra dello spirito capace di potenziare la nostra moralità? Il calo di bontà paragonabile alla disfunzione erettile. Lo si assumerà mezz’ora prima di strozzare un bambino, di violentare la vicina di casa, di rubare una mela al supermercato? Oppure basterà una lontana avvisaglia, un turbamento, per correre dal medico della mutua e poi nella farmacia più vicina? Lo slogan pubblicitario è già bell’e pronto. Ce lo presta Oscar Wilde: «Fino a ieri riuscivo a resistere a tutto tranne che alle tentazioni, ora anche a quelle: con “tolcapone” non c’è Al Capone che tenga...».
Corriere 22.3.15
La chiusura degli Opg
Da misure di sicurezza a sicurezza delle cure
di Claudio Mencacci
Direttore Neuroscienze Fbf, Milano
Past President Società it. di psichiatria
Alea iacta est. Dopo 37 anni dalla chiusura degli ospedali psichiatrici ora toccherà, il 31 marzo, a quelli giudiziari (e alle Case di cura e custodia).
Questo in realtà non è un provvedimento risolutorio della complessa situazione relativa agli autori di reati affetti da un vizio totale o parziale di mente e/o socialmente pericolosi per l’elevato rischio di recidiva di condotte antisociali. Gli attuali 700 internati in queste strutture verranno presi in carico dai servizi psichiatrici territoriali, seguendo programmi di reinserimento nelle comunità di provenienza. Per i soggetti socialmente pericolosi sono previste strutture residenziali appropriate (Rems) dislocate in alcune regioni.
Siamo però in Italia e pur a fronte di un significativo finanziamento statale per questa pregevole trasformazione, a oggi siamo ancora nell’incertezza. Manca il potenziamento delle risorse umane dei Dipartimenti di salute mentale (depauperati di operatori a causa della crisi), le Rems (forse troppe quelle previste) non saranno pronte prima di qualche anno, tanto che sono state individuate «soluzioni residenziali transitorie», e nulla si è fatto per migliorare l’assistenza psichiatrica nelle carceri (dove persistono condizioni disumane) nelle quali ancora non vengono garantiti modelli operativi per cure adeguate. Infine, i nodi più delicati non sono stati affrontati: riforma del codice penale e delle misure di sicurezza, dell’imputabilità con la cancellazione della pericolosità sociale psichiatrica, delle perizie e dei periti. Senza queste modifiche, che consentono di garantire cure adeguate in strutture riabilitative a chi ha una severa malattia mentale e a evitare che entrino nei circuiti sanitari persone con pericolosità sociale non derivante da malattia (garantendo assistenza psichiatrica in carcere), la situazione tenderà a peggiorare.
Il flusso degli ingressi in questi ultimi mesi ha infatti superato nettamente le uscite.
Ci aspettiamo che le istituzioni, come la Commissione igiene e sanità del Senato, a cui va il nostro plauso, possano rivolgere ora attenzione al potenziamento dell’assistenza psichiatrica nelle carceri e a costruire un consenso trasversale per la modifica del codice penale. La chiusura degli Opg dovrà essere accompagnata da riforme delle misure di sicurezza: l’intervento e la restituzione al territorio e ai servizi psichiatrici deve avere un orientamento terapeutico, non «custodialistico»: dalle misure di sicurezza, alla sicurezza della cura.
Corriere La Lettura 22.3.15
I gioielli della signora Neanderthal
Il collier più antico al mondo è stato scoperto in Croazia. Risale a 130 mila anni fa
È la prova della capacità di pensiero simbolico prima dell’Homo sapiens
di Marco Peresani
La recente, straordinaria scoperta di artigli d’aquila utilizzati come ornamento da Neanderthal di 130 mila anni fa ribadisce che Homo sapiens non è l’unico «eletto». Infatti, se per gran parte del XX secolo l’immaginario comune riteneva che Neanderthal non fosse in grado di esprimere comportamenti simbolici, comparabili a quelli dei primi rappresentanti della specie a cui apparteniamo, le ultime tre decadi hanno stravolto questa visione grazie a nuovi, spettacolari ritrovamenti. Il fatto che i nostri antichi cugini manifestarono condotte non squisitamente ascrivibili alla sfera utilitaristica contribuisce a mantenere vivo e ricco di colpi di scena il dibattito scientifico sui loro comportamenti etnograficamente «moderni», più prossimi al modo sapiens di pensare e strutturare la società.
Oltretutto, se per un attimo spostiamo l’attenzione sulla loro scomparsa dagli archivi archeologici tra 50 e 40 mila anni fa, ma mai completamente avvenuta, come raccontano il nostro e il loro Dna, è lecito chiedersi se l’origine del pensiero simbolico neanderthaliano fu autoctona oppure risultò da interazioni con i sapiens arcaici 45 mila anni fa. L’archeologia, in realtà, sostiene l’emergenza autonoma di invenzioni nella scheggiatura della pietra, nella lavorazione dell’osso e appunto nell’impiego di materiali a uso ornamentale.
Il comportamento simbolico neanderthaliano si pone anche nella relazione con la morte, manifestata attraverso le sepolture di adulti e bambini, nonché da specifiche evidenze di smembramento dei loro defunti, che non escludono del tutto il cannibalismo. Non dimentichiamo che corredi funebri con resti faunistici, strumenti in pietra e in osso, ossa incise e lastre rocciose con coppelle sono stati descritti in Francia e in Asia centrale. Cristalli, fossili e altri materiali venivano importati nelle grotte anche da lunga distanza, a testimoniare un’attenzione verso l’unico o il particolare. Altri casi noti da tempo, come ossa e pietre solcate da incisioni e segni meandriformi, non hanno invece sostenuto il rigoroso check-in dell’indagine scientifica, rivelatrice di un’origine naturale di vari tipi di segni. Un noto esempio è il femore perforato di giovane orso delle caverne della grotta slovena di Divje Babe I. Interpretato come possibile strumento musicale a fiato, questo reperto non è nient’altro che un resto del pasto di un predatore del Pleistocene.
Di grande interesse risultano invece vari oggetti e manufatti in pietra solcati intenzionalmente da strie rettilinee e da semicerchi concentrici, vere manifestazioni grafiche, i pigmenti minerali macinati e polverizzati — rossi, gialli e neri —, le conchiglie marine coperte con polvere di ematite e utilizzate come pendenti.
Di unicità straordinaria sono le scoperte di tracce microscopiche da taglio lasciate da schegge di pietra su ossa dell’ala di avvoltoi, il gipeto e l’avvoltoio monaco, di falco cuculo, di gracchio alpino e di colombaccio a Grotta di Fumane nei Monti Lessini e nelle grotte di Gibilterra. Le tracce provano che i Neanderthal erano interessati al recupero dell’ala e delle penne, operazioni che comportano la rescissione dei robusti tendini alari e degli innesti delle lunghe e spettacolari penne remiganti. Oltre a questo, un altro aspetto particolare dell’utilizzo di porzioni di uccelli riguarda la rimozione dell’artiglio dei grandi rapaci. Falangi ungueali isolate di aquila reale, aquila dalla coda bianca e avvoltoio monaco sono state rinvenute in siti italiani e francesi in strati di periodi diversi, da circa 100 mila anni a 44-45 mila anni fa, rivelando una convergenza in questo tipo di selezione. Tutte le falangi presentano strie di disarticolazione prodotte durante la rimozione dell’artiglio dal dito per mezzo di coltelli in pietra. Esperimenti hanno permesso di constatare che tutte le operazioni miravano a distaccare l’artiglio intatto senza danneggiarlo. In effetti, la porzione distale dell’artiglio si presta come elemento ornamentale in virtù della sua curvatura e lunghezza e per la possibilità di essere sospesa in diversi modi, conformemente a quanto osservato in campo etnografico.
Si potrebbe arguire che in contesti più recenti, come durante il Paleolitico superiore o il Neolitico, tali elementi sono interpretati come pendenti e ornamenti, ma rinvenuti in associazione a tante evidenze artistiche e musicali. Resta assodato che il comportamento neanderthaliano mantiene una parte del suo mistero, una complessità che non dovrebbe essere ridotta a una specifica sfera comportamentale di Homo sapiens , ma che il crescente insieme di evidenze contribuisce a crearne un’immagine più dinamica, sfidando l’idea che questi ominidi fossero essenzialmente statici e chiusi alle innovazioni e alla comunicazione.
In quest’ambito si inserisce a pieno titolo la (ri)scoperta, della quale si parlava all’inizio, di un set di otto falangi ungueali di aquila dalla coda bianca e di una falange del dito connessa a una di esse, rinvenute, a cavallo dei secoli XIX e XX, nella grotta di Krapina, in Croazia, nota per l’abbondanza di resti scheletrici neanderthaliani risalenti a circa 130 mila anni fa. Gli artigli, che riposavano quindi da oltre un secolo nei depositi dell’Istituto di geologia e paleontologia dell’Università di Zagabria, hanno attratto paleontologi e paleoantropologi incuriositi dalle descrizioni di reperti simili rinvenuti in Italia e Francia, pubblicate recentemente. Dallo studio dei resti croati, presentato sulla rivista «PlosOne», è stato concluso con chiarezza e con dovizia di particolari che questi elementi, recanti tracce di tagli e caratteristiche usure da sfregamento, formavano un «collier», attualmente il più antico al mondo.
La scoperta fa ricordare che aquile e rapaci, in generale, sono tra gli uccelli meno numerosi e più rari in natura, a causa della loro posizione alla sommità della catena alimentare. Un aspetto indicativo di quanto questi grandi e potenti uccelli diurni attraevano i Neanderthal e stimolavano il loro impiego come mediatori simbolici, compatibilmente con quanto si osservava tra i cacciatori-raccoglitori di tempi molto più recenti. In tal modo, l’utilizzo ornamentale di ali e penne e la selezione di artigli d’aquila rimandano alla vastissima documentazione etnografica riferibile all’arte piumaria delle popolazioni primitive attuali e sub attuali, connessa all’adorno di abiti, oggetti, abitazioni e individui anche di rango, ma possono anche rappresentare un ponte tra i comportamenti sapiens e Neanderthal, suggerendo l’esistenza di aspetti cognitivi condivisi tra queste popolazioni.
Corriere La Lettura 22.3.15
In ostaggio dei misteri
Nella voce curata per lo Zingarelli, Vito Mancuso definisce il termine come «una condizione che riguarda la vita , e lì la vita deve tacere».
Ecco dove sbaglia la nostra cultura: ci compiacciamo dell’esistenza di questioni irrisolte, quasi ci rattristiamo quando la scienza trova le soluzioni
La tendenza a vedere sciarade dappertutto è il contrario di una cultura democratica
Perché sospinge l’uomo verso una condizione di soggezione verso una classe di «iniziati»
di Edoardo Boncinelli
L’osservazione del mondo che ci circonda ci propone innumerevoli interrogativi, per diversi dei quali abbiamo già trovato una risposta, mentre per altri speriamo prima o poi di trovarla. Qualcuno però ama definire misteri alcuni di questi interrogativi, soprattutto i più palpitanti. Zanichelli ha proposto una nuova edizione del dizionario Zingarelli della lingua italiana, dove ha deciso di includere la definizione di alcune parole chiave dettata da personaggi di spicco del mondo attuale e denominata «definizione d’autore». Al teologo e scrittore Vito Mancuso è toccata la parola «mistero», ed ecco la sua definizione: «Mistero è diverso da enigma. L’enigma è un rompicapo che riguarda l’intelligenza; il mistero è una condizione che riguarda la vita. L’enigma è là fuori, il mistero è qui dentro. Di fronte a un enigma l’intelligenza si lancia a risolverlo; di fronte al mistero la vita sente che deve tacere: non a caso il termine greco mystérion , da cui il latino mysterium , viene dal verbo mýo , che significa “mi chiudo, sono chiuso”, detto di occhi e di labbra. La percezione del mistero si dà come inquietudine e al contempo come meraviglia. Per quanto mi riguarda, l’esperienza più intensa del mistero la provo di fronte al bene e alla gratuità che, in un mondo dove tutto è forza, calcolo e interesse, mi rimanda a una dimensione diversa».
Quindi il mistero alberga «qui dentro», che penso significhi in interiore homine , quella bellissima espressione che dobbiamo a sant’Agostino, ma di cui non ho mai capito bene il significato. A mio modo di vedere questa espressione non rimanda a niente, se non al corpo e alle sue connessioni nervose o, addirittura, al nostro Dna, come dire alla nostra biologia più primitiva. Per confronto vediamo quest’altra specificazione dovuta al più grande linguista vivente, Noam Chomsky: «Ciò che ignoriamo può essere suddiviso in problemi e misteri. Quando affrontiamo un problema, possiamo non conoscerne la soluzione, ma abbiamo qualche idea, una speranza di aumentare le conoscenze e qualche indicazione di che cosa stiamo cercando. Quando affrontiamo un mistero, invece, possiamo solo abbandonarci allo stupore e alla meraviglia. Non conoscendo per il momento neppure i contorni di una spiegazione».
Si può notare che le due definizioni sono molto simili, ma anche profondamente diverse. È il retroterra culturale che è diverso, e riflette la differenza fra la nostra visione del mondo e quella della cultura anglosassone. Noi italiani tendiamo a vivere due realtà, una alla nostra portata e l’altra no, mentre loro ne vivono una sola, anche se dannatamente complessa. Io posso capire che per chi ci crede, quello della Trinità sia un mistero — altrimenti, direbbe Dante, « mestier non era parturir Maria » — come pure la teodicea e più in generale l’esistenza del Male. Quello che non condivido è la smania di trasporre tutto questo nella conoscenza del mondo in cui viviamo e fare quasi il tifo per la persistenza del maggior numero possibile di misteri irrisolti.
Di misteri ne esistono e probabilmente ne esisteranno sempre. Quello che non capisco è perché qualcuno se ne compiaccia, e si rattristi per ogni nuovo mistero svelato, invece di compiacersene. D’altra parte, l’uomo primitivo viveva in un mondo di misteri. Il ruolo della civiltà è stato quello di trasformare questi misteri in problemi concreti, possibilmente articolati su domande specifiche alle quali si tenta di rispondere. Sembra quasi che qualcuno rimpianga quello stato, lo stato dell’essere primitivo, quello dei «bestioni insensati» di Vico. Nel nostro Paese in particolare, tutto è un mistero: la nascita (ed entro certi termini questo ci può stare), la morte (ma è mai non morto qualcuno o qualche animale?), la vita, l’amore, i sentimenti, l’inclinazione, il talento, l’ispirazione artistica, la creatività. In una trasmissione televisiva ho anche sentito dire che «la povertà è un mistero». Un mistero per chi, se c’è sempre stata, in ogni tempo e in ogni luogo, e oggi sembra addirittura aumentare invece di diminuire?
La tendenza a vedere misteri dappertutto è antitetica a una mentalità scientifica e razionale, e in fondo anche a una cultura democratica; è un rifugio nell’ignoranza e nell’ancora peggiore presunzione di sapere, come quella che ammorba le nostre convinzioni in materia di psicologia. Credere di conoscere bene la spiegazione di una situazione che invece non conosciamo impedisce di cercare quella vera e ci lascia «con il cerino in mano». Per dirla con il grande fisico Erwin Schrödinger: «In un’onesta impresa di ricerca della conoscenza a volte è necessario arrestarsi per un periodo indefinito a causa di una nostra ignoranza. Invece di tentare di colmare una lacuna conoscitiva con una costruzione speculativa, la vera scienza preferisce rinunciare momentaneamente a fornire una spiegazione; e questo non tanto per uno scrupolo di coscienza che impedisce di dire bugie, ma piuttosto partendo dalla considerazione che una risposta inventata sopprime l’esigenza della ricerca di una risposta accettabile».
L’uomo comunque si interroga e indaga, stimolato spesso anche da un genuino senso del mistero che non può non coglierlo. E indaga per quella «sete natural che mai non sazia» . Nella maggior parte dei casi quella sete conduce molto lontano. Dante ci propone l’esempio del matematico ( il geometra ) che mira alla quadratura del cerchio: «Qual è ’l geomètra che tutto s’affige/ per misurar lo cerchio, e non ritrova,/ pensando, quel principio ond’elli indige,/ tal era io a quella vista nova:/ veder voleva come si convenne/ l’imago al cerchio e come vi s’indova». Ebbene, tutto questo conduce il poeta, simbolo in questo caso dell’intera umanità, a interrogarsi su questioni molto più astratte e a credere di intravederne la soluzione: «La forma universal di questo nodo/ credo ch’i’ vidi». È abbastanza evidente da questo esempio che porsi problemi chiari e concreti non preclude l’accesso alle domande più alte, come quella che si pone il sommo poeta sulla natura più intima del segreto figurativo del cielo e del mondo intero. Perché astenertene quindi e gioire degli insuccessi, magari momentanei?
Ma è chiaro che non si tratta di una questione «accademica», bensì di un atteggiamento programmatico. Immanuel Kant affermò a suo tempo che l’Illuminismo e la sua fiducia nella ragione e nell’uomo aveva rappresentato «l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità». Sostenere, al contrario, che il mondo è pieno di misteri tende a risospingere l’umanità a uno stadio di profonda ignoranza, ma soprattutto di soggezione, almeno verso una classe di «iniziati» a cui rimanda la radice del verbo greco mýo da cui derivano la parola «misteri» e la parola «mistica». Non c’è bisogno di risalire ai misteri eleusini per chiarire che si tratta in ogni caso di conoscenza preziosa, superiore e segreta perché degna di pochi intimi «che sanno veramente». Come dire che c’è chi può e chi non può, e chi non può si deve accontentare. Una conoscenza chiusa non è una conoscenza, è un sopruso, e un affronto alla nostra capacità di capire, magari lentamente e con un procedere ondivago. Tipica a questo proposito è l’esaltazione che da più parti si fa dell’insegnamento di Karl Popper, che per costoro avrebbe sostenuto che la scienza è necessariamente fallace, o di Kurt Gödel, che avrebbe «dimostrato» che esistono affermazioni vere che non possono essere né dimostrate né confutate.
Costoro, spero, non prevalebunt , come le porte dell’inferno. Personalmente, io direi: là dove c’è un mistero ci deve essere un interrogativo; poi si vedrà. In fondo, nati non fummo «a viver come bruti ».
Corriere 22.3.15
Il progetto di Landini piace al 10% degli italiani
Un altro 24% lo segue con «qualche simpatia». Ma con l’Italicum l’interesse si ridurrebbe
di Nando Pagnoncelli
I l progetto di Coalizione sociale, lanciato da Maurizio Landini insieme ad alcune associazioni, si propone di rappresentare le istanze del mondo del lavoro e di dare voce a quella domanda di giustizia sociale che oggi non è ascoltata. Quasi un italiano su due (47%) pensa che sia un’iniziativa utile perché il nuovo soggetto si occuperebbe di temi considerati importanti ma privi di un’adeguata risonanza, mentre il 30% ritiene che, nel bene o nel male, se ne facciano già carico le attuali forze politiche e sociali e non ci sia bisogno di un nuovo soggetto. L’utilità del progetto viene riconosciuta da tutti gli elettorati, con valori percentuali molto simili, soprattutto tra gli elettori del M5S, di Forza Italia e del Pd.
Il consenso all’iniziativa non significa automaticamente riconoscere un ruolo politico al sindacato: infatti, solo il 32% ritiene che debba confrontarsi da pari a pari con le forze politiche mentre la maggioranza assoluta (53%) è di parere opposto. L’opinione pubblica sembra dunque avere le idee chiare: giudica opportuno rappresentare le istanze di giustizia sociale presenti nel Paese (i temi del lavoro e della protezione sociale sono ai primi due posti nelle priorità degli italiani), ma preferisce mantenere distinto il ruolo del sindacato da quello della politica. E Landini sembra esserne consapevole distinguendo tra «ruolo politico», che rivendica, e «soggetto politico», che sembra escludere, anche se i dubbi sulle sue vere intenzioni rimangono: non è chiaro se si tratti del tentativo di assumere la leadership della Cgil oppure se intenda dar vita a un nuovo movimento che si collochi alla sinistra del Pd e riunisca il frastagliato mondo dell’associazionismo, dei centri sociali e degli attuali piccoli partiti di sinistra.
In altre parole, un soggetto che si ispiri all’esperienza ellenica di Syriza, vincitrice delle elezioni greche nel gennaio scorso, o a quella spagnola di Podemos che i sondaggi danno in forte crescita.
Qualora Coalizione sociale dovesse diventare un partito, il 10% guarderebbe a esso con molta simpatia, il 24% con qualche simpatia mentre il 43% non avrebbe alcuna simpatia. I simpatizzanti sono fortemente caratterizzati in termini di età (sono soprattutto i più giovani e gli studenti), di istruzione (i laureati), di ceto professionale (in particolare i quadri e ceti medi impiegatizi) e di residenza (regioni settentrionali). I ceti più popolari e quelli più esposti alla crisi, a differenza di quanto registrato a novembre, non mostrano particolare simpatia per un eventuale nuovo partito di sinistra e le casalinghe fanno segnare il più elevato tasso di antipatia (oltre 60%).
Ancora una volta va ricordato che non si deve confondere la simpatia con il comportamento di voto. E gli orientamenti di voto possono cambiare in relazione alle coalizioni, ai leader che le guidano, al clima sociale ed economico e, soprattutto, alle leggi elettorali. Se si dovesse votare con il cosiddetto Consultellum (sistema proporzionale senza premio di maggioranza) un partito di sinistra potrebbe aspirare ad entrare in una coalizione di governo guidata dal PD, da tempo in testa nei sondaggi, allargando in tal modo l’elettorato potenziale. Viceversa, se venisse approvato l’Italicum che prevede il premio di maggioranza al partito che supera la soglia del 40% (o il ballottaggio) è probabile che un partito di sinistra, destinato all’opposizione, possa risultare poco attrattivo e demotivare gli elettori potenziali. Per questo i sondaggi, soprattutto a distanza dalle elezioni, vanno maneggiati con cura.
Il Sole 22.3.15
Esclusi senza rappresentanza
Terza società, l’amaro lascito della crisi
di Luca Ricolfi
Il testo è un’anticipazione del discorso che Luca Ricolfi terrà a Biennale Democrazia giovedì 26 marzo 2015, alle 18, al Teatro Carignano di Torino.
Credo sia stato Alberto Asor Rosa, nel lontano 1977, il primo a parlare dell'Italia come di una società in cui convivevano, o meglio si contrapponevano e si scontravano, “due società”. Asor Rosa lo faceva, dalle colonne dell'Unità, reagendo vigorosamente (e coraggiosamente, dato il clima violento e intimidatorio dell'epoca) a un episodio che segnò profondamente la storia della sinistra negli anni '70: l'assalto, da parte del movimento studentesco e dei circoli proletari giovanili, al palco da cui Luciano Lama, segretario generale della Cgil, tentava di tenere un comizio.
Fu solo in quella circostanza che la sinistra prese coscienza, in tutta la sua drammaticità, della frattura che si era creata fra il mondo dei produttori, difesi e garantiti dal sindacato e dal Partito Comunista, e il variegato mondo degli esclusi, “fatto di emarginazione, disoccupazione, disoccupazione giovanile, disgregazione” (così lo descriveva Asor Rosa), privo di rappresentanza, sostanzialmente estraneo al mondo del lavoro, talora per necessità, spesso per scelta (sono gli anni del “rifiuto del lavoro”, dell'allergia al “posto fisso”, del primato dei “bisogni” più o meno proletari, come documenta una sterminata letteratura sociologica sulla condizione giovanile).
Fra la prima società (quella dei produttori) e la seconda (quella dei marginali) Asor Rosa opta risolutamente per la prima, vista come la sola capace di far uscire l’Italia dalla “crisi”.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e della divisione della società italiana in una Prima e una Seconda società non si è mai smesso di parlare, anche se in forme e con intenzioni diverse. La dicotomia di Asor Rosa, infatti, non sorgeva dal nulla, ma si innestava su un filone di ricerche che risaliva almeno alla fine degli anni ’60, quando si cominciò a discutere del “dualismo” del mercato del lavoro italiano. Per gli studiosi del mercato del lavoro la frattura non era esattamente quella, molto politica, messa a fuoco da Asor Rosa, ma quella, soprattutto economica, fra le fasce forti e le fasce deboli dalla popolazione: da una parte i lavoratori maschi adulti (o “nel fiore dell'età”, come allora ebbe a descriverli l’economista Marcello de Cecco), dall’altra i giovani, le donne e gli anziani, tendenzialmente esclusi dal mercato del lavoro in quanto meno produttivi.
Poco per volta, tuttavia, anche la letteratura sul mercato del lavoro ha preso una piega un po’ diversa. Più che sull’esclusione, si è insistito sulla piaga della precarizzazione, contrapponendo agli occupati garantiti, insediati in posti di lavoro sicuri, a tempo pieno, e protetti dai sindacati, il vasto arcipelago delle occupazioni a termine, prive di tutele e di stabilità, tipicamente riservate ai giovani e alle donne. La Seconda società, insomma, nel giro di venti anni ha cambiato pelle: all’inizio della storia (anni ’60) era la società degli esclusi, ma con il trascorrere dei decenni è diventata la società dei precari.
Io penso sia venuto il momento di prendere atto che, nell’Italia come è diventata in questi anni, di società non ne convivono due ma tre. C’è la Prima società, o società delle garanzie, fatta di dipendenti pubblici inamovibili e di occupati nelle grandi fabbriche, tutelati dai sindacati e dagli ammortizzatori sociali. C’è la Seconda società, o società del rischio, fatta di partite Iva, artigiani, piccoli imprenditori e loro dipendenti più o meno precari, accomunati dalla esposizione alle turbolenze e ai capricci del mercato. E c’è la Terza società, o società degli esclusi, fatta di lavoratori in nero (spesso immigrati), disoccupati che cercano attivamente un’occupazione, lavoratori scoraggiati che il lavoro non lo cerano solo perché hanno perso la speranza di trovarlo.
La novità è che, nel corso del 2014, le dimensioni della Terza società sono per la prima volta nella storia d’Italia divenute comparabili a quelle delle altre due: dieci milioni di persone, più o meno quante ne contano la Prima e la Seconda società. La grande svolta, secondo la ricostruzione storico-statistica della Fondazione David Hume, sembra essere intervenuta fra il 2004 e il 2007, giusto un istante prima dell’esplosione della grande crisi del 2007-2014. È allora che il tasso di occupazione delle fasce deboli (giovani e donne) ha cominciato a perdere colpi. È allora che il peso della Terza società ha cominciato a salire vertiginosamente, a colpi di mezzo milione di persone in più ogni anno. Ed eccoci, alla fine di questa triste galoppata, ad occupare la terz’ultima posizione fra i 34 Paesi Ocse: solo in Grecia e in Spagna la Terza società è più ampia che da noi (vedi grafico di sinistra).
Si potrebbe congetturare che, in fondo, il peso abnorme della Terza società sia una delle tante anomalie che all’Italia derivano dalla sua anomala storia economico-sociale: l’unità nazionale tardiva, il fascismo, l’industrializzazione accelerata degli anni ’50 e ’60. Ma questa lettura è incompatibile con i dati. Se andiamo indietro nel tempo, e ci chiediamo come stavano le cose mezzo secolo fa, fra la fine degli anni ’50 e l'inizio degli anni ’60, scopriamo che allora il nostro tasso di attività era, a differenza di oggi, perfettamente allineato a quello degli altri paesi (vedi grafico di destra). Su 24 economie di mercato, 12 avevano un tasso di attività più elevato del nostro, ma altrettante ne avevano uno più basso. Il che suggerisce che, allora, nel nostro Paese non si era ancora installata quella drammatica mancanza di posti di lavoro che è il più importante indizio con cui la Terza società segnala la propria presenza. La Terza società non è un retaggio del passato, ma un tratto distintivo dell’Italia contemporanea.
È importante, il fatto che le società siano tre e non due?
Sì, è molto importante perché pone un problema di rappresentanza nuovo. Storicamente, la Prima società ha avuto nei sindacati e nella sinistra i suoi paladini naturali, mentre la Seconda è stata, molto imperfettamente, tutelata dalla destra. La Terza società, per molti versi la più fragile e indifesa, non ha invece avuto mai una rappresentanza politica vera. E non ce l’ha nemmeno oggi che è diventata, almeno numericamente, altrettanto rilevante delle altre due. La sinistra-sinistra continua a guardare alla Prima società e al mondo dei garantiti, la destra-destra alle partite Iva e alla società del rischio, mentre il PdR, il Partito di Renzi, tenta con discreto successo di rappresentarle entrambe. Agli esclusi della Terza società, affamati di lavoro regolare prima ancora che di stabilità del posto, non sembra pensare nessuno.
Fino a quando?
La Stampa 22.3.15
D’Alema a Renzi: “Partito gestito con arroganza”
La minoranza Pd riunita a Roma. Orfini: «Toni da rissa al bar»
Guerini: avete perso, basta
con un video, qui
La Stampa 22.3.15
D’Alema: nel Pd gestione arrogante
Scontro tra minoranza e renziani
L’ex premier attacca il capo del governo: serve una rinascita, fondiamo un’associazione Bersani: parole sacrosante. Guerini: avete perso, dovete farvene una ragione
di Francesca Schianchi
Dopo quasi sei ore di interventi, a metà pomeriggio l’ultimo a raggiungere il leggio è Gianni Cuperlo. In prima fila, nell’imponente Acquario romano attrezzato con maxi schermi e bandiere del Pd, in questa riunione di tutte le minoranze dem intitolata «A Sinistra nel Pd», sono Rosy Bindi, Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Stefano Fassina, più defilato c’è Pippo Civati; fino a poco prima c’erano Guglielmo Epifani, Roberto Speranza, Francesco Boccia («è la prima volta dopo il congresso che le diverse anime di sinistra decidono di mettersi insieme», introduce soddisfatto al mattino Alfredo D’Attorre). «Massimo, rispetto la tua storia, ma dovresti chiederti perché la sinistra ha ceduto culturalmente negli anni in cui siete stati al potere. Ci hai ammonito di stare insieme: ma se tu e altri lo aveste fatto un po’ prima, ora la montagna sarebbe meno alta da scalare», si rivolge, pacato ma durissimo, Cuperlo all’ex premier, lì a due metri da lui. Nel corso di questa giornata, è il secondo ex fidatissimo collaboratore a rispondergli per le rime: «Dispiace che dirigenti importanti per la storia della sinistra usino toni degni di una rissa da bar. Così si offende la nostra comunità», aveva twittato poche ore prima il già dalemiano Matteo Orfini – oggi leader dei Giovani turchi - rispondendo all’intervento di quello che è stato suo maestro in politica.
«Colpi, non ultimatum»
È la rivolta degli ex discepoli, in questo sabato che D’Alema trascorre alla riunione delle minoranze, da «extraparlamentare», ironizza, prendendosi la scena con il suo intervento all’ora di pranzo, pochi minuti punteggiati da continui applausi, per dire che il Pd è «un partito a forte conduzione personale che ha una certa carica di arroganza», un partito «non grande se stiamo al numero degli iscritti: 250 mila quando i Ds ne avevano 600 mila», ma con grande «forza di attrazione del trasformismo», in cui il saldo tra chi se ne va e chi arriva non è positivo. Ma ne ha anche per le minoranze lì con lui, che striglia ricordando che solo «un certo grado di unità nell’azione» può permettere loro di avere un qualche peso: bisogna definire i punti «invalicabili» e muoversi con «intransigenza»; altro che gli ultimatum pronunciati da Bersani e altri sulle riforme, «non si annunciano ultimatum, si danno dei colpi cercando di fare in modo che lascino il segno». Un discorso che provoca le reazioni di Cuperlo e Orfini, e come prevedibile dei renziani: «Renzi ha stravinto il congresso e portato il Pd al 41% per cambiare l’Italia dove altri non sono riusciti, qualcuno se ne faccia una ragione», twitta il vicesegretario Lorenzo Guerini. Agli atti, D’Alema lascia anche la proposta di fondare un’associazione «per il rinnovamento della sinistra», aperta a membri del Pd e non.
La ricerca dell’unità
È proprio alla ricerca di un’improbabile unità, per essere più incisivi nel rapporto con Renzi, che si riuniscono le minoranze. Ma le mediazioni non sono facili: Speranza esclude la scissione e Civati esordisce chiedendosi se «siamo compatibili col renzismo noi oggi, o il renzismo è compatibile con la sinistra». La Bindi annuncia che, se non cambia la riforma costituzionale, al referendum starà con chi la vorrà abrogare, perché «non possiamo rassegnarci a chiamare di sinistra un governo che non fa cose di sinistra»; Fassina propone un «coordinamento parlamentare» e Nico Stumpo fa sapere che invece «Area riformista va avanti per la sua strada». Bersani lancia l’idea di rivedersi «in estate», e conia la più chiara delle sue metafore: accettare il trasformismo «è come vendere casa per andare a stare in affitto». La risposta di Cuperlo è una proposta e una speranza: «E allora ricompriamocela, questa casa».
il Fatto 22.3.15
D’Alema battezza il Correntone: “Renzi arrogante, diamo battaglia”
Le minoranze in assemblea a Roma
Ma l’ex premier e Cuperlo già litigano
di Luca De Carolis
Battesimo del correntone anti-Renzi. Cerimonia in un palazzo romano dell’Ottocento, invitati in stile rosso antico e un padrino con i baffi. Quel Massimo D’Alema che batte tamburi di guerra: “Il Pd è un partito a forte componente personale e anche con un certo carico di arroganza. È diventato la più grande macchina redistributrice di potere, la più grande forza di attrazione del trasformismo italiano”. E allora, alla lotta (interna): “Se vogliamo dare battaglia in questo partito la si fa da dentro e da fuori, dobbiamo creare un’associazione per la rinascita della sinistra”. Applausi, all’ex lider maximo. Se la prende lui la scena di “A sinistra nel Pd”, l’assemblea delle minoranze dem nell’Acquario romano che è (o sarebbe) l’atto di nascita dell’area di opposizione. Allo stato ancora divisa, perché proprio D’Alema rimprovera i sodali: “Si danno dei colpi quando necessario”. E Gianni Cuperlo gli risponde: “Dovevi farlo quando eri al potere”.
DENTRO, a guardare, il renzianissimo Ernesto Carbone. Fuori, il fu dalemiano Matteo Orfini: “Dispiace che dirigenti importanti per la storia della sinistra usino toni da rissa in un bar”. E soprattutto il vicesegretario Lorenzo Guerini: “Renzi ha stravinto il congresso e portato il Pd al 41 per cento per cambiare l’Italia dove altri non sono riusciti, qualcuno se ne faccia una ragione”. Sullo sfondo, sempre quella parola: scissione.
Un convitato di pietra alla riunione di bersaniani, cuperliani, civatiani e malpancisti vari come Francesco Boccia. “Non c’è nessuna nuova corrente, ma chiediamo un confronto” assicura Alfredo D’Attorre. “Chi pensa alla scissione sbaglia, è una parola che non deve esistere” sostiene il capogruppo alla Camera Roberto Speranza, bersaniano cauto. Ma D’Alema, giacca nera e camicia bianca, è pugnace: “Occorrerebbe una riflessione su cosa sta diventando il Pd. Intanto non è un grande partito: credo che arrivi a 150 mila iscritti, i Ds ne avevano 600 mila”. Attacca “sul saldo tra quelli che escono e quelli che entrano, difficilmente positivo”. Ne ha anche per i compagni di rivolta: “Non credo che il segretario del Pd abbia unito il partito sull’elezione del presidente della Repubblica sulla base di un afflato unitario. Non si annunciano ultimatum, si danno dei colpi quando necessario”.
Tradotto, bisognava toglierli numeri in Parlamento molto tempo fa. Magari, anche sul Colle. Pier Luigi Bersani gli risponde dal palco: “Noi li abbiamo già dati dei colpi, sono colpi positivi per il Paese, come Mattarella. Non ho mai inteso dare ultimatum, neppure sulla legge elettorale, ma secondo me quella cosa non è votabile. Sono certo che verrà corretta”. Poi immancabile metafora alla Bersani: “È inaccettabile il calcolo secondo il quale per uno che perdiamo di qua tre ne arrivano di là. È come vendere casa per andare in affitto”.
TOCCA a Giuseppe Civati: “Serve una scossa. Ho sentito D’Alema, ma quello che dice lui io lo sto facendo da un anno con la mia associazione. Molti dei miei elettori alle primarie se ne sono già andati dal Pd, se andiamo avanti così l’ultimo spenga la luce”. Al Fatto spiega: “Non voglio una scissione a freddo, ma chiedo qual è il punto di caduta: un’area di minoranza nel Pd o un progetto alternativo? Se tolgono a Renzi voti decisivi cosa faranno, si ricandideranno con lui? ”. D’Alema le è parso pro scissione? “I più radicali sul tema siamo stati io, lui e Rosy Bindi”. Eccola, la Bindi: “Non posso chiamare di sinistra un governo che non fa le cose di sinistra. Senza modifiche alla riforma istituzionale e alla legge elettorale non le voterò”. Chiude Cuperlo. L’ex stretto collaboratore di D’Alema replica all’ex premier: “Dovresti chiederti perché la sinistra ha ceduto negli anni in cui avete avuto il potere. Ci hai invitato a dare battaglia, ma se tu e altri lo aveste fatto di più prima la montagna da scalare sarebbe meno alta”. D’Alema lo guarda torvo. Saluti. A margine, Bersani: “D’Alema ha detto cose sacrosante”.
La Stampa 22.3.15
Cuperlo: “Massimo, io non ti rottamo ma anche tu hai fatto molti errori”
La critica al padrino politico: nel passato è mancato il coraggio
intervista di F. Sch.
Gianni Cuperlo, ma come, con il suo intervento ha rottamato anche lei D’Alema?
«Rottamare è un termine odioso e io verso D’Alema ho amicizia e stima. Ho fatto un ragionamento sulla storia che abbiamo alle spalle, che riguarda D’Alema, Bersani, ciascuno di noi. Era un discorso anche autocritico».
Cioè?
«Dobbiamo capire quali errori abbiamo fatto nel corso degli anni: se siamo a questo punto è perché c’è stato un deficit di coraggio e ambizione. Questa Europa non è stata capace di aggredire la crisi dal punto di vista dei bisogni delle persone. Se ora la strada è in salita è anche per la timidezza di chi aveva la possibilità di mettere in discussione tutto questo».
E qui si viene all’attacco a D’Alema: «Dovresti chiederti perché la sinistra ha ceduto culturalmente negli anni in cui siete stati al potere».
«Non si tratta di attaccare D’Alema, io ho fatto un discorso su come noi pensiamo di ricostruire la forza e la credibilità della sinistra dentro e fuori dal Pd. Ieri è stata una giornata per ragionare di questo. Ho fatto una riflessione sul passato e ho detto che le risposte non possono essere quelle di prima».
Lei ha collaborato a lungo con D’Alema, le è costato dovergli fare queste critiche?
«Non volevo personalizzare, ho parlato a lui e alla sinistra europea che però non era seduta in prima fila. Era il modo per capire perché il socialismo è così in difficoltà e perché il Pd ha grande consenso, ma su politiche che si allontanano spesso dai principi e valori di cui ci sentiamo parte».
In che rapporti siete oggi?
«Buoni, come tra persone che si conoscono da anni. La politica è bella perché devi poterti dire quello che pensi, in serenità. Io penso che D’Alema abbia fatto cose importanti, ma l’incontro di ieri riguardava il perché la sinistra è così in difficoltà con il suo mondo. La risposta che mi sono dato non mette in discussione la qualità dei singoli. Penso che dobbiamo imparare la laicità del confronto».
Gliele aveva mai fatte queste critiche a tu per tu?
«Le ho scritte in un libro del 2009, “Basta zercar”, che abbiamo anche presentato insieme, e non dubito che anche solo per questo lui sia stato tra i pochissimi ad averlo letto».
Però ieri non sarà stato contento del suo intervento...
«Non lo so. Ma è legittimo: quando si discute, si dicono cose che si condividono e altre meno. L’importante è essere sempre animati da uno spirito di lealtà. Io ho fatto un intervento che ritenevo giusto fare. Mi sono alzato, sono andato al microfono e ho detto quello che penso, così come ha fatto lui. E’ sempre un buon esercizio».
In questo incontro, come minoranza Pd, avete fatto dei passi avanti?
«Era giusto confrontarsi sui percorsi fatti finora. Sarà importante su alcuni passaggi costruire una posizione condivisa: non per impedire le riforme, ma per farle bene».
Corriere 22.3.15
La poca memoria del «líder máximo»
Massimo D’Alema è stato bersagliato per anni a causa dell’atteggiamento un po’ prepotente che oggi «Baffin di ferro» rinfaccia al premier.
di Gian Antonio Stella
Quella memoria corta dell’ex presidente del Consiglio allergico a ogni critica
«G li piace il premier che non deve chiedere mai, quello che usa “Arrogance”». Indovinello: l’ha detto D’Alema contro Renzi? No, la compagna Fulvia Bandoli contro Massimo D’Alema. Bersagliato per anni esattamente per l’atteggiamento un po’ prepotente che oggi «Baffin di ferro» rinfaccia al presidente del Consiglio.
Intendiamoci, capita spesso in politica che il bue dia del cornuto all’asino. Ma chi ha un pizzico di memoria non ha potuto trattenere una risata ascoltando ieri l’ex segretario, ex presidente della Bicamerale, ex capo del governo, ex candidato al Quirinale e poi alla carica di ministro degli esteri dell’Ue, lanciare contro il premier fiorentino l’accusa di avere «un certo grado di arroganza». E non perché sia strampalata, visto che l’insofferenza di Renzi alle critiche è stata più volte lamentata da altri. Ma per il pulpito da cui veniva.
