lunedì 16 marzo 2015

La Stampa 16.3.15
Landini avvisa: io e i lavoratori cambieremo l’Italia più di Renzi
“Non faccio un partito, ma il sindacato deve essere un soggetto politico” La Cgil lo gela: non eravamo informati dell’iniziativa, da noi nessun appoggio
di Roberto Giovannini


«Ancora non mi credono - dice - non voglio creare un partito e non esco dal sindacato. Ma il sindacato deve essere un soggetto politico, deve discutere alla pari». Maurizio Landini, intervistato da Lucia Annunziata a «In mezz’ora» ribadisce che non ha nessuna intenzione di far nascere «Podemos» in Italia attraverso la sua «coalizione sociale» anti-Renzi. E successivamente, sentito da «La Stampa», il leader della Fiom chiarisce che il suo orizzonte è più che mai sindacale. «Mi chiedete se voglio scalare la Cgil? Penso che sia in corso una discussione, penso anche che il sindacato debba cambiare profondamente. Ne parleremo alla Conferenza di organizzazione Cgil».
Certo che per osservatori, amici e avversari talvolta è difficile capire Landini. Normalmente o si fa sindacato o si fa politica; ma per il capo dei metalmeccanici per «discutere alla pari» il sindacato deve agire come un soggetto politico. A maggior ragione ora, con un governo nemico: «siamo in una situazione straordinaria - afferma - e dunque non ci si può limitare all’ordinaria amministrazione». Il risultato è che Landini, così, può usare due «cappelli» diversi: nei prossimi giorni la Fiom (e non la «coalizione», ancora mai formalmente fondata) incontrerà le delegazioni dei partiti per illustrare le ragioni della manifestazione Fiom del 28 marzo. La manifestazione però la Fiom l’ha «offerta alla coalizione sociale e a tutti quelli che condividono questo percorso». Il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, ma non solo lui, si dice convinto che «proprio dalla piazza di Roma possa decollare il percorso verso la nascita di un vero soggetto politico.» Ad aprile, spiega in ogni caso Landini, potrebbe esserci una giornata di «approfondimento e di studio».
In ogni caso per il leader Fiom solo «chi è in malafede tenta di descrivere questa iniziativa dentro la logica politica. Io non sto dentro il perimetro che vuole qualcun altro, perchè io e i lavoratori il Paese lo vogliamo cambiare più di Renzi». Nel mirino c’è proprio il premier, il cui governo «non è vero che ha il consenso, sono balle». Tanto è vero che «le decisioni che sta prendendo se le fa votare in Parlamento con la fiducia. Il governo non è andato dai giovani, dai precari e dai dipendenti per sapere se erano d’accordo sul togliere lo Statuto dei lavoratori».
Intanto però si pone un problema (grosso come una casa) di rapporti tra la Fiom e la Cgil. E ovviamente tra Maurizio Landini e Susanna Camusso. «Siamo d’accordo sulla “coalizione sociale”, ne parliamo da tre mesi», dice il primo; ma Camusso fa sapere di non essere stata informata dell’iniziativa. E quando Landini parla della «necessaria riforma, di un cambiamento radicale del sindacato» si capisce che ce l’ha con il segretario generale. Il leader Fiom ricorda che è stata proprio Camusso «ad aprire a una discussione sulle nuove regole per eleggere i segretari generali a tutti i livelli. Io penso - conclude il numero uno della Fiom - che per queste cariche bisognerebbe far votare almeno i delegati Cgil nei luoghi di lavoro, che sono l’anima del nostro sindacato». Potrebbe essere la via giusta per conquistare la poltrona più importante del sindacato di Corso d’Italia.

Corriere 16.3.15
«Con i lavoratori cambierò il Paese» Ma Camusso gela Landini: ero all’oscuro
La Cgil non sostiene il progetto del leader Fiom. Legge sulla rappresentanza, sigle divise
di Francesco Di Frischia