Nessuno come «la volpe del Tavoliere» (copyright di Luigi Pintor) infatti, si è tirato addosso negli ultimi vent’anni la stessa critica. E spesso proprio da sinistra. In nome della quale, estrosamente scravattato, ieri parlava. «D’Alema ha un atteggiamento proprietario del partito», denunciava Gloria Buffo. «Ci vorrebbe un po’ di meno “io” e un po’ di più “noi”», attaccava Claudia Mancina. «Questi qui si sentono migliori del Paese che governano, dell’opinione pubblica, delle cosiddette parti sociali e, se mi posso permettere, degli intellettuali e dei professori», sbuffava Gianfranco Pasquino: «Un atteggiamento classico dei costruttori di regimi: il meglio è al governo, lasciateci lavorare». E Giulia Rodano riassumeva un intervento del «lìder màximo», con parole micidiali: «Il discorso suonava così: la leadership dell’Ulivo spetta alla sinistra e la sinistra sono me».
Ancor più da sinistra Fausto Bertinotti, infastidito dalle ironie sui suoi modi da primadonna, rideva: «In fatto di boria non mi metterei mai in competizione con lui: è il Massimo». E resta indimenticabile il corsivo de «la jena» su «il manifesto» dopo la presa di Palazzo Chigi da parte del Cavaliere nel 2001: «"Non temo il governo Berlusconi perché non credo riuscirà a realizzare quanto ha promesso. Temo piuttosto l’occupazione del potere, vizio antico", ha detto l’onorevole D’Alema. Preoccupazione fondata, tanto più se espressa da un esperto della materia».
Non diversamente la vedevano diversi compagni di strada. Come il socialista Roberto Villetti: «Parla come il capo di un monocolore». O Antonio Di Pietro: «Deve smetterla di pensare di essere un viceré circondato da attacchini o da portatori d’acqua». Finché, quando il luminoso destino al quale sembrava avviato cominciò a oscurarsi, Achille Occhetto e cioè la prima vittima dei suoi modi spicci da rottamatore («Mi disse: “Achille, sei tecnicamente obsoleto”») lo liquidò velenosamente così: «Se è solo non se ne può lamentare. Ha cercato questa solitudine, voleva le mani libere per esaltare le sue mirabolanti capacità…».
Difficile negare che l’allora astro nascente della sinistra avesse fatto di tutto per tirarsi addosso certe critiche. Lo stesso Francesco Cossiga, il primo sponsor del «giovane statista» («Sto diventando un dalemiano di ferro») che per lui meritava l’appoggio nella scalata a Palazzo Chigi, a un certo punto sbottò: «Complimenti vivissimi. Ormai non è più solo il leader del Pds. È anche il leader dell’Ulivo. E se va avanti di questo passo prima o poi diventerà anche il leader del Polo». Fino a spazientirsi: «Ha una vocazione alla totalità: lui al centro e gli altri satelliti. Vuole essere il tutto. E invece in democrazia si può essere solo una parte».
Lo stesso «Baffin di ferro» fece di tutto per tirarsi addosso certe accuse, certe diffidenze, certi sospetti. In particolare ostentando l’allergia a ogni critica. Battute e battutacce di cui gli archivi traboccano. «Una corrente non la voglio. Inesorabilmente avrebbe una maggioranza di stupidi». «Peggio della sinistra c’è solo la destra». «Non leggo Parlato in Italia, figuriamoci all’estero». «Tendo a pensare che i miei critici abbiano torto» «Mi piaccio, non lo nego. So di avere molti difetti ma nondimeno sono abbastanza soddisfatto di me». Fino ad alcune freddure che gli sarebbero state rinfacciate per anni. Come quella sull’incapacità di capire di Sergio Cofferati, ai tempi in cui era il leader indiscusso del sindacato: «Lo spiegheremo anche al dottor Cofferati…». O sugli alleati di governo: «La mia maggioranza? Un mezzo partito, cioè i Ds, e dodici virus». Al che l’allora verde Carlo Ripa di Meana saltò su invelenito: «È un uomo d’insopportabile arroganza. Giunto in età matura, continua a gettare molotov non più su poliziotti e carabinieri ma sugli alleati».
Ogni tanto, quando le critiche riprese dai cronisti (le famose «iene dattilografe») gli creavano problemi, si sfogava: «Non capisco davvero come si sia creata questa immagine di me». Fatto sta che il ritratto più feroce glielo fecero Gino e Michele, gli autori di «Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano» che proprio all’ Unità erano cresciuti: «Ormai Massimo D’Alema è così pieno di sé che sul cruscotto della sua auto ha messo una calamita con la foto di Gesù che lo guarda e la scritta: “Papà, non correre”».
Repubblica 22.3.15
Pd, D’Alema attacca Renzi “Gestione arrogante, va colpito ora rifacciamo noi la sinistra”
Bersani: parole sacrosante. Cuperlo lo critica Orfini: toni da rissa al bar
Guerini: si rassegnino
di Giovanna Casadio
ROMAMassimo D’Alema non doveva intervenire. «No, Massimo non è iscritto a parlare». Garantisce Sesa Amici a apertura dell’assemblea delle sinistre dem all’Acquario Romano. Sinistre al plurale, perché ci sono varie correnti a sinistra nel Pd. Proprio dal disaccordo e dalle divisioni della minoranza interna, D’Alema comincia segnando lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo” nell’assemblea degli anti renziani. L’inizio è minimalista, con la proposta di Alfredo D’Attorre di un coordinamento dei gruppi parlamentari sulle riforme istituzionali per far cambiare opinione al premier. Ma si finisce con un’insurrezione contro Renzi, applausi a ogni “affondo”, critica e contestazione, a cui D’Alema dà il segnale di partenza.
Il leader “rottamato”, e perciò ormai della «sinistra extraparlamentare» - come ironicamente si autodefinisce - sfora di poco i 5 minuti previsti, ma colpisce con precisione millimetrica i bersagli. Attacca la stessa sinistra: «Questa parte del Pd può avere un peso solo se raggiunge un certo grado di unità nell’azione, altrimenti non avrà alcun peso». Secondo bersaglio è il PdR, il Pd di Renzi, «un partito a forte conduzione personale e con un certo carico di arroganza». L’arroganza è quella di Renzi a cui interessa una cosa sola e cioè vincere, perciò ha usato il metodo di tenere insieme il partito per eleggere Mattarella al Quirinale e non certo per afflato unitario. Ragione per cui «non servono ultimatum», stile quelli di Bersani, è il sottinteso, ma bisogna «essere in-tran-si-genti scandisce - e dare dei colpi quando è necessario, facendo in modo che lascino dei segni». Bordata anche sul partito che ha un terzo degli iscritti dei Ds: 200 mila nel Pd contro i 600 mila. E insomma serve «un’associazione per la rinascita della sinistra ». Non è un partito parallelo, però di sicuro l’invito a una scialuppa che, nel caso, possa portare anche altrove dal Pd. Si scatena la resa dei conti tra il lìder Maximo e quelli che in passato sono stati i suoi delfini. Matteo Orfini, ora presidente del Pd, twitta: «Usa toni degni di rissa da bar». Mentre Gianni Cuperlo sferra la stoccata: «D’Alema ha detto cose giustissime. Però dovresti chiederti perché la sinistra ha ceduto culturalmente negli anni in cui ha avuto il potere... se tu e gli altri aveste fatto il vostro dovere forse oggi la montagna sarebbe stata più facile da scalare».
Non basta la risposta con un tweet del vice segretario Lorenzo Guerini alle sinistre: «Renzi ha stravinto il congresso e portato il Pd al 41%, qualcuno se ne faccia una ragione». Nell’assemblea i toni si alzano. Ileana Argentin denuncia: «Non siamo vassalli di nessuno, la minoranza è stata silenziata sulle riforme, questo non è fascismo, di più». Un insegnante precario attacca la riforma della scuola che farebbe «bambini-balilla». Pier Luigi Bersani offre la riscossa: «Da D’Alema pa- role sacrosante, c’è tanto disagio». E soprattutto bacchetta: «Cercare voti a destra è come vendere la casa per andare in affitto». Sel è presente con Nicola Fratoianni. Due minuti di applausi per Rosy Bindi, quanti D’Alema, e non è da meno in bordate: «Il governo non fa cose di sinistra, se avesse fatte queste cose un altro governo non le avremmo votate». Annuncia che non voterà le riforme istituzionali se non saranno modificate e anzi aderirà al referendum per il “no”. La scissione è il convitato di pietra. S’indigna Roberto Speranza: «No, no e no scissione». Civati invita alla scossa: «Oppure l’ultimo spenga la luce». Fassina nega possa nascere un “correntone” dem. Infatti una linea comune proprio non c’è. E tocca a Cuperlo concludere: «Non capivo quando Pier Luigi diceva “il tacchino sul tetto”, ma oggi subito ho compreso la metafora della casa in affitto... quindi, riprendiamoci la casa».
Repubblica 22.2.15
Ma la contro-Leopolda divide i dissidenti
di G. C.
ROMA Un’associazione per la rinascita della sinistra sarebbe dovuta nascere già tempo fa. Una contro-Leopolda. L’idea frulla nella testa di D’Alema da un paio d’anni e ieri la spiega così: «Il sistema Leopolda si va diffondendo, Renzi ha capito benissimo che si vince dall’interno e dall’esterno. Perciò noi dobbiamo trovare un modo creativo di organizzare, non di fare iscritti a correnti, ma di creare una grande associazione per il rinnovamento e la rinascita della sinistra».
Un modo per andare “oltre” il Pd, non per fare un partito parallelo o una galassia dei movimenti, pensato molto prima della “coalizione sociale” di Maurizio Landini. Certo un progetto insidioso per Renzi, che evoca possibili scissioni. Più ampio rispetto a Red - la corrente dalemiana durante la segreteria dem di Veltroni. Il rischio è che l’acronimo “Ars” si confonda con quello dell’Associazione di rinnovamento della sinistra di Aldo Tortorella.
Comunque la proposta è accolta dal gelo nell’assemblea delle sinistre dem. Piace a Pippo Civati, dato in uscita da mesi ormai dal Pd di Renzi: «Riferendomi alla proposta di D’Alema, vorrei dire che l’impegno dentro e fuori il Parlamento già lo faccio perché molti miei elettori alle primarie se ne sono andati dal Pd». Non dispiace a Barbara Pollastrini, che con Gianni Cuperlo ha fondato Sinistradem, e che infatti chiede un Pd attento a «quello che si dirà nella piazza» di Libera ieri a Bologna e del 28 a Roma per la manifestazione della Fiom, anche perché «il Pd senza la sinistra semplicemente non è». Ma il terreno è minato e scatena il “no” delle altre correnti. I bersaniani Alfredo D’Attorre e Miguel Gotor lanciano semplicemente un coordinamento dei gruppi parlamentari dem che, da ora alle regionali, individui un elenco di modifiche alle riforme della Costituzione e della legge elettorale. Un tavolo di lavoro anche con Renzi e la ministra Boschi.
Un po’ troppo poco secondo altri. Un po’ troppo invece per Nico Stumpo che, a nome di Area riformista la corrente di Roberto Speranza, frena: «No, non siamo d’accordo ». Nessuna briglia in pratica sul voto contro le riforme se non dovessero passare le modifiche. È l’ex segretario Pier Luigi Bersani - che più aveva puntato a un coordinamento politico come epilogo dell’assemblea delle sinistre dem - a cercare un seguito all’iniziativa di ieri: «Facciamo qualcosa in estate in un luogo che assomigli a un Palazzetto per lanciare alcune idee basiche». Ai bersaniani la cosa piace. Chiara Geloni, con orecchini-gufo (perché Renzi accusa gli anti renziani di “gufare”) pensa che bisognerebbe cominciare a organizzare. Vincenzo Vita, come tutti i civatiani, guarda piuttosto a Landini, e anche qui l’Ars dalemiana è scavalcata. ( g. c.)
Repubblica 22.3.15
Quegli ex dalemiani all’attacco del padre così va in scena l’autocoscienza dem
Gli affondi di Cuperlo e di Orfini, storici collaboratori dell’ex leader, all’assemblea Pd segnano una resa dei conti generazionale
di Filippo Ceccarelli
ESISTONO riunioni politiche che anche senza volerlo finiscono per assomigliare a sedute di autocoscienza famigliare in cui padri, zii, figli, fratelli e nonni se ne dicono e se ne rinfacciano di tutti i colori senza che alcuno si senta in colpa, quando tutti invece sono colpevoli.
Di Massimo D’Alema, che ieri ha impresso il suo marchio incandescente sull’assemblea della minoranza Pd raccoltasi in un luogo che si chiama — oh, guarda un po’! — “l’Acquario”, ecco, dell’ex Leader Maximo si può pensare tutto il male possibile, ma non che sia un uomo ignorante.
Così quando ha cercato di sfondare Renzi aveva di sicuro in testa un celebre passo di Gramsci, di quelli che nelle scuole di partito si mandavano a mente: «Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza». E qui il giudizio del pensatore sardo si fa così tagliente da violare le logiche, i canoni e i tabù di classe: «È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere».
Il brano di Gramsci, poco solidale con i camerieri, ma molto acuto e parecchio calzante alle dinamiche della sinistra, attribuisce a colui che «rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente» un ruolo minore e perfino disprezzabile, quello dei “costruttori di soffitte”. I palazzi infatti li hanno edificati i padri, ma i figli li accusano di non averli fatti a dieci o a trenta piani: «Dite di esser capaci di costruire cattedrali — conclude Gramsci — ma non siete capaci che di costruire soffitte ».
D’Alema ha ottenuto i suoi applausi. Ma già Cuperlo, che per tanti anni è vissuto al centro del dalemismo reale, si preparava a prendere le distanze non tanto dal D’Alema di oggi, ma da quello che non ha fatto il suo dovere nel passato. E poiché anche Cuperlo ha letto Gramsci, la sua recriminazione vale almeno il doppio, e il suo ex capo se n’è dispiaciuto giudicandola insensata.
Matteo Orfini, d’altra parte, che di D’Alema pareva aver mutuato addirittura il timbro e l’eloquio, ieri nemmeno s’è affacciato all’”Acquario”. Renzi in effetti se l’è ben scelto come presidente del Pd e siccome il giovane turco ha capito rapidamente cosa ci si aspetta da lui, ieri ha fatto un tweet accusando D’Alema di aver usato “toni degni di una rissa da bar” — là dove l’antica consuetudine gli dava la certezza di avergli messo un dito nell’occhio.
Ora, Renzi la fa gramscianamente un po’ facile non solo con le soffitte, ma ci mette pure le cantine, il garage, gli appartamenti, la chiostrina, i lastrici solari e le antenne della tv. Stringi stringi, la sua migliore saggezza sta nel dire: io non c’ero. Perciò rottama chi gli pare, come gli pare, quando gli pare, e se ne compiace osservando i dilemmi di quella parte del Pd che lo contrasta: «Se si chiama minoranza, c’è un motivo ed è perché ha perso».
Non è carino dirlo. Ma non sarà né il primo né l’ultimo a pensarlo. Si può notare semmai che in questo genere di arroganza impetuosa e a tutto tondo, di puro potere, Matteo ricorda Fanfani e Craxi; mentre De Mita e lo stesso D’Alema si distinguevano piuttosto per una arroganza, o magari è superbia, comunque di tipo intellettuale, di cui Renzi è privo.
Qualche mese fa, forse un po’ pateticamente, Camusso è sfilata contro il governo indossando una maglietta con su scritto: «Arrogance, profumo di premier ». Sennonché, oltre a essere arrogante, quale prodotto dell’evoluzione della specie in un tempo di personalismo leaderistico e post-ideologico, spesso Renzi rivendica questo suo tratto. Meglio arrogante, dice, che vigliacco; meglio arrogante che disertore; meglio arrogante che arrendermi e così via, in un continuo di “ce ne faremo una ragione”, “non accettiamo lezioni” e altri plurali che in risposta alle critiche sulla decretazione d’urgenza fino all’uso del “Renzicottero” suonano sempre più majestatis.
Anche D’Alema, come si diceva, non è che ai suoi tempi e anche oggi sia da considerarsi un dilettante dell’arroganza. Esiste in proposito una vasta letteratura non priva di auto-ammissioni e di autentiche perle, alcune perfino “postume”, cioè elargite dopo la rottamazione. Una registrata a Napoli: “Sapete che ho un’alta concezione di me. Ho mediato tra israeliani e palestinesi, non sono venuto qui per mediare tra bassoliniani e anti-bassoliniani». L’altra, accogliendo quasi paterno il ciao di Serracchiani: «Cara, hai fatto la tua fortuna su di me».
Ecco, anche all’”Acquario” la fortuna è capricciosa. Ma con l’ausilio di Gramsci, la collaborazione di Cuperlo e la competenza di Orfini per una volta la dea bendata sembra che abbia ha poco a che fare con gli inevitabili psicodrammi del post dalemismo inter-famigliare e meta-generazionale.
Il Sole 22.3.15
Battaglia legittima ma senza proposta
di Emilia Patta
Quando l’ex premier Massimo D’Alema propone alle minoranze del Pd di dar vita a «una grande associazione per il rinnovamento e la rinascita della sinistra che non sia e non voglia essere un nuovo partito ma si proponga di offrire uno spazio di partecipazione e riflessione ai cittadini, membri del Pd o no» non pensa certo a una futura scissione. Anche l’ex segretario Pier Luigi Bersani, che apprezza la proposta, parla di «una sinistra combattiva ma dentro casa nostra». I due ex leader della sinistra sono troppo accorti per lanciarsi in avventure a dir poco rischiose lasciando la casa madre che hanno contribuito a fondare. E hanno per di più poco a che spartire con la sinistra arrabbiata alla Landini. D’Alema e Bersani pensano a quegli elettori della sinistra del Pd che non hanno rinnovato la tessera e che in parte si sono rifugiati nell’astensione, e legittimamente vogliono dare loro voce dentro il partito. Certo, drammatizzare l'uscita dal partito del “popolo della sinistra” suona un po' stravagante a fronte dei risultati elettorali del Pd renziano, arrivato a superare il 40% laddove il Pd di Bersani si è fermato due anni fa poco sopra il 25%. Tuttavia il progetto lanciato ieri è del tutto legittimo, e i due leader pensano naturalmente a costruire una possibile alternativa in vista del prossimo congresso. D’altra parte lo stesso Matteo Renzi, quando era ancora sindaco di Firenze, ha preparato la sua scalata al partito dando vita alla Leopolda, un’esperienza del tutto nuova che guardava oltre i confini del Pd.
Quello che però la giornata di ieri evidenzia è la mancanza di una proposta politica alternativa, a parte le critiche agli ormai famosi capilista bloccati dell’Italicum. E una vera proposta politica alternativa a Renzi – lasciando possibilmente da parte gli attacchi al Pd renziano “ricettacolo di trasformismo”, parole che rischiano di far venir meno le ragioni dello stare insieme pur nella diversità di idee – non può nascere senza una riflessione seria su quanto accaduto negli ultimi anni. Innanzitutto le ragioni che hanno portato alla débâcle del febbraio 2013 di fronte al nuovo populismo del Movimento 5 stelle in un momento in cui l’avversario storico, Berlusconi, perdeva 9 milioni di voti. E non è che subito dopo Renzi abbia fatto un colpo di mano portando via alla vecchia dirigenza di provenienza diessina le chiavi della ditta. Ci sono state delle primarie molto partecipate che l’attuale segretario e premier ha stravinto mentre la lista guidata da Gianni Cuperlo e appoggiata sia da D’Alema sia da Bersani ha raccolto il 18%. Proprio ieri Cuperlo ha cominciato a ragionare sulle colpe dei padri ma sembra aver dimenticato quel 18% sotto il suo nome. La sinistra del Pd, a partire dai suoi componenti più giovani, non ha altra strada che ricominciare a fare politica uscendo dalla logica dell’accusa ai “padri” e dalla sfera della pura recriminazione che sfocia in giudizi personali e morali sul renzismo. E con i giudizi personali e morali, come insegna la decennale opposizione a Berlusconi, non si fa politica.
il manifesto 22.3.15
Riunite sì, unite mai, le sinistre Pd
Democrack. La convention delle minoranze dem a Renzi: ora un tavolo sulle riforme
Ma Guerini: Matteo ha stravinto, fatevene una ragione
I consigli del D’Alema «extraparlamentare». Cuperlo sbotta: pensa a quando eri al potere tu
di Daniela Preziosi
qui
Corriere 22.3.15
Il leader: nel Pd io ho i numeri
Non mi trascineranno in risse
di Maria Teresa Meli
ROMA Prima di diventare segretario del Pd Matteo Renzi aveva proposto: «Rottamiamo le correnti». Quando è diventato leader del partito ha capito che di tutte le imprese che si accingeva a compiere quella era la più improba. Perciò un mesetto fa si era limitato a questo appello: «Vorrei che fiorissero più idee e meno correnti». Ma non c’è stato verso di cambiare l’insopprimibile tendenza del Partito democratico a dividersi e ad attaccare il segretario di turno. Ieri ne ha avuto un esempio lampante. Massimo D’Alema è partito a testa bassa contro di lui. Gli ha dato dell’arrogante («detto da lui», ha ironizzato il presidente del Consiglio con gli amici) e poi giù un lungo elenco di accuse e l’incitamento alla rivolta della minoranza interna.
«Colpi della vecchia guardia» li ha definiti con i suoi il presidente del Consiglio. E ha aggiunto: «Mi si vuole provocare per trascinarmi in una rissa ma io non ho né voglia né tempo, devo occuparmi di cose concrete e non di polemiche». Cose concrete come la decisione che dovrà prendere sul ministero delle Infrastrutture. Il premier ha spiegato che terrà l’interim «per un breve» periodo. Il che non vuol dire brevissimo. Renzi infatti intende arrivare a una soluzione che dovrebbe comportare anche un ricambio dei sottosegretari di quel dicastero. Un vero repulisti. Parlerà di tutto questo, domani, con Mattarella. È comprensibile, quindi, che la sua attenzione sia rivolta altrove.
Ma il problema è che non c’è solo D’Alema a suonare la carica. Per quanto divisa, la minoranza, seppur con toni diversi, ha lasciato capire che non farà più sconti al segretario, né dentro il partito né in Parlamento. Il leader non vuole incendiare gli animi, anche se certi atteggiamenti non gli piacciono per niente: «La minoranza, ora che non c’è più il patto del Nazareno pensa di tenermi in ostaggio, ma non c’è la farà, i numeri nel Pd ce li ho io». Però tutte queste «manovre di posizionamento» non lo convincono per niente, anche in vista dei prossimi, importanti, appuntamenti, parlamentari. «Io – ha spiegato – ho vinto le primarie con il 68 per cento e alle Europee ho portato il Partito democratico al 41 per cento. Se qualcuno vuole cambiare il segretario dovrà aspettare il 2017 quando ci sarà il prossimo congresso del Pd, allora chi vuole potrà cercare di prendersi la sua rivincita. Ma adesso dovremmo lavorare tutti insieme perché le cose da fare sono tante e il Paese è a un punto di svolta importante».
Insomma, il premier non vorrebbe che si vanificasse ciò che è stato fatto finora per le beghe interne. «Peraltro — è il ragionamento che fa il segretario — la nostra gente non ne può più delle nostre divisioni. Vuole vederci impegnati a trovare soluzioni per i problemi degli italiani. Che senso ha sprecare tempo in polemiche sterili?».
Polemiche che, del resto, sembrano attraversare la stessa minoranza, divisa più che mai al suo interno. Una parte di quell’area sembra quasi propendere per la scissione, sebbene il presidente del Consiglio sia convinto che, nel caso in cui dovesse veramente nascere un soggetto politico guidato da Landini, «alla fine ci entrerebbero solo quelli di Sel».
Lo spettacolo di questo Pd in ordine sparso a pochissimi mesi dalle regionali non fa piacere al premier, che ha ripetuto più volte di «non pretendere obbedienza» dai parlamentari, ma «lealtà, sì». Senza quel collante, a suo avviso, una forza politica perde la propria ragione sociale. E proprio perché alla prossima tornata elettorale manca poco, Renzi dovrà, ancora una volta, fare affidamento sull’azione del suo governo che ha intenzione di rilanciare, dopo la battuta d’arresto del «caso Lupi». Anche per questa ragione vuole applicarsi seriamente a risolvere la questione del ministero delle Infrastrutture.
il Fatto 22.3.15
Caporalato alle primarie, Eboli è già un caso
Tratta di stranieri: documenti italiani per votare ai gazebo democratici
di Eduardo Di Blasi
La Procura Distrettuale Antimafia di Salerno, dopo due anni di indagini da parte del Ros, ha smantellato venerdì una organizzazione di rumeni e italiani che nella piana di Eboli è accusata di aver ridotto in schiavitù decine di braccianti agricoli provenienti dall’Est Europa. Questi braccianti resi servi nelle campagne campane, alle primarie del Pd hanno votato Matteo Renzi (l’8 dicembre 2013, nella sfida con Gianni Cuperlo e Pippo Civati) e Assunta Tartaglione (a quelle più recenti del febbraio 2014 che mettevano in palio la segreteria regionale del partito).
Dopo le tante denunce arrivate in diverse competizioni ai gazebo democratici (da Napoli a Genova), è questo il primo caso documentato da un tribunale di caporalato elettorale (con tanto di furgoni che accompagnano i neoelettori del Pd ai seggi elettorali).
Senza scomodare Primo Levi, la litoranea di Eboli è del resto da sempre una terra di mezzo. Attaccata a una campagna, quella della piana del Sele tenuta a ortaggi e frutta, non ha mai avuto una vocazione turistica nonostante i molti camping che ne tagliano la via al mare e il vicino parco archeologico di Paestum.
E proprio un campeggio, il “Miceli” è il buco nero da cui, anni fa, riuscirono a fuggire Katilin, Nicoleta, Mariana e Florica. Le quattro donne tornarono in Romania e raccontarono l’orrore di quel camping in cui erano costrette a dimorare: senza acqua calda né luce elettrica, stipate nella stessa stanza che a volte non aveva nemmeno i vetri alle finestre. Dormivano su materassi sudici, con un unico bagno e un’unica cucina per tutti.
LA STORIA è quella comune ai tanti immigrati arrivati in Italia e finiti nella trappola dello sfruttamento. Loro erano approdate qui con il miraggio di un lavoro dignitoso. Come è prassi avevano tolto loro i documenti, e chiesto soldi per il viaggio, per il fitto nel camping lager, per il rilascio dei documenti e anche per il trasporto quotidiano ai campi dove venivano vendute per due lire che spesso nemmeno vedevano. Poi, certo, c’era anche la politica.
È QUI CHE entra in scena Giuseppe Mazzini, 67 anni, all’epoca capo area del settore demografico del Comune di Eboli, oggi ai domiciliari, che aveva ambizione di divenire consigliere comunale. Mazzini per la banda ha un ruolo centrale: dal suo ufficio all’Anagrafe municipale può agevolare (e falsificare) le pratiche per il rilascio di documenti. Quelle che, per i rumeni comunitari, equivalgono a una carta di identità. Lui lo fa ricevendo in cambio cassette di frutta e, soprattutto, voti. Nell’ordinanza firmata dal Gip Stefano Berni Canani, si racconta di come il funzionario si fosse recato da Liviu Bldijar, considerato a capo dell’associazione, il 6 dicembre, due giorni prima delle primarie che elessero Renzi alla guida dei Democratici portandogli il fac-simile di “San Matteo” e augurandosi di riuscire a portare sessanta voti alla causa. Chiariva pure che ai 2 euro necessari per esprimere la preferenza avrebbe provveduto lui. La macchina non pareva funzionare granché al mattino: Mazzini chiama Boldijar per sgridarlo dei soli 13 voti rumeni che era riuscito a portare al seggio di Santa Cecilia. Boldijar doveva aver preso la cosa maledettamente sul serio se nel pomeriggio dell’8 dicembre Mazzini dovette chiamarlo per chiedergli di “interrompere il flusso dei votanti”, “non prima – si legge nell’ordinanza – di averlo esortato ad appuntarsi i nominativi di coloro che aveva convogliato verso il voto, poichè essi avrebbero costituito un utile serbatoio di elettori per le successive elezioni”. A quelle primarie, del resto, nella città di Eboli Renzi prese 1.717 voti, contro i 914 di Gianni Cuperlo e i 77 di Pippo Civati.
ANCHE IL 17 FEBBRAIO del 2014 i caporali, invece di portare i romeni nei campi, li portano ai gazebo del Pd, in primis in quello di Santa Cecilia di Eboli (definito il seggio “dove votano questi qua”). Nel pomeriggio Mazzini chiama il sindaco di Eboli Martino Melchionda facendogli notare “di aver decisamente contribuito alla votazione della candidata di riferimento del sindaco, Assunta Tartaglione, convogliando verso di lei” 400 voti complessivamente. I voti di Mazzini non basteranno se la “renziana” Tartaglione (eletta al livello regionale con il 58,5% dei consensi) a Eboli prese 1.200 voti, contro i 1.400 dello sfidante Guglielmo Vaccaro, appoggiato in zona dall’ancora potente ex ministro alle Aree Urbane del governo Craxi, il socialista Carmelo Conte.
il Fatto 22.3.15
Ancora tu
Nencini, tutti i dolori dell’altro fiorentino
Una carriera iniziata ai tempi di Craxi e portata avanti da Berlusconibal Rottamatore
Chi è il viceministro nell’esecutivo
di Antonio Massari e Davide Vecchi
Ha attraversato Prima e Seconda Repubblica riuscendo a raggiungere l’era renziana rimanendo in sella. L’ascesa di Riccardo Nencini ha quasi dell’incredibile. È sopravvissuto a Bettino Craxi e alla devastazione del Psi post Tangentopoli, ha attraversato indenne l’era berlusconiana nonostante l’amicizia con Riccardo Fusi – già socio di Denis Verdini – e gli uomini della Cricca, traghettando i socialisti fino al governo del rottamatore nel quale è oggi viceministro alle Infrastrutture. Ora si è ritrovato anche nell’inchiesta che ha portato in carcere Ercole Incalza e costretto alle dimissioni Maurizio Lupi. Secondo quanto emerge dalle carte dei 22 faldoni dell’inchiesta denominata “Sistema”, Nencini si sarebbe adoperato per piazzare alcuni suoi uomini, quasi tutti socialisti. Per carità: Nencini non è indagato. Anche se i carabinieri del Ros sottolineano la necessità di “approfondire i rapporti tra il senatore e Giulio Burchi”, il manager alla continua ricerca di incarichi. Proprio attraverso Burchi, nel maggio 2014, Nencini riesce a sistemare uno dei suoi. Gli inquirenti sintetizzano cosi la vicenda: “Burchi, dopo aver incontrato Fabrizio Magnani, capo della segreteria del viceministro alle Infrastrutture Nencini, fa emergere che quest’ultimo gli ha richiesto di trovare una sistemazione, possibilmente come revisore dei conti, a Enzo Collio, ex esponente del Partito socialista italiano”. Detto fatto. Collio riceve un incarico alla Mobilità Serenissima Srl. “Ti ringrazio anche a nome di Riccardo”, dice Magnani a operazione avvenuta. Al Fatto Quotidiano, ieri Magnani ha tenuto a precisare che conosce “Burchi da una decina di anni”. E spiega: “Ho sottoposto a Burchi due curricula di personalità qualificate, uno dei quali viene utilizzato. I rapporti con Burchi li ho sempre gestiti personalmente”.
IL SENATORE, contattato dal Fatto, ha preferito non commentare, ma si è fatto intervistare dal sito de L’Avanti! per lamentarsi: “Ci aggrediscono perché siamo socialisti”. Intanto attraverso il suo portavoce ha sottolineato come il suo nome sia stato fatto da altri e al momento non ci sono intercettazioni che lo coinvolgono direttamente.
Nencini era già finito nell’inchiesta della Cricca della Protezione civile. Rassicurava l’amico Fusi, assopigliatutto degli appalti, sui buoni uffici con Guido Bertolaso per la ricostruzione post sismica de L’Aquila, per esempio. “Ascolta bello, io sto venendo via ora da L’Aquila, ho parlato di te ma lì sei conosciuto”, dice a Fusi che però insiste nel cercare il suo aiuto. E Nencini lo rassicura: “Io ho fatto un passaggio, tra l’altro ho visto, ho parlato da solo con Bertolaso… eh, ti richiamo io vai”. Era il 19 luglio 2009. Per carità: questione di amicizie. Fa specie semmai che tutti i gruppi di potere che hanno messo le mani sugli appalti negli ultimi anni siano toscani. Cricche diverse, di ieri e di oggi, ma comunque gigliate. E in rapporti di amicizia con Nencini. Ma è comprensibile: nonostante volto o modi giovanili, il viceministro è un politico di lungo corso. Basti pensare che è stato presidente del consiglio regionale per dieci anni secchi, dal 2000 al 2010, poi assessore al Bilancio fino al 2013 nella giunta guidata da Enrico Rossi. Ma il suo esordio in politica risale al 1985 e allora come oggi Nencini si dice “orgoglioso di essere socialista”. In trent’anni di trasformismi, di fatto, già la coerenza è un merito.
NATO A BARBERINO del Mugello nell’ottobre 1959, ad appena 26 anni Nencini diventa segretario fiorentino del Psi e in questa veste, negli anni compresi tra il 1988 e il 1990 riesce a imporre il capoluogo toscano come succursale del partito che comunque aveva il fulcro a Milano. Il secondo governo Craxi era già caduto ma a Firenze i socialisti avevano conquistato Palazzo Vecchio con Massimo Bogianckino, indimenticato sindaco arrivato tardi alla politica dopo una vita da musicista e dopo aver guidato, tra l’altro, il Théâtre national de l’Opéra de Paris. Quando nel 1989 il primo cittadino è costretto a dimettersi per motivi di salute, l’attivismo di Nencini porta i vertici del partito, Craxi e Claudio Martelli, a Firenze. Il 13 novembre 1990 Nencini fiero annuncia: “Craxi presenterà il programma nazionale dell’Unità Socialista qui a Firenze”. Si guadagnò un posto alla Camera, era l’aprile del 1992, Tangentopoli era appena cominciata, ma non era ancora sinonimo del Psi, tanto che alle elezioni il partito prese il 13,5% – solo un punto percentuale meno della tornata precedente – e fu Craxi a salire al Colle consegnando al capo dello Stato il nome di Giuliano Amato come premier o, in alternativa, Gianni De Michelis. Il governo Amato durò un anno. Il Psi due mesi in più. Nencini è ancora qui. Negli anni in cui Craxi scappò in Tunisia lui preferì rifugiarsi al Parlamento europeo. Da Bruxelles guidava il nuovo partito “SI” i socialisti senza la
P. E quando gli ex del Garofano andarono ad Hammamet per implorare Craxi di mettersi alla guida di un nuovo movimento socialista, Nencini commentò: “La storia non si ripete mai, quando lo fa, si trasforma in farsa”. Ma nel dubbio che fosse poco chiaro, specificò: “La proposta fatta a Craxi sa di farsa”. È coerente, Nencini. E veloce. Riuscì persino a scansare Denis Verdini quando nel 2010, l’ex socio dell’amico Riccardo Fusi, lo attaccò insieme a Enrico Rossi per l’affidamento dell’appalto per quattro nuovi ospedali toscani. Nencini disse: “Ero contrario prima all’uso politico delle intercettazioni e lo rimango ancora”. Sono passati cinque anni e oggi Nencini, commentando l’inchiesta su Incalza, conferma la sua posizione. O almeno ciò che riguarda lui. Perché le cronache degli ultimi giorni non riportano una sua presa di posizione in difesa di Maurizio Lupi che, seppur non indagato, ha lasciato l’esecutivo soprattutto a seguito della diffusione di alcune intercettazioni che lo riguardavano. Ma non dopo aver giustificato una telefonata in cui Lupi diceva a Incalza di aver nominato Nencini viceministro dopo una “tua sponsorizzazione”. Nencini ha invitato Lupi a correggersi pubblicamente. E l’ex ministro lo ha fatto: “Con Incalza scherzavo”. E poi è andato a casa. Lupi.
il Fatto 22.3.15
La replica: “Attaccati perché socialisti”
A NOI NON RISPONDE nemmeno al telefono. Il vice ministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini affida però a quello che è rimasto del quotidiano socialista l’Avanti! (l’Avantionline) le proprie doglianze. Obiettivo: Il Fatto Quotidiano che ne chiede le dimissioni. Gli chiedono perchè. Risponde: “Da quel giornale di certo non solo non c’è mai stato amore per il riformismo socialista, ma neanche neutralità per i socialisti italiani. Ora si utilizza una calunnia per mettere in difficoltà un vice ministro socialista e il suo partito”. Gli richiedono: “Dunque ‘antisocialismo’ e basta?”. Risposta: “Quando si è in assenza di fatti, si passa alla calunnia. La calunnia, come diceva Falcone, è l’anticamera del sospetto. Non riesco a trovare un’altra spiegazione”.
il Fatto 22.3.15
Renzi ha paura, si tiene i sottosegretari indagati
Troppi cambi renderebbero obbligato un nuovo passaggio alle Camere
Così il premier preferisce difendere lo status quo
di Paola Zanca
L’asticella è fissata sul numero 2, al massimo può arrivare a 3. Niente più cambi per il governo. Altrimenti, è il messaggio chiaro del Quirinale, “sarebbe un Renzi-bis”. E, come ogni nuovo esecutivo, avrebbe bisogno della fiducia del Parlamento. Così, il presidente del Consiglio si appresta a salire al Colle, domani, con lo stretto indispensabile per riempire il buco lasciato dalle dimissioni di Maurizio Lupi. Per i sottosegretari indagati e per rispondere alle critiche di chi lo accusa di “due pesi e due misure” ci sarà un tempo che, stando ai pronostici, potrebbe non arrivare mai.
A QUARANTOTTO ORE dal primo vero guaio per il governo Renzi, il premier ha dovuto ammettere prima di tutto a se stesso che gli conviene volare piuttosto basso. E che non può rischiare passaggi alle Camere da cui non è detto che uscirebbe indenne. Così, le veline che lo descrivevano in profonda riflessione sull’ipotesi di cacciare da palazzo Chigi chiunque avesse questioni aperte con la giustizia, al momento sono già diventate carta straccia. Da una parte tutti i sottosegretari attenzionati (la Barracciu, Del Basso De Caro, Castiglione, De Filippo, Faraone) hanno, in vario modo, proclamato la loro estraneità ai fatti o, in altri casi, rivendicato che Renzi se li era presi già così. Dall’altra, dal partito democratico è arrivata la difesa d’ufficio: “Lupi si è dimesso per opportunità politica – ha detto il capogruppo alla Camera Roberto Speranza – Noi restiamo garantisti fino al terzo grado di giudizio”.
LA VERA GRANA per il premier – che domani prenderà l’interim del ministero delle Infrastrutture per poi cederlo, forse addirittura dopo le Regionali e l’inaugurazione di Expo, a un fedelissimo come Graziano Del-rio – sono i tumulti dell’Ncd. Il partitino di Angelino Alfano, in un clima da fratelli coltelli come quello che si è visto ieri all’assemblea delle minoranze Pd, resta l’ago della bilancia. Ma se finora la vulgata consentiva a Renzi di non preoccuparsi, perché tanto gli Ncd non si sarebbero mai schiodati dalla poltrona, dopo il caso Lupi perfino lì, nei limiti del possibile, le acque si sono agitate. Ieri, Nunzia De Girolamo, capogruppo alla Camera e “leader” dei guerrafondai, ha chiesto un congresso straordinario. Slogan: “Basta essere subalterni nei confronti di un premier che ha una arroganza insopportabile”. Per la verità, il segretario Alfano è su tutt’altra linea: “Lasciare ora il governo sarebbe da pazzi”. Lui ha trovato il vero colpevole di tutta questa storia: i giornali. “Se un problema riguarda il Pd – ha detto – la chiudono in 24 ore. Si ricordano di essere liberi solo quando attaccano noi”. Il Pd, comunque, si ricorderà di loro. Il posto al governo per Gaetano Quagliariello è già pronto. Andrà agli Affari Regionali, anche se è ancora tutta da giocare la partita sulla delega ai fondi europei, ovvero la cassa di un ministero altrimenti solo di facciata. Ora la gestisce Delrio, Quagliariello la considera indispensabile per accettare l’incarico. Si vedrà domani, da Mattarella. L’importante è non cambiare troppo.
Corriere 22.3.15
La «resistenza» dei sottosegretari nel mirino
I membri del governo coinvolti in vicende giudiziarie fanno muro contro l’ipotesi della loro estromissione
Del Basso De Caro: la mozione di sfiducia su di me? È stata respinta
Barracciu: ho già dato in Sardegna
di T. Lab.
ROMA «A parte che non succederà nulla di nulla, com’è ovvio, mi spiegate io quante volte debbo essere crocifisso per questa storia?». All’appuntamento tra Matteo Renzi e Sergio Mattarella, che si vedranno domani per parlare del riassetto del governo tra ministri dimessi (Maurizio Lupi) e sottosegretari indagati, mancano ormai poche ore.
E Umberto Del Basso De Caro, uno dei sottosegretari nel mirino, più che organizzare la «resistenza» al ministero, racconta di tutte le volte che è «già sceso vivo» dalla medesima croce. «Vedete», scandisce il deputato pd, noto penalista campano che ha avuto tra i suoi assistiti anche Bettino Craxi, «c’è una data che dovete appuntare ben bene: 18 novembre 2014. In quella data, la Procura della Repubblica di Napoli ha presentato richiesta di archiviazione nei miei confronti per non sussistenza del fatto. Ma mica è tutto…». Infatti, Del Basso De Caro rivendica di essere «l’unico sottosegretario indagato già stato sottoposto a mozione di sfiducia. È successo al Senato: 169 voti contro la mozione. E solo 8 voti contro di me, tutti del M5S. Dov’erano finiti gli altri grillini? Scappati via per la vergogna».
Giuseppe Castiglione, ras siciliano del Nuovo centrodestra e sottosegretario all’Agricoltura, risolve il problema alla radice: «Perché, per me, problema non c’è. Non sono indagato, nessun magistrato mi ha mai chiamato, non ho mai ricevuto avvisi di garanzia».
L’inchiesta in questione è quella relativa al centro di accoglienza di Mineo, provincia di Catania. E riguarda una gara d’appalto che, dice, «è stata bandita quando io non ero più soggetto attuatore da un anno e mezzo». Comunque sia, Castiglione difende quel centro d’accoglienza («Andate a leggere quello che ha scritto Salvini dopo averlo visitato. Sembra un hotel a cinque stelle, hanno il wi-fi, i campi da calcio»), difende la permanenza sua e del suo partito al governo («Abbiamo fatto cose fantastiche, anche grazie al lavoro di Maurizio Lupi») e, per il prossimo futuro, giura che si autotutelerà da «questo modo che ti impedisce di fare politica come si deve». Come? «Io amo fare programmazione politica. Ma come faccio a tutelarmi rispetto alla burocrazia a cui è affidata la gestione delle cose? Allora mettiamo telecamere e microfoni negli uffici, filmiamo tutto, registriamo tutto…». L’uscita di scena dal governo, ovviamente, non è nel novero delle cose.
Come non lo è per Francesca Barracciu, del Pd, sottosegretaria ai Beni culturali indagata — insieme a molti colleghi, per l’epoca in cui era consigliere regionale — per le spese pazze in Sardegna. «Ho già dato», fa sapere agli amici, ricordando che quell’inchiesta gli è costata il passo indietro dalla corsa a governatore. Fuori da questi schemini c’è, invece, il viceministro all’Interno Filippo Bubbico, altro pd, che ha già festeggiato l’happy end della sua vicenda. Quando nacque il governo era sottoposto a giudizio per abuso d’ufficio. Ha rinunciato alla prescrizione e, a dicembre, è stato assolto perché il fatto non sussiste. Anzi, al passato, non sussisteva.
il Fatto 22.3.15
I pm: archiviazione per papà Renzi
Indagato per bancarotta fraudolenta
Una buona notizia, un po’ me l’aspettavo”. Così Tiziano Renzi commenta la richiesta di archiviazione nei suoi confronti decisa dai magistrati di Genova per il fascicolo sulla cessione della società di famiglia, la Chil Srl, per cui un anno fa era stato iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di bancarotta fraudolenta. Il gip dovrà ora decidere se accoglierla.
CON RENZI SENIOR erano indagati per lo stesso reato anche gli amministratori a cui il padre del premier nel 2010 aveva ceduto l’azienda: Antonello Gabelli e Mariano Massone. Ma per loro si va verso il rinvio a giudizio. I due sono accusati perché “in concorso, quali amministratore di diritto il primo e di fatto il secondo, distraevano parte del patrimonio della Chil Post facendole assumere debiti di terzi senza alcuna contropartita, effettuando pagamenti non giustificati, dirottando a terzi somme ricevute in pagamento di prestazioni rese e non contabilizzando pagamenti ricevuti”. Inizialmente l’ipotesi accusatoria riteneva Tiziano Renzi responsabile di aver spogliato l’azienda della parte sana, ceduta alla società intestata alla moglie Laura Bovoli (Eventi6 srl), e lasciando alla Chil solamente i debiti. Tra questi, fra l’altro, un mutuo chirografo da 500 mila euro poi in parte coperto nel febbraio 2014 dal fondo a garanzia del ministero del Tesoro. A insospettire i pm fu il prezzo di vendita da marito a moglie: poco più di 3.000 euro per contratti in essere e beni quantificati dagli stessi pm in 1,3 milioni.
Col trasferimento è stato messo in salvo anche il Tfr di Matteo Renzi. L’oggi premier, infatti, nel 2004 venne assunto alla Chil come dirigente. Il contratto fu firmato due settimane prima l’ufficializzazione della sua candidatura alla presidenza della Provincia. Per oltre dieci anni (fino a pochi mesi dopo l’insediamento a Palazzo Chigi) Provincia, Comune e Governo gli hanno versato i contributi per oltre 250 mila euro. Fino al 2004 era un collaboratore continuativo (co.co.co) e il suo compenso annuo era di appena 14 mila euro lordi. Un contratto, va detto, con cui anche le sue due sorelle Matilde e Benedetta sono da sempre inquadrate. I magistrati genovese hanno verificato i vari spostamenti di denaro, le cessioni del ramo di azienda e il trasferimento di proprietà, concludendo che il padre del premier non ha commesso alcun reato.
Il Sole 22.3.15
L’inchiesta di Genova. L’accusa era bancarotta
La procura chiede l’archiviazione per il padre di Renzi
di S. Mo.
La procura di Genova chiede l’archiviazione per il padre del premier Matteo Renzi. Gli inquirenti hanno chiuso le indagini per la vicenda che vedeva coinvolto Tiziano Renzi dentro un caso di presunta bancarotta fraudolenta, ma ritengono che non ci siano elementi per andare avanti con l’impianto accusatorio (dopo aver chiesto una proroga di indagine). Ora spetta al gip decidere se accogliere o meno la richiesta di archiviazione.
L’indagine era nata dopo il fallimento della società Chil Post srl, che distribuiva di giornali e volantini. Gli amministratori Antonello Gabelli e Mariano Massone subentrarono a Tiziano Renzi nella gestione della Chil post nel 2010, e i pm successivamente ne hanno contestato la bancarotta fraudolenta perché i due «in concorso, quali amministratore di diritto il primo e di fatto il secondo, distraevano parte del patrimonio della Chil post facendole assumere debiti di terzi senza alcuna contropartita, effettuando pagamenti non giustificati, dirottando a terzi somme ricevute in pagamento di prestazioni rese e non contabilizzando pagamenti ricevuti».
Le accuse erano state quindi estese anche a Tiziano Renzi, precedente proprietario dell’azienda, ipotizzando che ci potesse essere una regia più ampia dietro il fallimento aziendale. I due imprenditori, inoltre, secondo i procuratori «non tenevano dal 3 novembre 2010 i libri sociali prescritti per legge e, in particolare, non tenevano il libro delle decisioni dei soci». Fatto, questo, che avrebbe fatto sorgere il dubbio di una volontà di occultare i passaggi di denaro già dal momento dell’acquisizione della società.
La tempistica dei passaggi di proprietà però metterebbe al riparo Renzi padre dalle accuse. La Chil post è stata dichiarata fallita il 7 febbraio 2013, cioè tre anni dopo la cessione da parte di Tiziano Renzi. Secondo i magistrati, quindi, non ci sarebbero elementi per ritenere che Tiziano Renzi abbia continuato ad avere un controllo delle attività anche dopo la vendita, nonostante i dubbi iniziali dovuti ai suoi storici rapporti d’affari con Massone. Questo è in sostanza il motivo della richiesta di archiviazione.
Prima di chiamarsi Chil post l’azienda dei Renzi si chiamava Chil e Matteo Renzi, insieme alle due sorelle, ne era stato amministratore. Dal 1999 al 2004 l’azienda risulta intestata ai tre fratelli e Matteo Renzi risulta anche assunto come dirigente. Quando l’attuale premier venne eletto presidente della Provincia di Firenze, si fece dare il distacco dall’azienda, dopo averne ceduto il 40% delle quote a madre e sorelle. Per questo risultano a lui versati contributi per nove anni.
La Chil era stata creata da Tiziano Renzi e trasferita dalla Toscana a Genova nel 2003, prima in via Fieschi, poi nella centrale Galleria Mazzini. Chil arriva a fatturare 7 milioni nel 2007. Nel 2010 Tiziano Renzi cedette un ramo d’azienda a un’altra società di famiglia dello stesso settore, la Eventi 6 srl, con sede a Rignano sull’Arno (Firenze), mentre la Chil venne ceduta a Gian Franco Massone, che aveva già una società di consegne. Per questo inizialmente i pm hanno ipotizzato che Tiziano Renzi intendesse salvaguardare la parte buona della società isolando in una sorta di “bad company” i debiti e gli affari meno leciti. Sia Tiziano Renzi che Massone che Gabelli sono stati iscritti al registro degli indagati. Per ora la richiesta di archiviazione riguarda solo Renzi.
Repubblica 22.3.15
Vivere oggi tra norme e leggi
di Adam Gopnik
LA PAROLA “norma” sembra essere uscita dalle paludi del gergo sociologico ed è entrata nel dibattito pubblico. È diventata un modo per dire che seguire (o stabilire) una legge non è sufficiente: per comportarsi correttamente bisogna anche seguire le regole non scritte, le pratiche comunemente accettate, le norme della società e delle istituzioni.
DAVID Brooks recentemente ha scritto un editoriale sul New York Times in cui, elogiando un nuovo libro del professore di Harvard Robert Putnam, sosteneva che non possiamo risolvere il problema della povertà solo con elargizioni monetarie e buongoverno: prima devono cambiare le norme sociali dei poveri. Queste norme sociali, come l’idea che un uomo dovrebbe sposare e mantenere una donna se la mette incinta, contribuiscono più di qualsiasi altro fattore, scrive Brooks, a rendere i poveri ricchi, o quantomeno più ricchi.
Con una mossa ironicamente parallela, quegli stessi moralisti Repubblicani che biasimano i poveri, o i loro rappresentanti politici, perché non applicano le norme sociali, sono stati sulla graticola per tutta la settimana con l’accusa di aver tradito a loro volta una norma essenziale della Costituzione, perché invitare di fatto i “nemici della nazione” di Teheran a ignorare il leader eletto (due volte) della medesima è una cosa che non bisogna fare. La loro lettera al governo iraniano, che scavalcava il presidente, non era illegale né tantomeno un «tradimento», ma di certo violava grossolanamente una norma di comportamento politico non scritta ma ampiamente sottintesa. Non è perché nessuno aveva mai fatto qualcosa del genere in passato, è perché si dava per scontato che non fosse neanche lontanamente fattibile. È questo che la rendeva una norma. Se Barry Goldwater avesse scritto una lettera a Krusciov nel momento più caldo della crisi dei missili cubani, insistendo perché il leader sovietico non tenesse conto di tutto quello che prometteva di fare John Fitzgerald Kennedy per risolverla, non sarebbe semplicemente apparsa come un’iniziativa distruttiva: sarebbe stato qualcosa di inimmaginabile.
È questa la differenza. Una legge è qualcosa che infligge un costo annunciato a chi la infrange. Una norma è qualcosa che fa parte del panorama sociale, al punto che non si pensa nemmeno che qualcuno potrebbe infrangerla. Le leggi sono piani che devono essere seguiti, come la griglia delle strade di una città; le norme sono monumenti, come la vecchia Penn Station, cose che non si pensa possano essere distrutte finché qualcuno non le distrugge.
Le norme politiche sono importanti perché qualsiasi assetto costituzionale conosciuto rischia di andare in pezzi se non viene interpretato sia secondo le leggi sia secondo le regole. «La Costituzione non è un patto suicida», ha detto un famoso giudice: ma la verità è che qualsiasi Costituzione può diventare un patto suicida se le persone non tengono conto della parte che è stata lasciata non scritta. Se non accetti la premessa di fondo, la barzelletta non fa ridere. Ogni assetto sociale rischia di disintegrarsi non solo se viene rigettato, ma anche se viene usato male. Se, com’è successo in molti imperi, l’esercito scopre di avere la possibilità di comprare e vendere gli imperatori, ben presto ci si ritrova senza impero, o almeno senza un imperatore degno di questo nome.
Le norme sociali di cui scrive Brooks sono importantissime. Il grande merito di Putnam, nei suoi primi libri sulle norme sociali della democrazia, fra cui Capitale sociale e individualismo , è quello di aver affermato che la società civile precede le istituzioni democratiche. Imparare a comportarsi bene con il prossimo prima ancora di aver mai visto una cabina elettorale è la migliore garanzia di avere la possibilità di usarle, le cabine elettorali.
I lavori precedenti di Putnam presuppongono certamente una retroazione tra prosperità e pratiche sociali sane. Le società diventano ricche perché hanno buone norme oppure le buone norme si diffondono quando le società diventano ricche? Non c’è bisogno di essere un insulso ottimista per pensare che venga a crearsi un circolo virtuoso in cui più soldi consentono più pace sociale (e famiglie più stabili) e pace sociale e famiglie stabili aiutano la gente a fare più soldi. Di certo, nessuno dubita che esista un circolo vizioso della povertà, con la povertà che produce disperazione sociale e la disperazione sociale che produce più povertà.
Insomma, le norme come quella che prescrive di andare d’accordo sono importanti davvero. Ma sono molto più malleabili e locali, meno organiche e consacrate, di quanto talvolta possano apparire. Il sociologo Howard S. Becker ha trascorso l’intera carriera a documentare tutti i modi in cui le norme sono non soltanto malleabili nel tempo, ma molto più frammentarie di quanto le persone che hanno potere vogliano credere. Un fumatore di spinelli le segue rigorosamente quanto un proibizionista. Il cantautore Willie Nelson rispettava tante norme quante Nancy Reagan, era solo più difficile vederle in mezzo a tutto quel fumo. Alcune norme sociali che in certi periodi e in certi ambienti sono considerate ovvie (“l’omosessualità è un reato”, “neri e bianchi non devono sposarsi”) si rivelano intollerabili, e altre che sembrano di poco conto (a bowling si va a giocare in compagnia) si rivelano indispensabili, solo dopo che sono state modificate.
Un modo per spingere i poveri a comportarsi come i ricchi è dargli più soldi. Le società prospere hanno meno problemi sociali delle società povere, e quando le società povere diventano più prospere generalmente sono più soddisfatte. Quello che chiede la destra in realtà è come si fa a convincere i poveri a comportarsi come i ricchi senza dargli più soldi. È una domanda difficile. Ma l’idea che esista un rapporto causale tra cose come la permissività sessuale e il danno sociale è chiaramente una sciocchezza. Il cambiamento più sbalorditivo della vita americana negli ultimi tempi è l’inattesa scomparsa della violenza criminale. Se questo tracollo improvviso della criminalità non fosse avvenuto, la destra ora ci starebbe assillando con la necessità di reintrodurre norme sociali per farlo avvenire?
E non è vero nemmeno che le norme vengano applicate, come amano fingere i tradizionalisti indefessi, per il tramite della saggezza collettiva, trasmessa amorosamente di generazione in generazione. In realtà di solito vengono fatte rispettare mediante corruzione, minacce e sanzioni chiare per chi le infrange. Normalmente, quando si va a cercare la ragione per cui una norma sociale o costituzionale è stata accantonata non è perché la gente si sia dimenticata della sua importanza, ma perché un tempo era chiaramente conveniente rispettarla e ora non lo è più, o perché le persone che ne erano danneggiate l’hanno combattuta. Le norme possono essere viste come leggi in tuta da yoga, ma resta il fatto che coprono gli stessi ambiti delle leggi.
La vecchia norma costituzionale sui senatori che non devono mettersi a negoziare autonomamente con Paesi stranieri si poteva far rispettare in situazioni in cui i senatori più esperti tenevano sotto controllo i pivellini. In un’epoca di disciplina legislativa ai minimi termini e ricerca di visibilità pubblica ai massimi termini, essere giovani, scalmanati, sgradevoli e senatori non comporta nessun costo, quantomeno se la tua base elettorale vuole che tu sia scalmanato, sgradevole e irrispettoso.
L’interazione tra norme e leggi è uno dei grandi temi della letteratura. Achille dovrebbe restituire ai troiani il corpo di Ettore? È solo una norma di guerra, ma l’ Iliade ci ruota intorno. I grandi romanzi delle norme — le norme americane, quantomeno — sono i quattro libri della serie del Coniglio di John Updike ( Corri, Coniglio, Torna, Coniglio, Sei ricco, Coniglio e Riposa Coniglio ), che parlano proprio del prezzo che si paga accettando le norme che una società borghese impone al cittadino voluttuoso medio (o alla cittadina voluttuosa media). Harry Angstrom, il Coniglio, sposa la sua fidanzata incinta, rimane coscienziosamente con lei dopo vari tentativi falliti di fuggire verso una vita di gratificazioni più immediate, e poi ha la sensazione paradossale, man mano che si susseguono i libri, di essere l’unico in America a rispettare ancora le vecchie norme opprimenti. Il sesso di gruppo bussa alla porta e le inibizioni finiscono giù dalla finestra. È una rete subdola o uno schema rassicurante di scelte preconfezionate? Dipende da quale lato della norma siete seduti.
Le norme sono scelte che qualcun altro ha fatto per voi. Doverle fare da soli può essere sconcertante. Tutto ciò dimostra che essere moderni significa essere consapevoli al tempo stesso dell’importanza delle norme nella percezione di chi siamo e del prezzo che comporta la loro applicazione per la percezione di chi potremmo diventare. In qualsiasi momento, possiamo essere più o meno consapevoli del peso oppressivo delle norme sociali e costituzionali, o della leggerezza che sentiamo e del senso di giustizia che guadagniamo una volta scomparse. Questo è normale.
Questo articolo è uscito sul New Yorker. L’autore è pubblicato in Italia da Guanda.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
il Fatto 22.3.15
L’Italia, il “Paese senza” che si sente in guerra
di Furio Colombo
Non l’avete capito che siamo in guerra? Eppure i titoli dei giornali sono chiari, come nel 1939. “Pinotti lancia ‘Mare Sicuro’”, “Più navi militari e caccia, così ci difenderemo dall’Is. Via all’operazione per rafforzare le difese del Mediterraneo” (Repubblica). E anche: “L’Italia schiera più navi e aerei. Roma si muove in ogni caso a tutto campo”. (Corriere della Sera). E ancora: “Roma blinda il Mediterraneo. Schierati navi, aerei e droni” (Il Messaggero). Prima che uno faccia in tempo a chiedersi in che modo un cacciatorpediniere di ultima generazione avrebbe potuto difendere il Museo del Bardo a Tunisi, la ministra Pinotti si spiega: “A seguito dell’aggravarsi della minaccia terroristica (...) si è reso necessario un potenziamento del dispositivo aeronavale dispiegato nel Mediterraneo centrale, al fine di tutelare i molteplici interessi nazionali, oggi esposti a crescenti rischi determinati dalla presenza di entità estremiste (...) ”. Purtroppo l’italiano impenetrabile del comunicato non si ferma qui: “Le forze armate stanno operando con una intensità elevata dispiegando in aggiunta a quanto ordinariamente fatto, ulteriori unità navali, team di protezione marittima, aeromobili ad ala fissa e rotante, droni, tanto per la protezione delle linee di comunicazione, dei natanti commerciali e delle piattaforme offshore nazionali quanto per la sorveglianza delle formazioni jihadiste”. Conclude con il giusto tributo al suo capo, la ministra: “Per dirla con Renzi, il Nordafrica deve rappresentare la nostra prima preoccupazione”. La perspicacia del nostro primo ministro ci mette al sicuro, con tutta la flotta e tutta l’aviazione, ed è facile immaginare orgoglio e disappunto dei nostri connazionali appena rientrati dalla crociera Concordia fascinosa: “Ah, se le nostre navi da guerra e tutta l’aviazione fossero stati schierati nel centro del Mediterraneo, quando i terroristi ci sparavano addosso a uno a uno, mentre scendevamo dall’autobus e facevano fuoco dentro il museo”. Ma penso che i più generosi tra i reduci avranno detto o pensato: “Costa caro, ma almeno flotta, aviazione e droni proteggeranno le vacanze di tanti altri”.
COME si vede il pericolo è grande. E la determinazione del nostro governo altrettanto grande. Manca un rapporto fra la qualità nuova e del tutto inaspettata del male e i suoi grandiosi rimedi da conflitto fra imperi. Seguendo la flotta, però, alcuni grandi editorialisti lanciano appelli alla Marinetti tipo “la guerra è l’igiene dell’umanità”. Cito da un importante autore che ha appena chiamato alle armi gli italiani: “Per il nostro continente il messaggio che viene da Tunisi è chiaro. Si avvicina la prova decisiva. Siria, Libia, Tunisia, cioè la sponda meridionale del Mediterraneo, cioè il confine marittimo dell’Unione (...) impongono oggi all'Europa ciò a cui essa si è finora sempre rifiutata: di essere un soggetto politico vero, vale a dire con una vera politica estera, con un vero esercito (...) Non c’è tempo da perdere. Per far fronte alla feroce determinazione dell’islamismo radicale, alla sua capacità di penetrazione, la politica deve innanzitutto prepararsi all'impiego della forza” (Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera). Stupisce che all’autore non venga in mente che sono ormai tre decenni che il terrorismo religioso colpisce il mondo, non solo quello occidentale, non solo quello dei cristiani, ma anche tra cristiani e soprattutto tra islamici con episodi imprevedibili e crudeli che diffondono morte, in maggior parte fra persone che non sanno di essere coinvolte nel conflitto. Ti immagini che voci autorevoli chiamino i governi a riunirsi per capire, per rendersi conto che non servono flotte e l’opzione non è l’invocazione della forza ma la sfida di intelligenza che ti fa capire dove, come, quando, con quali modi e armi, che forse non sono armi, ma sono un’altra politica. Come si fa a isolare una cellula impazzita con il sistema di immaginare tutto il mondo islamico come il nemico, moltiplicando immensamente il pericolo? Andiamo a combattere dove, chi, in che modo? Per esempio, mentre riempiamo il mare di armi, abbiamo interrotto il soccorso.
Ma non si è interrotto il malevolo e ostile rapporto di alcuni leader e partiti italiani che lavorano alacremente a trasformare i nuovi arrivati in nemici (a furia di dirglielo, di accusarli, sospettarli, sorvegliarli e spingerli via), commettendo lo stesso errore (mille volte denunciato in Usa) di incarcerare gli americani di origine giapponese, durante la Seconda guerra mondiale.
L’ITALIA non è priva di vibrante retorica. Ma non una voce che aggiunga una visione e indichi un percorso. Siamo un Paese che riforma la Giustizia senza avere un’idea o un progetto per la Giustizia, esprimendo disprezzo per i giudici mentre la corruzione dilaga. Viviamo in un tempo in cui si abbattono pezzi interi di Costituzione sostituendoli con materiale avariato e privo di senso. Per avere una scuola nuova offriamo parole (“la buona scuola” come “la buona politica”) con cambiamenti tipo “tutto il potere ai presidi”, trovate che sono anche più retrò delle navi da guerra contro il terrorismo disperso. Chi governa difende le grandi opere per due grandi ragioni: poter dire che le abbiamo fatte, e far contento il dottor Incalza. Ecco che cosa siamo (ho dovuto rubare il titolo da un bel libro di Arbasino): un Paese senza.
Attenzione però: possiamo fare finta di fare riforme prive di senso perché la ministra Boschi possa abbracciare in diretta i suoi nuovi compagni. In Parlamento, come sappiamo, si può scherzare sull’Italia. Ma un Paese senza che va alla guerra e non sa, non ha mai capito, non ha mai discusso dove, come, con chi e contro chi e perché e quale guerra, con quale strategia e con che armi, e non sa dove sta il mondo, forse persino questa Italia, che sta nascondendo il suo vuoto in discorsi vibranti, forse non se lo può permettere.
Repubblica 22.3.15
Come battere la corruzione e come costruire la Nuova Europa
di Eugenio Scalfari
LACORRUZIONE. Sì, la corruzione. Esiste dovunque in tutti i Paesi del mondo ma nel nostro più che altrove perché il nostro è un Paese strano e si fa governare da una altrettanto strana classe dirigente che, per pigra indifferenza, rinuncia a controllare.
Questa rinuncia di controllo ha come risultato una dilagante corruzione in alto e in basso della società; la si può contare a centinaia di milioni ed anche a qualche decina di migliaia, vi fanno comparsa i capi ma anche i loro luogotenenti, i loro aiutanti, i loro lacchè. Le cifre lo dimostrano e resta un terribile amaro in bocca a leggerle: nell’elenco dei Paesi “virtuosi” noi siamo al numero 69 della graduatoria mondiale e all’ultimo posto in quella europea perché in quest’ultimo anno siamo stati superati perfino dalla Bulgaria e dalla Grecia. Quanto alle condanne per corruzione, secondo i dati dell’Alto Commissariato contro questo malanno nazionale (sciolto nel 2008 ma poi ripristinato da Renzi), dal 1996 al 2006 le condanne sono passate da 1159 l’anno a 186 e quelle per concussione da 555 a 53. Queste cifre spaventano e tanto per ricordarlo, nel ‘96 governava Prodi e nel 2006 Berlusconi. Le leggi ad personam avevano fatto il loro effetto.
L’attenzione del popolo sovrano (anche se tanto sovrano non sembra essere) si risveglia transitoriamente quando è insidiato da sacrifici necessari ma dolorosi. Questo è un fenomeno naturale che sempre accade. «Non c’è attenzione che quando si ha fame/ non c’è guardiano attento se non dorme/ non c’è tranquillità senza paura /non c’è una fede senza infedeltà». Così scriveva seicento anni fa il poeta maledetto François Villon.
PURTROPPO il popolo (sovrano) presto si riaddormenta e il Cavaliere nero di quel momento gli rimonta in groppa e lo conduce a colpi di sproni e di briglia dove a lui conviene portarlo. Non tutti i popoli si svegliano così poco ma il nostro purtroppo è dormiglione.
*** Il fattaccio Lupi rende attuale queste riflessioni, ma non è di quello che voglio parlare. Cerco di capire dove si annida il serpente della corruzione, sempre cercato e mai trovato.
Il governo attualmente in carica e la ministra della Pubblica Amministrazione e della Semplificazione Marianna Madia ritengono che quel serpente abbia fatto il nido nella burocrazia d’alto bordo e probabilmente è così, anche se poi esso penetra anche nella classe politica e lì le sue vittime non mancano.
Per scovarlo e combatterlo il governo intende far ruotare i burocrati affinché non abbiano il tempo di costruirsi il nido (o il feudo che dir si voglia). Possono restare ai loro po- sti non più di sei anni ed anche meno se sopraggiunge prima il limite d’età.
In apparenza qualche cosa di buono c’è, ma in realtà è una proposta molto discutibile. Chi assicura la continuità e la tutela degli interessi dello Stato? La classe politica? In una democrazia parlamentare le maggioranze politiche si alternano con frequenza. La continuità si realizza di più in quella che può definirsi democratura o governo autoritario; ma in quel caso il popolo sovrano perde anche l’apparenza della sua sovranità e diventa plebe.
Il rimedio contro il serpente della corruzione- concussione è probabilmente un altro; ne parlò Weber in un suo libro intitolato Economia e società e mezzo secolo prima di lui ne avevano scritto Marco Minghetti, Silvio Spaventa e Vilfredo Pareto.
Minghetti ne scrisse più volte e soprattutto nel suo libro su “La politica e la pubblica amministrazione”. La tesi è la seguente: lo Stato che tutti ci rappresenta deve soddisfare interessi generali di lungo termine, la sua struttura va spesso aggiornata, ma nel quadro di strategie che richiedono il tempo di una generazione e talvolta anche di più. L’applicazione e la salvaguardia di quegli interessi e la strategia che deve garantirli non può che essere affidata ai “grand commis” cioè ai servitori dello Stato il cui complesso è chiamato Pubblica amministrazione. La classe politica fornisce una tonalità più aggiornata e motivata da interessi attuali, con una disponibilità di tempo più ristretta. La Pubblica amministrazione deve naturalmente tenerne conto, ma sempre nel quadro generale che spetta a lei di presidiare.
Questa fu la tesi di Minghetti, fatta propria da Pareto e da Weber. Spaventa naturalmente questa posizione la condivideva ma si preoccupava di creare un tribunale fatto su misura per evitare che il serpente della corruzione ed anche quello di violare l’interesse legittimo dei cittadini inquinasse l’amministrazione. A questo fine creò quel tribunale affidandolo al Consiglio di Stato che fino a quel momento era chiamato soltanto a dare pareri sulle leggi in gestazione. La scelta giurisdizionale fu un fatto nuovo e quasi rivoluzionario ed infatti svolse un lavoro egregio per difendere gli interessi legittimi dei cittadini e per impedire che lo Stato e la Pubblica amministrazione deviassero dalla giusta via per colpa di qualche suo membro infedele.
Ma col passare del tempo purtroppo quello che si inquinò fu proprio il Consiglio di Stato. Si creò un legame incestuoso con la politica: quasi tutti i capi di gabinetto e degli uffici legislativi dei vari ministeri ed enti pubblici furono reclutati tra i consiglieri di Stato mentre da parte sua il governo spesso nominava consiglieri di Stato persone che non ne avevano i titoli necessari. L’effetto fu che gran parte delle leggi venissero scritte dai capi di gabinetto o degli uffici legislativi e fatti approvare dai colleghi per fornire al governo le leggi da attuare.
Il Consiglio di Stato si mescolò con il potere esecutivo anziché controllarlo, con la conseguenza di inquinare la burocrazia ed esserne a sua volta inquinato. La conclusione fu che tutti facevano tutto. Questo sistema, come suggerisco già da molti anni, va profondamente riformato, bisognerebbe ritornare allo schema di Silvio Spaventa e di Minghetti. Ma questo suggerimento non è stato accolto, il disegno di legge di Marianna Madia ne è un esempio eloquente. *** C’è un altro tema, forse ancor più importante di quello che fin qui è stato messo sotto osservazione. Anch’esso è avvenuto nella settimana appena trascorsa e riguarda l’Europa (e quindi anche l’Italia).
Tre giorni fa è stata convocata una riunione dei ventotto Paesi membri dell’Unione. I temi all’ordine del giorno erano molti, ma quasi tutti di scarso rilievo. Furono affrontati, discussi e abbastanza approfonditi. A quel punto i membri che non appartenevano all’Eurozona se ne andarono e i diciannove Paesi che condividono la stessa moneta affrontarono il caso greco. Prima però il presidente del Consiglio europeo propose e tutti accettarono la nomina di un comitato ristretto che si incontrasse con il premier greco che già attendeva in un’altra sala. Il comitato ristretto fu nominato e di esso fanno parte il presidente del Consiglio europeo, la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese François Hollande, il presidente della Bce Mario Draghi, il presidente dell’Eurogruppo e il presidente della Commissione Juncker.
L’Europa con un improvviso salto nella procedura ha dunque eletto un direttorio che resterà in carica in permanenza fino a quando il caso greco non sarà interamente risolto e anche dopo, provocando però un palese malcontento in alcuni stati che pensavano di farne parte e ne sono invece esclusi. Il più irritato è il nostro Renzi, che mira ad avere un forte peso sulla politica economica europea. Quel peso non c’è, anche perché è Mario Draghi a tenere i cordoni della borsa ed è Draghi che, attraverso lo strumento monetario, è in grado di indicare le riforme da portare avanti, la politica del debito pubblico di vari Paesi e la flessibilità che l’Europa concede a certe condizioni agli stati che la richiedono.
Il caso greco si avvia verso una soluzione di compromesso ma comunque tale da salvare quel paese sia dal default sia dall’uscita dall’euro.
Il direttorio dei sette è un passo avanti di grandissima importanza, è un salto verso gli Stati Uniti d’Europa. La Merkel evidentemente ha reso esecutiva una intenzione che già era nel suo pensiero ma finora rinviata. Ora deve aver capito che quella è una via obbligata in una società globale dove solo gli stati continentali hanno un peso; gli altri sono del tutto marginali.
Qualche settimana fa suggerii al nostro presidente del Consiglio di spingere la Merkel verso questa soluzione, ma quel suggerimento non venne ascoltato: i capinazione non gradiscono che si formi un potere europeo che declassi la loro autorità nel Paese che rappresentano. Purtroppo è un grave errore ma volendo si potrebbe porvi rimedio e quella sì, sarebbe un’apertura al futuro. Dubito molto che avvenga.
Repubblica 22.5.15
“Siamo deboli confondiamo tolleranza e indifferenza”
“Caro Massimo, serve una polizia mondiale”
“Caro Adriano, manca una politica all’altezza”
Il dialogo tra Sofri e Cacciari su Is e dintorni
di Michele Smargiassi
UDINE. E SE fosse in fondo una nuova guerra di Troia? Un gigantesco ratto delle Sabine? Se «questa schifezza di Is», si chiede Adriano Sofri, non fosse altro che «l’avanguardia di una controffensiva planetaria contro la libertà delle donne»? Non è questo che nelle loro feroci minacce prevedono, alla conquista di Roma, subito dopo la distruzione delle croci: «Schiavizzeremo le vostre donne»? «È in corso una guerra mondiale che ha le donne per campo e per posta ». Con la differenza, rispetto alle mitologie, che le donne oggi «semmai bisogna riprenderle, perché sono già scappate»...
Il califfato come maschilismo armato: in dialogo con il filosofo Massimo Cacciari, sul palco della Repubblica delle Idee, rispondendo alle domande di Simonetta Fiori, lo scrittore e giornalista propone un tentativo di decifrazione. Perché la «terza guerra mondiale a rate» di cui ci ha avvisato papa Francesco è anche questo, una grammatica feroce della storia che va smontata nel mondo delle idee per poterla combattere.
Non è la geopolitica che può dar conto delle nostre reazioni asimmetriche di fronte all’orrore della sfida dei sanguinari. Cacciari e Sofri sono stati invitati a dialogare perché entrambi si sono occupati, in libri recenti, del concetto di prossimità. Cioè del nostro atteggiamento verso il prossimo. Concetto meno evengelicamente semplice di quel che sembra, spiega Cacciari: «Il prossimo non è l’altro, sono io, se mi approssimo, se mi avvicino», ma muoversi verso l’altro non è naturale, «occorre vincere una resistenza, varcare uno spazio ». Perché i morti ammazzati dall’Is in casa nostra ci sembrano più “prossimi” delle centinaia di migliaia che l’esercito nero ha sterminato lontano da noi? Vicino e lontano, lo stato di guerra approfondisce il solco. Ma assieme lo confonde. Ricorda Sofri un vecchio dilemma morale: «Se per soddisfare un tuo desiderio dovesse morire un mandarino cinese, lo faresti lo stesso?». Bene, oggi la Cina è vicina, e se i tedeschi settant’anni fa potevano sostenere, o fingere, di non sapere di cosa fumassero i camini di Auschwitz, oggi la “prossimità” mediatica non ci lascia scuse. Possiamo solo scegliere di non “farci prossimi”, di non fare quel passo che ci avvicina alla sofferenza altrui. È con le guerre globali mediatizzate che ci tocca ammettere, aggiunge Cacciari, «la nostra radicale incapacità di farci prossimo, che non è una virtù naturale, è una cosa a cui bisogna essere educati»: lo siamo? O ce la raccontiamo, chiamando “multiculturalismo” quella che è solo «una tollerante indifferenza », ossia una «radicale debolezza verso i fondamentalismi »? D’altra parte, insiste Sofri, «non tutti i modi di farsi prossimo sono evangelici. L’Is vuole tanto farsi prossimo di Obama... Lo sfida in tutti i modi ad approssimarsi, vieni qui e vediamo cosa sai fare...». La Jihad come gladiatorio corpo a corpo. Farsi prossimo, allora, vuol dire accettare la guerra? «Ai pacifisti chiedo da tempo», riprende, «per quanto possiamo denunciare le violenze poliziesche, pensate che una comunità possa fare a meno di una polizia? Nessuno mi ha mai risposto di sì. Ma allora, cosa ha di sbagliato l’idea di una polizia internazionale? ». Come è possibile — Sofri racconta il suo angosciante viaggio fra le donne yazide violentate — rinunciare a uno strumento che fermi l’orrore? «Ma la polizia è solo una parte della politica», lo contraddice Cacciari, «non esiste polizia senza una legalità da difendere, ed è la politica che scrive le leggi sulla base del consenso degli uomini. E ora non abbiamo nulla che somigli a una politica mondiale, a un governo, a una legalità mondiali». «Eppure», controbatte Sofri, «abbiamo tribunali e corti di giustizia internazionali, dunque esiste un’idea di legittimità e di diritto che supera gli stati. E che tribunali e corti possono essere, se non dispongono di una polizia?».
«Certo, è inaudita», concorda Cacciari, «l’impotenza indecente verso il califfato, il nostro piccolo passo di prossimità era fare un’Europa decente, invece la stiamo disfacendo». Che cosa rimane, allora? Gli appelli del papa, sempre più diretti, alla necessità di intervenire. Chi può rispondere, in mancanza di una polizia mondiale? L’iniziativa di chi di eserciti dispone già. Ma non sono gli stessi che li hanno spesso usati contro il prossimo? Sì, anche, ma nella storia si è pur dato il caso, dice Sofri, in cui «anche dei potenti possono fare qualcosa di moralmente necessario». Che qualcosa accada, dunque, perché, conclude Cacciari, il prossimo tuo è sempre stato, anche per il buon Samaritano, «un problema che devo affrontare e risolvere».
Il Sole 22.3.15
Divorzi brevi ma complicati
Diritto di famiglia. Il quadro delle riforme messe a punto nell’ultimo anno e di quelle ancora in attesa
di Andrea Gragnani
Il taglio dei tempi di attesa porta alla sovrapposizione con l’iter di separazione
Le nuove norme che, negli ultimi tempi, hanno investito separazioni e divorzi rischiano di creare ingorghi nelle procedure. La prima, introdotta lo scorso settembre, è stata la negoziazione assistita, che ha comportato la possibilità di redigere accordi di separazione o divorzio in forma privata, con l’ausilio di avvocati o davanti all’ufficiale di stato civile, senza dover passare da un giudice. Il legislatore (di stampo statalista), per la verità, prevede comunque il vaglio del pm, quindi comunque di un magistrato, che deve fare un controllo di legittimità in caso di coniugi senza figli e rilasciare un vero e proprio nulla osta se ci sono figli.
Ora il Parlamento sta varando la norma sul cosiddetto divorzio breve (approvata al Senato e in discussione alla Camera), che altro non è che il divorzio come si è sempre fatto, ma con tempi abbreviati: continua a essere necessario, infatti, passare prima attraverso la separazione, che deve essere stata omologata, se consensuale, e pronunciata con sentenza passata in giudicato, se giudiziale.
La mini-riforma riduce il termine cosidetto di “ripensamento” (l’attesa tra la prima udienza della separazione e il giorno in cui poteva essere richiesto il divorzio era di 5 anni nel 1970 e di 3 dal 1987) a sei mesi se la separazione è stata consensuale, e a un anno, se giudiziale. Lo scopo è quello di semplificare, ma in realtà le vicende si complicheranno. La vera novità, infatti, sarebbe stata il divorzio diretto, senza il passaggio della separazione. Inoltre, così come ora accorciato, il termine di “ripensamento” si tradurrà in un termine di sicuro ingorgo. Vediamo come.
Nel divorzio breve la decorrenza del termine viene anticipata al deposito del ricorso per le consensuali e alla notifica del ricorso per le giudiziali: avremo procedimenti di separazione in cui, conclusasi la consensuale, si potrà immediatamente chiedere il divorzio, il che apparirà un passaggio ancor più inutilmente stressante e costoso per i cittadini. E ciò vale anche per la negoziazione assistita, che per quanto più veloce rispetto a un procedimento in tribunale(anche quando sia consensuale), comporta necessariamente che il divorzio si faccia con un nuovo accordo e con tutti i conseguenti adempimenti quali passaggio al Pm per il nulla osta, invio all’ufficiale di stato civile per l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio e così via.
Ben più complicata, poi, sarà la situazione in caso di separazione giudiziale, perché il termine di un anno è largamente inferiore rispetto alla durata minima fisiologica di un giudizio di separazione, anche quando il giudice sia velocissimo. Potranno quindi usufruire del termine breve unicamente coloro che, nel corso del giudizio, avranno ottenuto una sentenza parziale che pronunci la separazione ma che non decida in merito alle questioni accessorie (affidamento dei figli, regime di visita, assegnazione della casa, mantenimento di coniuge e figli). Avremo quindi dei procedimenti nel corso dei quali sarà pronunciata la sentenza parziale di separazione e che dovranno proseguire per il resto, nei quali si innesterà la domanda di divorzio, il che, più che una semplificazione appare come una ulteriore complicanza di un procedimento già faticoso.
Il legislatore, resosi conto di ciò, ha previsto che il procedimento di divorzio andrà assegnato al giudice della separazione che avrà ancora in corso il giudizio per le questioni accessorie. Ancora più lavoro per gli avvocati, quindi, e conseguente contenzioso aperto per gli utenti, i quali andranno a sentenza sulla separazione, continueranno il giudizio per il resto, andranno poi a sentenza per il divorzio e infine, a giudizio di separazione concluso, rischieranno di vedere riaperte le questioni accessorie in sede di divorzio, perché attualmente legge e giurisprudenza permettono di rimettere in discussione tutto con il divorzio.