ROMA «Il sindacato non deve essere un partito. Io non voglio farne uno, né uscire dal sindacato», ma «riunificare il mondo del lavoro». Il leader della Fiom, Maurizio Landini, intervistato a In 1/2 ora su Rai3 torna a parlare della «coalizione sociale» e dei suoi obiettivi.
Si tratta di «una aggregazione sociale con una funzione politica» per battere le iniziative di governo e Confindustria «che hanno tolto diritti a tutti — sottolinea —. E la nostra iniziativa sta dentro la strategia della Cgil». Susanna Camusso, però, sabato non era presente al primo appuntamento della coalizione: «Con lei sono tre mesi che stiamo parlando alla luce del sole — replica Landini —. Siamo insieme nella battaglia contro il Jobs act e per un nuovo statuto di tutti i lavoratori». Ma il portavoce di Camusso precisa che il segretario della Cgil non era stato informato dell’iniziativa di Landini.
Il segretario della Fiom propone poi «una riforma del sindacato e anche della Cgil», e non lesina attacchi al governo: «Renzi se n’è “strasbattuto” degli scioperi e ha cancellato i diritti». E commentando il consenso dell’esecutivo nei sondaggi dice: «È una balla, tanto che si fa votare le cose mettendo la fiducia». Poi rilancia: «Io e i lavoratori cambieremo il Paese più di Renzi», ribadendo però che lui non ci pensa proprio a candidarsi. E le critiche da parte del mondo politico? «Queste reazioni mi fanno sorridere — replica —. Se uno deve stare in Parlamento solo per dire “sì”, io faccio altro».
Dalla parte di Landini si schiera il leader di Sel, Nichi Vendola: «Tutti hanno diritto a fare politica e Renzi si deve abituare anche all’idea che il dissenso e l’opposizione sociale cresceranno». Sul fronte opposto, invece, Federico Gelli (Pd): «Landini gioca con le parole: non fonda un partito, ma una coalizione. Non si candida (per ora), ma il sindacato deve fare politica. Roba da Prima Repubblica».
Ma i movimenti a sinistra non finiscono con le iniziative di Landini. Sabato le minoranze del Pd hanno organizzato un’assemblea («A sinistra nel Pd») alla quale parteciperanno, secondo Alfredo D’Attorre (pd), anche esponenti della Cgil e di Sel. Ma «non sarà un cartello anti Renzi», assicura.
Mentre il premier frena sull’ipotesi di una legge sulla rappresentanza sindacale, Cisl e Uil sono critiche. Possibilista la Cgil. Il portavoce di Camusso, spiega che la legge va bene «se garantisce effetti erga omnes ai contratti». Giovanna Ventura (Cisl), invece, si dice «perplessa» e chiede di «verificare prima se l’accordo già raggiunto funzioni». E Carmelo Barbagallo (Uil) sbotta: «Basta riforme annunciate sui giornali. Non c’è l’esigenza di una legge» .

La Stampa 16.3.15
Cacciari: è un simpatico tribuno ma non mette d’accordo la sinistra
“Cuperlo, Barca e Civati dovrebbero far fuori D’Alema e Bersani”
di Francesco Maesano


Massimo Cacciari sta andando a votare per le primarie veneziane. E, neanche a dirlo, non è entusiasta. «Potrebbero essere un grande strumento se ci fosse un albo degli elettori. Così invece ce le facciamo in casa. Campania, Liguria, ognuno con le proprie storture: è il bricolage più assurdo».

E l’iniziativa di Landini? L’ha entusiasmata?
«Dovrebbe?»
Lei ha rivolto un appello alla sinistra Pd perché si accordi con lui. Non sembra indifferente.
«Mica sono d’accordo con loro, che appello vuole che faccia? Dico solo che se non trovano l’accordo tra di loro che razza di opposizione fanno? Diventano patetici».
Con Landini per fare cosa?
«Innanzitutto cambiare il sindacato, garantire che al suo interno si svolga un’autentica vita democratica».
Magari proponendo una legge sulla rappresentanza sindacale?
«Forse. Purché però non la faccia Renzi sulla loro testa. Dovrebbe essere il sindacato a fare una proposta, non aspettare che dei partiti che si sono liquefatti gli dettino le regole».
Landini è la persona giusta?
«Landini mi è molto simpatico. E poi quando parla della classe operaia mi scatta una nostalgia irresistibile. Ma non ha capito che il mondo è cambiato».
In che modo?
«Il mondo prima era più semplice, ma non bisogna averne nostalgia. Fare le previsioni in questo mondo è diventato impossibile, troppe variabili, nessun valore conosciuto. ».
Non le chiediamo tanto. Pensa che finirà per candidarsi?
«Fintanto che non si mettono d’accordo tutti gli oppositori di Renzi, Landini non si muoverà».
Manca il collante?
«Ho consigliato ai miei amici Civati, Cuperlo e Barca di istituire un triumvirato per fare fuori i Bersani e i D’Alema».
Scusi, e Speranza?
«Ma dai, per carità».
Cosa gli manca?
«Ma cosa vuole? È il bersaniano che media con Renzi. Non c’è più possibilità di politiche di compromesso. La gente ha bisogno di posizioni chiare e leadership definite, i pontieri non servono più».
E cosa serve?
«L’opposizione non si fa con uno stillicidio di no a Renzi. Occorre organizzarsi in modo organico, non resistendo a chi comanda ma andando oltre chi comanda, mettendo in piedi una strategia che superi colui al quale ti opponi. Altrimenti diventa vana resistenza.
Landini ce l’ha?
«Per ora porta avanti una tipica attività tribunizia. È un tribuno della plebe, in senso romano, non dispregiativo. Poi però deve mettersi d’accordo col Senato. È depositario di un certo potere, ma da solo non basta».
Non crede che ci sia una componente di «tribunicia potestas» in tutti i nuovi leader?
«Certo! A partire da Salvini, passando per Tsipras e questi di Podemos»
Anche nel presidente del Consiglio?
«No, Renzi è un uomo di potere, un senatore fatto e finito».
Però si rivolge spesso al popolo senza intermediari.
«Vero, ma conosce tutti i giochi del Senato, li ha imparati in quattro e quattr’otto. È un animale senatorio, culturalmente diverso dal tribuno: è nato Cesare».
Tra i tribuni della plebe non ha nominato Grillo.
«Appartiene a una generazione ormai passata. Non esiste, cronologicamente parlando. I suoi in Parlamento sono destinati a sciogliersi o a rifluire su posizioni renziane».