Quarantacinque anni fa il nostro Paese, con tanto di referendum approvato a larga maggioranza dagli italiani, ha scelto di essere un paese divorzista. Sarebbe il caso di essere coerenti con un indirizzo che appare ormai irreversibile e abolire il doppio giudizio tra separazione e divorzio, che tanta sofferenza crea per i cittadini, in termini di costi e contenziosi che non finiscono mai. La speranza, quindi, è che questa riforma priva di logica si trasformi nel grimaldello che consentirà anche all’Italia di passare a un divorzio immediatamente accessibile.
Repubblica 22.3.15
L’amaca
Il cinema America a Trastevere
di Michele Serra
A ROMA (Trastevere) c’è un piccolo cinema dismesso, l’America, da un paio d’anni preso “in affido”, se così si può dire, da un gruppo di ragazzi che l’ha occupato poi disoccupato poi rioccupato (ma solo il tetto) a seconda dei complicati sviluppi tecnico-giuridici di questo genere di vicende. L’occupazione ha scopo “conservativo”: quei ragazzi vorrebbero che il cinema rimanesse un cinema, e come tale cercano di rianimarlo. La moria delle sale rende il gesto romanticamene anacronistico. Eppure l’occupazione dell’America, nel suo semplice e nel suo piccolo, è diventata quasi popolare, non solo tra la gente di cinema: anche il presidente Napolitano, sia pure nei limiti concessi dalla sua delicata carica eccetera eccetera, scrisse ai ragazzi dell’America parole di simpatia. La storia del cinema America coinvolge per una ragione che prescinde da ogni considerazione giuridica, economica, politica. Coinvolge perché è una storia affettuosa. Affetto per un luogo. Affetto per la memoria pubblica che quella sala custodisce, memoria di socievolezza, di un antico piacere di quartiere. Affetto, per giunta, esercitato da ventenni, in teoria distanti da quella sala abbandonata quanto può esserlo un nativo digitale, abituato all’uso solitario dell’immagine. Se questo innamoramento giovanile per un vecchio cinemino stupisce e contagia, è perché la pratica di mercato, nella sua infinita efficienza e nella sua infinita indifferenza, non prevede MAI affetto. È previsto che i luoghi siano solamente cose.
il Fatto 22.3.15
Pirelli, Romiti contro il passaggio del controllo ai cinesi
"LA CINA è il più grosso investitore alla Borsa di Milano, e questo va bene. Però portare via interi settori industriali è pericoloso per il nostro paese”, dice Cesare Romiti all’agenzia AdnKronos, commentando il possibile acquisto di Pirelli da parte della conglomerata pubblica Chem-China. Una preoccupazione non scontata, visto che l’ex numero uno della Fiat è lo storico presidente della Fondazione Italia Cina. Che però rassicura: “Nel mondo di oggi c'è da temere tutto ma nel caso specifico non credo ci sia da temere per l'occupazione". Anche Susanna Ca-musso (Cgil) avverte: “La vendita di un pezzo pregiato del nostro sistema industriale a capitali stranieri non sarebbe in sé un dramma se il capitalismo italiano fosse in grado di reggere le sfide della competizione internazionale e il governo avesse una politica industriale”.
La Stampa 22.3.15
Da Pechino tre miliardi di investimenti. L’Italia è la meta preferita dopo Londra
di Gianluca Paolucci
qui
Il Sole 22.3.15
La campagna cinese
Se Pechino punta 100 miliardi sull’Italia
di Rita Fatiguso
PECHINO Quindici anni fa le grandi società cinesi in Italia si contavano sulle dita di una mano. Conglomerate statali con sedi commerciali, nulla di più. Siti produttivi, zero. Le attività cinesi erano quelle degli immigrati dal Fujien e dallo Zheijiag: ristoranti, società di import-export, small commodities, abbigliamento e affini. Se qualcuno avesse detto che la Banca centrale cinese stava rastrellando sul mercato azioni blue chip si sarebbe pensato a uno scherzo.
E, invece, in pochi mesi, di recente, Zhou Xiaochuan, il Governatore che sostiene di aver immobilizzato in Italia almeno 100 miliardi in asset tra partecipazioni e investimenti finanziari, ha superato il 2% in Eni, Enel, Prysmian, Mediobanca, Generali, Fiat, Telecom, più facile dimostrare chi non c’è, in ossequio a una strategia precisa: privilegiare la diversificazione dell’investimento valutario, spostando qualche granello delle riserve - 3mila miliardi di dollari - dai certificati di deposito americani ad altri asset.
Colpi come Ansaldo energia-Shanghai electric e State Grid- Cassa depositi e prestiti-Reti hanno dato una scossa imprimendo un’accelerazione che ha portato l’Italia al primo posto nel 2014 per gli investimenti cinesi: è stata il primo mercato dell’Eurozona, con ben 2,490 miliardi nell’energia, 598 milioni nei macchinari industriali, a seguire nel settore alimentare e agrobusiness 50 milioni e nei prodotti di consumo 32. Gli investimenti diretti cinesi erano quasi inesistenti fino al 2004, poi la media è stata di poco meno di 1 miliardo all’anno. A partire dal 2009 i flussi d’investimento sono triplicati a quasi 3 miliardi, prima di triplicare ancora nel 2010 oltre i 10 miliardi. Tanto per favore un paragone, in totale dal 2009 i flussi d’investimenti cinesi in Europa sono stati di 55 miliardi.
Oggi questa cinese è una realtà consolidata e l’arrivo in massa di altre banche cinesi oltra alla storica Bank of China che ha due filiali, Icbc in fase di raddoppio, China construction bank, Agricoltural bank sta a testimoniare il cambio di passo. Ieri durante il China Development Forum Tian Guoli il numero uno di Bank of China ha detto che il QE sarà un grande vantaggio per queste realtà cinesi. In contemporanea, aggiungiamo noi, un euro che in un anno ha perso un quarto del valore sul renminbi incentiverà ulteriori mosse da parte di Pechino.
Per non parlare del gran numero di aziende a contenuto tecnologico acquistate da cinesi con M&A di aziende ad alto valore aggiunto trattori per l’agroindustria, pompe idrauliche. Oggi Snam entra nel mercato cinese con PetroChina ma anche per operare su mercati terzi.
C’è di più: la tanto vagheggiata mossa del Cic, il fondo sovrano cinese potrebbe verificarsi quest’anno, con l’ingresso come azionista in Cassa, il nostro fondo sovrano, sempre per le infrastrutture, quindi dentro F2i.
La sleeping beauty europea si è svegliata, dal 2000 In Italia nel periodo 2000 – 2014 gli investimenti cinesi italiani si sono concentrati principalmente nei seguenti tre settori: nell’energy con 2,660 miliardi di dollari, nel settore dei macchinari industriali con 835 milioni e nel settore automotive con 600 milioni. Seguono i prodotti e servizi di consumo con 191 milioni, l’IT con 101 milioni, il real estate con 68 milioni e il settore alimentare e agricoltura con 51 milioni.
La tipologia di operazioni di M&A è cambiata negli ultimi cinque anni, una delle più rilevanti tendenze è la crescita delle piccole e medie operazioni di M&A realizzate spesso da investitori finanziari che però si affianca ai megadeal, come quello in corso tra Pirelli e China Chem.
La flessione del mercato interno cinese nel 2013 e 2014, e il boom dei viaggi dei cinesi all’estero nello stesso periodo - per ragioni di turismo, studio ed emigrazione – stanno spingendo, adesso, sull’immobiliare.
Se i cinesi di Insigma sono rimasti a bocca asciutta con i treni di Ansaldo breda di Finmeccanica finiti ai giapponesi, in Italia ci sono grandi societa come Huawei Hisense Haier. E la moda? Fosun è entrata in Caruso, e domani, a Pechino, sfila Marisfrolg che, per chi non lo sapesse, è il marchio di ZhuChongYun, l’imprenditrice di Shenzhen che ha comprato Krizia. Anche nella moda, è solo l’inizio.
Il Sole 22.3.15
La nuova generazione di Pechino
di R. Fa.
PECHINO Al China Development Forum che si svolge a Diaoyutai, la prestigiosa State Guesthouse della capitale, Ren Jianxin, 57 anni, dal13 gennaio scorso chairman di China Chemical, non si è visto, nessuna ombra della sua presenza nei panel o seminari dedicati - guarda caso - alla Cina del “new normal”.
Eppure, l’evento clou che chiude idealmente il Congresso nazionale del popolo di marzo aprendo la Cina al mondo, non potrà ignorare a lungo quelli come Ren Jianxin, gli uomini del “new normal”, i nuovi manager in grado di traghettare colossi malfermi e improduttivi come le imprese statali cinesi ammalate di overcapacity, verso nuove mete, lungo le traiettorie non sempre facili del Go Global. Una strategia, quella dell’internazionalizzazione, sulla quale Ren, in carica da tre mesi, sembra avere da tempo idee molto chiare, professando la necessità di crescere attraverso le acquisizioni e la diversificazione dell’attività.
Carriera interna, competenze tecniche in linea con l’attività aziendale, curriculum gradito al partito, Ren vanta anche una storia di produzione di valore, ha creato Blue Red Star, società per i lavaggi industriali poi confluita in China Chem.
Per questo il suo nome è finito nella lista dei “premiati” da Sasac, in rigoroso ordine alfabetico, quando l’ente che vigila sulle societa' statali ha comunicato le nuove nomine nella chimica, tra cui il mandato triennale per Ren, che sarà al comando di China Chem fino al novembre 2017.
Dal G ansu, sua terra natale, al ruolo di chairman of China National Chemical Corporation, in mezzo, c’è la Cina che deve cambiare passo. Intanto, Ren è un manager a tempo, come si è detto, non a vita. Oggi i giganti pubblici devono rinunciare agli esorbitanti stipendi, tagliati da Xi Jinping, dribblare le trappole della corruzione (e non è facile) e, in ultima analisi, preparsi all'audit non solo interno, già attivato sul mercato locale, ma anche a quello delle acquisizioni fatte all’estero. Il Governo centrale non ha ancora deciso a chi affidare il monitoraggio, ma il dado è tratto e anche i ritorni, spesso risibili, degli investimenti realizzati all'estero, sempre più spesso bacchettati dal Mofcom, il ministero del Commercio, dovranno essere passati al setaccio. Il ricambio manageriale è un passo obbligato. Ren Jianxin ama ricordare un momento cruciale della sua carriera, quando decise di rimuovere un direttore generale nonostante la riluttanza del partito locale. Doveva farlo, e lo fece. Soprattutto, dimostrò che si poteva farlo, per il bene dell’azienda. Il tempo gli ha dato ragione.
Corriere 22.3.15
Summit in Asia Tanti gli ostacoli per un disgelo
di Guido Santevecchi
Per la prima volta dal 2012 i ministri degli Esteri di Cina, Giappone e Corea del Sud si sono incontrati ieri a Seul. La consuetudine dei vertici trilaterali si era spezzata per le rivendicazioni territoriali e storiche che oppongono Pechino e Tokyo. E anche i coreani vorrebbero che il premier giapponese Shinzo Abe accettasse senza ambiguità la responsabilità per i crimini commessi dall’esercito imperiale nei primi decenni del secolo scorso. Ieri a Seul i capi delle diplomazie hanno concordato di lavorare perché i tre leader (il cinese Xi Jinping, la sudcoreana Park Geun-hye e Abe) tengano un vertice «il più presto possibile».
Un buon (ri)inizio, anche se i contrasti restano. Quest’anno si celebra il 70° anniversario della fine della guerra nel Pacifico e Pechino organizzerà una parata per ricordare la «vittoria sull’aggressione fascista del Giappone». Abe non ha ancora deciso che discorso fare, se ribadire le scuse formali dei suoi predecessori o annacquarle nel revisionismo. Intorno alle isole contese (Senkaku per i giapponesi, Diaoyu per i cinesi) continuano gli incontri ravvicinati tra navi e aerei militari. Lite su alcuni scogli anche tra Tokyo e Seul.
Ma le tre potenze regionali sono legate da relazioni economiche vitali: Pechino è il primo partner commerciale di Tokyo e di Seul. E poi c’è il comune interesse a tenere sotto controllo la imprevedibile Corea del Nord.
Gli Stati Uniti guardano con doppia preoccupazione: ai rapporti freddi tra sudcoreani e giapponesi, i loro principali alleati nella regione; e al tentativo dei cinesi di ridurre l’influenza Usa in Asia. Il quadro è complicato dalla sfida sulla Asian Infrastructure Investment Bank, la nuova banca lanciata dalla Cina per finanziare infrastrutture in Asia. Washington l’ha bocciata chiedendo agli alleati di boicottarla. Ma britannici, italiani, francesi e tedeschi hanno aderito. Anche la Corea del Sud è tentata e addirittura il ministro delle Finanze di Tokyo ha detto che l’ipotesi va valutata. Forse gli Usa hanno perso un’occasione per giocare la partita asiatica dall’interno.
il Fatto 22.3.15
La traversata
Non solo immigrati, ma anche barche: l’affare degli sciacalli
Dopo la fine di Mare Nostrum gli scafisti sono più liberi di prima
Abbandonano i profughi e recuperano le navi
di Valentina Petrini
inviata di Piazzapulita, La7
A BORDO. Valentina Petrini, inviata di Piazza Pulita con il film maker Fabio Colazzo, è stata a bordo della nave Dattilo della Guardia Costiera che ha salvato 10 mila migranti. Queste foto esclusive documentano come gli scafisti riescono a recuperare i barconi dopo aver abbandonato i passeggeri
A sud di Lampedusa. Il 3 marzo, alle sette del mattino, un barcone a 40 miglia dalle coste libiche chiama con il satellitare la centrale operativa della Guardia Costiera, che risponde da Roma. In balia del mare ci sono quaranta donne, due incinte, quindici bambini e un uomo in arresto cardiaco: lo tengono in vita con il massaggio e la respirazione bocca a bocca. Sono circa 800 in tutto i migranti da salvare. Il barcone è a otto ore di navigazione da dove ci troviamo noi in quel momento, a sud di Lampedusa. Tutti i mezzi nelle vicinanze vengono dirottati per il soccorso. Gli equipaggi della nave Dattilo e della Fiorillo della Guardia Costiera arrivano per primi. Mettono tutti in salvo ma il barcone, vuoto, resta al centro del Mediterraneo.
Sono le cinque del pomeriggio, arriva un'altra richiesta di soccorso: un naufragio, ci sono molti morti in mare. La Dattilo riaccende i motori: “Lo vedi lo sciacallo? Quel peschereccio laggiù”. È abbastanza grande e non sventola nessuna bandiera. A bordo, con il binocolo, si vedono solo le teste di quattro uomini, ben nascosti. “Appena ha visto il barcone vuoto sulla sua sinistra, ha rallentato, adesso ci gira intorno e aspetta che noi siamo più lontani... ”. Lo sciacallo, indisturbato, aggancia la barca deserta (nuova di zecca, al suo primo viaggio) e fa rotta verso la Libia.
Prima salvare i superstiti, poi inseguire i criminali
Al centro di questo Mediterraneo i criminali ormai fanno profitti non più solo attraverso il traffico di uomini, ma anche grazie al recupero dei barconi: ammortizzano i costi e aumentano i guadagni. La sera, quando i migranti dormono sotto le coperte termiche, a bordo della Dattilo si continua a parlare dello sciacallo: “Ormai capita sempre più spesso. Noi ci allontaniamo per correre da un soccorso all’altro e loro si riprendono le imbarcazioni. Ci fottono i barconi sotto gli occhi e non possiamo fare niente”. Mentre navighiamo di notte la memoria va all’estate scorsa. “Un giorno eravamo partiti da Pozzallo, navigazione a Sud di Lampedusa, a un certo punto dalla plancia un collega ha visto delle braccia agitarsi nell’acqua. Erano 39 uomini, alcuni aggrappati alle taniche di benzina, altri completamente nudi, qualcuno legato alle corde del gommone semi affondato”. Li hanno tirati fuori dall’acqua uno ad uno, in agonia. “In quel caso lo sciacallo non ha potuto recuperare nulla: il gommone è affondato. Abbiamo visto i superstiti per caso mentre eravamo in navigazione… Un ragazzo era completamente ustionato: gli si era rovesciata la tanica di benzina sulle gambe e il sole l’aveva praticamente fritto”.
Chi riporta una barca in Libia o in Tunisia senza farsi arrestare, dopo un primo viaggio guadagna il doppio. L’hanno capito anche gli uomini della Dattilo che in mezzo al mare ci stanno 365 giorni l’anno e in queste acque fanno di tutto: dai soccorsi umanitari alle azioni di polizia giudiziaria. Perché i barconi non si possono affondare? “Affondarli non è consentito dalle norme ambientali internazionali – spiega il comandante della Dattilo, Alessio Morelli – potrebbe esserci benzina a bordo e quindi inquinare il mare. È una legge e va rispettata. I barconi si possono e si devono, quando possibile, rendere inutilizzabili, oppure si trainano in porto, dove vengono sequestrati e smaltiti”. In questo caso non possiamo fermarci: il naufragio al quale dobbiamo prestare soccorso è a diverse ore di navigazione da dove ci troviamo. “Più tardi arriviamo – continua Morelli – più morti potrebbero esserci e ogni volta che perdiamo qualcuno, ti chiedi: e se fossimo arrivati dieci minuti prima? ”. Le regole d’ingaggio della Guardia Costiera sono chiare: prima il salvataggio poi, se resta tempo, l’attività di polizia. Le richieste di soccorso arrivano una dopo l’altra. Il 3 marzo, mentre eravamo in mare anche noi, in poche ore ne sono arrivate sette. Lo sciacallo l’ultima volta si è salvato grazie al naufragio: dieci i cadaveri recuperati e almeno cinquanta i dispersi.
Il barcone che fece la traversata due volte
Il 15 febbraio scorso, in queste acque, per la prima volta a Sud di Lampedusa, quattro trafficanti a bordo di un barchino veloce hanno aperto il fuoco contro una motovedetta della Guardia Costiera. Volevano riprendersi il barcone vuoto e per spaventare gli ufficiali (con 150 immigrati appena salvati a bordo) hanno mostrato i kalashnikov e sparato a pelo d’acqua.
A Roma ci sono le indagini dell'antiterrorismo, in Sicilia diverse procure hanno fascicoli aperti sugli ultimi sbarchi (Catania, Ragusa, Palermo). I trafficanti si muovono in queste acque come persone ben informate: conoscono le procedure SAR (search and rescue – ricerca e soccorso). Costringono i migranti a chiamare quasi subito la Centrale Operativa di Roma. Sanno che i soccorsi arrivano dopo sei-otto ore di navigazione. “L’estate scorsa è stata un inferno. Lavoravamo anche venti, venticinque giorni senza mai fermarci – raccontano gli uomini dell’equipaggio - All’inizio vedevamo questi sciacalli girarci intorno, ma non capivamo quali fossero le loro intenzioni”. Un giorno l’equipaggio della Dattilo soccorre una barca con circa trecento persone a bordo. Ci sono molti siriani, famiglie con bimbi e donne sole. I neri del centr’Africa, i più poveri, pagano meno per la traversata e quindi viaggiano nella stiva, attaccati al motore. I soccorritori notano un dettaglio: “Il barcone aveva una data scritta con la vernice, su un fianco: SAR 19 luglio 2014”. Era il 4 agosto, però, quando l’hanno soccorso. “Finalmente avevamo la prova di un sospetto: quel peschereccio era già stato utilizzato per un altro viaggio quindici giorni prima, poi recuperato, riportato in Libia e ricaricato. E quella era la seconda volta che lo ritrovavamo carico di migranti davanti alla Libia”. Un’organizzazione militare, non il gesto di qualche avventuriero. Quel barcone alla fine, è stato sequestrato. E la foto messa agli atti.
Con l’arrivo di Triton ci sono meno soldi e più sbarchi
Le regole d’ingaggio delle navi gestite dal ministero della Difesa, da quando Mare Nostrum si è interrotto, sono cambiate. Cosa fanno, quindi, davanti alle coste del Nord Africa, il 3 marzo scorso le navi della marina militare? Sono loro ad aver raccolto i morti dell’ultimo naufragio. Le navi ci passano davanti ma non si possono riprendere per questioni di sicurezza. L’operazione alla quale assistiamo praticamente in diretta (elaborata dagli stati maggiori e anticipata dalla agenzia AdnKronos) si dovrebbe chiamare “Mare sicuro”: quattro navi, tra cui unità dotate di attrezzature sanitarie ed elicotteri, aerei senza pilota Predator dell’Aeronautica. Circa un migliaio di militari italiani saranno impiegati per contrastare la minaccia jihadista nel Mediterraneo. Fermeranno anche gli sciacalli?
Dal primo novembre del 2014 Mare Nostrum non c’è più. È una missione archiviata. Copriva 400 miglia nautiche e aveva chiaramente come obiettivo la ricerca e il salvataggio in acque internazionali con un costo di 9,5 milioni di euro al mese (100 milioni complessivi a carico dell’Italia). Triton, la missione in vigore oggi, copre 30 miglia nautiche, l’obiettivo è il controllo della frontiera del Mediterraneo
centrale e non più il soccorso umanitario. Costa soltanto 2,9 milioni di euro al mese: “Ma noi continuiamo a scendere fin sopra le coste libiche: anche a venti, trenta, quaranta miglia dalle coste africane. Il soccorso è soccorso, vale la legge del mare e quando la chiamata arriva, non ti giri dall’altra parte”. La Dattilo è stata l’unica nave della Guardia Costiera inserita nel dispositivo di Mare Nostrum: 10 mila le persone salvate da 49 uomini in sei mesi.
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano l’anno scorso si è battuto molto perché Mare Nostrum fosse archiviata: missione troppo costosa ma soprattutto impopolare per la destra al governo. Ma il suo bilancio è di quasi 170 mila migranti tratti in salvo, 366 gli scafisti arrestati. La fine di questa missione europea avrebbe dovuto produrre una diminuzione degli sbarchi e invece i dati dicono il contrario: a gennaio e febbraio 2015 gli arrivi via mare superano quelli di gennaio e febbraio dello scorso anno. Con l'acuirsi delle crisi in nord Africa la gente continua a partire e l’estate, quando si muovono più barconi, è alle porte. C’è chi annuncia 500mila o un milione di persone pronte a salpare dai porti libici (Frontex). Chi invita alla cautela nel dare numeri approssimativi (le organizzazioni on governative). Lo sciacallo ha già recuperato un po’ di barconi in vista del business alle porte.
Corriere 22.5.15
Con gli occhi della speranza
Un reportage della tv panaraba 'Al Aan tv' mostra le immagini di un viaggio sulle carrette del mare realizzate da alcuni profughi siriani
qui
Corriere 22.3.15
Richieste di asilo. Un problema europeo
di Danilo Taino
Nel 2014 , 626 mila persone hanno chiesto asilo nell’Unione Europea: 191 mila in più che nel 2013 . Una crescita del 44% , risultato dell’aumento drammatico delle tensioni ai confini (e oltre) della Ue che dislocano intere popolazioni: 122.800 dei richiedenti, il 20% del totale, erano siriani (nel 2013 erano stati 50 mila ), 41.300 afgani (il 7% ) e 37.900 kosovari ( 6% ). Per avere un’idea della crescita: nel 2008 , le domande erano state 220 mila . Interessante vedere in quali Paesi queste persone che fuggono dalle loro zone colpite da guerre o da disastri di altro genere chiedono protezione: uno su tre , in Germania, il 13% in Svezia, un po’ più del 10% in Italia, un po’ meno del 10% in Francia, il 7% in Ungheria (la metà dei kosovari sceglie questa destinazione). In rapporto alla popolazione, il Paese Ue messo più sotto tensione dalle domande di ospitalità è la Svezia: 8,4 richiedenti ogni mille abitanti. Seguono l’Ungheria ( 4,3 per mille ), l’Austria ( 3,3 ), Malta ( 3,2 ), la Danimarca ( 2,6 ) e la Germania ( 2,5 ). L’Italia registra 1,1 richiedenti asilo ogni mille abitanti (un po’ sotto la media Ue, che è di 1,2 ).
L’Eurostat, dalla quale questi dati provengono, considera richiedente asilo una persona che domandi lo status di rifugiato o di meritevole di protezione (altra cosa dalla semplice immigrazione) sulla base dei pericoli che corre nel Paese di provenienza. Indipendentemente dal fatto che la domanda sia fatta alla frontiera d’ingresso o già all’interno del territorio dello Stato ospitante (anche nel caso d’ingresso illegale). Sul totale delle 626 mila domande di asilo, nel 2014 la Ue ha dato 359.795 risposte (di prima istanza): 162.770 sono state positive. Meno della metà delle pratiche sbrigate hanno dunque accordato lo status o la protezione richiesti. In Italia, le domande sono state 64.625 (il 143% in più che nel 2013 , la crescita maggiore in Europa). I casi considerati sono stati 35.180 , dei quali 20.580 hanno avuto una risposta positiva. Più del doppio. Non si possono però fare paragoni sulla generosità delle politiche di accettazione perché le origini dei richiedenti cambiano da Paese a Paese: in Italia, per esempio, le pratiche considerate hanno visto ai primi tre posti pakistani, afgani e nigeriani mentre nel complesso della Ue si è trattato di siriani, afgani e iracheni. È però evidente che la questione dell’asilo deve prendere una dimensione sempre più europea.
Corriere La Lettura 22.5.15
Demografia
Non chiamiamole migrazioni: questo è un esodo
Paul Collier invita a depurare il dibattito dalle polarizzazioni politiche
«Il dato di fatto è che il 40% degli abitanti dei Paesi poveri vorrebbe spostarsi nei Paesi ricchi
La disparità è mostruosa. Sarà così per decenni»
di Maria Antonietta Calabrò
qui
il Fatto 22.3.15
Isis, la battaglia web per i cuori e le menti
di Harith Hasan al-Qarawee
ricercatore presso Radcliffe Institute-Harvard University
Per gentile concessione dell’Ispi, l’Istituto studi di politica internazionale, pubblichiamo ampi stralci de “Il modus operandi di Isis: il messaggio politico, la propaganda e l’indottrinamento”, il saggio di Harith Hasan al-Qarawee contenuto nell’ebook Ispi “Twitter e Jihad, la comunicazione dell’Isis”, a cura di Monica Maggioni e Paolo Magri.
Lo Stato islamico in Iraq e nello Sham (Isis) ha dimostrato di saper combinare la struttura di un’organizzazione terroristica che si appoggia su attività cibernetiche e sulla distribuzione di materiali segreta, con una forma embrionica di propaganda “di stato”. Secondo un rapporto del Counter Terrorism Center (Ctc), ciascun wilaya (provincia) ha avuto fin dall’inizio il suo ufficio stampa, largamente autonomo dal centro. Poi Isis ha cercato di imporre un maggiore controllo centralizzato sulle sue attività mediatiche, in particolar modo in seguito all’inizio delle operazioni militari antiterrorismo a conduzione americana, e alla diffusione di video e immagini di alcuni militanti mentre giustiziavano membri delle tribù sunnite. Isis ha anche cercato di influenzare la copertura del giornalismo occidentale, come nel caso del giornalista tedesco Jürgen Todenhöfer, a cui è stato permesso di entrare nei territori sotto il suo controllo, o John Cantlie, il reporter inglese preso in ostaggio che è stato poi autorizzato a scrivere un articolo per mensile Dabiq, realizzando anche diversi video reportage. Sempre secondo il rapporto del Ctc, Isis sembra avere temporaneamente rinunciato ai canali dei social media “ufficiali” per concentrarsi su quelli non ufficiali e sui social forum.
La propaganda diretta nei confronti delle popolazioni locali si è focalizzata nel promuovere la legittimità del controllo di Isis, presentandolo come lo “Stato Islamico” modello che meglio rappresentava gli ideali della popolazione. “Non vi prometto lusso e abbondanza (…), ma ciò che Allah promise ai credenti: la creazione del califfato in Terra”, sono le parole di Abu Bakr al-Baghdadi, pronunciate nel corso della sua prima apparizione pubblica nella moschea Hadbaa di Mosul. Isis ha cercato di presentare il proprio dominio come la salvezza per le popolazioni sunnite di Iraq e Siria, e se stesso come alfiere dell’eterna lotta missionaria contro i rafida (gli sciiti) in Iraq e i nusairya (gli alawiti) in Siria. Nel “Documento della città”, pubblicato il 12 luglio 2014, il gruppo si autodefiniva “soldati dello Stato Islamico […] che si sono fatti carico del fardello della restaurazione del glorioso khilafa (califfato) islamico, combattendo le ingiustizie sofferte dal nostro popolo e i nostri fratelli”. Presentandosi come il restauratore delle autentiche leggi islamiche che tutti i “veri” musulmani attendevano, Isis ha cercato di delegittimare qualsiasi ideologia e organizzazione alternativa, specialmente nelle sue piazzeforti principali di Raqqa e Mosul.
Il testi del nuovo diritto divino riscritto
Isis ha esposto un cartellone a Mosul che mostra un militante con un piede su un mucchio di libri di “legge”, mentre tiene nella mano un kalashnikov; sotto cui si legge in arabo la scritta: “Non accettiamo nulla se non la Legge di Dio per giudicarci”. Un messaggio simile è stato visto in un murale con lo slogan “Lo Stato Islamico: un libro guida e una spada dona la vittoria”. La radio locale, al-Bayan, alterna sermoni religiosi a letture che ribadiscono agli ascoltatori la superiorità del diritto divino sulle istituzioni “inventate” dall’uomo. I diwan, che assurgono alla funzione di “ministeri”, pubblicano le loro istruzioni ai residenti su documenti contenenti il nome del diwan relativo e lo slogan di Isis, che in seguito viene distribuito manualmente o appeso ai muri di moschee e istituzioni relative. Uno dei documenti più rilevanti di Isis è stato il Documento della Città, che fa eco alla “Costituzione di Medina”, che il profeta Muhammad formulò per definire le relazioni politiche e sociali nel primo Stato Islamico, al-Medina. L’articolo 4 sottolinea che “sotto le nostre leggi le persone sono sicure e in salvo; non c’è vita migliore di quella sotto la legge islamica, che garantisce ai suoi soggetti i loro diritti e ristabilisce la giustizia per gli oppressi. Chiunque era contrariato in passato, grazie alla nostra azione è oggi salvo, a meno che non contesti o disobbedisca (le leggi) ”. L’articolo prevede la distruzione di “templi politeisti”, in riferimento a luoghi di culto sciiti o yazidi, o moschee sunnite costruite al di sopra di tombe, come stabilito dal profeta Muhammad nei suoi comandamenti.
Isis ha fatto circolare un comunicato il 14 luglio 2014, annunciando che la preghiera del venerdì si sarebbe interamente dedicata alla lettura e la spiegazione del “Documento della Città”. Il gruppo ha utilizzato la moschea come una piattaforma d’indottrinamento e ne ha fatto uno strumento di legittimazione del proprio controllo e per ricreare “l’autentica” società islamica. In gran parte della letteratura jihadista, includendo il libro The Management of Savagery, scritto da uno stratega islamista noto col nome di Abu Bakr Annaji, troviamo un’attitudine ambivalente nei confronti delle società musulmane moderne. Da un lato i jihadisti si autorappresentano come i loro “protettori”; dall’altro, diffidano degli altri musulmani, considerandoli inesorabilmente contaminati dalle usanze dei regimi che li hanno governati così a lungo.
Il mito del governo equo contro i politici corrotti
Nel suo primo discorso come califfo, al-Baghdadi si è rivolto a tutti i musulmani, celebrando la creazione del califfato-stato e invitandoli a unirsi a esso: “Venite nel vostro stato, la Siria non è dei siriani, né l’Iraq è degli iracheni, la terra è solo di Allah, che decide a chi affidarla”. Il califfo si è rivolto in particolar modo a teologi, predicatori, giurisperiti, chiunque abbia esperienza militare, di amministrazione e nei servizi, dottori e ingegneri, ricordandogli che è loro preciso dovere aiutare altri musulmani. L’organizzazione non si è solo concentrata sull’idea astratta di califfato islamico, ma ha anche cercato di mostrare esempi concreti del suo “governo equo”, in cui “non ci sarà più povertà”. Come gran parte dei gruppi totalitari, Isis si figura un modello di collettività missionaria ed egalitaria, dove ciascun individuo ha un ruolo per servire la umma ed è perciò ricompensato.
Mentre cerca di rivolgersi a tutti i credenti, Isis non può ignorare la competizione delle altre organizzazioni jihadiste, in particolar modo di AQ e della sua succursale in Siria, Jabhat al-Nusra (JN), che si unisce ad altri gruppi minori sia in Siria sia in Iraq. Il califfato ha ingaggiato con essi una lotta politica, ideologica e militare, usando la sua propaganda per rimarcare la preminenza dello Stato islamico in espansione, al quale ogni altro gruppo deve giurare fedeltà. Ha insistito che nessun’altra bandiera al di fuori della sua può essere issata nelle sue terre e ha celebrato le dichiarazioni di baiya (lealtà) degli altri gruppi jihadisti nella regione. Isis ha usato questi annunci, anche i più simbolici, per dare l’impressione di un progetto in costante crescita, nonostante le ostilità incontrate sul suo cammino.
Isis ha inoltre sviluppato i suoi strumenti di attrazione emotiva, nel tentativo di conquistare il cuore di tutti i musulmani. I suoi inni sono stati diffusi dai jihadisti online e dai simpatizzanti del movimento, usando un linguaggio che parla di determinazione e amore per il martirio. Nonostante questi inni non abbiano alcun accompagnamento musicale, vengono cantati da munshideen (cantori) dalle voci potenti e suadenti. Verso la fine del 2013 Isis ha pubblicato il brano O mia Umma, l’alba è sorta, che divenne subito molto popolare sulle piattaforme jihadiste e tra i simpatizzanti di Isis. Questi inni sono importanti perché fungono da colonna sonora per tutti i video dello Stato Islamico; vengono trasmessi dalle autoradio nelle città sotto il suo controllo, e sono addirittura diffusi nei campi di battaglia. Questa propaganda è rafforzata dalla mitologia che Isis ha adottato nei suoi discorsi e che vede il conflitto contemporaneo in termini apocalittici. Il gruppo ha chiamato il suo periodico Dabiq dal nome di un paese nella regione di Aleppo, in Siria, vicino al confine turco, che appariva con ricorrenza in una profezia islamica che presagiva la vittoria dei musulmani su “Roma” (che i jihadisti da tempo associano con i poteri occidentali), prima di muovere alla conquista di Costantinopoli (oggi Istanbul). La profezia era citata nelle prime pagine del mensile. La mitologia è stata usata per ricordare al pubblico che Isis sta eseguendo un “piano divino”, e che combattere per esso è per tutti i credenti la scelta fondamentale in favore della fede, o contro di essa. Alcuni hanno interpretato l’attacco di Isis ai danni della città curda di Khobane, in Siria, come il tentativo di assicurarsi la strada per Dabiq. I simpatizzanti del gruppo sui social network hanno contato e ricontato il numero degli stati che si univano alla coalizione internazionale contro Isis in Siria e Iraq, per essere sicuri che raggiungesse il numero di 80 membri, come le bandiere nemiche nella profezia. Ed è stata usata per rafforzare il senso d’ineluttabilità che Isis cerca di creare con la sua ambizione di “rimanere ed espandersi”.
Nel momento in cui gli Stati Uniti hanno deciso di lanciare la campagna militare contro Isis per impedire una sua ulteriore espansione verso le maggiori città dell’Iraq, il movimento ha preso ufficialmente il posto di al Qaeda come principale organizzazione jihadista. Il gruppo ha così incrementato le comunicazioni destinate all’Occidente e gli occidentali, ribadendo a questi ultimi il messaggio “vi combatteremo e vi sconfiggeremo”. È così che sono state diffuse sempre più notizie, immagini e filmati delle vittime civili dei raid aerei occidentali, che sono diventati altrettanti strumenti di propaganda per reclutare nuovi volontari nella causa jihadista, questa volta facendo leva sul sentimento di fratellanza a fronte dell’attacco americano30. Al contempo, Isis ha cercato di evitare di apparire troppo sulla difensiva; ha iniziato la pubblicazione di filmati nei quali decapitava ostaggi occidentali, solitamente in seguito a sermoni di sfida, e ha evidenziato il ruolo dei jihadisti occidentali nel minacciare i loro paesi d’origine, concretizzando così la minaccia stessa come vicina e imminente. I jihadisti e i propagandisti di madrelingua inglese sono divenuti fondamentali in questo nuovo ambito, trasmettendo all’occidentale il concetto “ti siamo più vicini di quanto tu non lo sia a noi”.
È sempre colpa dell’occidente, anche delle decapitazioni
Un altro tema ricorrente è come al jihadista piaccia la morte tanto quanto l’occidentale sia attaccato alla vita. I jihadisti cercano di dimostrare che essi sono pronti a commettere ogni atrocità per terrorizzare i loro nemici e indebolirne il morale. Anche quando mostra filmati o immagini in cui decapita cittadini occidentali, Isis si assicura che la colpa venga attribuita all’Occidente, usando le stesse vittime per ripetere l’atto d’accusa prima dell’esecuzione. Il periodico Dabiq ha pubblicato un messaggio del giornalista americano Steven Sotloff pochi giorni prima della sua decapitazione per mano di Isis. L’organo del movimento cita Sotloff mentre afferma che Isis sa che lui è un giornalista, ma che “come i raid aerei americani non distinguono tra chi è armato e chi non lo è, allo stesso modo non fa alcuna distinzione per Isis”. John Cantlie, il giornalista britannico suo ostaggio, ha scritto un articolo per il sesto numero di Dabiq, in cui loda le decisioni e le azioni del movimento e critica la politica americana.
Il quarto numero di Dabiq era intitolato The Failed Crusade (la Crociata fallita), e aveva per oggetto proprio l’offensiva della coalizione a guida americana per contrastare lo Stato Islamico. Con un tono tra il serio e il sarcastico, il giornale preconizzava il fallimento della campagna militare. Uno degli articoli afferma con certezza che “questa (l’Islam nell’accezione di Isis) è la religione a cui è stata promessa la vittoria”. La foto di copertina ritrae piazza San Pietro, a Roma, il cui obelisco appare sormontato dal vessillo nero di Isis, riaffermando le ambizioni di conquista mondiale del movimento. L’edizione del magazine pubblica anche un discorso di Mohammed al-Adnani, il portavoce di Isis, che giura solennemente che “conquisteremo la vostra Roma, distruggeremo le vostre croci e schiavizzeremo le vostre donne, col permesso di Allah, l’Altissimo. Questa è la nostra promessa; egli è glorioso e non manca di rispettare le sue promesse. Se non le compiremo noi stessi, queste stesse verranno portate a compimento dai nostri figli e dai figli dei nostri figli, ed essi venderanno i vostri figli come schiavi al mercato”.
Per Isis la propaganda è stata fin dal principio uno strumento rilevante per raggiungere i propri obiettivi. Il gruppo ha sviluppato una tipologia di comunicazione “tradizionale” che è stata funzionale a entrare in contatto con la popolazione locale, ma si è soprattutto concentrato nell’accrescere la propria presenza sulla rete, social network e Youtube in particolare, che gli hanno fornito amplificatori a basso prezzo per diffondere il suo messaggio a un vasto pubblico nel mondo. Nonostante i tentativi esterni di limitare la diffusione e l’impatto della propaganda dell’organizzazione, il network di supporter e l’esperienza maturata nel jihadismo online hanno permesso a Isis di aggirare o manipolare alcune di queste barriere. Le armi possono servire a contenere il gruppo, forse anche ricacciarlo fuori da aree attualmente sotto il suo controllo. Ma è la guerra sulla propaganda che deciderà se organizzazioni come lo Stato Islamico avranno un ruolo primario o marginale.
Corriere 22.3.15
La figlia del leader musulmano «L’estremismo non avanzerà»
Yusra: la Tunisia resterà unita contro i terroristi
di Giuseppe Sarcina
«Siamo scesi per primi in strada per protestare contro il terrorismo. E siamo sempre pronti a dialogare e collaborare con tutti. La Tunisia continuerà a essere un modello di successo per la transizione alla democrazia». Fuori dall’ufficietto di Yusra Ghannouchi ci sono due uomini di guardia, seduti e apparentemente disarmati.
La famiglia di Yusra è stata forse la più perseguitata ai tempi del presidente Ben Alì, mentre oggi è tra le più importanti della Tunisia. Suo padre, Rachid Ghannouchi è il fondatore di Ennahda il partito islamico moderato che ha governato il Paese per tre anni e che ora appoggia l’esecutivo guidato dai laici. Studi a Londra, radicamento in Tunisia, Yusra, 36 anni, tre sorelle e due fratelli, è la portavoce di Ennahda per l’estero. Tocca a lei parlare al grande mondo nei momenti più difficili.
Perché la Tunisia produce così tanti jihadisti? Si stima che potrebbero essere anche diecimila...
«La Tunisia ha una lunga storia di esportazione dei terroristi, come confermano le vicende in Iraq e in Afghanistan all’inizio degli anni Duemila. Un punto, quindi, mi sembra chiaro. Il radicalismo non è legato, non è nato con la Rivoluzione dei Gelsomini. Nei mesi successivi al gennaio 2011, lo Stato si è indebolito, i controlli di sicurezza si sono allentati. Per un certo periodo, ora non più, centinaia di moschee sono diventate la tribuna di predicatori violenti. Molti giovani si sono trasformati in estremisti, alcuni in terroristi. Quanti siano è difficile dire. Adesso la priorità è evitare che il loro numero cresca».
La convince l’idea che ci sia una relazione stretta tra emarginazione sociale e radicalismo religioso?
«Non è solo questo. Certo i più radicali sono soprattutto giovani, ragazzi disoccupati, spesso vengono da quartieri o villaggi poveri. Ma il radicalismo è anche il risultato di un lungo periodo di repressione culturale e religiosa, quella che abbiamo vissuto ai tempi della dittatura di Ben Alì. Per questo dobbiamo assolutamente continuare a costruire una Tunisia democratica e aperta».
Ennahda ha le credenziali per farlo? C’è chi vi accusa di prendere soldi dal Qatar, un Paese generoso con i movimenti dell’islamismo radicale.
«Allora, non riceviamo finanziamenti dal Qatar. I nostri fondi arrivano dalla sottoscrizione di quote da parte dei nostri militanti, che sono circa 80 mila. Dopodiché so bene che qualche politico tunisino ci accusa, in modo strumentale, di non essere un partito democratico. Ma noi chiediamo di essere giudicati dai nostri comportamenti. Negli ultimi 4 anni, che fossimo al governo o no, ci siamo impegnati perché il Paese facesse dei passi avanti cruciali sulla strada della democrazia. E ora siamo totalmente impegnati nella lotta contro il terrorismo. Siamo stati i primi a scendere in strada, con tanti altri tunisini, subito dopo l’attentato al museo del Bardo».
Che ne dice della proposta avanzata da alcuni parlamentari di organizzare a Tunisi una marcia con i leader degli altri Paesi?
«So che se ne sa discutendo. Il mio parere personale è che la manifestazione di Parigi sia destinata a rimanere un unicum. Penso che ci saranno altre mobilitazioni con la partecipazione delle alte cariche istituzionali della Tunisia. Saranno invitati i rappresentanti diplomatici e questo sarà sufficiente per dimostrare che non siamo soli».
Il Sole 22.3.15
Viaggio tra gli italiani che hanno scelto Tunisi
di Roberto Bongiorni
Perché andare a vivere in Tunisia? C’è chi lo ha fatto per mettere via qualcosa per i figli. Chi non ce la faceva a vivere con 600 euro al mese. Chi è stato attratto dal clima. Hanno motivazioni diverse. Ma sono tutti pensionati. E hanno visto gonfiarsi le pensioni in un Paese con costi dimezzati rispetto all’Italia.
Pur provando un grande dolore per le vittime del tragico attentato terroristico al museo del Bardo di Tunisi, costato la vita anche a 4 italiani, i tanti pensionati con cui abbiamo conversato sostengono di sentirsi al sicuro. Andarsene via? «Nemmeno per idea! Un attentato così può accadere in qualunque città del mondo. È successo a Londra, Madrid, New York e in molte altre città», ripetono all’unisono. «In Tunisia ne sono arrivati 3.500. Un fenomeno in forte crescita negli ultimi due anni. Dal 2014 siamo la maggiore comunità di pensionati, più dei francesi. Gli arrivi qui ad Hammamet sono all’ordine del giorno», racconta Rosario Fazio, 44 anni fondatore di Tunisiadavivere: «La tassazione è favorevolissima: lo Stato tunisino concede la detrazione dell’80%, il reddito imponibile scende così al 20% della pensione. E su questa parte si applica, nel caso peggiore, un’aliquota del 35 per cento. Semplificando, si paga in media solo il 4-5% di tasse su tutta la pensione. Una di 2mila euro al mese qui diviene di 2.600 euro. Che in Tunisia può essere paragonata a 4.600 euro . Ecco perché il 70% dei pensionati viene qui anche e soprattutto per aiutare i figli, a volte di 35-40 anni, strozzati dalla crisi e con lavori precari».
È il risultato della legge tunisina 2006-85 del 25 dicembre 2006, che funziona per l’Italia in virtù di una convenzione fiscale. Per usufruirne occorre richiedere il permesso di soggiorno, aprire un conto bancario su cui sarà accreditata la pensione dall’Italia senza ritenute alla fonte, e abitare in Tunisia sei mesi più un giorno ogni anno, e nemmeno continuativamente.
Carmelo lo sapeva. Lui, 63 anni, loquace palermitano, per quasi 30 anni ha lavorato all’Enel come dirigente. Racconta con rabbia i cinque anni da esodato. Senza lavoro e senza pensione. Poi il salto. «Ho pagato i contributi volontari per sanare la mia situazione e ora qui posso contare su una pensione di circa 3mila euro. Pensate che pago 300 euro per un appartamento di 100 metri quadri ad Hammamet e ho un consistente risparmio mensile rispetto all’Italia. Mi sono messo a fare anche lo skipper».
Ad Hammamet, dove sono oltre 600, si ritrovano nella Casa azzurra, un club gestito da Fazio dove non manca la piscina, la sauna e ogni svago. Coppie di pensionati, vedovi, divorziati, celibi. Tutti insieme. Semplici operai, piloti in pensione, impiegati, colonelli.
Lorenzo Irmici, 67 anni, ufficiale in pensione per l’aeronautica, l’ha fatto soprattutto per i figli. «Diventava problematico vivere in Italia. Un clima freddo, imposte che non finiscono più e 22mila euro l’anno di tasse sulla mia pensione, che qua crollano a 3mila euro. Posso mettere qualcosa da parte per i miei figli, di questi tempi è molto. Non ho paura. La Tunisia ha dei robusti anticorpi per difendersi dall’estremismo islamico».
Ma non sono in pochi a percepire molto di meno. Come Sergio Fiorini, 71 anni torinese. Timido e riservato, lui, che ama definirsi un solitario con la passione della musica e della lettura, dopo una vita da contabile è arrivato ad Hammamet in settembre: «Sono andato in pensione a 65 anni. Con una pensione netta di 900 euro, e un affitto da pagare da 450 euro vicino a Torino, mi sentivo in gabbia. Facevo la vita del criceto. Non vivevo, sopravvivevo. Ora qua percepisco 200 euro in più, mi sono liberato dei debiti e posso risparmiare qualcosa per andare a trovare mia figlia che lavora in Valle d’Aosta. Pago 170 euro per la mia casetta, e il bus mi costa 20 centesimi. Certo l’Italia è la mia patria. Non si può dimenticare. Ma non voglio andare via da qui. Non sono spaventato per l’attentato. Ho iniziato a leggere la storia della Tunisia. E i coraggiosi tunisini, con tutte le loro lotte per avere la democrazia, questo non se lo meritano».
Maurizio Panciera, veneziano di 60 anni, una vita da ferroviere, preferisce sfogarsi su ciò che per lui non andava in Italia: «Una giustizia iniqua, tasse ingiuste, un welfare scadente per chi ha lavorato tutta una vita, Percepivo una pensione lorda di 2.070 euro, netta di 1.580. Qua arrivo a 1.900. E sapete quanto spendo al mese senza farmi mancare nulla? Ottocento euro, e c’è il mare, il sole. Così posso anche aiutare mio figlio che lavora a Londra». Non è però tutto oro quel che luccica. Il sistema sanitario pubblico è carente. Occorre rivolgersi a quello privato, sicuramente migliore. L’integrazione con i tunisini, poi, si riduce spesso a scambi di saluti quando si va a fare la spesa. Ma in tempi di crisi i pensionati non ci badano più di tanto. C’è addirittura chi ironizza sul momento del trapasso. Qua anche il funerale costa molto meno.
Repubblica 22.3.15
Le bandiere dell’Is minacciano gas e greggio ecco perché l’Italia schiera navi e droni
di Paolo G. Brera
GIÙ le mani da Mellitah. Quel nome agli italiani dirà poco e nulla, ma c’è un tubo da 81 centimetri di diametro negli incubi che hanno convinto il governo a varare l’operazione militare “Mare sicuro”. Le bandiere dell’Is sventolano troppo vicine al Gas & Oil complex di Mellitah da cui parte Greenstream, il gasdotto più lungo d’Europa. Affonda nella sabbia sulla spiaggia a sud di Zuwara, a 70 chilometri dal confine tunisino, e riemerge a Gela, in Sicilia, soffiando fino a otto miliardi di metri cubi di gas all’anno: è un gigante che alimenta l’energia di mezza Europa, e visti i rapporti turbolenti con il gas russo è difficile ipotizzare uno scenario peggiore, se i tagliagole dovessero prendere in mano il rubinetto libico.
Greenstream — gestito per tre quarti dall’Eni e per un quarto dalla Noc, la Compagnia nazionale libica — è un gioiello ingegneristico realizzato nel 2004 con i tubi Saipem, 520 chilometri affogati nel Mediterraneo fino a una profondità di 1.200 metri, un investimento di 7 miliardi metà dei quali messi dall’Eni: roba nostra, insomma, ma guai per tutti se cadesse nelle mani sbagliate. È lui il grande obiettivo nel mirino delle milizie. Quando Roma e Tripoli andavano d’amore e d’accordo, ai tempi in cui Gheddafi piantava tendoni beduini zeppi di odalische nel verde di villa Pamphili, più di due terzi del Pil libico arrivava dagli idrocarburi e ingrassava l’amministrazione pubblica libica, pagava stipendi e comprava serenità e buoni rapporti con tutti. Eni e la compagnia petrolifera nazionale firmarono una joint venture paritetica per realizzare il Western Libyan Gas Projects, «un’opera straordinaria, la più importante attualmente in corso nel bacino del Mediterraneo ». Il gas prodotto dai giacimenti nel deserto di Wafa e dai campi offshore di Bahr Essalam entra nei gasdotti e viene trasportato a Mellitah, sulla costa, per essere trattato. Il 20% del gas prodotto resta in Libia, l’80% viene compresso e inviato in Sicilia tramite Greenstream.
Poi c’è il petrolio, un tesoro potenziale di 48 miliardi di barili da estrarre. Dal milione e 600mila barili quotidiani dell’era d’oro del Raìs a zero alla metà del 2011 durante la rivoluzione, poi su in altalena fino a 1,4 milioni di barili giornalieri e riecco la crisi: dopo l’attacco al giacimento della Total a Mabrook e l’attentato all’oleodotto di El Sarir in Cirenaica, che ha isolato temporaneamente il più importante giacimento del paese, la produzione è crollata a poche centinaia di migliaia di barili al giorno. Interessi e alleanze non esistono più, gli uomini neri dello Stato Islamico hanno spazzato via tutto. L’Eni ha ritirato interamente il personale italiano, concentrando il resto sulle basi offshore di Bouri, per il petrolio, e di Bahr Essalam per il gas. La produzione però non si è mai fermata. Pompano i pozzi di Wafa (petrolio e gas) ed Elephant, al confine con l’Algeria, mentre resta chiuso da un anno e mezzo quello di Abu Attifel in Cirenaica. E dove finisce tutto il petrolio spillato dal deserto e dai pozzi offshore? L’intera produzione “italiana” confluisce nel complesso di Mellitah, da dove viene caricato sulle petroliere e spedito alle raffinerie di mezzo mondo.
Ce ne sarebbe già abbastanza per schierare navi e droni, ma in realtà c’è altro a turbare i sonni economici italiani. Ci sono i dati e i megadati, quelli che viaggiano alla velocità della luce nei grandi cavi sottomarini affondati proprio lì, al largo delle coste libiche e tunisine: passano di lì le quattro principali dorsali di collegamento tra l’America e l’Oriente, che come terminazioni nervose si estendono poi a rete collegando l’Europa e l’Africa. Il no- do italiano più importante, in cui l’autostrada digitale europea converge con quelle della grande dorsale Est-Ovest, è a Mazara del Vallo, dove i cavi si immergono con dentro le nostre voci e i nostri contenuti digitalizzati, le chat con gli amici su Facebook o le telefonate via Skype, le email di lavoro e i saluti di WhatsApp. Il nodo libico, connesso con le stesse reti, è a Tripoli: metterci le mani vuol dire avere un accesso diretto e incensurabile alle telecomunicazioni mondiali, e poter intercettare quegli stessi dati sensibili che i servizi americani rubavano a nostra insaputa.
Dunque, eccoci lì davanti con le nostre navi e i nostri aerei: Mare sicuro dovrà proteggere gli interessi italiani tutelando le infrastrutture e gli eventuali connazionali in pericolo. Il governo ha affidato allo Stato maggiore la stesura di un piano dettagliato, ma i contenuti sono praticamente pronti: un migliaio di uomini tra incursori della Marina e marò del San Marco, quattro navi dotate di attrezzature sanitarie, una nave da sbarco, fregate e cacciatorpedinieri, elicotteri e droni Predator. In parte potrebbero essere utilizzate anche le forze schierate per l’esercitazione “Mare aperto” appena conclusa, e l’intera operazione si affiancherà alle altre due già attive nel Mediterraneo: Triton, una “mare nostrum” in tono minore per controllare frontiere e immigrazione; e Active Endeavour, organizzata dalla Nato per contrastare il traffico d’armi e il terrorismo internazionale controllando le navi mercantili. Il tutto in attesa dell’esito della missione difficilissima dell’inviato dell’Onu, Bernardino Leon, da cui potrebbe nascere un impegno italiano molto più concreto.
La Stampa 22.3.15
La Francia aspetta il ciclone Le Pen
Oggi primo turno delle amministrative. Il Front National potrebbe diventare il primo partito
di Paolo Levi
L’ennesimo exploit del Front National, la vittoria finale dei neogollisti, e la débâcle della maggioranza socialista: la Francia è chiamata oggi alle urne per il primo turno delle elezioni provinciali in programma su tutto il territorio della République, fatta eccezione per Parigi, la metropoli di Lione e alcuni territori d’oltremare. Secondo l’ ultimo sondaggio realizzato dall’istituto Ifop, il partito anti-euro di Marine Le Pen raccoglie per le preferenze del primo turno oltre il 30% delle intenzioni di voto, confermando lo statuto di primo partito di Francia ottenuto nel voto europeo dello scorso anno.
Subito dietro, al 29%, ci sono, stando alle ultime rilevazioni, i neogollisti dell’Ump alleati con i centristi dell’Udi.
I grandi sconfitti
Nei ballottaggi di domenica prossima, il centrodestra guidato dall’ex presidente Nicolas Sarkozy potrà però facilmente issarsi al di sopra di Le Pen incassando le migliaia di voti del cosiddetto «Front Républicain», l’unione di tutti gli elettori che si oppongono alla La Pen. Il blocco Ump-Udi si prepara dunque a un possibile trionfo nel secondo turno e spera di poter poi presentare la vittoria come la prefigurazione di un’alternanza su scala nazionale nel 2017. In quest’elezione di primavera, con i timori di un’astensione record, la grande sconfitta dovrebbe essere la maggioranza socialista. Nonostante la breve schiarita nella parentesi di unità nazionale aperta (e poi richiusa) dopo gli attentati jihadisti di inizio gennaio a Parigi, il partito di Hollande viene accreditato nel primo turno ad appena il 20%. Alla fronda della gauche che gli chiede di mandare a casa il premier social-liberale Manuel Valls in caso di sconfitta, lui ha già risposto picche: «Il primo ministro resta al suo posto». Ma non è escluso un rimpasto al livello dei ministri.
Corriere 22.3.15
Sarkozy rincorre Marine Le Pen per arginare i trionfi del Fronte
Oggi le Dipartimentali in Francia, l’ultradestra domina il dibattito
di Stefano Montefiori
PARIGI Oggi si vota in Francia per il primo turno delle elezioni dipartimentali (il Dipartimento è l’equivalente amministrativo delle Province in Italia), e lo scenario è quello ormai consueto: sconfitta del partito socialista al governo e avanzata del Front National, con un’incognita legata al risultato dell’Ump, il partito di centrodestra all’opposizione. Riuscirà il suo leader, l’ex presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, a strappare voti a Marine Le Pen data a lungo come favorita? Secondo l’ultimo sondaggio Ipsos sembrerebbe di sì: Ump 30%, FN 29%, PS 21% sono le previsioni.
Va detto che il Front National ha completamente dominato il dibattito politico, pur senza prendere iniziative. Marine Le Pen si è fatta notare invitando il campione del Paris Saint-Germain Zlatan Ibrahimovic a lasciare la Francia da lui definita «un Paese di m…» in uno sbotto d’ira contro l’arbitro; per il resto, la leader del Front National ha tenuto un basso profilo, lasciando che gli avversari lavorassero per lei. Il premier Manuel Valls ha lanciato più volte l’allarme sul pericolo che il Front National arrivi un giorno davvero al potere, mentre Nicolas Sarkozy ha condotto una campagna elettorale appiattita sui temi cari al FN, adottandone le posizioni. Restano le differenze sull’euro (Marine Le Pen vuole uscirne, Sarkozy no), ma quanto a identità nazionale e immigrazione non ci sono ormai sostanziali differenze.
Nella campagna elettorale del 2012 era Marine Le Pen a protestare contro i menu speciali per i musulmani nelle mense scolastiche della scuola pubblica. Tre giorni fa, è stato Sarkozy a dire «se volete che i vostri figli abbiano abitudini alimentari confessionali, rivolgetevi a scuole private confessionali». In pratica, Sarkozy è favorevole all’abolizione — già avvenuta in qualche città — del piatto alternativo al maiale. Da tempo la Le Pen milita per l’abolizione del velo anche all’università (oggi è proibito fino alle superiori); anche Sarkozy stavolta si è schierato contro, ricevendo le critiche dei suoi compagni di partito.
Se Marine Le Pen da anni attacca «il sistema» coniando la formula «UMPS», sostenendo in pratica che UMP e PS sono la stessa cosa e rappresentano il male consociativo della Francia, Sarkozy la copia e inventa il «FNPS», sostenendo che ogni voto al Front National fa il gioco del Partito socialista e invitando al «voto utile» per l’Ump. Sarkozy chiede l’abolizione di Schengen che lascia entrare troppi stranieri, rivendica di essersi opposto alla Turchia nella Ue, dice «vogliamo mantenere il nostro stile di vita. Chi arriva in Francia deve assimilarsi, adottare il nostro modo di vita, la nostra cultura. Noi non restiamo con le scarpe ai piedi quando visitiamo una moschea». La scommessa di Sarkozy è svuotare il bacino del Front National, il rischio è fare campagna per Marine Le Pen .
Repubblica 22.3.15
“Je suis Zineb”
Zineb El Rhazoui, 33 anni, sociologa delle religioni e giornalista di “Charlie Hebdo”
“Ora per gli jihadisti uccidermi non è un’opzione ma è un obbligo”
di Anais Ginori
PARIGI CHARLIE È UNA DONNA che cammina stretta tra due guardie del corpo, mentre altri poliziotti bloccano al traffico un’intera strada per isolare e proteggere la macchina sulla quale deve salire. «Adesso faccio parte del piccolo e maledetto club di persone da abbattere solo per quello che dicono o scrivono». Per lei non c’è stato neppure bisogno di una fatwa, un editto religioso. È bastato un hashtag, diventato in poche ore il più popolare sui siti jihadisti: #obligation de tuer zineb el rhazoui pour venger le prophète , “obbligo di ucciderla per vendicare il Profeta”: «Non è un’opzione ma proprio un obbligo». Zineb El Rhazoui arriva scortata nella sede di Libération, dietro place de la République. Sale all’ultimo piano, entra nella stanza hublot, come l’oblò dal quale si vede tutta Parigi, in quella che da un paio di mesi è la redazione provvisoria di Charlie Hebdo. Il giorno prima è stata costretta ad annullare l’incontro con Repubblica , le autorità le hanno chiesto di abbandonare in poche ore il suo domicilio per trasferirsi in un luogo segreto e sicuro. «Devo risolvere una serie infinita di piccoli e grandi problemi. Non sono preoccupata per me, ma per chi mi sta accanto». Nei siti jihadisti è citato anche suo marito, lo scrittore marocchino Jaouad Benaissi. «Non lavora a Charlie, non è un personaggio pubblico ma si ritrova suo malgrado travolto da questa shit storm ».
Prima di riuscire a parlare con Zineb ci sono vari filtri, perquisizioni. Fino a qualche settimana fa, nessuno o quasi conosceva il suo volto. Ora la sua foto accompagna le minacce di morte che circolano in Rete. Sono appelli precisi, dettagliati. «In mancanza di una pallottola o di esplosivo, viene suggerito di isolarmi e schiacciarmi la testa con dei sassi, sgozzarmi, darmi fuoco. E se proprio non c’è altro da fare, bruciare la mia casa». Snocciola le diverse possibilità come se parlasse di un’altra persona, con un misto di ironia e sfida. «Bene, stronzi, vi » ha reagito in televisione, subito dopo la notizia dell’hashtag minatorio, a febbraio. Ora tutto è diventato meno virtuale. La convivenza forzata con gli agenti, i traslochi imposti nella notte, qualsiasi movimento, incontro, sottoposto a verifiche. La libertà non è più quella di prima. Zineb controlla ogni parola. «Ok, ho sbagliato a dire stronzi. Non bisogna insultare. Diciamo integralisti, ok?». Alle undici del mattino ha già finito il primo pacchetto di sigarette slim alla menta. «Per gli integralisti rappresento una visione insopportabile ». È donna, giovane, nata a Casablanca il 19 gennaio 1982, è una musulmana atea, una sociologa delle religioni che ha deciso di lavorare in un settimanale satirico, laico e anarchico. Dentro a Charlie Hebdo è l’unica a parlare arabo, ha fatto l’esegesi di libri antichi e riservati agli specialisti dell’Islam. «Sono la prova vivente che non esiste lo scontro di civiltà, ma la scontro tra una barbarie e laciviltà ». Come tante bambine marocchine, Zineb è cresciuta seguendo l’educazione islamica obbligatoria a scuola. «Ma non eravamo costrette a mettere il velo, né c’erano classi separate tra maschi e femmine, come vorrebbero fare gli integralisti oggi». A diciotto anni è arrivata a Parigi per fare l’università, si è iscritta al master di sociologia delle religioni all’Ehess, la scuola di scienze sociali dove sono passati Lévi- Strauss, Bourdieu, Foucault. Ha vissuto due anni in Egitto, insegnando all’università del Cairo, prima di decidere di tornare in Marocco, nel 2007. «Sentivo che era lì che dovevo fare le mie battaglie». Zineb scrive su Le Journal Hebdomadaire , giornale francofono e indipendente. Insieme a un gruppo di amici fonda “Mali”, acronimo di Mouvement alternatif pour les libertés individuelles, che in arabo marocchino significa anche “Cosa c’è che non va?”. Nel 2009 il Mali organizza un picnic all’aperto durante il periodo di Ramadan per protestare contro l’articolo 222 del codice penale che mette in priaspetto gione chiunque mangi pubblicamente durante il digiuno religioso. Zineb e gli altri militanti vengono arrestati, poi rilasciati. L’anno dopo, la polizia entra nella redazione de Le Journal Hebdomadaire , mette i sigilli. Nel 2011, con le primavere arabe, diventa portavoce del “movimento del 20 febbraio”, data della prima di una serie di manifestazioni per chiedere riforme democratiche. Presto i contestatori si dividono, la repressione si fa più dura. Zineb decide di lasciare Casablanca per la Slovenia dov’è stata inserita nel programma “Icorn”, l’ International Cities of Refuge Network , che dà rifugio a scrittori e giornalisti perseguitati. «Se fossi rimasta in Marocco sarei davvero finita nei guai» ricorda fumando un’altra sigaretta.
È durante la sua fuga che incontra la banda di Charlie Hebdo. Una giornalista del settimanale la intervista a Parigi sulle primavere arabe. Due giorni dopo è a pranzo con i vignettisti Charb e Riss. Zineb comincia a mandare articoli sul mondo arabo, su quella che chiama «decostruzione dell’ideologia integralista», offre una sponda erudita per rispondere alle critiche che il giornale riceve dal 2006, quando pubblicò le vignette danesi su Maometto. Una mattina il direttore Charb chiama Zineb in Slovenia: «E se raccontassimo chi era davvero Maometto? Tutti conoscono la vita di Gesù o Mosè, nessuno quella del messaggero di Allah». Lei scrive i testi, lui disegna. Una cosa seria, senza caricature né battute. La biografia a fumetti, allegata al giornale, diventa un libro, con note bibliografiche in cui l’autrice rimanda agli antichi racconti sulla vita del Profeta. «Non abbiamo inventato nulla, anche perché la vita di Maometto è già abbastanza straordinaria così». Il Profeta è rappresentato con l’omino giallo, feticcio di Charb.
Il 7 gennaio scorso Zineb era nella casa di famiglia in Marocco. Aveva messo la sveglia presto, doveva mandare una proposta di articolo prima della riunione di redazione. La sua email è rimasta senza risposta. Zineb ha continuato per tutto il giorno a chiamare Charb, anche se ormai sapeva che era morto. Non voleva crederci. Era lui il più coraggioso di tutti. Ogni volta che si trovava davanti a un problema, gridava ai colleghi «Allah Akbar!». Un giorno Zineb gli chiese di smetterla. «Quando verranno per ucciderti non sapremo se è uno scherzo» gli aveva detto. A dicembre, avevano pranzato insieme prima delle vacanze. Il vignettista-direttore ironizzava sulle difficoltà finanziarie del giornale, sulle questue cui era costretto presso le istituzioni per sopravvivere. «Mi ritrovo a battere come una puttana» le aveva detto. La redazione è sempre stata molto maschile, osserva Zineb, «ma col tempo Charlie ha imparato a essere femminista. Noi ragazze siamo riuscite a farci rispettare ». Qualche settimana fa sono venute a Parigi delle guerrigliere curde che combattono l’Is. «Gli integralisti le temono più degli uomini. Sono convinti che se vengono uccisi da una donna non avranno lo statuto di martiri e quindi niente Paradiso, niente vergini: una fregatura, insomma».
Ogni tanto vede Tignous o Charb all’angolo della strada, in mezzo alla folla. Allucinazioni. «Non abbiamo avuto il tempo di elaborare il lutto». Della paura non vuole parlare. «Sono finita in mezzo a una guerra, sarebbe da vigliacchi capitolare per salvare la pelle. E comunque non servirebbe». Sta preparando il prossimo articolo. La traduzione commentata di un questionario dell’Is a proposito della vendita di donne. Ne racconta qualche estratto. «”Se compro due sorelle posso fare sesso con tutte e due?”. Risposta del Califfato: “No, una può essere compagna, l’altra domestica”. “Se una delle mie schiave ha un bambino, posso rivenderlo?”. “Sì”. “Quando compro una donna posso fare l’amore subito?”, “Se non è vergine bisogna aspettare che abbia il ciclo per essere sicuri che non sia incinta”». L’articolo di Zineb uscirà presto su Charlie Hebdo. Era la proposta che aveva mandato a Charb il 7 gennaio. «Ho interpretato il silenzio come un sì».
il Fatto 22.3.15
Il triumvirato Podemos nelle urne
I professori che guidano il partito della protesta anti-Ue alla prova del voto andaluso
di Elena Marisol Brandolini
Barcellona. In Spagna, è Podemos il fenomeno che scompagina le carte a sinistra, in competizione con socialisti e Izquierda Unida. Perché, nonostante le pretese di trasversalità, i suoi fondatori provengono dalla sinistra anti-capitalista e i contenuti sono quelli che mossero l’indignazione popolare contro le ricette neo-liberiste di Fmi e Ue. Podemos, una sorta di ibrido tra un partito e un movimento, nasce dall’intuizione di un gruppo di intellettuali dell’università Complutense di Madrid, raccogliendo un sentimento diffuso tra la popolazione contrario all’attuale sistema di rappresentanza politica. Tra i suoi fondatori, il nucleo centrale è composto da 3 uomini, Íñigo Errejon, Juan Carlos Monedero e Pablo Iglesias.
Errejon, 32 anni, è dottore in Scienze Politiche ed è stato il direttore della campagna del partito alle europee. Proveniente dalla sinistra no global, avendo partecipato al G8 di Genova del 2000 e al movimento contro la guerra in Iraq, è stato recentemente insignito della carica di professore onorario dall’università argentina di Lanús. Nella sua più recente attività di ricercatore, è incorso in un incidente con l’Università di Malaga, che l’aveva contrattato per uno studio sulla situazione abitativa in Andalusia, lavoro da svolgersi in loco e che invece Errejon ha realizzato da Madrid. Juan Carlos Monedero, di 52 anni, è professore di scienze politiche alla Complutense di Madrid. Prossimo al movimento degli Indignati spagnoli, è stato consulente di Izquierda Unida dal 2000 al 2005, del governo venezuelano e di vari governi dell’America Latina per l’istituzione di una moneta unica. Proprio quest’ultima consulenza è all’origine di un problema che ha suscitato più di un imbarazzo in Podemos: per evitare una sanzione fiscale, Monedero ha dovuto versare 200.000 euro all’erario spagnolo, a saldo dell’imposta sui redditi 2013.
PABLO IGLESIAS ha 37 anni ed è professore universitario di Scienze Politiche. Eletto al Parlamento europeo, ha una traiettoria politica nella sinistra, che lo vede già adolescente aderire all’organizzazione giovanile del Pce, partecipe del movimento contro la globalizzazione e consulente di Izquierda Unida nelle elezioni del 2011. Sua compagna di vita è Tania Sánchez, ex-candidata di IU per la Comunità di Madrid nelle elezioni di maggio e ora impegnata nella costruzione di una lista di unità popolare. Noto al grande pubblico per la sua presenza in televisivi, al principio del 2014, Iglesias proponeva la costruzione del movimento Podemos, poi costituitosi in partito, diventandone segretario.
Un partito con organi di direzione nelle diverse Autonomie, eletti attraverso la rete e per lo più affini al gruppo centrale. Al cui interno vanno nascendo critiche e distinguo riferiti all’eccesso di controllo dell’apparato centrale. Podemos affronta oggi in Andalusia il suo primo appuntamento elettorale dopo il successo delle europee, in un territorio dovei socialisti sono ancora dati per vincenti e la sua affermazione al terzo posto.
In realtà, il fenomeno Podemos esisterebbe anche senza il partito Podemos, tanto è forte il bisogno di cambiamento. È il prodotto della crisi che qui non è stata solo economica, ma anche del modello democratico, del patto di convivenza siglato con la Costituzione del ’78. È il ragionamento sulla casta che prevale, quella dei mercati finanziari e quella della classe politica, troppo spesso corrotta, cui fa parte la stessa sinistra tradizionale.
Corriere 22.3.15
La copertina che fa discutere
Merkel circondata da gerarchi nazisti: «Così ci vedono in Europa»
Il settimanale Spiegel pubblica in copertina un fotomontaggio provocatorio della Cancelliera circondata dalle Ss col titolo: «La superpotenza tedesca». Lettori indignati
di Francesco Tortora
qui
Repubblica 22.5.15
Non toccate Angela ha risollevato il gigante tedesco dalla “grande colpa”
di Guido Ceronetti
UNA frase degna di Tacito, apparsa in anni recenti su Der Spiegel: «La si guardi dal cielo o dalla terra, Berlino è un mostro, piantato con prepotenza nelle sabbie del Brandeburgo». Alfieri, nel XVIII, non ci vide che caserme; furono queste a introdurre Berlino nella storia europea, dove nessun altro luogo ebbe lo strano destino di essere designato, dal più grande regista italiano, come Berlino Anno Zero , e Corrado Alvaro, inviato della Stampa , osservava con quanta serietà le donne sbucate dalle macerie le radunavano, le mettevano in ordine, le classificavano. Nei pressi di una chiesa distrutta, un vecchio angelico suonava l’Organo di Barberia: il mostro aveva perso gli unghioni.
E la storia lo irrora di disastri, man mano che l’Anno Zero si allontana: il Ponte Aereo di Clark, la ferita aperta della Ddr, lo snaturamento di essere una capitale senza istituzioni, il Muro con la sua sequela di morti, fino al segnale magico congiunto Reagan-Gorbaciov che fa liquefare nell’Ottantanove il Muro. La futura signora della Germania unita e dell’Europa continentale unita, viene di là, laureata in fisica con vocazione destinale alla cabina di comando. Come si diventa una grande potenza puramente economica, senza violenza di Kaiser e volontà omicida paranoica di Hitler, come si arriva a tanta solidità di titoli e solitudine di potere? Direi semplicemente che il motore, non meccanico, di tutto, che Angela Merkel oggi perfettamente incarna non è economico né politico, ma spirituale , frutto di revisionismo etico: là, dove il crimine umano ha toccato il suo culmine. Quando sento in tutta la sua brutalità il rigetto delle brutture e delle demenze d’uomo, non mi è impossibile evitare del tutto di credere che la bellezza a cui è dato salvare il mondo sia perduta, per sempre.
Undici anni prima che Angela nascesse ad Amburgo, per diventare quasi subito berlinese dell’Est, Karl Jaspers, nelle aule gremite di Heidelberg, già nel semestre d’inverno del 1945 (Anno Zero), teneva un corso ad ignari giovani exnazionalsocialisti sulla colpa di aver chinato la testa, sulla colpa dei loro padri di averli lasciati intossicare da una religione di sterminio e di morte. In realtà la complicità veniva dal trono più alto della filosofia europea, e lo stesso Jaspers aveva taciuto quando bisognava morire per la verità e il terrore aveva paralizzato tutti. I filosofi parlavano da un trono abbattuto come un qualsiasi monumento del Tiergarten. Jaspers lasciò Heidelberg un anno dopo ma il seme era gettato, il volume che raccolse quelle lezioni memorabili, Die Schuldfrage ( in Italia subito pubblicato col titolo La colpa della Germania , approvato dall’autore, nel 1947), fu un basamento nuovo per un trono nuovo della filosofia tedesca. Ripensare, raddrizzare i pensieri storti e bugiardi è riscattarsi. E la grande Cancelliera ha avuto il giusto orgoglio e il giusto coraggio di andare in Giappone a indicare come esempio il revisionismo antinazista e la pacificazione in saecula saeculorum franco-tedesca. Chi potrà dimenticare l’incontro di Verdun tra il generale de Gaulle e Konrad Adenauer, se sia posseduto da autentici sentimenti umani?
L’economia non è che una maschera (che spesso non nasconde che polvere e morte); nel midollo etico è la vera forza.
Via via che il revisionismo denazificante e demilitarizzante riagganciava la Germania all’Europa, e che il paleomarxismo dell’Est perdeva i suoi ultimi ripari, il mostro Berlino si schiodava dalla vecchia arroganza; eccone emergere una consapevole capitale della Kultur , a misura del destino che le avrebbe impresso, poco dopo il Duemila, l’eurogermanesimo, non facile ma vivificatore, di Angela Merkel, grinta che non piace agli imbroglioni, ai nostalgici monetari, ai riformati mentali, agli inguaribili corrotti dal denaro dell’Europa mediterranea. Che non si lasci intimidire, la Cancelliera, custode di un focolare che ha una estensione da sacro romano impero medievale. A lei si addice e dedico la sentenza di Marco Aurelio: «Se puoi istruiscili, se non puoi sopportali».
La Stampa TuttoLibri 21.3.15
Varoufakis: “Solo Marx ci può salvare dalla crisi”
“Ci serve Marx, ma un po’ corretto”
“Ma i socialisti che volevano fare la rivoluzione sbagliarono tutto Non cambiarono il mondo, migliorarono le loro condizioni personali”
di Janis Varoufakis
Forse perderà il braccio di ferro con Berlino. Ma sul piano mediatico Varoufakis ha già vinto. Con la sua verve, il suo cranio smerigliato che buca lo sguardo, i messaggi pugnaci ha colorato il grigio mondo dello spread. In «Confessioni di un marxista irregolare» (di cui pubblichiamo un brano) l’economista-ministro greco delinea un’autobiografia intellettuale e militante. Che diventa un manifesto politico-filosofico-esistenziale per l’europrogressismo radicale. La posta in gioco - dice - è il futuro dell’Europa. Perché se l’attuale capitalismo neoliberista, entrato in una «ripugnante» crisi, verrà semplicemente «stabilizzato», si trasformerà in un bagno di sangue, sia per i lavoratori, che per i banchieri. Con la stessa vis polemica che usa per fiorettare con Schäuble, Varoufakis passa dall’«Invasione degli ultracorpi» (film) alla definizione del debito, del plusvalore, del risparmio. Fustiga Keynes, il thatcherismo, e torna a Marx. Ma in modo «eretico». Ovvero smascherando il suo errore principe: l’eccessive fiducia nelle formule matematiche per governare l’economia (da cui conseguì la fiducia scientificamente sanguinaria dei comunisti di cambiare il mondo con falce e martellate, senza peraltro mutar nulla). Varoufakis recupera invece l’attualissima critica marxista alle ingiustizie del capitalismo, che sperpera risorse, produce in serie infelicità, schiavitù, crisi.... In termini di libertà, razionalità, umanità, non di rivoluzione. Altrimenti la partita con il neoliberismo è persa.
[b. v.]
Le élite europee si stanno comportando oggi come una sventurata compagnia di leader incompetenti che non capisce nulla né della natura della crisi cui sta presiedendo né delle sue implicazioni per il loro stesso destino – per non parlare di quello del futuro della civiltà europea. Spinti dai loro istinti atavici, i leader europei stanno scegliendo di saccheggiare le ricchezze in diminuzione dei poveri e degli sfruttati allo scopo di turare le voragini provocate dai loro banchieri falliti, rifiutando di accettare l’impossibilità del tentativo. Dopo aver creato un’unione monetaria che A) ha rimosso dalla macroeconomia europea tutti i possibili strumenti in grado di attutire gli shock e B) ha assicurato che, all’arrivo dello shock, questo sarebbe diventato di enormi proporzioni, si stanno prodigando nel negare la realtà, sperando, irrazionalmente, in qualche miracolo provocato dagli dei dopo il sacrificio di un numero sufficiente di vite umane sull’altare dell’austerità e della competizione.
Ogni volta che gli ufficiali giudiziari della troika visitano Atene, Dublino, Lisbona, Madrid; a ogni pronunciamento della Banca Centrale Europea o della Commissione Europea sulla prossima fase dell’austerity che dovrà essere messa in pratica da Parigi o da Roma, tornano in mente le parole di Bertolt Brecht: “la forza bruta è passata di moda. Perché mandare sicari prezzolati quando gli ufficiali giudiziari possono fare lo stesso lavoro?”. Il punto è: come resistergli? Sempre consapevole della colpa collettiva della sinistra per il feudalesimo industriale cui abbiamo condannato per decenni milioni di persone in nome di…politiche progressiste, vorrei nonostante questo formulare un parallelo tra l’Unione Sovietica e l’Unione Europea. Nonostante le loro grandi differenze, esse hanno una cosa in comune: l’uniforme linea di partito che scorre senza soluzione di continuità dal vertice (il Politburo o la Commissione) alla base (ogni giovane ministro di ogni Stato membro, o ogni commissario di infima importanza, che ripete a pappagallo le stesse futilità). Sia l’apparato dell’Unione Sovietica che quello dell’Unione Europea condividono una determinazione da setta religiosa ad accettare i fatti solamente se concordi con le profezie e i loro testi sacri. Il signor Olli Rehn, ad esempio, che è il membro della Commissione Europea responsabile delle questioni economiche e finanziarie, recentemente ha avuto l’audacia di accusare il Fondo Monetario Internazionale per aver rivelato alcuni errori nel calcolo dei moltiplicatori fiscali dell’Eurozona perché una tale rivelazione «minava la fiducia dei cittadini europei nelle loro istituzioni». Neppure Leonid Breznev avrebbe osato fare pubblicamente una tale dichiarazione!
Con le élite europee allo sbando, volte a negare la realtà con le teste sotto la sabbia come gli struzzi, la sinistra deve ammettere che, semplicemente, non siamo pronti a colmare il baratro che un capitalismo europeo al collasso aprirà, con un sistema socialista funzionante, capace di creare benessere condiviso per le masse. Il nostro obiettivo deve quindi essere duplice: portare avanti un’analisi del corrente stato delle cose che i non-marxisti, ossia gli europei sedotti in buona fede dalle sirene del neoliberismo, possano trovare condivisibile.
E dar seguito a questa solida analisi con proposte per stabilizzare l’Europa – per porre fine alla spirale recessiva che, alla fine, rinforzerà solamente gli intolleranti e incuberà le uova dei serpenti. Ironicamente, noi che aborriamo l’Eurozona abbiamo l’obbligo morale di salvarla!
Questo è quello che abbiamo cercato di fare con la nostra «Modesta proposta» [con Holland e Galbraith, ndr]. Indirizzandoci a platee eterogenee che vanno dagli attivisti radicali ai gestori dei fondi speculativi, l’idea è quella di creare alleanze strategiche persino con persone di destra con le quali condividiamo un semplice interesse: un interesse nel porre fine al circolo vizioso tra austerità e crisi, tra stati in bancarotta e banche in bancarotta; un circolo vizioso che danneggia tanto il capitalismo quanto ogni programma progressista in grado di rimpiazzarlo. Questa è la ragione per cui difendo i miei tentativi per arruolare alla causa della «Modesta proposta» gente come i giornalisti di Bloomberg e del New York Times, membri conservatori del Parlamento inglese, finanzieri che sono preoccupati dalla tragica situazione dell’Europa.
Il lettore mi concederà di concludere con due confessioni finali. Mentre sono felice di difendere come sinceramente radicale lo scopo del programma per stabilizzare il sistema che propongo, non pretendo comunque di esserne entusiasta. Questo è quel che dobbiamo fare, spinti dalle circostanze odierne, ma mi dispiace dover dire che probabilmente non farò in tempo a vedere adottato un programma più radicale. Infine, una confessione di natura più strettamente personale: io so di correre il rischio di alleviare, surrettiziamente, la tristezza dell’abbandonare ogni speranza di sostituire il capitalismo nel corso della mia esistenza indulgendo nel sentimento di essere diventato «gradevole» agli occhi degli appartenenti ai circoli della «buona società». Il senso di soddisfazione personale nell’essere onorato dai ricchi e dai potenti ha iniziato, di tanto in tanto, a farsi strada in me. Ed è una sensazione assolutamente brutta, non radicale, che sa quasi di corruzione.