La Stampa 16.3.15
Moderati, arrabbiati di lotta o di governo
La carica degli antirenziani
Il capo della Fiom l’ultimo di una vasta tribù
di Mattia Feltri


Maurizio Landini darà le «vere risposte»: fin qui erano tutte finte. Coalizione sociale nasce perché occorre «qualcosa capace di mettere in discussione le politiche del governo». Fa nulla se mezzo mondo è già persuaso di essere «qualcosa capace di mettere in discussione le politiche del governo». Per esempio il capogruppo pacatamente antirenziano del Pd, Roberto Speranza, ritiene che all’antirenzismo non serva «una sinistra antagonista che nasce dalle urla televisive». La dottrina è quella del leader di riferimento, Pierluigi Bersani: bisogna discutere perché «discutere è la possibilità di convincere». Quale sarà il vero antirenzismo? Quello bersanianamente pacato o quello landinianamente incazzato? Sarebbe niente se la questione finisse qui. Invece la categoria politica dell’antirenzismo è la più diffusa e articolata d’Europa. Per esempio la mattina in cui si è votata a Montecitorio la riforma costituzionale, i deputati forzisti tendenza Fitto si erano alzati in aula per spiegare che i deputati forzisti tendenza Berlusconi si erano appena convertiti all’antirenzismo, per cui erano antirenziani a metà, mentre gli antirenziani veri erano loro, antirenziani da sempre. Intanto qualche forzista tendenza Verdini osservava che non c’era niente di meno antirenziano dell’antirenzismo che lascia a Renzi il monopolio delle riforme. Ma come non farsi venire il dubbio al broncio dei grillini, usciti dall’aula e accampati sui divani? L’opposizione autentica al renzismo, spiegavano, è non dare alibi alle sconcezze di Renzi: sull’Aventino e che i posteri sappiano.

L’infittirsi del dibattito fra gli antirenziani insiste su una premessa: il mio antirenzismo è più antirenziano del tuo. Il vero antirenziano fra i renziani, Pippo Civati, quella stessa mattina ironizzava sui compagni antirenziani che avevano votato con Renzi per senso di responsabilità: «Dicono sempre che sarà per la prossima volta». Sono amarezze condivise nel centrodestra, dove i potenziali alleati di antirenzismo non sono mai abbastanza antirenziani. Matteo Salvini per esempio sostiene che quella di Forza Italia «non è opposizione». È un antirenzismo sempre un po’ troppo sospetto di renzismo, tanto che il capogruppo forzista al Senato, Paolo Romani, ha rassicurato il collega alla Camera, Renato Brunetta: «Noi siamo all’opposizione». Certo, è un’opposizione «intelligente», ma figuriamoci se Brunetta si è accontentato, Brunetta è uno che su twitter ha scritto: «D’Alema? Se l’opposizione è questa, viva Matteo Renzi». A questo punto niente vieta a Giorgia Meloni di autonominarsi «la vera alternativa», notata qualche «infatuazione» fra Sel e Renzi e fra Renzi e cinque stelle. Ora al gruppo si è aggiunto Flavio Tosi perplesso dall’antirenzismo chimerico di Salvini, visto che un antirenzismo serio - dice - non promette stupidaggini tipo l’uscita dall’euro. E dunque ogni giorno si aggiungono ricercatori dell’antirenzismo in purezza. Si è visto rispuntare il leggendario capo dei Cobas, Piero Bernocchi («la vera opposizione sociale siamo noi»), ma se ancora non avete trovato l’antirenziano adeguato al vostro antirenzismo, provate a giocarvi quest’ultima carta: «Siamo noi la vera opposizione», ha detto Corrado Passera.