Il mio nadir personale è arrivato in un aeroporto. Un gruppo danaroso mi aveva invitato a tenere un discorso di apertura sulla crisi europea e aveva sborsato la considerevole somma necessaria a comprarmi un biglietto aereo in prima classe. Sulla strada del ritorno verso casa, stanco e reduce già da diversi voli, mi stavo facendo strada attraverso la lunga fila di passeggeri della classe economica per raggiungere il mio gate d’imbarco. Improvvisamente realizzai, con notevole orrore, quanto facile fosse per la mia mente venire infettata da questa sensazione di essere “autorizzato” a sorpassare la massa. Capii quanto facile fosse per me dimenticare quel che il mio pensiero di sinistra aveva sempre saputo: che nulla riesce a riprodursi meglio di un falso senso di potere. Costruendo alleanze con forze reazionarie, così come penso dovremmo fare per stabilizzare l’Europa odierna, si corre il rischio di venire cooptati, di gettare alle ortiche il nostro radicalismo in cambio della piacevole sensazione di essere “arrivati” nei corridoi del potere.
Confessioni radicali, come quella che ho appena tentato di fare, sono forse l’unico antidoto programmatico agli scivoloni ideologici che minacciano di trasformarci in ingranaggi del sistema. Se dobbiamo stringere patti col diavolo (col Fondo Monetario Internazionale, con i neoliberisti che, nonostante questo, sono contrari a quella che chiamano la dittatura delle banche fallite, eccetera), dobbiamo evitare di diventare come i socialisti che non riuscirono a cambiare il mondo ma riuscirono a migliorare la loro situazione personale. Il trucco è evitare il massimalismo rivoluzionario che, alla fine, aiuta i neoliberisti a aggirare qualsiasi opposizione alla loro cattiveria autodistruttiva ma allo stesso tempo mantenere la nostra visione del capitalismo come intrinsecamente malvagio mentre cerchiamo di salvarlo, per motivi strategici, da se stesso. Confessioni radicali possono essere utili nel mantenere questo difficile equilibrio. Dopotutto, il marxismo umanista è una lotta costante contro ciò che stiamo diventando.
La Stampa TuttoLibri 22.3.15
È l’anticomunismo che moltiplica la Destra
di Mattia Feltri
Si rafforza il sospetto che sia stato tutto un grande alibi. L’antifascismo sfoderato ogni mattina da settant’anni a questa parte perché l’Italia continuasse a essere un paese di destra senza senso di colpa. Gli eredi diretti del mussolinismo massacrati con catartico furore nell’immediato dopoguerra, esiliati dalla vita pubblica ma allo stesso tempo tenuti al centro del mirino come legittimazione democratica di tutto il resto. Recuperati i migliori, o i più utili alla ricostruzione: se interessa è ormai corposa la saggistica sui fascisti riciclati e – nella Destra siamo noi – Giampaolo Pansa ne indica almeno uno a lui vicino e pure caro: Eugenio Scalfari. Si induce a riflettere sulle strane geometrie della politica, su quale sia stata la dialettica destra-sinistra in Italia, una volta abbattuto il fascismo, e per esempio se fosse davvero più a destra la politica sociale di Benito Mussolini oppure l’implacabile immobilismo di Giulio Andreotti, quello del «meglio tirare a campare che tirare le cuoia». E allora sì, senza dubbio il titolo è perfetto:
La destra siamo noi, sempre che per destra si intenda il mezzo o tre quarti di mondo raccolto attorno a un altro anti, l’anticomunismo. Gli italiani sono in gran parte dei sedentari ideologici che si consentono giusto la scappatella del settarismo ideologico da tinello. Dunque, Indro Montanelli è l’eroe dei borghesi fino al momento in cui diventa l’eroe del terzo «anti» di questa nostra storia, l’antiberlusconismo (in attesa che si sedimenti e organizzi l’antirenzismo).
La destra siamo noi nonostante ci si domandi – se lo domandava Pietrangelo Buttafuoco sul Foglio scrivendo del libro di Pansa – perché una certa destra, quella spinta, per intenderci almirantiana, sia sempre rimasta ai margini. Bisognerà intendersi sulla semantica, ma comunque da Mario Scelba a Matteo Salvini passando per Giovannino Guareschi e Gianni Baget Bozzo, splendido anti-Peppone, e per tanti personaggi minori, sconosciuti o dimenticati, viene fuori il profilo di un popolo così ampiamente di destra che ha preferito non dirselo. Alzava le spalle, nella migliore delle ipotesi, quando scorreva il sangue dei vinti che è il tema ormai eterno dell’analisi di Pansa. Ha alzato le spalle alla carneficina dei repubblichini e ha continuato ad alzarle persino davanti all’infamia dei fratelli Mattei bruciati vivi a Primavalle nel 1973: Virgilio aveva 22 anni, Stefano 8 e condividevano la colpa di essere figli di un militante missino; così tutti quanti abbiamo alzato le spalle se anche quell’orrore veniva addebitato al fascismo dalla stampa democratica, perché cose del genere le fanno soltanto i fascisti in conseguenza della loro differenza antropologica. Le Brigate rosse erano sedicenti, e cioè neri travestiti, secondo la spiegazione di un giornalista grande e sanguigno ma non sempre lucidissimo: Giorgio Bocca. Dopo il tracollo dell’Unione sovietica, si disse che però in Italia aveva vinto Antonio Gramsci: tutte le intelligenze e tutte le fascinazioni erano ormai di sinistra. Vero, di modo che fosse facile restare a destra.
La Stampa 22.3.15
E Claretta fece di Mussolini un magnifico cornuto
Nel ’37 il duce scoprì la tresca della sua amante con un ex miliziano dannunziano
Uno storico ha trovato la documentazione tra le carte di Renzo De Felice
Claretta Petacci fu uccisa a 33 anni con Mussolini
di Mirella Serri
«Il mondo crolla su di me. Io muoio...», annota Clara nel diario il 13 luglio 1937. Alle ore 19 è squillato il telefono di casa Petacci. Nel microfono ruggisce una voce possente nota a tutti gli italiani: «So tutto, di voi non ne voglio più sapere». Claretta finge di cascare dalle nuvole: «Non so di che parlate». Alla tempesta di improperi che la investe scoppia in un pianto dirotto. Il duce, è di lui che si tratta, sempre urlando attacca. L’indignazione del dittatore non conosce limiti, ha appena saputo che è stato «fatto becco» dall’amante venticinquenne, più giovane di lui di quasi 30 anni.
Della liaison segreta di Claretta Petacci con Luciano Antonetti, latin lover ed ex miliziano dannunziano, sono state fino a oggi cancellate accuratamente le tracce. Una vicenda in cui si è imbattuto Giuseppe Pardini, professore di Storia contemporanea, lavorando sulle carte di Renzo De Felice. Lo studioso ha ritrovato i documenti, conservati in fotocopia, tra i materiali del biografo di Mussolini, il quale, come sostiene Pardini, probabilmente voleva utilizzarli per integrare la sua sterminata opera sul duce.
Si tratta di cinque relazioni redatte da un noto fiduciario della polizia politica, Ezio Attioli, che nei suoi rapporti racconta la ferita inferta al più desiderato e acclarato esponente della fallocrazia fascista (copyright Carlo Emilio Gadda), all’uomo che del suo dominio sul gentil sesso aveva fatto un simbolo e una bandiera. Ora questi inediti vedono la luce in un saggio di Pardini, L’amante di Claretta. Il duce, i confidenti, la gelosia, l’Ovra, che uscirà nel numero della rivista Nuova storia contemporanea (gennaio-febbraio 2015) a giorni in edicola.
I rapporti dello spione
A incaricare Attioli di sorvegliare Claretta, da poco separata dal marito, è il papà Francesco Saverio, medico personale del papa Pio XI. Ha visto la figliola «rincasare con gli occhi gonfi, e con segni evidenti di strapazzi subiti». Già, proprio così. La fedifraga ha trascorso una nottata con il seduttore Antonetti. Nel timore che Clara si lasci irretire da quel «magnaccio», il dottor Petacci si propone di affrontarlo per strada, ma si trattiene per timore dello scandalo. Arruola lo spione Attioli in modo che pedini il corteggiatore e gli infligga al momento opportuno una bella lezione.
L’informatore ha mire nascoste: è un doppiogiochista, segue l’intrigo di amore e di gelosia e lo trascrive in rapporti che spedisce al capo della polizia, Arturo Bocchini. Attioli è convinto che Clara non abbia alcuna intenzione di liberarsi del duce, nonostante sia molto presa dal bel Luciano. «Il suo agire ostinato lascia un po’ perplessi», rileva lo spione, «da un lato non vuole perdere la benevolenza del duce e nulla trascura per far credere che lo ama; dall’altro lato si abbandona spesso a nottate fuori di casa in compagnia dell’amico Antonetti e non si perita dal palesare tale sua debolezza anche a terzi, come, ad esempio, alla sarta Dolores Sereni e alla cameriera». L’incosciente Claretta si confida con la sarta e con la domestica, mentre i solerti genitori cercano di prendere provvedimenti. Non sono proprio disinteressati. «Vorrebbero che il duce riconoscesse al loro casato un titolo nobiliare», registra l’Attioli, mentre «donna Giuseppina si lascia scappare di bocca che vedrebbe volentieri il marito senatore».
Accuse e improperi
In contemporanea, però, anche il capo del fascismo viene informato della tresca con colui che, sempre stando ai questurini, è «un cattivo arnese», cerca di fare contrabbando di armi e si accompagna pure a una «prostituta ermafrodita». Il leader in camicia nera di licenze amorose se ne intende, di amanti ne ha parecchie, ma a Claretta non fa sconti.
Tra le accuse e le offese, le ingiunge, sempre telefonicamente, di riprendersi i quadri che la fanciulla, pittrice in erba, ha portato a Palazzo Venezia, e di non farsi più vedere. Poi, con stile da pochade, ci ripensa. «Il duce ha telefonato; rispose la Clara», riporta l’informatore, «ma Lui si limitò a dirle: “Ho bisogno di parlare con vostra madre. Fatela venire da me alle 8 di questa sera”».
La minaccia del padre
Il despota interroga donna Giuseppina, vuole sapere se sua figlia è «limpida». «Sono solo voci malevole», racconta Attioli che la mamma avrebbe detto a Mussolini. «E il duce finì col dirmi “sorvegliate, sorvegliate, la affido a voi!”».
Perdonata dal capo del governo, Claretta non lo è dai genitori: «Se ora non fili dritta, ti dò un pugno in testa e ti ammazzo», l’allerta il padre. E la madre: «Ti ho salvata; ho fatto il mio dovere; ma d’ora in avanti se non lasci per sempre Luciano, ti metto io a posto!». L’Antonetti verrà malmenato per strada da «estranei», riferiscono i questurini che lo portano al gabbio senza motivo. Privo di lavoro, tallonato da un segugio, finirà la vita povero e malato. Nella dittatura anche il sesso è un affare di Stato e ogni violenza è permessa. L’onore del duce-stallone d’Italia è salvo, il segreto del «magnifico cornuto» rimane inviolato e la fiducia degli italiani, secondo i parametri mussoliniani, non viene intaccata. Almeno per il momento.
«Il mondo crolla su di me. Io muoio...», annota Clara nel diario il 13 luglio 1937. Alle ore 19 è squillato il telefono di casa Petacci. Nel microfono ruggisce una voce possente nota a tutti gli italiani: «So tutto, di voi non ne voglio più sapere». Claretta finge di cascare dalle nuvole: «Non so di che parlate». Alla tempesta di improperi che la investe scoppia in un pianto dirotto. Il duce, è di lui che si tratta, sempre urlando attacca. L’indignazione del dittatore non conosce limiti, ha appena saputo che è stato «fatto becco» dall’amante venticinquenne, più giovane di lui di quasi 30 anni.
Della liaison segreta di Claretta Petacci con Luciano Antonetti, latin lover ed ex miliziano dannunziano, sono state fino a oggi cancellate accuratamente le tracce. Una vicenda in cui si è imbattuto Giuseppe Pardini, professore di Storia contemporanea, lavorando sulle carte di Renzo De Felice. Lo studioso ha ritrovato i documenti, conservati in fotocopia, tra i materiali del biografo di Mussolini, il quale, come sostiene Pardini, probabilmente voleva utilizzarli per integrare la sua sterminata opera sul duce.
Si tratta di cinque relazioni redatte da un noto fiduciario della polizia politica, Ezio Attioli, che nei suoi rapporti racconta la ferita inferta al più desiderato e acclarato esponente della fallocrazia fascista (copyright Carlo Emilio Gadda), all’uomo che del suo dominio sul gentil sesso aveva fatto un simbolo e una bandiera. Ora questi inediti vedono la luce in un saggio di Pardini, L’amante di Claretta. Il duce, i confidenti, la gelosia, l’Ovra, che uscirà nel numero della rivista Nuova storia contemporanea (gennaio-febbraio 2015) a giorni in edicola.
«Israele ha un forte interesse a chiedersi perché abbia perduto in questi anni una parte non piccola del capitale di simpatia che aveva accumulato nei primi decenni della sua storia».
Corriere 22.3.15
Percezione dell’antisemitismo Nelle indagini demoscopiche
risponde Sergio Romano
Ho letto il suo intervento del 13 marzo
«Gli ebrei in Europa e lo Stato d’Israele», e devo dire che da lei mi aspettavo ben diverso livello di approfondimento. Le mando un paio di documenti che la potranno interessare. Posso assicurare, per ampia esperienza di lavoro di raccolta di dati sul campo, che testi come questo suo ultimo aiutano ad alimentare quel senso di sconcerto fra le persone vicine al mondo ebraico, di cui i due rapporti di ricerca qui allegati danno chiara testimonianza.
Sergio Della Pergola
Gerusalemme
Caro Della Pergola,
Grazie per le due indagini demoscopiche, entrambe molto utili e interessanti. Ai lettori segnalo che la prima, pubblicata nel 2013, è il rapporto di una istituzione dell’Unione Europea (l’Agenzia per i diritti fondamentali) su esperienze e percezioni dell’antisemitismo in Europa; mentre la seconda, pubblicata da un istituto londinese (Institute for Jewish Policy Research), concerne l’Italia, è firmata da lei insieme a L. D. Staesky ed è apparsa nel febbraio di quest’anno. Come quasi tutte le indagini di questo tipo, rispecchiano scrupolosamente i sentimenti di un largo campione delle comunità ebraiche in Europa e in Italia segnalando timori e preoccupazioni. Ma anche quando riassumono ricerche fatte sull’arco di un decennio o cercano di stabilire una relazione tra antisemitismo e avvenimenti mediorientali, non ci dicono molto sulle ragioni per cui il fenomeno sarebbe andato progressivamente crescendo. Ogni indagine riflette inevitabilmente le circostanze del momento. Se l’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Ue avesse fatto una stessa indagine sulla percezione della islamofobia nelle comunità musulmane, avrebbe probabilmente constatato che il disagio e le paure hanno toccato in questi ultimi anni picchi particolarmente elevati. E se avesse fatto domande analoghe ai tedeschi, molti avrebbero risposto che da qualche anno a questa parte hanno la sensazione, quando visitano altri Paesi europei, di essere malvisti o addirittura detestati.
Una indagine demoscopica, quindi, non esclude una riflessione storica e politica sulla evoluzione di un fenomeno. Se non cercassi di capire perché certi sentimenti di ostilità verso l’ebraismo sono più visibili oggi di quanto fossero, per esempio, dieci o vent’anni fa, dovrei giungere alla conclusione che l’antisemitismo è un incancellabile peccato originale del cristianesimo. E dovrei smetterla di occuparmi di storia, una disciplina che serve a capire i mutamenti, non a sostenere banalmente che non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole.
In una nota apparsa sul Corriere del 17 marzo, il consigliere dell’Ambasciata d’Israele sembra pensare che ogni tentativo di comprendere storicamente l’antisemitismo equivalga a una giustificazione del fenomeno. A me sembra invece che niente nuoccia a una persona o a un popolo quanto la rinuncia a comprendere le ragioni delle critiche di cui è oggetto. Ripeto, caro Della Pergola, quello che ho già scritto nella mia nota del 13 marzo. Israele ha un forte interesse a chiedersi perché abbia perduto in questi anni una parte non piccola del capitale di simpatia che aveva accumulato nei primi decenni della sua storia.
La Stampa 22.3.15
Obama: la retorica di Netanyahu è contraria alla tradizione di Israele
Il presidente americano: «mi ha creato profondo disagio»
qui
Corriere La Lettura 22.5.15
I colori impazziti della politica italiana
Sbiadiscono il bianco, il rosso e il nero delle ideologie
Ecco l’azzurro, l’arancione e il viola, elusivi e ambigui
di Guido Vitiello
I panni sporchi della Prima Repubblica avevano colori semplici, anche se piuttosto marcati. Si trattava, in fin dei conti, di diverse combinazioni dei tre colori della bandiera nazionale. C’era lo scudo bianco rossocrociato dei democristiani e c’era la falce e martello su drappo rosso dei comunisti. C’erano il garofano rosso dei socialisti e il sole rosso dei socialdemocratici. C’erano il tricolore dei liberali, l’edera verde dei repubblicani, la rosa rossa dei radicali. Appallottolata in un angolo della lavatrice c’era poi la camicia nera dei fascisti, coperta anch’essa dal tricolore della fiamma. Poi venne il 1992, l’anno del grande bucato passato alla storia con il nome di Mani pulite.
Quale programma di lavaggio avesse scelto la lavanderia della Procura è questione tuttora controversa, ma la temperatura doveva essere molto alta perché la Seconda Repubblica uscì dall’oblò irriconoscibile, rivestita dei colori più strani. L’azzurro cielo dei berlusconiani, il blu più spento di Alleanza nazionale a sopire l’antica fiamma, il verde sgargiante dei leghisti, che non aveva nulla a che spartire con quello del tricolore, ma occhieggiava semmai al verde clorofilla dei partiti ambientalisti, in nome della comune passione per il territorio. Via via sbucarono dalla lavatrice anche l’arancione, il giallo, il viola, e rispuntò l’arcobaleno pacifista che tutti li racchiude. Il rosso sopravvisse un po’ più a lungo al risciacquo, ma si assottigliò di anno in anno, fino ad acquattarsi tra il bianco e il verde nel tricolore del Partito democratico. Non era cambiato solo il quadro politico, era cambiata anche la tavolozza.
Alle trasformazioni dei colori politici nell’Italia repubblicana lo storico Maurizio Ridolfi ha appena dedicato Italia a colori. Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo a oggi , pubblicato da Le Monnier. Il libro — seconda parte di una ricerca che ha preso le mosse dal Risorgimento — ripercorre i grandi conflitti cromatici della Repubblica fin dalla fondazione, quando a combattersi erano il rosso e il nero. Una storia tutto sommato lineare, fino alla pazza centrifuga del 1992.
Quella dei colori politici è una scienza tutt’altro che esatta. Fatte salve alcune ricorrenze transnazionali, ciascun Paese ha il suo dialetto cromatico legato alla storia, alle memorie locali, alle identità rivendicate, all’influenza di campi confinanti come la religione, lo sport, lo spettacolo. Anche l’osservatore più distratto sa bene che, a parità di colori, le leggendarie bandierine rosse e azzurre piantate sulla cartina geografica dell’Italia da un Emilio Fede sempre più pallido alle regionali del 1995, segno incontrovertibile dell’avanzata dei cosacchi, avevano poco in comune con le mappe dei blue States democratici e dei red States repubblicani che si vedono in ogni campagna elettorale americana.
Un esempio meno grossolano lo può offrire l’arancione, che nella primavera del 2011 accompagnò le vittorie «civiche» di Luigi De Magistris a Napoli e di Giuliano Pisapia a Milano, e che tinse le bandiere dei comizi referendari sul nucleare e l’acqua pubblica. In quel colore si erano sedimentati, strato dopo strato, significati lontani e discordanti. Era stato il colore del piccolo Partito umanista. Poi, nel 2004, la «rivoluzione arancione» in Ucraina vi aveva associato le speranze della democrazia partecipativa. Qualche anno dopo arrivarono le tonache dei monaci buddisti in lotta contro il regime birmano ad aggiungere un nuovo strato. «In realtà — ricorda Ridolfi — in Europa e fuori, diversi partiti di carattere populista avevano nel frattempo adottato l’arancione come colore identitario (in Germania e Ungheria, Canada e Bolivia). Nel Regno Unito e soprattutto in Irlanda, prima ancora, l’arancione era associato all’Unionismo e all’Orange Order». Saturo di tutti questi echi politici, identitari e religiosi, quel colore caldo e vivace si posò infine sulla bandana di De Magistris. Ancora non si sa bene come decifrarlo.
È un caso rivelatore, l’arancione, perché illumina un tratto comune a molti colori della Seconda Repubblica. Sono colori ambigui, elusivi, «a bassa definizione», di cui non sempre è facile ricostruire la genealogia politica, e che di questa genealogia sembrano felicemente ignari. Poveri di un contenuto ideologico immediatamente riconoscibile, rivendicano alle passioni civili un carattere impolitico, prepolitico o antipolitico. Se proprio devono riallacciarsi a qualche codice cromatico, lo cercano al di fuori del Pantone (o del pantano) delle appartenenze novecentesche, in campi che patiscono minor discredito.
L’azzurro di Forza Italia, per esempio. Colore calmo, accomodante se paragonato alle tinte forti e contrastate della Prima Repubblica, che come tale venne rivendicato: «Non c’è solo il rosso e il nero. C’è anche tutto un altro colore, di un’Italia che sta in mezzo agli estremi». Un nuovo termine medio tra gli «opposti estremismi», ma con una sfumatura connotativa in più, perché un cielo limpido evoca anche la palingenesi e la pulizia. Non per nulla la Dc, proprio nel fatale 1992, con mossa disperata aveva incorporato l’azzurro nel suo simbolo, a far da sfondo allo scudo crociato. Il blu sarà pure, in tanti Paesi, il colore dei conservatori e dei popolari; ma l’azzurro berlusconiano cercava altrove la sua legittimazione, e precisamente nel tifo calcistico: «Chiamateci azzurri, non forzisti», pretendeva Berlusconi. E si potrebbe aggiungere che quel cielo disseminato di nuvole bianche, sfondo di mille comizi berlusconiani, più che gli orizzonti sconfinati evocava la schermata iniziale di Windows.
Il popolo azzurro trovò la sua nemesi nel popolo viola, sceso in massa a piazza San Giovanni il 9 dicembre 2009 per chiedere le dimissioni di Berlusconi in nome di legalità e moralità. Perché viola? Per un verso, spiega Ridolfi, bisogna guardare all’eredità del femminismo, dove il viola era presente già negli anni Settanta. Ma all’origine c’è la laicizzazione di un colore liturgico, e non certo dei più benauguranti (come dimenticare il «viola addobbo funebre» che si dipinge sul volto di Fantozzi dopo aver messo in bocca il pomodorino rovente?).
Che quella scelta non si riallacciasse a una tradizione politica lo spiegò uno dei leader della mobilitazione, Gianfranco Mascia: «È il colore degli estremi, ma non degli estremismi. Il viola è lo spirito, lo trovi a metà strada tra la terra e il cielo, tra la passione e l’intelligenza, tra l’amore e la saggezza. Il viola rappresenta quindi la mediazione, è la concretezza che deriva da una energia pura e spirituale, una voglia di fare e di capire mai ideologica». Il linguaggio era quello di un compilatore di oroscopi o di un seguace della cromoterapia, eppure quella definizione — «il colore degli estremi, ma non degli estremismi» — coglieva perfettamente il clima che avrebbe poi portato al trionfo elettorale dei grillini, peraltro cromaticamente piuttosto anonimi: emozioni politiche arroventate, perlopiù distruttive o funerarie, slegate dall’ideologia, ma capaci di provocare un’ustione di terzo grado. Viola, appunto.
Tutto questo è sbucato fuori dalla lavatrice di Mani pulite, che, come suggerisce Ridolfi, segnò un momento di «cromofobia», giacché ai colori erano associati i partiti e ai partiti le tangenti. Sarà. Ma un’eredità cromatica quella stagione l’ha comunque lasciata. Quando Di Pietro passò alla politica, scelse come simbolo dell’Italia dei Valori un cielo limpido su cui volava un gabbiano con le ali color arcobaleno. E c’era poco da mettersi a ricostruire tradizioni e simbologie politiche, perché la fonte era inequivocabile: la pubblicità dei detersivi. Tonino lava più bianco.
Corriere La Lettura 22.5.15
Fine della violenza?
No, il sogno di un’era pacifica è un’illusione
di Antonio Carioti
I video con gli ostaggi sgozzati e gli attentati a persone inermi non impressionano tipi come lo psicologo evoluzionista Steven Pinker, autore del libro Il declino della violenza (Mondadori), il politologo John Mueller o il filosofo Peter Singer, che sta per pubblicare il saggio The Most Good You Can Do («Il meglio che puoi fare»). A parer loro, viviamo nell’era meno bellicosa della storia e il futuro vedrà la prevalenza della mansuetudine e dell’altruismo. Ma il filosofo inglese John Gray, sul «Guardian» del 13 marzo, ha bocciato questa tesi come frutto di un falso mito del progresso, che non ha riscontri attendibili nella realtà.
A chi bisogna credere? Il sociologo Luciano Pellicani sostiene che «la tendenza alla civilizzazione è un dato irrefutabile, anche se nulla garantisce che sia irreversibile». Il vero mito, a suo avviso, è la nostalgia del passato: «Nelle guerre tribali periva circa il 25 per cento della popolazione. E la conquista mongola della Cina, nel XIII secolo, provocò 60 milioni di morti, la metà degli abitanti, che non furono del tutto sterminati solo perché gli invasori decisero che era più conveniente sfruttarli. Ma anche in Occidente, secoli addietro, la tortura era considerata normale, mentre oggi viene usata solo di nascosto, perché la coscienza pubblica non l’accetta più. Un tempo invece i supplizi capitali più spaventosi, magari con il condannato segato vivo, erano pubblici: vi assistevano anche i bambini, perché si riteneva avessero una funzione pedagogica».
L’idea dell’incivilimento non persuade invece il filosofo Felice Cimatti: «Se la diffusione della razionalità e del sapere fosse un antidoto efficace alla violenza, non sarebbe avvenuta la Shoah, attuata da un popolo istruito e avanzato come quello tedesco. E anche il Gulag sovietico venne creato da eredi di una grande tradizione filosofica. Per venire ai giorni nostri, sono diminuite le guerre tra gli Stati, ma in compenso assistiamo a conflitti endemici, molto cruenti, in cui si è persa la distinzione tra civili e militari».
Su questo insiste anche Alessandro Colombo, studioso delle relazioni internazionali: «Senza dubbio oggi il numero e l’intensità dei conflitti sono diminuiti, rispetto agli immensi massacri del Novecento. Ma non so se ciò sia dovuto al rigetto della guerra da parte delle opinioni pubbliche. Temo che derivi piuttosto da un indebolimento degli Stati: cala la loro capacità di mobilitazione dell’intensità politica, quindi si diradano i conflitti interstatali e convenzionali, ma si sviluppa come alternativa una violenza senza forma, guerre civili gestite da soggetti non statali».
Tutto ciò, secondo Cimatti, smentisce i facili ottimismi: «Autori come Pinker pretendono di esporre argomenti scientifici, ma in realtà sono seguaci di un’ideologia per cui viviamo nel migliore dei mondi possibili. Pensano che il capitalismo liberale, con il minimo d’intervento dello Stato nell’economia, sia un regime ideale, che favorisca la diffusione dell’autocontrollo e dell’empatia, riducendo la violenza. Ma la psicoanalisi ci dice che il grado di autocontrollo degli esseri umani è limitato. E anche l’empatia può essere messa facilmente tra parentesi. Quanto all’idea che il mercato produca il massimo della razionalità possibile, è nettamente smentita da crisi economiche come quella attuale».
Pellicani invece difende il capitalismo: «Friedrich Nietzsche aveva ragione nel dire che l’uomo è una belva solo parzialmente addomesticata, ma bisogna essere ciechi per negare gli enormi vantaggi determinati dallo sviluppo delle forze produttive, la riduzione delle carestie, delle epidemie, della miseria. Milioni e milioni di persone sono di recente uscite dalla povertà in Cina e in India. Non penso che il mercato si possa governare da solo, però lo stesso Karl Marx definiva il capitalismo come il più grande sviluppo di civiltà mai visto».
Ma si può sperare che l’avanzata del libero scambio e della democrazia porti al superamento della violenza bellica? Colombo invita alla cautela: «È una tesi antica, che riemerge periodicamente dalla seconda metà del Settecento. Molti autori, per esempio Norman Angell alla vigilia del primo conflitto mondiale, hanno sostenuto che la guerra era destinata a sparire, perché era diventata un anacronismo sotto il profilo culturale e un cattivo affare in campo economico. Più di recente si è detto che è stata resa obsoleta dalla diffusione della democrazia. Ma queste suggestioni ottimistiche, almeno finora, sono sempre state smentite dalla storia».
Corriere La Lettura 22.5.15
Favara-Maredolce
L’ultimo giardino di arabi e normanni
di Carlo Vulpio
Non ci vuole soltanto coraggio, ma anche una convinzione che assomigli a un sentimento religioso, per affrontare l’impossibile e ciò che all’occhio umano appare irreversibile. Dalla montagna di Gibilrossa si vede tutta Palermo e si capisce bene l’irreversibilità di ciò che è accaduto negli ultimi cinquant’anni e l’impossibilità di riconquistare quel paradiso perduto che per duemilacinquecento anni è stata la Conca d’Oro.
Palermo è stata la città italiana più bombardata della Seconda guerra mondiale, eppure l’ammasso informe di cemento che la sommerge ha smembrato questa città-giardino del Mediterraneo più dei bombardamenti. Sfigurata e strozzata come Palermo, c’è solo Napoli. E Atene, che dal Partenone offre di sé lo stesso volto penoso e deforme di una grande tomba di calcestruzzo. Millenni di civiltà diverse, ma rispettose di ciò che avevano trovato prima, e persino capaci di accrescerne il valore e la bellezza, sono stati bruciati nell’arco di un mezzo secolo breve, brevissimo, da ruspe furiose e da uomini famelici e indolenti.
La Conca d’Oro di Braudel e di Goethe, dei romani, degli arabi e dei normanni non c’è più, è ridotta ai seicento ettari della zona di Ciaculli — nemmeno tanto immacolati — e allo spicchio di venticinque ettari di agrumeti della Favara-Maredolce, che una volta era un grande bacino idrico che raccoglieva le acque delle sorgenti del monte Grifone e fertilizzava le campagne — miniere d’oro di melograni, gelsomini, anemoni, narcisi, margherite, gigli, palme, aranci, limoni — e che oggi resiste, Dio solo sa come, all’avanzata del cemento che ha divorato ormai l’ottanta per cento della fu Conca d’Oro. Un crimine contro l’umanità, come la distruzione dei giganteschi Buddha di Bamiyan da parte dei talebani e delle splendide città assire da parte di questi altri malati di mente dell’Isis. Non fecero questo, gli arabi, musulmani, quando sbarcarono in Sicilia. Al contrario, realizzarono una vera «rivoluzione agricola», che, dice Giuseppe Barbera, docente di Colture arboree nella facoltà di Agraria dell’Università di Palermo, «fecero tesoro dell’eredità agronomica romana, e prima ancora punica e greca, aggiungendole all’universo islamico, ricco di culture scientifiche e tecniche, alimentato dalla scienza cinese e indiana, dagli antichissimi saperi della Mesopotamia e della Persia, dall’esperienza africana, dalla sapienza egizia, dalle scuole agronomiche di el Andalus».
Grazie a questa saggezza, nel primo decennio dell’anno Mille, fu possibile sbarrare il corso delle acque del monte Grifone e realizzare il lago artificiale di Favara-Maredolce e costruire l’omonimo castello che lo ornava, entrambi opera dell’emiro Giafar. E grazie alla stessa saggezza, i normanni di Ruggero II, il primo re di Sicilia, dopo aver sconfitto gli arabi e conquistato Palermo, fecero di quel lago e di quel castello da Mille e una notte il primo nucleo della città-giardino che diventerà poi Palermo.
Il castello di Favara (fawwara , in arabo, significa sorgente) diventerà uno dei luoghi di «sollazzo» della corte normanna — crocevia di affari, piaceri, scienza, arti e di fervida vita intellettuale grazie alla frequentazione di filosofi e letterati cattolici, ebrei, musulmani —, ma anche uno dei più importanti monumenti della Palermo arabo-normanna, non secondo alla più nota Zisa, sebbene, a differenza di questa, ignorata dall’Itinerario arabo-normanno che tra qualche mese entrerà in blocco a far parte del patrimonio Unesco.
Lo splendore di Favara-Maredolce durerà fino a quando vivrà Federico II di Svevia, nipote di Ruggero II e suo degno epigono. Poi, quando gli aragonesi, nel 1328, donano il castello ai cavalieri teutonici della Magione, che ne fanno un ospedale, comincia il declino della magnifica residenza di «sollazzo». Che continuerà inarrestabile fino al XX secolo e verrà denunciato da Cesare Brandi con un magistrale articolo comparso sulla terza pagina del «Corriere» il 10 maggio 1962. Con quell’articolo Brandi si scagliò contro «gli assurdi piani regolatori» che tre anni dopo avrebbero inaugurato il famigerato «sacco edilizio», mafioso, di Palermo, invocando una «cura pubblica» che non ci fu, non c’è e chissà se mai ci sarà. Perché oggi come allora — nonostante il restauro del castello e un fitto e bellissimo agrumeto che ha preso il posto del lago — allo scempio e all’aggressione insaziabile del cemento si oppongono, come scriveva Brandi, sempre e soltanto «pochi privati». Tra costoro, il gruppo di lavoro, coordinato dall’architetto Lina Bellanca, della Soprintendenza dei Beni culturali e ambientali di Palermo, al quale quest’anno la Fondazione Benetton Studi Ricerche ha assegnato il XXVI premio internazionale «Carlo Scarpa per il giardino». Una scelta coraggiosa, perché la cura dei luoghi, qui, come la intendeva un grande paesaggista e filosofo come Rosario Assunto, siciliano di Caltanissetta, del quale il 28 marzo ricorre il centenario della nascita, ha grandissime probabilità di risultare vana come la fatica di Sisifo.
Eppure, proprio con la stessa consapevolezza di Sisifo, è una fatica che va fatta. Per ricostruire, se non i luoghi, almeno la speranza che gli uomini e ciò che resta del paesaggio — e qui è paesaggio agricolo come la natura lo ha disegnato — non vengano travolti definitivamente dall’avanzata delle costruzioni sgarrupate che sono arrivate fin sul muro del lago artificiale e persino dentro la corte del castello.
Parlare di paesaggio e di cura dei luoghi tra i quartieri di Brancaccio e Ciaculli, tra la via in cui è stato ammazzato un prete come don Pino Puglisi e quella in cui nel 1963 esplose la prima autobomba che fece sette vittime, non è un’occupazione per anime belle che inseguono un’Arcadia che non c’è. È invece una battaglia di civiltà, così importante da muovere un sindaco a «licenziare» il suo assessore all’Ambiente senza un perché, com’è accaduto a Giuseppe Barbera. O meglio, a causa di tre perché che sono altrettanti progetti ben precisi: una nuova inutile tangenziale, altri inutili centri commerciali, e persino un altro cimitero nel verde che resta di Ciaculli.
Parlare di paesaggio e di cura dei luoghi nel disastro urbano di Palermo — che, è brutto dirlo, ha tutto l’aspetto di qualcosa di irredimibile — è anche l’estremo tentativo di fermare un sacco edilizio che non si è mai fermato. Ieri, per paura della mafia. Oggi, con l’alibi della mafia e la retorica dell’antimafia di professione. Un grande premio come il «Carlo Scarpa» serve. Ma poi serve anche non morire Gattopardi, ucciderlo il Gattopardo, per ritrovare l’anima di quella città-giardino che il geografo al-Idrisi celebrò ne Il libro di Ruggero e di quella Conca d’Oro che Fernand Braudel definì «paradisiaca».
Repubblica 22.5.15
Andrea Carandini
“L’archeologo è come Freud: sono trent’anni che scavo dentro”
colloquio con Antonio Gnoli
Bianchi Bandinelli
Lo chiamavano “conte rosso” perché era comunista ma di origine aristocratica
Non si perdonò mai di aver dovuto fare da guida a Hitler durante una visita in Italia
È un pomeriggio limpido che Roma sa regalare. Sulla salita del Quirinale, non lontano dalle Scuderie abita Andrea Carandini, presidente del Fai, nel palazzo che in parte fu del nonno: Luigi Albertini, ricordato con una lapide all’entrata: «Mio nonno venne qui nel 1926 dopo che il fascismo lo cacciò dal Corriere della Sera. C’è restato fino alla morte, nel 1941. Ho scarsi ricordi. Viveva al piano di sopra. Andavo a trovarlo, mi teneva sulle ginocchia. Mi iniziò alla lettura di Topolino ». Nonostante l’aria solida che emana Carandini mi appare come il risultato di un compromesso tra una vita felice sognata e una vita annoiata. In agguato vi è pur sempre la solitudine. Scruto la sua perentorietà. E penso alle difese che si nascondono dietro certi toni. Percepisco un velo di superbia intellettuale nelle sue parole. Gli chiedo, alla fine della nostra conversazione, se si sente un privilegiato. «Lo sono, lo sono», risponde. «Ma non ho sensi di colpa. Sono stato agevolato dalla vita, ma quello che ho avuto alla fine me lo sono guadagnato». Il pane dell’antichità fra i denti di un singolare individuo moderno che ha dedicato larga parte della vita all’archeologia. Mentre accarezza orgoglioso una pila dei suoi libri — il professore ha scritto e divulgato con grande effusione — penso alla definizione che Ernst Jünger ha dato dell’archeologia come una specie di scienza del dolore.
La trova adeguata per spiegare il suo lavoro?
«È strana. Non l’ho mai sentita. Il dolore mi fa pensare piuttosto alla psicoanalisi. Anche lì si scava, si cercano radici, fondamenta. Non c’è dubbio che l’analisi non conduce alla felicità. L’ignoranza, semmai, porta alla felicità animale. Più si conosce, temo, più si soffre. E l’archeologia in qualche modo si può accostare alla psicoanalisi. A Freud, soprataristocratiche tutto, che ne fa una perfetta metafora dello scavo interiore. A me ha sempre colpito il suo studio, prima a Vienna e poi a Londra, sembra l’antro di un sito archeologico».
Freud fece archeologia del soggetto.
«Attraverso il sogno. E anche analizzando i suoi sogni».
Che credibilità attribuisce al sogno?
«Tantissima. La mia vita da archeologo è stata orientata soprattutto da due sogni che feci da bambino. E in entrambi c’entrava mio padre».
Li racconti in breve.
«Sono nell’ Underground di Londra, la città dove mio padre svolgeva il lavoro di ambasciatore. Ho 9 anni. Sogno di scendere una lunga scalinata. Cerco l’uscita ma vado sempre più giù. Quasi una discesa agli inferi. Arrivo davanti a una porticina. L’apro. Improvvisamente mi appare un cimitero con degli uomini che scavano. Dissotterrano delle dame cui tolgono i monili dal collo e dalle braccia. Sono come paralizzato. Poi mi sveglio».
Il secondo sogno?
«Vado a trovare mio padre al Claridge’s di Londra. L’Hotel è vuoto. Lo cerco con una certa ansia. Ma non lo trovo. Alla fine scopro che è in un salone dove sta pranzando con dei reali. Distolgo lo sguardo, intimorito. Non so che fare. Mi avvicino a una finestra, mi affaccio e vedo fuori lo scavo di un teatro romano».
Effettivamente in entrambi i sogni c’entra l’archeologia. Ma si presenta come un’esperienza bloccata.
«È vero. Per anni non ho pensato al valore simbolico e predittivo di quei sogni. Poi durante l’università tutto torna alla mente, si fa chiaro».
Cosa era accaduto?
«Non lo so di preciso. So però che dovevo laurearmi in filologia classica con Ettore Paratore. Scopro invece la persona che mi seduce e mi cambia la vita: Ranuccio Bianchi Bandinelli».
Il grande archeologo?
«Un uomo tormentato e affascinante. Decido di fare una tesi di laurea con lui, sui mosaici di Piazza Armerina. Non una vera tesi di archeologia, ma qualcosa comunque di affascinante che mi avvicinava a quel mondo».
Che cosa ricorda di Bianchi Bandinelli, ribattezzato il “conte rosso”?
«Quel nomignolo glielo affibbiarono per le sue origini
e per avere aderito a un certo punto al partito comunista».
Fu lui a fare da cicerone a Hitler, durante una visita a Roma.
«È un episodio che non ha mai rimosso. Un errore. Conosceva perfettamente il tedesco. Gli fu imposto di fare da guida al Führer. Ne ha sofferto. Non se lo è mai perdonato. Alla fine si iscrisse al partito comunista. Secondo me lo fece per punirsi delle sue origini aristocratiche. È stato un uomo diviso. C’è una lettera di Thomas Mann che parla di lui, della sua anima lacerata: il comunista e il borghese».
Anche lei è stato iscritto al Pci.
«Con meno martirio. Non ho mai pensato, diversamente dal mio maestro, che il comunismo fosse un nuovo cristianesimo».
E che cosa era?
«Un modo più giusto di agire sulla società. Leggevo Marx, pur non essendo marxista, trovando le sue analisi straordinarie. Ho perfino scritto un libro sui Grundrisse . Poi è venuta la delusione e la rinuncia a certe analisi. Invecchiando sono tornato liberale. Le ricordo che in questa stanza si riunivano spesso gli amici del Mondo. E qui, su questo tavolo, è stata fondata l’Accademia dei Lincei».
Si sente ancora parte di quel mondo?
«Intellettualmente sì. Un po’ Croce e un po’ Isaiah Berlin, sul quale ho appena finito di scrivere un libro».
Una sfida ai filosofi della politica?
«Mi riconosco nel lavoro di un dilettante. Ho sempre più orrore dello specialismo. Di queste discipline sempre più simili a dei cenotafi, a delle tombe. Basta con la prigionia dei generi».
Il genere antico le va a pennello.
«Dice?».
Chi meglio di lei sulla Roma antica.
«Sono più di trent’anni che scavo. Sempre più giù». C’è qualcosa di vertiginoso in questa discesa?
«Come nel famoso sogno della metropolitana londinese. È l’istinto e insieme la curiosità. Senza queste caratteristiche uno studioso non va da nessuna parte».
Scende e cosa scopre?
«Lo sa cosa si diceva di Roma? Che era stata fondata tra il sesto e il settimo secolo avanti Cristo. Scavo — tra le case dei consoli, sotto i magazzini della sacra via — e scopro degli edifici che non sono dei templi ma delle case dell’aristocrazia. Che faccio mi fermo? No, proseguo. Mi accorgo che sotto c’è un mondo diverso. Affino le mie tecniche stratigrafiche e scopro di essere entrato nel regno delle costruzioni effimere, fatte di legno e argilla. È una Roma che non ci si aspetta, databile intorno alla metà dell’ottavo secolo».
In cosa consiste il fascino della fondazione?
«Si cerca il limite oltre il quale non c’è più nulla. Si va indietro, indietro, indietro. Perché? Chi ce lo fa fare? Semplice: ogni uomo non può fare a meno della sua origine. E lo stesso dicasi per la città. E perfino per i viaggi».
L’origine sovente è avvolta in una leggenda.
«La leggenda è il rumore che sta sotto alla storia. A volte è un canto. A volte un grido. A volte un suono stridente ».
E la leggenda di Roma?
«Si dice che Romolo fondò Roma dal nulla. Possibile? No. I primi elementi — diciamo preromulei, risalgono oltre l’ottavo secolo».
Ma la città, intendo Roma, non esiste ancora.
«Non c’è un Foro, non c’è un re che sovrasta e subordina gli altri capi. Ma l’origine di Roma, come molte nascite, si avvolge nella violenza e nel sangue».
Romolo uccide Remo.
«È la versione leggendaria. In realtà Romolo uccide i suoi rivali: oltre Remo, Acrone e altri capi dei clan gentilizi che resistono all’unificazione del potere, alle gerarchie necessarie affinché una città, uno Stato, nasca e si espanda».
I critici sostengono che la sua archeologia sia un po’ fantasiosa.
«La fantasia è una componente del mistero. Occorre una narrazione. Chi va alla ricerca delle origini deve sapere che il mistero è un soffio d’aria che ti investe, ti accarezza, ma ti può anche far male».
Il mistero è l’irrazionale?
«Non bastano gli strumenti della ragione per indagarlo. Uno dei libri più belli che ho letto è Il cammino dell’umanità , di Angelo Brelich, un grande studioso di storia delle religioni. Ebbene, quel libro gli fu chiesto da Cesare Pavese che lo voleva per la sua collana “viola” dell’Einaudi. Poi Pavese si uccise e il libro fu rifiutato. Furono Bobbio e Giolitti a opporsi e sa con quale motivazione? Il testo di Brelich era irrazionale!».
A proposito di irrazionalità, le piace Jung?
«Come studioso di miti, visto che me ne occupo, lo trovo interessante. Molto meno nell’analisi, dove mi pare inefficace».
Lei è stato in analisi?
«Sì, per dieci anni. Il mio analista fu Ignacio Matte Blanco. Al quale dedicai il primo manuale di scavo che scrissi».
Era un personaggio piuttosto singolare.
«Un cileno testardo. Capace di spaccare il capello non in quattro, ma in quattromila. Da giovane aveva corrisposto con Freud e questo lo spinse a sviluppare una sua idea di inconscio. Teorizzò insomma l’esistenza di un inconscio strutturale, che non si può rimuovere perché è una funzione dell’essere».
Cosa vuol dire?
«Che l’essere non è solo ragione ma anche emozione. E l’inconscio detta questa doppia grammatica. Esprime una logica duplice. Non a caso Matte Blanco era un matematico che amava la poesia».
Perché entrò in analisi?
«Ero fondamentalmente insoddisfatto di me. In crisi profonda. Mi ero lasciato con la prima moglie. Mio padre era morto da alcuni anni. E sebbene il nostro rapporto fu recuperato, per lungo tempo avvertii come un senso di abbandono e di tristezza».
Dieci anni sono lunghi.
«Non c’è una data di scadenza come per lo yogurt. Mi affascinava, Matte Blanco. Avevo la sensazione che non fosse un vero analista. Non mi sentivo un paziente. Era un uomo senza regole. A volte capitava che si presentasse a casa, così senza un apparente motivo. È stata una incredibile avventura intellettuale. Poi, un bel giorno, la cosa è finita. Coincise con la nascita di mia figlia Greta nel 1989 e con l’improvvisa malattia di Matte Blanco».
Due eventi opposti.
«È vero, la forza di una nascita e l’imminenza di una morte. Gli scrissi una letterina dove spiegavo le ragioni di questa mia decisione. Non mi rispose. Forse non l’ha neppure letta. La sua mente si era come spenta. E per me — che era diventato una specie di padre simbolico — fu un dolore enorme».
Cos’è la vecchiaia?
«Non è solo il tempo che passa. È un senso di cambiamento, a volte di rottura, scendere i gradini di una prigione dove nessuno ti spinge, ma nella quale inesorabilmente finisci. Ricordo certe serate mondane, popolate di stupidaggini, di frasi inutili. Era lo sfogo che davo alle mie giornate di studio. Una gaiezza un po’ forzata che credo di aver perso».
Crede?
«Ne sono certo. Sento incombere una certa malinconia. Ma non mi piace vivere la vecchiaia come una diminuzione. Non ho mai desiderato tornare indietro. Forse è una reazione inconscia all’archeologia che è tutto un tornare indietro. Vivo per quello che faccio. Se posso scrivere, studiare, pensare, mi basta. È sempre stato così. In fondo fin da bambino sono stato vecchio. Oggi si è aggiunta una certa solitudine, in questa grande casa».
Cosa prova?
«Mi pare di essere nella quinta di un teatro abbandonato dove non si può più recitare. Perché quello che c’è stato non c’è più. Perché la mia classe è morta. Mi sento un sopravvissuto, un reperto archeologico. Sono stato creato per un mondo che non c’è più. Ma non ne ho nostalgia. Potrei disfarmi di ciò in cui vivo perché sento che è un guscio vuoto. Ci sto dentro per inerzia. Non per vocazione ».
È buffa questa sterzata che ha dato alla nostra conversazione.
«Perché? Non ho il senso del tragico. Ma le nostre sono davvero delle piccole vite. Basta non personificarsi nei miti familiari. Non sono l’erede di nulla. Ho avuto nella vita due modelli. Antonio Cederna e Urbani. Uno la protesta come difesa del paesaggio, l’altro il senso concreto del fare. Vorrei conservare qualcosa di loro, della loro bravura e moralità, nel mio impegno con il Fai, nel mio lavoro di ricerca. Penso che nella vita ci sia un quaranta per cento di fregature e un sessanta di cose che vanno a buon fine. Nonostante tutto resto un moderato ottimista».
Corriere La Lettura 22.5.15
Il Palma della bellezza, Vecchio ma giovane
La potenza e la tecnica dell’artista che Vasari paragonava a Leonardo e Michelangelo Maestro dei toni scuri e delle velature, dalla famiglia di mercanti di stoffe imparò a esaltarle
di Pierluigi Panza
«Iacopo Palma non è già soprannominato il vecchio perché ad esser tale foss’egli mai pervenuto, ché di soli 48 anni morì; ma perché visse prima d’un altro Iacopo Palma pronipote di lui e pittore anch’esso, il quale benché s’avvicinasse alla decrepitezza, nondimeno, per la contraria ragione ottenne dai posteri il privilegio d’essere contraddistinto con il predicato di giovane». L’ Inventario redatto dal notaio Francesco Bianco il 22 giugno 1529, dopo la prematura morte del pittore, rivela impietosamente quanto volatile sia la vita degli artisti: non solo la gloria postuma è alterna, ma persino il nome è spesso incerto. Quello di Palma il Vecchio (Serina 1480 - Venezia 1528) era Jacobo (o Jacomo) Nigretti de Lavalle (questo era il toponimo), talvolta chiamato Giacomo Tonolo, dal nome del padre o solo Nigretto o Negretto, soprannome preso dal nonno, mentre Palma se lo diede lui, quasi selezionando l’eucaristica pianta dal popolare erbario che incornicia molte sue figure. Ma con la fortuna/sfortuna di Palma la bella e precisa mostra alla Gamec di Bergamo consente di rifare i conti.
Anche se ad attestare la morte sono un mercante di vino, un tintore e un fruttarolo, Palma fu pittore pagato quanto Tiziano, unico collezionato in vita, già posto al vertice della pittura veneta come «primo ufficiale» dal Boschini e ammirato da Vasari, al punto da sostenere che Leonardo e Michelangelo non avrebbero operato tanto bene.
Esagerazioni? La mostra curata da Giovanni C. F. Villa, la prima completa sull’artista, con 45 opere tutte autografe (complessivamente se ne conoscono un centinaio) provenienti da una ventina di prestatori, conferma le lodi e il credito accordato a Palma ai suoi tempi e poi sparito. A Palma sono stati dedicati studi monografici — dal primo di Fornoni (1886) all’ultimo del direttore del Guggenheim, Philip Rylands (1988) — ma mai l’artista era stato celebrato in un’antologica, poiché difficile si è sempre rivelato il tentativo di raccogliere i suoi dipinti conservati nei grandi musei: dalla National Gallery di Londra alle Gemäldegalerie di Berlino e Dresda, dal Kunsthistorisches di Vienna all’Ermitage di San Pietroburgo, al Louvre di Parigi. E ancora, dalle collezioni della Regina Elisabetta II, dagli Uffizi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Ora si hanno a disposizione cento giorni per vedere queste tavole, che poi torneranno a casa.
Lasciate le valli bergamasche per Venezia, dove è attestato sin dal 1510, concorrente di Lotto, Palma divenne l’erede della pittura di Bellini, Cima da Conegliano, Giorgione e Carpaccio e il precursore di quella modernità veneta che si ritrova in Bassano o Paris Bordone. Entrò in contatto con Tiziano, si dice innamorandosi della figlia, e questo generò mitologie. In realtà, Palma fu solo pittore, non si sposò e nemmeno parve interessato ai soldi.
La qualità della sua pittura si ritrova sia nelle pale che nelle immagini della Madonna con il Bambino circondate dall’amorosa venerazione di santi e committenti, spesso davanti al panno d’onore o ampi paesaggi di chiarore veneto. Sono tavole che si rivolgevano più alla devozione privata che all’esibizione sugli altari, anche se i primi suoi collezionisti furono ecclesiastici.
In mostra si possono ammirare i vertici esecutivi di Palma, tra cui il Polittico di Santa Barbara che per la prima volta ha lasciato Santa Maria in Formosa a Venezia. Accanto alla pittura religiosa sono esposti ritratti ove sono da osservare espressioni dei volti, qualità dei panneggi e delle stoffe (la famiglia di Palma commerciava in stoffe e lui è raffinatissimo nel dipingerle) come la Dama in blu di Vienna, La Bella della Thyssen-Bornemisza di Madrid o il ritratto al naturale dell’ Ariosto immalinconito. Palma è abilissimo nel trattare i neri, che lavora con ricami raffinatissimi, i veli e i particolari dei panni. Definisce anche l’ideale rinascimentale di una donna dalle forme morbide e ampie intenta a destreggiarsi con opulente vesti di seta.
La mostra, che ha richiesto costi importanti in assicurazioni, dedica spazi anche ai bambini e un approfondimento sulle modalità esecutive della pittura di Palma, che in genere utilizzava velature successive (fino a nove o dieci) partendo dagli scuri e operando su disegno al carboncino sopra la biacca, con grande attenzione nella scelta dei pigmenti. Spiccano il cinabro, l’azzurrite, il pregiato lapislazzulo. Questa mostra — che non lascia spazio al virtuale — completa un percorso di Rinascimento veneto iniziato con le esposizioni alle Scuderie del Quirinale dedicate a Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Jacopo Tintoretto e Tiziano Vecellio e quella di Cima da Conegliano a Palazzo Sarcinelli. La prossima tappa potrebbe essere una mostra su Bartolomeo Montagna, a Vicenza, nel 2017.
L’esposizione è stata l’occasione per restaurare la Presentazione della Vergine della chiesa della Santissima Annunziata di Serina (Bergamo), malridotta per l’inadeguata collocazione. Qualche dubbio resta sull’idea di ricostruire in stile la cornice (non si discute la qualità della ricostruzione stessa) entro la quale ricollocare il polittico. Recuperate anche due tavole del Polittico della Resurrezione , e la tela dell’ Adorazione dei pastori di Zogno. Completo il catalogo Skira (utile la ridefinizione cronologica di Luisa Attardi), che presenta una particolarità: nel quinto centenario della morte Aldo Manuzio utilizza il carattere da lui creato per il De Aetna di Pietro Bembo. Sono stati realizzati anche cataloghini tematici, coinvolgendo studenti dell’Università di Bergamo, mentre aziende cittadine si sono mobilitate per il merchandising .
Corriere La Lettura 22.5.15
Dio e denaro, le parole che dicono van Gogh
di Filippo Bologna
Luce e amore: non chiedeva altro Vincent van Gogh. La luce la trova a Sud, nelle estati incendiate della Provenza. L’amore nel sostegno dell’amato fratello Theo, con cui intrattiene una fitta corrispondenza. Sermone vaneggiante, lucida cartella clinica o eretico trattato di pittura? Questo e molto altro. La penna che scorre sulla pagina è un sismografo dell’anima, ne registra ogni oscillazione: le scosse della crisi, il terremoto della pazzia.
Le lettere a Theo (pubblicate in volume da diversi editori) si possono navigare come un ipertesto: i contenuti variano ma alcune parole chiave ricorrono con frequenza inesorabile. Dio e il denaro, su tutte. Figlio di un pastore calvinista — «la famiglia di un prete vive come su un vassoio», dirà il regista Ingmar Bergman, altro genio figlio di pastore — il tormentato rapporto con la religione occupa Vincent dal 1876 al 1878, quando tenta la carriera di predicatore a Londra prima di fallire l’esame alla facoltà di Teologia di Amsterdam. E quel bisogno assillante di soldi, a cui provvederà l’amato Theo.
Cruciale il 1880, in cui van Gogh mette da parte una vocazione per abbracciarne un’altra: la pittura. La chiamata è tardiva ma la fede incrollabile. Tra il 1881 e il 1886 la corrispondenza s’intensifica. Studio e lavoro febbrile tra l’Aia, Nuenen, Anversa e, soprattutto, Parigi. Un amore impossibile, il conflitto con la famiglia, l’incontro con gli impressionisti: passaggi decisivi per la sua disordinata formazione.
Oltre a interrogarsi senza tregua sul suo talento, ora le lettere si pongono problemi di natura estetica e compositiva. Vero spartiacque il 1888, il soggiorno ad Arles: Gauguin, i girasoli, il rasoio e l’orecchio. Il mutamento nella pittura che coincide coi primi sintomi della follia. Le lettere s’illuminano di visioni, si tingono di ossessioni, diventano quadri. E i quadri lettere, dichiarazioni d’amore universale, disperate richieste di aiuto. Il 1889 è il ricovero, le sbarre del manicomio di Saint-Rémy. Tra le righe una calma apparente, ma forse è solo sconfinata tristezza. Amare riflessioni sulla malattia cedono il posto a dolcissime descrizioni di fiori, voli di farfalle; come ogni recluso, da dentro sogna il fuori.
Il 1890, il ritorno a Parigi. E la campagna di Auvers, di una «severa bellezza». Ma all’orizzonte cupi temporali e corvi neri sui campi di grano. Ha paura di qualcosa, Vincent. Paura di se stesso. «Va tutto bene», scrive al fratello. Dopo due giorni, si spara. Theo lo assiste fino alla fine.
Mio figlio si chiama Theo. Tutti dovrebbero avere un Theo nella loro vita.
La Stampa 22.3.15
Uno sguardo dal Ponte sulla catastrofe del secolo
A Genova una mostra sull’avanguardia Die Brücke: artisti impolitici che sentirono le tensioni di un mondo sul punto di esplodere
di Gian Enrico Rusconi
L’aspetto più affascinante ed enigmatico dell’arte d’avanguardia è il rapporto controverso con il proprio tempo. Per definizione la cultura e società dominanti respingono l’avanguardia, salvo poi riconoscere a posteriori che soltanto essa ha colto in modo penetrante il suo tempo. Ma ormai è troppo tardi. Nel suo riconoscimento tardivo l’arte d’avanguardia nel frattempo è diventata innocua e inoffensiva - proprio il contrario di quello che voleva essere. A chi viene dopo, non rimane che lo stupore per la sua precoce «intelligenza».
Pre-espressionisti
Il gruppo tedesco Die Brücke è l’avanguardia per eccellenza dell’arte del 900 tedesco. Nella nostra ottica retrospettiva esso precede, anticipa, introduce il fenomeno ben più imponente e complesso dell’espressionismo. Questa è una acquisizione consolidata e documentata nella storia dell’arte. Ma se si assume un’ottica socio-politica, tra Die Brücke e l’espressionismo, quale conosciamo, c’è una differenza cruciale segnata dalla cesura della guerra mondiale. Non è un’osservazione ovvia. L’espressionismo infatti è anche una reazione, una risposta alla «catastrofe originaria del XX secolo» (G. F. Kennan). È troppo facile limitarsi a dire che gli artisti Die Brücke ne abbiano una sorta di premonizione. La vera sfida interpretativa è spiegare e mostrare come mai artisti assolutamente impolitici (come del resto era la gran parte della intellighenzia artistica tedesca prima della guerra mondiale) sentano le tensioni di un mondo carico di contraddizioni, prima che esplodano nell’orrore della guerra. E guardino già oltre con la loro creatività.
Gli artisti Die Brücke sono attivi nella Germania guglielmina tra il 1905 e il 1913, a Dresda e a Berlino, nel cuore della «potenza inquieta» al centro d’Europa. Al culmine di una modernità dove la tecnica, la macchina, l’ordine e la disciplina del lavoro moderno vivono in simbiosi con la mitologia nibelungica e con espressioni pittoriche classicheggianti o neoromantiche. È la modernità travestita da wagnerismo e da un classicismo filologicamente puntiglioso. Proprio in questa Germania la qualità tecnologica di uno sviluppo industriale tra i più avanzati si materializza nella macchina bellica più moderna d’Europa. Ne scaturirà nel 1914 il primo conflitto mondiale, che assumerà la forma di uno scontro intra-occidentale, prima ancora che mondiale. Non a caso sarà chiamata Kulturkrieg, guerra di culture, dai professori, dagli intellettuali, dagli artisti tedeschi nella loro «mobilitazione spirituale» («Le idee del 1914 contro quelle del 1789», Ernst Troeltsch) trovando pronta e speculare reazione nei loro omologhi francesi e inglesi. Ma dietro alle culture che si dichiarano spiritualmente incompatibili (innanzitutto Germania contro Francia) c’è la medesima razionalità tecnica, il medesimo metodismo razionale che crea identiche armi micidiali, perfezionate nella competizione, che elabora piani di guerra pensati con lo stesso sforzo di razionalità e di metodicità. Uno scontro di ragioni e di razionalità, che definisce «la civiltà» contemporanea .
La Grande Guerra materializza questo scontro. A esso partecipano consapevolmente anche alcune avanguardie: primo fra tutti il futurismo. Gli artisti Die Brücke invece non ci sono. Sciolto il gruppo, la biografie individuali battono altre strade. È soltanto attraverso la successiva prospettiva storica che la loro breve e intensa avventura acquista nuovo significato e crea un collegamento con il successivo espressionismo tedesco weimariano.
Kultur e Zivilisation
Ma durante la guerra succede qualcosa di inatteso nelle culture del continente. Ancora oggi per noi è difficile capire l’intensità e la qualità della partecipazione degli intellettuali europei alla guerra, quanto meno nella sua fase iniziale. Per rimanere in Germania, l’esempio più impressionante è Thomas Mann con le sue Considerazioni di un impolitico, un testo laborioso e intenso, scritto tra il 1915 e il 1918, basato sulla contrapposizione di Kultur (tedesca) e Zivilisation (francese e inglese). Non vuole essere una appassionata testimonianza di patriottismo ma «un’opera di artista» ( come la chiama) costruita sulla inconciliabilità «spirituale» tra germanicità e occidentalismo.
In realtà il contrasto tra Kultur e Zivilisation travalica la contingenza dell’evento bellico, diventa una manifestazione epocale che mette in gioco elementi in cui si sarebbero potuti identificare anche alcuni artisti ribelli delle avanguardie. Leggiamo: «Nessuno vorrà negare che il Messico, al tempo in cui venne scoperto, possedesse una sua cultura, ma nessuno potrà sostenere che fosse civilizzato. Evidentemente cultura non è il contrario di barbarie; essa è piuttosto e abbastanza spesso una primitività stilizzata, e d’altronde, civilizzati, tra tutti i popoli dell’antichità furono forse solo i cinesi. Cultura significa invece unità, stile, forma, compostezza, gusto e una certa organizzazione spirituale del mondo, per quanto esso possa sembrare selvaggio, sanguinoso, tremendo, avventuroso, volgare. La cultura può comprendere l’oracolo, la magia, la pederastia, messe nere, sacrifici umani, culti orgiastici, l’Inquisizione, l’autodafé, il ballo di san Vito, processi alle streghe, il fiorire di venefici e le più svariate atrocità. Civilizzazione è invece ragione, illuminismo, addomesticamento, incivilimento, scetticismo, dissolvimento». Con parole diverse, queste tesi potevano essere condivise anche dalle avanguardie.
Alla fine in Mann il contrasto tra cultura e civilizzazione culmina in quello tra «spirito» e «politica», tra anima e società, tra libertà e diritto di voto, tra arte e letteratura. La germanicità è cultura, anima, libertà, arte; non civilizzazione, società, diritto di voto, letteratura che qualificano l’Occidente.
«Speciale essenza tedesca»
Per la verità, all’indomani della sconfitta militare e con la costituzione della Repubblica di Weimar, Thomas Mann gradualmente si ricrede e, tra lo sconcerto di molti suoi ammiratori, si riconosce nei valori repubblicani. Sarà un itinerario lungo e tormentato che, dopo l’affermazione del nazionalsocialismo in Germania, porterà il romanziere all’esilio americano e a nuovi convincimenti. «Sorto dalla guerra, il dissacrato impero tedesco della nazione prussiana non poteva che essere sempre soltanto un impero di guerra. Come tale è esistito, spina nel fianco del mondo e come tale è perito».
Con la fine della dittatura nazista sorge anche per la Germania la speranza che «l’umanesimo sociale» non possa essere «estraneo e contrario» alla «essenza tedesca». Ma non sorprende che il grande romanziere non abbia mai rinnegato le sue Considerazioni, che erano pregne dello spirito della «speciale essenza tedesca». È una battaglia di ritirata in grande stile, l’ultima e più tarda di uno spirito borghese tedesco e romantico, combattuta con piena coscienza della sua vanità e quindi non senza nobiltà.
(Karl Schmidt-Rotluff by siae 2015) - Karl Schmidt-Rotluff (Rottluff 1884 - Berlino 1976).
il Fatto 22.3.15
Uno sguardo d’artista
Le mani tremanti e Michelangelo “senza più padrone”
di Dario Fo
Torna domani sera, alle 21:15, su Rai5 l’appuntamento con “L’arte secondo Dario Fo”. La puntata è dedicata a “Michelangelo, tegno nelle mani occhi e orecchi”. Eccone un’anticipazione.
Negli ultimi anni del Ventesimo secolo vennero alla luce molte opere che di volta in volta furono assegnate a Michelangelo e quindi ai suoi allievi per ritornare di nuovo al maestro. Fra di essi ci sono degli altri Prigioni, un Adone Morente, Torsi virili, Figure maschili adagiate e Nudi femminili di bellissima fattura, tutte opere che esprimono potenza e vitalità impressionanti. Molte di queste sculture sono esposte al Museo dell’Accademia di Firenze dove sta anche l’originale del David. Mi ricordo che, visitando per la prima volta quel museo, ho avuto l’impressione che i busti, i tronchi, i resti di statue mozzate, si scambiassero di posto e si agitassero come le figure mutilate de Il viaggio sulla luna di Luciano di Samosata.
Una indipendenza senza prezzo
Insomma, si ripeteva la provocazione grottesca e crudele immaginata dal poeta greco: il trionfo degli eroi e degli innocenti massacrati insieme nelle guerre oscene d’ogni tempo. Dal 1550 in poi, intorno agli 80 anni, Michelangelo è afflitto da pesanti malanni con straordinarie riprese e continue ricadute. Le mani non gli rispondono più come un tempo; spesso è costretto a ricorrere ai suoi allievi perché concludano gli abbozzi che è riuscito solo ad accennare. I suoi disegni diventano di giorno in giorno più sofferti e affaticati; ormai non li esegue per illustrare progetti ai committenti ma esclusivamente per se stesso e questo succede anche per le nuove sculture. Come dichiara in più di un’occasione: “Sentirsi libero da un proprietario, come dire da un committente, prima ancora di pensare al che fare mi è di grande conforto, e soprattutto mi pone in uno stato di indipendenza che non ha prezzo alcuno. Lavoro il marmo con il piacere ineguagliabile di chi possiede il privilegio di poterne mettere all’opera pietre e massi in gran quantità”. Difatti Michelangelo ora improvvisa direttamente sul blocco intonso, senza nemmeno aver disegnato un foglio. Gusta il piacere di trovarsi fuori da ogni regola e lavora con una frenesia che lo esalta.
L’applauso alla “mazzata” contro la scultura
“Spesso al mattino mi sento spezzato, mi dolgono membra e giunture, ma il pensiero di poter scolpire come mi pare senza alcuno che venga a sbirciare e a far controlli, mi fa assomigliare al mio piccolo nipote che tiene il mio stesso nome quando gioca appresso a me coi pezzi di fango o con le pietre di scarto. Un giorno, sono stato ad osservarlo di nascosto, senza intervenire, mentre con scalpello e mazza dava dentro a una mia scultura già quasi terminata. L’ho perfino applaudito quando ha sferrato una vera e propria mazzata! ”. Nel gruppo detto Pietà Bandini appare a sovrastare il Cristo e le due donne che tentano di reggerlo, Nicodemo: ha un volto che ben conosciamo. È l’autoritratto incappucciato del Buonarroti che si sforza disperato di reggere il Cristo che sta scivolando di mano non soltanto a lui, ma anche alle due giovani che lo aiutano. Quest’opera è stata pensata da Michelangelo per la sua tomba. Egli che cerca con tutte le sue forze di trattenere il corpo del Salvatore esprime una chiara allegoria: la vita sua se ne sta andando ed è impossibile trattenerla.
Ma come fosse stata davvero colpita nel corpo dalla lancia del soldato romano, la statua un giorno, mentre la sta lavorando ha un sussulto: a causa di una venatura del marmo la gamba sinistra si stacca di netto dal tronco e diviene impossibile riattaccarla. Il Cristo rimane mutilato, come la vittima di una guerra, eppure quella frana oggi pare voluta per produrre ancora più palese la violenza subita dal dio-uomo.
Il coraggio di quelle gambe spezzate del Cristo
Il movimento che si determina appena giri intorno alla scultura e che produce la sensazione di un agitarsi del corpo di Cristo come fosse scosso da tremiti post mortem è davvero angosciante.
Egualmente un’altra Pietà, quella di Palestrina, riproduce la stessa sensazione. Qui addirittura le gambe di Cristo cedono come spezzate. Michelangelo in quest’opera introduce qualcosa che non è mai d’uso nella scultura: lo scorcio, che in pittura si risolve in una suggestione quasi paradossale, un trompe-l'œil, vedi il Cristo del Mantegna col corpo rastremato dall’effetto prospettico. Ma in una figura a tuttotondo l’accorciamento sorte una sproporzione normalmente inaccettabile, che pensi esser causata da un errore, invece qui è scientemente voluta per caricare di sgomento l’immagine compiuta. E in questo forzare i rapporti fra i volumi e le forme, Michelangelo nella sua maturità dimostra un coraggio spregiudicato nel generare l’impossibile. Solo grandi scultori moderni come Rodin, Martini e Moore ne hanno colto la lezione qualche secolo appresso.
La corruzione del corpo e la trasposizione nelle opere
In quel tempo, i suoi detrattori e anche gli amici commentano: “Egli non è più in sé, vuoi nel concepir forme che nel produrle. ”. Di certo le sue statue hanno sofferto, si son contorte quasi per proprio conto.
La Pietà Rondanini mostra perfino un braccio appeso fuori dalla figura, di dimensioni più grandi: è un arto estraneo all’opera, quasi a testimoniare quanto Michelangelo abbia scavato, ridotto, graffiato, come se operasse su un osso di uomo autentico. Di questa corruzione inarrestabile della figura umana, il Buonarroti sente il prodursi quotidiano addosso a sé. Così quando osserviamo questi capolavori è come se davanti a noi attori straordinari recitassero le tragedie di Eschilo e Sofocle.
“Tu che muovi il tempo e l’animo rendi oscuro di chi vuoi perdere quanto fragile m’appari, o divino Zeus, appena vesti per gioco le nostre spoglie mortali dando a quelle un anelito vitale.
Ma in che catastrofe cadi, precipitando appena ti trovi davanti a un’umanità che dimostra di non aver bisogno di te.
Sperduto ti scopri e privo d’ogni orgoglio vai implorando aiuto con maggior mortificazione di un bimbo abbandonato nel cesto che galleggia nel mare.
‘Io, scorgendoti così ridotto, sono felice anzi fiero di non essere dio. ’ – aggiunge Adamus nella sua antica concione – ‘Noi, uomini e donne, siamo più grandi di te, Signore, perché possediamo il senso della vita e della morte e possiamo viverla oltre che raccontarla. Tu no. Forse è per scoprirne il segreto che ti sei fatto uomo. È perciò che ancora ti amo. E qui mi hai davvero stupito”.
Il Sole Domenica 22.3.15
I tre valori dell’articolo 9
Cultura è libertà di ricercare
di Giovanni Maria Flick
Sviluppare la cultura, promuovere la ricerca, tutelare il patrimonio storico e artistico: tre compiti della Repubblica strettamente interrelati e ben individuati nella Costituzione
L’art. 9 della Costituzione disegna uno strano e originale “trittico” di valori (tutti fondamentali e riguardati come “tipizzanti” del volto costituzionale dello Stato-apparato e dello Stato-collettività), rispetto ai quali i compiti della Repubblica vengono ad essere scanditi secondo direttrici apparentemente non sintoniche fra loro. C’è la «cultura», che deve essere sviluppata; la «ricerca scientifica e tecnica» che deve essere promossa; il «paesaggio ed il patrimonio storico e artistico» che devono infine essere tutelati.
Sembrerebbe, quindi, che, mentre la “cultura” viene vista dalla Costituzione come un quid mai compiuto, ma sempre in divenire e da accrescere, la ricerca non abbia una sua dimensione diacronica, quantificabile secondo un più o un meno, ma debba semplicemente essere assecondata: quasi una funzione maieutica dello Stato, che ne deve accompagnare l’incedere, lasciando a chi si occupa di ricerca stabilire l’an, il quid ed il quomodo. Paesaggio e patrimonio storico e artistico sono invece visti nella loro prospettiva statica: vanno solo tutelati, quasi a farne un “museo” (all’aperto o al chiuso non importa).
Eppure, cultura, ricerca e patrimonio storico e artistico non appaiono elementi scollegati all’interno del “trittico” normativo di cui si è detto; né può dirsi che i compiti della Repubblica tracciati per ciascuno di essi siano frutto di una rapsodica rassegna, priva di un tratto unificante. Cultura e ricerca sono spesso (direi anzi sempre, sul piano storico) valori (e non solo strumenti) fra loro “interfacciabili”, non potendosi l’una “accrescere” – come vuole la Costituzione – senza la seconda, che per svolgere la sua funzione non deve essere “indirizzata” (come di regola accade negli assetti totalitari), ma semplicemente “promossa”. Lo stesso è a dirsi per il patrimonio paesaggistico, storico e artistico: è seriamente pensabile che un simile “valore” possa essere efficacemente “tutelato” senza cultura e ricerca?
Il “trittico” e i differenti compiti assegnati allo Stato sembrano dunque ricomporsi. Mentre, sul piano soggettivo (quello dei rapporti etico sociali della Parte II della Costituzione), il “faro” è offerto dall’art. 33 che, nel sancire la libertà dell’arte e della scienza, non si limita ad assegnare valore di intangibilità ad un semplice diritto per chiunque, ma finisce per “qualificare” contenutisticamente tanto l’arte che la scienza come materie “in sé” libere, quindi non “limitabili” da parte dello Stato. E poiché la scienza si compone e si compenetra con la ricerca, anche quest’ultima non potrà che essere attratta nella sfera precettiva dell’art. 33 Cost.
Da qui già alcuni primi corollari. Non mi sembra, anzitutto, che la posizione della Costituzione sia “neutra” sul tema della scienza, cultura e ricerca scientifica e tecnica: la propensione, più che esplicita, è verso uno Stato “attivo” nel “coltivare” la “cultura”, nella piena consapevolezza che i valori del “sapere” non possono disancorarsi dal valore “dell’essere” (e, soprattutto, del come essere). Attraverso la evocazione di questo “attivismo” promozionale per tutto ciò che è “cultura” (pur con tutto il relativismo semantico che accompagna questa espressione), la Costituzione – a me pare – non è neppure “eticamente” neutra (anche se, va precisato, si tratta di un’etica profondamente laica). Arte, storia, scienza sono senz’altro “cultura” (in chiave costituzionale) e qualsiasi giudizio “morale” che rompesse la compenetrazione tra i vari termini del sintagma finirebbe per assegnare una inconcepibile attribuzione negativa (“non” arte, “non” storia, “non” scienza, “non” cultura) in dipendenza di valutazioni “soggettive” totalmente eccentriche rispetto al disegno della Costituzione.
Ma è altrettanto evidente che la “cultura” che lo Stato ha il compito di “sviluppare” non è avulsa dal contesto di valori in cui il costituente l’ha iscritta; con la chiara conseguenza che un simile “sviluppo” debba rappresentare una “progressione” verso il conseguimento di quei valori, dando risalto alla “storia” che ha accompagnato un simile “progresso” verso il bene comune. La “moralità” costituzionale va, dunque, a mio avviso ricostruita come necessaria sintonia tra la evoluzione culturale e la somma dei valori presenti in un paese, in un dato contesto storico; in modo tale da evitare che una determinata “cultura” possa offendere e pregiudicare i “diritti” di una cultura “diversa” che si conformi ai valori della legalità (globalizzazione e conseguenti confronti-scontri fra “culture” sono sotto gli occhi di tutti).
Altra conseguenza che scaturisce da quanto si è detto, è rappresentata dal fatto che la ricerca – che lo Stato deve, come si è detto “promuovere” – è anch’essa da conformare agli indicati parametri di “moralità” costituzionale, dal momento che l’assenza di “confini” normativamente predefiniti, impone un intervento pubblico solo a tutela di un interesse pubblico, e quindi “moralmente” in linea con l’intera tavola dei valori tanto costituzionali che derivanti da fonti internazionali o sovranazionali. Ma, ciò che più conta, la ricerca da promuovere, saldandosi a filo doppio con il fine di perseguire “un valore aggiunto” evocativo di un sostanziale “progresso collettivo”, non può disancorarsi (ancora una volta, secondo una “etica dei valori”, quali in particolare il principio solidaristico) dalla esigenza che la “ricerca” non possa essere racchiusa in un confine di autoreferenzialità “dogmatica”, senza perseguire obiettivi che presentino una qualche rilevanza “esterna”.
La ricerca meramente “autoreferenziale” può essere arte, scienza, tutelate nella loro libertà, o semmai, “cultura” da sviluppare. Ma per essa – in sé e per sé considerata – appare difficile immaginare una “causa” costituzionale per ritenere che lo Stato abbia uno specifico obbligo di “promozione”: proprio perché fa per definizione difetto qualsiasi significativo riverbero sul piano degli interessi collettivi. Libertà, dunque, di ricerca: ma promozione solo di quella “costituzionalmente” significativa.
Un terzo ed ultimo corollario mi pare possa trarsi da quanto si è detto. A prescindere dalla vexata quaestio di quali siano i tratti distintivi tra scienza, tecnica e tecnologia, la Costituzione sembra ritenere del tutto equivalenti gli attributi della ricerca, ancora una volta denotando una opzione “generalista” che eviti qualsiasi elemento lessicale dal quale poter dedurre una sorta di limitazione “qualitativa” della ricerca che lo Stato è chiamato a promuovere. Spira, come è evidente, una qualche aria di propensione verso una proiezione “tecnologica” della ricerca, nella prospettiva di un incremento del benessere “materiale” dei consociati: ma, a mio avviso, l’apparenza inganna. Cultura e ricerca – come abbiamo già detto – sono i due volti di uno stesso “valore”, sicché apparirebbe davvero illogica una previsione che si limitasse a promuovere la ricerca scientifica o tecnica senza preoccuparsi di “scienze” in sé prive di riflessi “applicativi” sul piano materiale; l’intera gamma delle scienze umane resterebbe implausibimente negletta, quando, al contrario, lo sviluppo della cultura di un paese non può evidentemente farne a meno.
Il Sole Domenica 22.3.15
A colloquio con Eimuntas Nekrošius
Neppure la bellezza ci salverà
Il regista lituano non ama i luoghi comuni: «Sono lituano, non cosmopolita
L’Urss non era così terribile. Rileggo Dostoevskij e altri classici, e mi deludono»
di Camilla Tagliabue
Se non avesse fatto teatro, «forse sarei dovuto stare in qualche angolo con la mano tesa a chiedere l’elemosina, oppure mi sarei ritrovato in prigione. Chissà, è sempre difficile immaginare quel che si sarebbe potuto essere». Eimuntas Nekrošius è maestro di humour nero, prima ancora che di teatro: parla piano, a bassa voce, ha occhi azzurri e piccoli, vagamente luciferini, e la ieraticità di un lupo nella steppa, anche se veste trasandato e sta intabarrato in un maglione spesso, più una felpa col cappuccio, più un giaccone da neve. Ci concede una (rara) intervista alle 9 del mattino, grazie all’intercessione dell’Istituto italiano di cultura e dell’Ambasciata d’Italia a Vilnius; poi sgattaiolerà sul palco per le prove del suo nuovo spettacolo, il Boris Godunov di Puškin: intanto, sorseggia caffè nero e si accende una sigaretta via l’altra, senza gustare né l’uno né l’altra, e commenta (quasi) felice: «Questo studio è uno dei pochi posti rimasti al mondo in cui si può ancora fumare».
A 62 anni Nekrošius è uno dei registi più blasonati e riconosciuti, non solo nella sua Lituania, ma anche in Europa e nel resto del mondo: attualmente dirige il Teatro Studio Meno Fortas (“L’arte del forte”), da lui fondato nel 1998, e il 22 maggio debutterà, con l’opera puškiniana, al Lithuanian National Drama Theatre, che quest’anno festeggia 75 anni di attività ospitando due grandi artisti: prima del “padrone di casa”, infatti, dal 27 marzo, andrà in scena il polacco Krystian Lupa con Piazza degli eroi di Thomas Bernhard. Anche Nekrošius ha un che di bernhardiano, pare uscito dai brinati romanzi Gelo o Perturbamento; più che rispondere alle domande, si diverte a smontare le risposte, ad esempio: «Crede che il teatro al tempo di Twitter sia l’ultima roccaforte di un passato in via d’estinzione, con i suoi ritmi dilatati e la sua richiesta d’attenzione prolungata?». «Questa non è una domanda, è una constatazione. Ma poi questa realtà è davvero così veloce come ci sembra? Sembra che sia di moda dire “Sono molto impegnato”, “Prendiamo un appuntamento da qui a cinque anni”... Eppure tutti, in fondo, hanno tempo, quel che dicono è solo apparenza».
In oltre 30 anni di lavoro, il numinoso teatrante si è cimentato in un corpo a corpo con i più grandi autori di sempre, da Shakespeare a Cechov, da Tolstoj a Dante, la cui Divina Commedia – «labirintica: ero curioso di capire se e come potesse essere trasferita sul palcoscenico» – ha allestito nel 2012. La drammaturgia contemporanea non lo ha mai allettato: «Sì, ci sono autori interessanti, ma di questi si occupano i registi più giovani: tra di loro si intendono meglio». Ma come è cambiato il suo lavoro negli anni? «Non è cambiato niente. Noi ci atteniamo solo a noi stessi e, finché lo potremo fare, non ci adatteremo. Certo ci sono teatri che si occupano di cronaca o di attualità, e lo fanno molto bene: non necessariamente dobbiamo seguire tutti la tragedia greca!». Quali sono allora i suoi scrittori, filosofi o intellettuali di riferimento? «Dieci o quindici anni fa avrei saputo rispondere, ma oggi mi è difficile. Oggi trovo gioia e serenità anche leggendo romanzi storici, popolari». Persino i bestseller? «Sì, non leggo solo i classici. O forse voi vorreste che io dica Umberto Eco!?... Con l’età cambia l’atteggiamento nei confronti dei classici: quelli letti da giovane ora non li sento più tanto importanti. Penso, ad esempio, a Dostoevskij: adesso per me è troppo maniacale, lo si apprezza solo quando si è giovani. Oppure Gor’kij, un seduttore politico».
Altra sua croce e delizia sono i testi sacri, come il Cantico dei cantici o il Libro di Giobbe , imbastito nel 2013 al Teatro Olimpico di Vicenza, che ha diretto per due anni. Cosa ne pensa dell’Italia, che tanto la stima e la omaggia? «Qualsiasi artista qui risponderebbe lo stesso: è un bellissimo Paese con persone straordinarie, dove le arti prosperano, nonostante quello che dite voi. Avete una posizione invidiabile, guardando da qui. L’Italia è una specie di paradiso, a dispetto delle lamentele». E quanto alle sue radici, lei si sente cosmopolita? «No, non si può appartenere a tutto e a niente. Io sono nato e cresciuto qui. È di moda dire “sono un cittadino del mondo”, un’etichetta. Io sono lituano: queste sono le mie radici». Cosa ne pensa del passato sovietico: è stato difficile lavorare negli anni del regime, sotto pressioni e censura? «Certamente c’erano delle imposizioni, ma non erano tante e tali da impedire l’espressione. Ovviamente bisognava non varcare certi limiti. Oggi, passato un po’ di tempo, molti forse esagerano nel ricordare quegli anni: certo noi non vedevamo l’ora che l’oppressione finisse, ma la mia generazione non ha sofferto tanto, è stata quella dei miei genitori ad aver veramente sofferto, a essere stata deportata. Poi il teatro era considerato meno pericoloso dal potere, soprattutto rispetto al cinema. In fondo, credo che il limite in un certo senso stimoli la creatività: più gli steccati sono alti, tanto più grande è lo sforzo per scavalcarli, tanto migliore sarà il salto»; come si dice, i giardini più belli crescono dentro i campi recintati.
Il teatro di Nekrošius è poetico quanto materico: le interessa la natura? «No, non mi interessa granché. Come vedete ne abbiamo di ghiaccio dalla natura! Qui si potrebbero scrivere libri e libri, ma la natura è semplice». Anche dell’etichetta di maestro si fa beffe: «Non mi ritengo un maestro. Non saprei perché dovrei insegnare a uno a scrivere con la mano destra anziché con la sinistra. Non ho allievi». E gli unici maestri che ricorda e ringrazia «sono quelli che mi hanno ammesso all’accademia di recitazione a Mosca. Poteva andare tutto in modo molto diverso. Grazie a loro, che mi hanno lasciato fare, e diventare quello che sono... Il teatro non è faticoso né un peso, anzi direi che è una delle arti meno difficili perché si lavora insieme, è una creazione collettiva. E forse è un bene che sia un’arte che passa, che finisce, effimera, poco influente». Cosa apprezza di più in un attore? «In generale, nelle persone, non solo negli artisti, apprezzo l’autenticità. Uno non può apparire quel che non è. Cerco la purezza, la bontà».
Molti intellettuali e critici sostengono che l’arte abbia dimenticato Dio: concorda? «Cos’è? Una ricetta? Sarebbe diverso se noi dicessimo che non abbiamo dimenticato Dio? No, non cambierebbe nulla, è solo una questione di fonetica. La spiritualità o c’è o non c’è». Poi, parlando degli attentati a «Charlie Hebdo», aggiunge: «Ho seguito la vicenda con dolore e partecipazione. È una situazione molto complessa, su cui ognuno si è formato una propria opinione. A me viene in mente che anche i dieci comandamenti iniziano con “Non avrai altro Dio all’infuori di me”». Allora il conflitto è inevitabile? «Sì. C’è sempre stato e sempre ci sarà...». Quindi, il teatro, la cultura, l’arte non hanno alcun potere? «No». Quindi, nemmeno la bellezza salverà il mondo? «No». Ultima domanda stupida: «A cosa serve il teatro allora?». E ride.
Il Sole Domenica 22.3.15
Un Dio arbitro di molti popoli
L’autore di «Guerre giuste e ingiuste» e di «Esodo e rivoluzione» analizza sei diverse idee di pace contenute nella Bibbia. Ecco quella più attuale
di Michael Walzer
«Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti, e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie, e possiamo camminare nei suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti, e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (da Isaia,capitolo 2,1-4).
Questa splendida visione ricorre anche nel libro di Michea. Non mi interessano le discussioni accademiche su chi abbia per primo descritto le molte nazioni affluire a Gerusalemme – Isaia o Michea o un ignoto profeta che fu la fonte per entrambi; e neppure cercherò di capire quando la descrizione venne pronunciata o scritta. Queste non sono questioni rilevanti in questa sede.
Il secondo capitolo di Isaia è chiaramente un testo messianico, poiché descrive gli ultimi giorni, non i nostri giorni, eppure le sue profezie non suggeriscono la rottura radicale descritta invece nel capitolo undici (se si accetta l’interpretazione “forte”). Al contrario, è la visione di un mondo che è differente ma non così difficile da immaginare; di certo non è un mondo innaturale o denaturato. Sebbene il testo possa non suonare realistico alla prima lettura – è una visione, dopotutto – voglio difendere il suo realismo. Voglio anche convincere chi legge che questa è la migliore delle concezioni della pace bibliche, e che è il resoconto di una società internazionale che potremmo persino ambire a realizzare.
La descrizione maimonidea del tempo messianico, con la sua alternativa a un’interpretazione letterale dei versetti sui lupi e gli agnelli, probabilmente è conseguente alla lettura ravvicinata di testi come questo. La visione di Isaia, comunque, non comincia con l’accettazione da parte di tutta l’umanità della vera religione – in questo senso è come il trattato di pace fra Acab e Ben-Hadàd, che non richiede la conversione di Ben-Hadàd. Il secondo capitolo di Isaia comincia più modestamente parlando di «molti popoli» (non tutti i popoli) che si esortano l’un l’altro a imparare le vie del Signore: «Venite, saliamo… ci indicherà le sue vie». Il profeta immagina una disponibilità ad apprendere che ovviamente non esisteva al suo tempo, ma è una disponibilità e non ancora la fede ciò che le sue parole descrivono. Non è proprio trionfalismo religioso (sebbene vi si avvicini) e, cosa che è di maggiore importanza per noi, non vi è qui alcun trionfalismo politico. Israele non è vittorioso in battaglia, né domina in modo imperiale nella visione di Isaia. Ci sono passaggi profetici – proprio in Isaia – che descrivono i re israeliti mentre ricevono il tributo dei vicini sconfitti, ma qui non vi è niente di tutto ciò. In effetti sarebbe difficile formulare un resoconto biblico di un dominio imperiale universale – persino per un re davidico – poiché è solo Dio che può essere, come dice il profeta Zaccaria, «re su tutta la terra». Maimonide intende questo secondo testo di Isaia giustamente quando insiste sul fatto che i profeti «non desideravano i giorni del Messia affinché Israele potesse esercitare il dominio sul mondo o governare sulle nazioni, o essere esaltato dalle nazioni».
Il Dio che insegna e la legge che viene insegnata nella visione di Isaia sono singolari in natura ma i popoli che salgono sono al plurale, e la loro pluralità è la chiave, credo, per intendere il significato profondo del testo. Il pluralismo è espresso nel pieno della sua forza nella versione di Michea della profezia, quando conclude con un passaggio che ha provocato molti commenti:
«Tutti gli altri popoli camminino pure ognuno nel nome del suo dio, noi cammineremo nel nome del Signore Dio nostro, in eterno, sempre».
Ciò sembra essere incoerente con il versetto precedente «e noi cammineremo sui suoi sentieri», dove “suoi” è riferito al “Dio di Giacobbe”. Al contrario, in questo versetto del libro di Michea “suo” si riferisce decisamente ad altri dei. Tuttavia il testo include anche il riferimento al Dio di Giacobbe, quindi dobbiamo immaginare i popoli camminare simultaneamente nel nome di diversi dei, presumibilmente in diverse direzioni, cosa che è impossibile persino nel tempo messianico, fintantoché il mondo segue il suo corso normale. Michea offre quello che credo sia il riconoscimento più radicale del pluralismo religioso nell’intera Bibbia. Focalizzerò l’attenzione, tuttavia, solo sul testo di Isaia, dove il pluralismo non è di carattere religioso ma etnico o nazionale.
Vi saranno ancora “molte nazioni” nell'era messianica. Questo fatto segue al rifiuto dei profeti di assicurare un dominio universale a Israele. Dato il programma di riduzione degli armamenti che Isaia descrive – spade riconvertite in vomeri, lance in falci – queste nazioni dovranno vivere in pace, non perché abbiano un deterrente rispetto al combattere, ma perché non avranno armi con cui combattere. Niente spade né lance, e neppure carri, né carri armati. Tuttavia non vivranno in armonia.
Vi saranno ancora conflitti e dispute fra loro, che richiederanno i giudizi di Dio e i suoi rimproveri. Egli «sarà arbitro fra molti popoli». Questo è un versetto straordinario: che cosa stanno facendo per richiedere l’attenzione critica di Dio? Non sappiamo a che cosa stia pensando qui Isaia, probabilmente non al commercio internazionale, sebbene gli affari commerciali possano fornire anche occasione per giudizi e rimproveri. In ogni caso, Isaia non immagina certamente l’armoniosa coesistenza di lupi e agnelli. Eppure ci viene chiesto di credere che questa non è solo una condizione migliore rispetto a quella che conosciamo; questa è la promessa di Dio per gli ultimi giorni – non vi sarà niente meglio di questo.
Quando leggo gli scienziati politici contemporanei descrivere «la fine del sistema di Westfalia», il prossimo «superamento dello Stato-Nazione» e argomentare una forma o l’altra di governance globale, penso sempre al secondo capitolo di Isaia. Il profeta descrive effettivamente un tipo di governo universale, ma include solo uno dei tre poteri convenzionali: Dio da Gerusalemme ha solamente la funzione di giudice in una corte mondiale. Suppongo che lo si debba immaginare come giudice nell’applicazione dei suoi regolamenti – «arbitro» dovrebbe voler dire questo. Tuttavia egli agisce solo dopo il fatto, come fa ogni corte; lascia le decisioni (il legislativo) e l’autorità esecutiva di prim’ordine nelle mani delle molte nazioni, che è proprio ciò che gli odierni fautori della “fine della sovranità” non intendono fare.
Nella visione di Isaia, il pluralismo è una caratteristica permanente della vita umana e della società internazionale, e le molte nazioni tutte sono, e saranno persino negli ultimi giorni, sovrane e autodeterminate – altrimenti non potrebbero a buon diritto essere rimproverate per ciò che fanno. Sebbene questo non sia in alcun modo esplicito un testo sulla libertà, è proprio la libertà il suo tema profondo. La pluralità delle nazioni e la libertà delle nazioni stanno assieme. La visione di Isaia è volontarista fin dal principio: «Venite, saliamo» è un invito, non un comando.
E i conflitti che richiedono il giudizio di Dio devono essere nondimeno opera di popoli liberi.
Isaia è un universalista, ma il suo universalismo lascia molto spazio alla particolarità.
Molte nazioni libere che vivono liberamente sotto un’unica legge – questa è la sua visione. Dobbiamo farla nostra? Potremmo preoccuparci di una corte mondiale nella quale i giudici sono umani piuttosto che divini – una corte di sette, o nove, o ventuno uomini e donne piuttosto che un singolo Dio onnisciente che applica una sola legge; potremmo voler porre dei limiti all’estensione e all’energia dei suoi “rimproveri”.
Potremmo anche voler lasciare spazio all’insegnamento e all’apprendimento descritti dal profeta. Tuttavia questa è una visione con cui fare i conti. Non siamo in grado di far andare d’accordo pacificamente lupi ed agnelli, ma siamo in grado di far vivere “molti popoli” insieme nella pace? Questa è almeno una possibilità.
(Traduzione di Thomas Casadei e Gianmaria Zamagni)
Il Sole Domenica 22.3.15
Trotula de Ruggiero (secolo XI)
Donna che cura donne
Due romanzi ricreano la vita della più famosa esponente della Scuola Salernitana
I «mali» femminili grazie a lei sono diventati scienza
di Maria Bettetini
«Mercurio ama la saggezza e la dottrina, Venere le spese e le baldorie», per questo Trotula ed Eloisa, donne che hanno preteso di far cose da uomini, sono elencate tra le wicked wives, le mogli o donne “cattive”. Così Chaucer, fine del XIV secolo. Trotula, da Trotta o Trocta, significa forse “piccola trota”, è un nome di donna usato dai Longobardi, a noi noto da manoscritti di medicina per le donne e cosmetica. Filologia e storia possono andare poco oltre: la Trotula è il nome del più popolare assembramento di materiale sulla medicina della donna dal tardo XI fino al XV secolo, quando venne tradotto in volgare, in olandese come in tedesco, in ebraico come in italiano. La citazione di Chaucer ne è valido testimone. A noi sono giunti sotto questo nome tre testi, attribuiti alla donna Trotula de’ Ruggiero della Scuola Medica di Salerno. Nei manoscritti (editi per la prima volta nel 2001 da M.H. Green) sono però evidenti interventi maschili: la difficoltà di attribuzione è dovuta proprio alla incredibile diffusione dei tre testi, e allo zelo dei medici che per secoli hanno pensato di emendare, arricchire, commentare questo corpus dedicato alla medicina per la donna. L’eccezionalità sta proprio in questa definizione, «medicina per la donna». Spesso ci si sofferma sull’esclusione della donna dalle professioni mediche, triste epilogo anche della Schola salernitana, che con il riconoscimento di Federico II (1231) e l’istituzione in Studium di Carlo d’Angiò (1280) arrivò a escludere per legge le donne, come in ogni luogo ufficiale di insegnamento.
I testi di Trotula (chiunque sia) sono però importanti perché trattano secondo la tradizione scientifica di Ippocrate e Galeno dei mali che affliggono le donne, fino a quel momento in mano solo a levatrici e maghe. La donna era predestinata a partorire nel dolore, morire di parto era una garanzia per la salvezza dell’anima. Il medico maschio non toccava né guardava i corpi femminili, né riteneva degne di attenzione le problematiche legate al corpo delle donne, da sempre abituate a curarsi tra loro con l’ausilio della pratica secolare e della trasmissione del sapere fitotrapico. Cosa accadde dunque a Salerno, quale condizione permise la stesura di trattati sulle malattie delle donne, attribuiti a Trotula, medico donna citato da molte fonti? Trotula dovette nascere poco dopo l’anno Mille, che vide Salerno lungi da ogni millenarismo. La città, se pur contesa per tutto l’XI secolo da Longobardi e Normanni – spesso tra loro imparentati – era un concentrato di convivenza armonica tra civiltà, per quanto fosse possibile mille anni fa (e sembra impossibile mille anni dopo). I dotti di lingua araba, alcuni allievi addirittura di Avicenna, si recavano a Salerno dove scambiavano conoscenze mediche con greci (bizantini), latini, normanni, longobardi, i quali a loro volta compivano viaggi di istruzione. Le mulieres salernitanae, le donne esperte di erbe, non erano bruciate come streghe, ma erano tenute in gran conto da malati e da medici. Questa fu la felice congiunzione che permise a una donna di esercitare la professione medica e di non perdere occasione per sanare una grave lacuna: invece di sfidare invano e per vanità i dottori maschi, scelse di dedicarsi al corpo femminile, e ne volle lasciar traccia scritta. Un’eccezione, ma anche il segno di alta sapienza, se per secoli la Trotula, dalla Sicilia all’Irlanda, è stata il testo di riferimento per ginecologia e cosmetica. Non che gravidanza e invecchiamento fossero considerate malattie, come spesso a noi capita di pensare, erano piuttosto situazioni in cui c’era bisogno di aiuto per la miglior riuscita dei diversi momenti di vita. Feto podalico, cattiva digestione, capelli bianchi? Si può rimediare. Come si può con semplici gesti capire se l’infertilità di una coppia sia dovuta all’uomo e alla donna: non si sa se funzionasse davvero, quel che è certo è che per metà delle volte infertile veniva detto il marito, eventualità che si ripresenta solo nel ventesimo secolo con i progressi della scienza.
Sono usciti quasi in contemporanea due romanzi sulla vita di Trotula, entrambi frutto di studi approfonditi, entrambi ricchi di ambientazioni verosimili e affascinanti. Uno, di Memoli Apicella, descrive una donna felice, in perfetto equilibrio tra i ruoli di moglie, madre, scienziata, levatrice. Una luce nella difficile storia della scienza fatta da donne per le donne. L’altro, di Presciuttini, presenta una Trotula dalla sensibilità molto contemporanea, incompresa nel suo tempo, perfino dal marito, una donna condannata a essere levatrice, mai medico. In entrambi, le ricette dei libri Trotula sono contestualizzate, si tratti della dieta per la puerpera o delle difficoltà nel parto, di come tingere di nero i capelli o come sembrare vergini quando non lo si è (un problema sociopolitico: da un momento all’altro una longbarda poteva essere stuprata da un normanno e una normanna da un longobardo, salvo poi essere richiesta di andar sposa da vergine). Dunque, per i capelli dorati basta far cuocere fondi di vino bianco e tuorli fino a farne quasi una colla, oppure tritare in una giara nuova tante api, dopo averle bruciate, e mescolarle a olio, poi procedere con appiccicosi impacchi. Anche generosa, Trotula o chi sia, nel trasmettere i suoi segreti di donna.
Trotula. Un compendio medievale di medicina delle donne, a cura di Monica H. Green, trad. it. Di Valentina Biancone, Sismel – Edizioni del Galluzzo, Edizione nazionale «La Scuola Medica Salernitana», Firenze, pagg. 428, € 52.00
Dorotea Memoli Apicella, Io, Trotula. Storia di una leggendaria scienziata medievale, Marlin, Cava de’ Tirreni (Sa), pagg. 410, € 19,50
Paola Presciuttini, Trotula, Meridiano Zero, Bologna, pagg. 398, € 14,00
Il Sole Domenica 22.3.15
Jared Diamond
Umanesimo sperimentale
di Sandro Pagnini
Jared Diamond è uno di quegli scienziati che vale sempre la pena leggere, anche nelle sue opere non strettamente di ricerca, dove riesce a far convergere gli interessi e le competenze più diversi, e dove rivela una sua encomiabile disposizione alla curiosità, al racconto; nel caso di questo libretto, all’improvvisazione intelligente su tema. Diamond è stato professore di Fisiologia alla Ucla Medical School. Ha intrapreso una carriera di ornitologo e etologo soggiornando soprattutto nella Nuova Guinea e nelle isole vicine. Più tardi è diventato uno storico ambientale, e infine professore di Geografia sempre alla Ucla. In Italia non siamo molto abituati a questo tipo di figure professionali, e lasciamo in genere che siano i comunicatori, quelli ben informati ma anche dotati di un certo fiuto, a mettere insieme le conoscenze più disparate per offrire sintesi e spunti di riflessione creativa; che però sono cose ben diverse dalla ricerca. E nella ricerca, invece, siamo assai poco disposti alle collaborazioni interdisciplinari, rese quasi impraticabili dalla moltiplicazione di Dipartimenti “monadi” e dalla frammentazione e specializzazione dei settori disciplinari nei concorsi universitari. Ecco perché, forse, Diamond, venendo l’anno scorso ospite in Italia alla Luiss di Roma (tornerà ospite dell’Università di Firenze e di Pistoia il prossimo ottobre), ha tenuto in quella sede lezioni che fossero di interesse vivo per la nostra cultura e per la nostra politica, dalle quali ha tratto queste pagine: su temi come le ragioni del divario tra zone ricche e zone povere, tra nord e sud; o l’incidenza delle buone istituzioni e dei governi onesti sul benessere degli stati; o l’economia cinese (cui il nostro paese è forzatamente sempre più interessato per la massiccia immigrazione); o i nessi tra le crisi che investono gli stati nazionali e le crisi che gli individui incontrano nella loro vita quotidiana. Ottimi argomenti, ognuno dei quali rappresenta, potremmo ben dire, un “nervo scoperto” per noi italiani, che leggiamo queste pagine come una benefica (e benevola) provocazione, non soltanto a guardare in faccia i nostri problemi, ma soprattutto a guardarli armati di strumenti analitici e scientifici più idonei.
E infatti la prima lezione che Diamond ci vuole impartire riguarda il metodo delle scienze sociali. Se gli antropologi, gli psicologi, i sociologi e anche gli economisti (ma quanti, in Italia, sarebbero disposti a considerare l’economia una scienza sociale? ); dicevo, se gli scienziati sociali, per la natura del loro oggetto di ricerca, non possono valersi, se non in casi rari, di experimenta crucis e di trial controllati, se non possono manipolare, per esempio, un campione di una popolazione per comparare i risultati con un campione di controllo senza incorrere almeno in insormontabili problemi etici, non per questo devono necessariamente affidarsi a narrative, a mere interpretazioni di significati, a “decostruzioni”; come se l’ambito di cui si occupano non potesse, di principio, far parte della scienza, bensì solo di una cultura umanistica da sempre considerata avversa alla scienza, e superiore in quanto più duttile verso i suoi oggetti (che, quando si parla di azioni e pratiche umane, sono dei “soggetti”). Ma gli scienziati sociali osservano, come del resto si osserva in astronomia senza manipolare un bel nulla, e, nei loro esperimenti mentali, possono servirsi egualmente delle scienze “esatte”, anche con un po’ di matematica e di calcolo delle probabilità, in combinazione con altri modelli interpretativi, per spiegare i loro oggetti. E soprattutto si possono servire di “esperimenti naturali”, che non creano ambienti artificiali, ma approfittano di quella artificialità che in qualche caso la storia realizza (per esempio, una Germania unita che dal ’45 al ’90 diventa divisa) per sperimentare quasi con l’esattezza, e senz’altro nello stesso spirito, di quando si sperimenta immergendo «una cistifellea in due soluzioni, una contenente potassio, l’altra no». Dunque, ci insegna Diamond, si deve mantenere una forma mentis scientifica anche quando si fanno scienze umane e sociali; non rinunciando mai al massimo dell’oggettivazione dei problemi, e senza farsi intimidire dalla acclarata “disunità” della scienza. Anzi, da tale disunità si trae occasione per far collaborare tutte le scienze nel porre correttamente e nello spiegare i problemi, perché ognuna di esse, dalla fisica alla filologia, è portatrice di un punto di osservazione che può illuminare. Nel sottotitolo del libro si legge di un ornitologo che osserva le società umane. Ma, è giusto ricordare, quell’ornitologo era lo stesso Diamond che, da sociobiologo, aveva osservato gli uccelli. Questa circolarità virtuosa non significa relativizzazione dei punti di vista, e vuol dire bensì concentrare (aristotelicamente, e soprattutto secondo quanto prescrive un programma di ricerca ispirato alle teorie evoluzionistiche) tutte le nostre conoscenze per porre correttamente gli oggetti di cui si parla e per trovarne una spiegazione. Come dicevo, gli italiani, leggendo queste pagine, sentiranno il pungolo di risolvere qualche problema di governance capendo quanto istituzioni non corrotte portino ricchezza; d’altra parte, si sentiranno lusingati a sapere (ma già lo sapevano, forse confortandosi anche troppo) quanto la nostra dieta mediterranea meglio si adatti agli stili di vita dei paesi a economie avanzate. Ma si spera facciano tesoro di un’altra lezione, non esplicita nel libro, ma che si legge chiaro tra le righe: quanto una cultura scientifica e una ricerca “disinteressata” siano fondamentali per la crescita o almeno per il mantenimento di una ricchezza che, come Diamond ricorda sia a noi che ai suoi connazionali americani, potremmo perdere per mera ignoranza.
Jared Diamond, Da te solo a tutto il mondo. Un ornitologo osserva le società umane, trad.it. Anna Rusconi e Carla Palmieri, Einaudi, Torino, pagg. 130, € 13,00
Il Sole Domenica 22.3.15
Eutanasia, tabù dei nostri parlamentari?
di Armando Massarenti
Breve premessa logica. Nei confronti dell’eutanasia, si danno solo tre opzioni possibili: 1) l’eutanasia non è lecita in nessun caso: la vita umana non è disponibile ed è sacra in ogni sua manifestazione; 2) è lecita solo se è voluta dall’interessato; 3) ci sono casi in cui è lecita anche senza il consenso dell’interessato. Ognuna di queste tre opzioni può essere difesa con linee di argomentazione legittime. Una serie di ragioni vengono addotte a favore della legalizzzione dell’eutaniasia da Luigi Manconi, deputato del Pd, in un documento che si rivolge alla coscienza dei parlamentari e degli uomini
di governo.
A conclusione della sua argomentazione (che riguarda l’opzione 2, che è anche la più comunemente condivisa dall’opinione pubblica), Manconi scrive: «Riteniamo che l’eutanasia debba essere sottratta a quelle condizioni di illegalità e a quello stato di mortificazione in cui essa viene largamente praticata oggi. Tutto ciò, evidentemente, non eliminerà il dato tragico che ogni evento di morte comporta, ma potrà contribuire a collocarlo in un contesto dove “il nostro bisogno di consolazione” trovi un po’ di ristoro, dove il dolore non necessario possa essere contenuto e dove la dignità della persona venga rispettata nel momento estremo in cui il corpo e la mente rivelano tutta intera la propria vulnerabilità.
Di conseguenza, si rende necessario che l’eutanasia sia depenalizzata e che, dunque,non venga sanzionato chi, all’interno di una relazione di cura e su richiesta consapevole del paziente, acconsenta a sospendere quella stessa cura, ad accelerare il processo di morte, a prestare assistenza al suicidio o, infine, a compiere un atto eutanasico». Le ragioni addotte riguardano il rapporto intimo tra due valori fondamentali: l’autodeterminazione, la possibilità di decidere da sé, e la dignità.
«La capacità di autodeterminazione quando si è in possesso delle proprie facoltà o come garanzia ora per allora è presidio ineludibile per la tutela della propria persona rispetto a un decadimento che potrebbe annichilire volontà e coscienza e relazioni con gli altri e con il mondo». Manconi chiede che venga calendarizzata la proposta di legge di iniziativa popolare numero 1582, depositata alla Camera il 13 settembre 2013. Strano che solo uno sparuto numero di parlamentari (meno di 50 su un migliaio che siedono su quegli autorevoli scranni) e una manciata disottosegretari del governo abbiano risposto.
Significativa è la pressoché totale assenza di esponenti del centrodestra, in controtendenza rispetto agli alti Paesi europei dove i difensori dei diritti civili sono equamente divisi tra destra e sinistra.
Ciò significa che su questo tema,
in Italia, non può darsi una pacata discussione parlamentare, dove le opzioni 1 e 2
(la 3 cade facilmente) possano confrontarsi nel più civile dei modi? Se ne può trarre la seguente conclusione: l’eutanasia nel nostro Paese è un vero e proprio tabù. Che cos’è infatti un tabù se non un argomento rispetto al quale si è riluttanti nel voler usare una delle facoltà umane più preziose: la capacità di argomentare e ragionare?
Il Sole 22.3.15
L’inedito di Machiavelli
Così Niccolò si spese per i Medici
L’importante testo ritrovato da Andrea Guidi risale al 1512: contiene le modalità d’indennizzo per i Signori dopo l’esilio
di Gabriele Pedullà
Alle celebrazioni per il cinquecentenario del Principe, che in tutto il mondo hanno coinvolto qualche centinaio di specialisti impegnandoli in una marea di iniziative di diverso valore e natura (convegni, enciclopedie, siti online, mostre, edizioni, monografie), è mancato forse soltanto un evento capace di catturare l’attenzione del grande pubblico quale il clamoroso rinvenimento di un inedito machiavelliano.
Gli archivi sanno infatti ancora essere generosi con i ricercatori più tenaci e non è affatto escluso che in futuro l’opera omnia del pensatore fiorentino possa arricchirsi ancora di qualche pagina, soprattutto per ciò che riguarda il suo epistolario privato e i così detti “scritti di governo”, composti da Machiavelli negli anni di servizio presso la cancelleria della repubblica di Firenze. Ed è proprio agli scritti di governo, in effetti, che appartiene la scoperta di un importante testo del 1512 sino a oggi sconosciuto, di cui qui si dà notizia in anteprima. L’autore del ritrovamento, Andrea Guidi, attualmente assegnista di ricerca a Londra presso il Birkbeck College è uno dei massimi specialisti del “segretario fiorentino” (all’inizio del 2010 il Sole 24 Ore si occupò della sua monografia Un segretario militante, apparsa pochi mesi prima presso il Mulino) e non è nuovo a imprese del genere, ma sino a oggi si era limitato a scoprire lettere indirizzate a Machiavelli. Un breve testo politico di pugno di Machiavelli è naturalmente ben altra cosa.
In attesa che nei prossimi mesi Guidi pubblichi integralmente la sua scoperta, è possibile anticiparne almeno qualche tratto saliente. Il documento da lui rinvenuto risale al settembre 1512, vale a dire a un momento particolarmente delicato della storia pubblica fiorentina e della vicenda privata di Machiavelli. Alla fine di agosto le armate spagnole avevano saccheggiato Prato, costringendo il gonfaloniere a vita della repubblica di Firenze e protettore politico di Machiavelli, Piero Soderini, ad abbandonare la carica e a prendere la via dell’esilio sotto la pressione degli aristocratici fiorentini che speravano di poter sfruttare la sconfitta militare per imprimere al Comune una svolta oligarchica, chiudendo una volta per tutte con le esperienze di governo popolare inaugurate nel 1494, al momento della cacciata dei Medici. Gli spagnoli decisero però di usare invece il loro successo militare per riportare in città i discendenti di Cosimo e di Lorenzo, vanificando in tal modo i progetti degli ottimati. Già i primi di settembre i Medici rientrarono a Firenze dopo diciotto anni di esilio.
Sino a oggi si è pensato che in questo delicato frangente Machiavelli si tenesse lontano dal palazzo della Signoria, anche se solo all’inizio di novembre sarebbe stato ufficialmente allontanato dalla sua carica. La Minuta di provvisione per la restituzione dei beni agli eredi dei Medici e per la riforma dello Stato scoperta da Guidi ce lo presenta invece “al suo posto in prima linea”, e dimostra come nei giorni decisivi Machiavelli fosse impegnato a stilare una bozza di legge relativa a uno dei temi più scottanti del momento: le modalità dell’indennizzo da riservare ai Medici, i quali al momento dell’esilio erano stati anche privati di tutti i loro beni nel dominio fiorentino. Si trattava, come si intuisce, di un problema assai delicato, perché nel frattempo quelle proprietà erano state vendute e avevano ormai da tempo dei legittimi proprietari, che non sarebbe stato possibile spogliare semplicemente di quel possesso senza fomentare istantaneamente una irriducibile opposizione ai Medici (un problema analogo si sarebbe posto in Francia, a partire dal 1815, con i beni degli aristocratici emigrati all’estero che durante la Rivoluzione erano stati sequestrati dal governo). Senza entrare nei dettagli della questione, la minuta di provvisione scritta da Machiavelli intende essere un tentativo di mediazione da sottoporre tempestivamente al cardinale Giovanni, capo della famiglia e futuro pontefice con il nome di Leone X con l’obiettivo di porre un limite alle pretese del clan mediceo, secondo quella che – anche negli anni successivi – sarebbe stata la linea dell’autore del Principe: cercare un inevitabile compromesso con i nuovi arbitri della politica fiorentina salvando però il più possibile della amplissima partecipazione popolare che aveva contraddistinto la repubblica del 1494 e della riforma militare attraverso cui Machiavelli aveva sognato di sostituire a un esercito di mercenari una milizia di cittadini.
Il Sole Domenica 22.3.15
Alla Loyola University
«Gentlemen» gesuiti»
Educare per la vita: così i valori americani si coniugano con quelli classici e cattolici. Lectio della laurea HC di Gianfranco Ravasi
Uno scrittore della mia patria, l’italiano Mario Soldati, nella sua opera America primo amore, affermava che «l’America non è soltanto una parte del mondo. L’America è uno stato d’animo, una passione. E qualunque europeo può, da un momento all’altro, ammalarsi d’America».
La ragione di questa attrazione è molteplice e nasce dall’identità originale della civiltà americana. Si tratta di un interrogativo che già nel 1782 formulava in modo lapidario John Hector St. John de Crevecoeur nelle sue Letters from an American Farmer: «What, then, is the American, this new man?». Le risposte sono state molteplici, per altro già anticipate nella stessa Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776): i valori dell’uguaglianza, dei diritti inalienabili della vita e della libertà, del bene comune, dell’accoglienza attraverso l’inclusione sociale degli stranieri costituiscono la fisionomia più genuina del cittadino statunitense.
L’europeo in questo ritratto dell’homo americanus scopriva qualità che erano state celebrate anche nel Vecchio Continente ma che là si erano impallidite e talora persino estinte. Emblematica è nell’Ottocento la figura dello statista francese Alexis de Tocqueville che nel suo saggio De la démocratie en Amérique stabilisce un parallelo dialettico antitetico tra gli esiti della Rivoluzione francese e di quella americana: «La rivoluzione negli Stati Uniti è stata frutto di un gusto maturo e pensato per la libertà, e non di un vago e indefinito istinto per l’indipendenza. Essa non si basava sulla passione per il disordine; al contrario, fu generata dall’amore per l’ordine e la legalità».
Questo non significa che la stessa cultura americana non abbia percepito anche i propri limiti, a partire dai suoi stessi presidenti come Thomas Jefferson che nelle sue Note sulla Virginia non esitava a scrivere: «Temo per il mio paese quando rifletto che Dio è giusto». Intellettuali famosi come Truman Capote o Norman Mailer o Noam Chomskij hanno duramente affondato la lama della critica nel tessuto sociale statunitense. Altri come David Riesman e soprattutto Christopher Lasch col suo noto saggio The Culture of Narcissism hanno identificato i nodi aggrovigliati, i punti deboli, le crisi che scuotevano quei valori considerati come patrimonio della società americana.
In questo contesto sempre più complesso, segnato ora da una nuova rivoluzione com’è quella informatica e digitale, che sta generando un fenotipo inedito antropologico e sociologico, come si può collocare la presenza culturale cattolica? È noto che il concetto di “cultura” non è più soltanto quello aristocratico illuministico che si riferiva alle arti, alle scienze e alla filosofia. Ora, invece, la cultura designa il complesso di valori e simboli oggettivo, collettivo, trasversale a tutte le persone e le classi sociali. In questa luce acquista un significato profondo il messaggio cristiano che può fecondare e trasformare gli stessi valori tradizionali fondanti della cultura americana. Questi valori, infatti, per molti aspetti appartengono a una categoria antropologica di base, ora sottoposta a molte critiche e variazioni ma pur sempre significativa. Intendiamo riferirci al concetto di “natura umana”.
Essa si esprime nella società americana in alcune tipologie che permettono un dialogo fruttuoso con la concezione cristiana. Come premessa fondamentale potrebbe essere scelto uno straordinario lóghion o detto di Cristo, un vero e proprio tweet ante litteram, composto com’è nel greco dei Vangeli di soli 53 caratteri, spazi compresi: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo 22,21). Da sempre nella vita, nella cultura, nella storia e nella stessa Costituzione americana Stato e Chiesa sono rigorosamente distinti e separati. Società e religione, invece, non lo sono, anzi tra le due vi è sempre un’attrazione e una tensione, un incontro ma talora anche uno scontro, mai però separazione o indifferenza. Su questa dialettica si regge ormai la storia anche di molti altri paesi.
A questo confronto tra fede e società deve partecipare l’università cattolica proponendo una sua Weltanschauung rigorosamente definita e approfondita. Essa può sostenere e arricchire alcuni equilibri su cui si regge la civiltà contemporanea, in particolare americana. Possiamo esemplificare alcuni di questi equilibri o bilanciamenti senza volerli approfondire.
-Da un lato, si ha il rilievo della persona umana e quindi della sua identità individuale e della sua dignità. D’altro lato, deve attuarsi il bene comune e lo sviluppo della polis, cioè dell’intera comunità.
-Da un lato, si deve affermare la libertà con la sua creatività e i suoi diritti. D’altro lato, si devono altrettanto affermare i doveri della giustizia, della solidarietà, del rispetto, della convivenza.
-Da un lato, è necessario l’impegno economico per il benessere. D'altro lato, è indispensabile la custodia dei valori etici, spirituali e culturali perché «non di solo pane vive l'uomo».
-Da un lato, le diverse identità originarie etnico-culturali devono esprimersi nella loro varietà e ricchezza. D’altro lato, la democrazia costituisce un perimetro comune entro cui tutti devono saper coesistere, nella condivisione di alcuni valori e simboli unificanti fondamentali.
Potremmo continuare a lungo in questo elenco di poli di coesistenza e illustrarli alla luce del messaggio cristiano e della dottrina sociale della Chiesa, senza fondamentalismi prevaricatori ma anche senza assenze o silenzi che impoveriscono la comune esistenza. Ma per fare questo l’università cattolica deve dotarsi di una attrezzatura intellettuale ed educativa qualificata. Due sono, perciò, le componenti primarie da sviluppare: l’educazione e l’istruzione.
La prima riguarda la formazione della persona nella sua totalità. È ciò che affermava in modo incisivo il grande pensatore morale francese Michel de Montaigne quando suggeriva all’educatore di favorire «plutot la tête bien fait que bien pleine», cioè modellare il pensare e non solo colmare il cervello di dati, nozioni e informazioni. Ecco perché è rilevante non solo l’istruzione ma anche l’educazione integrale della persona nella sua molteplicità spirituale, morale, intellettuale, artistica, fisica, sportiva, sociale.
Un celebre pensatore dell’Ottocento inglese, filosofo, teologo e anche cardinale, John Henry Newman, non esitava a dichiarare nella sua opera The Idea of a University che l’educazione universitaria cattolica prima ancora che formare cristiani o cattolici deve creare dei “gentlemen”. L’idea che l’università debba formare per la vita e non per la scuola non è solo una frase retorica – già formulata dal filosofo latino Seneca (Non vitae, sed scholae discimus) – ma è il programma che deve reggere un’istituzione cattolica educativa. È questo, come si diceva, il senso più completo della “cultura”.
C’è, però, una seconda componente intrinsecamente connessa alla prima ed è quella strettamente intellettuale, l’istruzione. Essa parte dallo straordinario patrimonio culturale che in tutte le discipline ha offerto il cristianesimo nei secoli. È un’eredità di arte, di scienza e di pensiero che si unisce intimamente alla visione cristiana spirituale e morale dell’uomo, della donna e della società. In questa linea l’università cattolica deve stabilire un confronto costante con l’orizzonte culturale globale ed è ciò che accade da quasi due secoli in modo esemplare nella Loyola University Chicago. Penso, ad esempio, al dialogo con la scienza attraverso le specifiche facoltà di scienze e ingegneria, raccogliendo anche le sfide che la tecnologia pone alla bioetica o che il postumanesimo lancia alla stessa antropologia cristiana. Penso anche al mondo delle discipline economico-finanziarie che esigono un’impostazione di stampo umanistico e non solo meramente tecnico.
Penso anche all’incontro col mondo dell’arte nelle sue nuove grammatiche espressive nell’architettura, nella pittura o scultura, nella musica, nel cinema e nella televisione. Penso all’attenzione che si deve riservare alla comunicazione che ha adottato non solo nuovi strumenti ma che ha creato un ambiente planetario che avvolge attraverso la rete informatica tutto il globo terrestre.
In questa opera intellettuale un significato particolare acquista la presenza dell’insegnamento della teologia cattolica. Il suo specifico statuto epistemologico può, infatti, confrontarsi con quello delle altre discipline culturali senza prevaricazioni ma anche senza timidezze. Il cristianesimo, poi, nei suoi principi ideali e morali fondativi è aperto al dialogo con le diverse espressioni spirituali e, quindi, l’università cattolica diventa anche la sede del dialogo ecumenico e interreligioso.
Queste e altre vostre esperienze costituiscono per la Chiesa universale un grande modello ispiratore, soprattutto per l’inculturazione della fede e quindi per «una Chiesa in uscita», come afferma papa Francesco nella Evangelii gaudium. Nell’attuale società secolarizzata e nelle grandi aggregazioni metropolitane anonime più che l’ateismo domina oggi l’apateismo, cioè l’apatia religiosa, l’indifferenza ai valori etici e spirituali. La presenza di una comunità universitaria come quella del Loyola può attuare il programma che Cristo aveva proposto ai suoi discepoli nel Discorso della Montagna attraverso una trilogia efficace di immagini: «Voi siete il sale della terra... Voi siete la luce del mondo. Non può restare nascosta una città che sta sopra un monte» (Matteo 5,13-14).