il Fatto 16.3.15
Landini, Camusso dice “no”


Maurizio Landini morde ma non strappa: “La Cgil deve cambiare o è fuori. Con Susanna Camusso sono tre mesi che parliamo di ‘coalizione sociale’, e abbiamo intenzione di continuare assieme”. Camusso morde e basta, tramite portavoce: “Nè il segretario nè la segreteria della Cgil erano stati informati dell’iniziativa organizzata venerdì dalla Fiom, nè tantomeno hanno espresso appoggio a quel progetto”. Non marciano uniti da tempo, il segretario della Fiom e quello della Cgil. E a ribadirlo sono contenuti e conseguenze dell’intervento di ieri di Landini a In mezz’ora, su Rai Tre. Che innanzitutto ripete: l’iniziativa di venerdì scorso a Roma con Fiom e associazioni per una coalizione sociale non ha battezzato un nuovo partito: “Il sindacato non deve essere un partito e io non voglio farlo nè uscire dal sindacato. Deve essere un soggetto politico, e deve avere una rappresentanza, altrimenti diventa aziendale o corporativo”. D’altronde, sostiene pungendo il suo primo avversario, lui è partito da una frase rivolta da Renzi ai sindacati: “Finora dove siete stati?”.
E ALLORA ecco il progetto di Landini, severo anche con il suo mondo: “C’è un problema di riforma anche della Cgil, il sindacato deve cambiare o è fuori”. Nell’attesa il segretario Fiom pensa già a includere nuove forze: “Nella mia testa una coalizione sociale non è fatta solo con quelli che c’erano ieri, si deve allargare. Va costruito un progetto di mobilitazione e di azioni dove il lavoro sia centrale, e su questa base dialogare con tutti”. Con un primo obiettivo, fermare Renzi “perché sta cancellando i diritti per legge”. E la Camusso? Sa tutto, assicura Landini. Eppure il portavoce del segretario Cgil, Massimo Gibelli, diffuse un gelido tweet quando a fine febbraio il numero uno della Fiom annunciò sul Fatto i suoi progetti politici. “Se Maurizio vuole scendere in politica tutti i nostri auguri, ma il sindacato è un’altra cosa”. “Mi hanno detto che era una posizione personale” argomenta Landini in tv. In serata però il portavoce sostiene che la Camus-so del varo della coalizione sociale non sapeva nulla, nè l’ha mai appoggiata. Apertura invece dal bersaniano Alfredo D’Attorre: “Non ho condiviso tutto quello che ha detto, ma Landini è un interlocutore”. Proprio D’Attorre annuncia per sabato prossimo a Roma “A sinistra nel Pd”, assemblea delle minoranze dem con rappresentanti della Cgil e di Sel. Landini invece sarà a Bologna, per un’iniziativa di Libera.

Repubblica 16.3.15
 “Cambiamo o siamo finiti” Landini sferza il sindacato Gelo Cgil: si muove da solo
Il capo Fiom sfida Renzi: falso il suo consenso, cambieremo più noi il Paese Apertura sulla legge della rappresentanza. “Ma vediamo cosa vogliono fare”
di Paolo Griseri


ROMA Il dado è tratto: «La Fiom e i lavoratori cambieranno il paese più di Renzi». Maurizio Landini lancia il guanto di sfida al governo di centrosinistra «che ha scelto di cancellare lo Statuto dei lavoratori e di schierarsi dalla parte delle imprese». Per questo la coalizione sociale lanciata dal segretario della Fiom «non è un’operazione partitica » ma «una proposta di riforma radicale del sindacato che rischia di scomparire sotto i colpi delle leggi del governo Renzi». Landini nega di voler fare un partito: «Chi lo dice lo fa per denigrarci». Non sarebbe la prima volta: l’accusa alla Fiom di voler fare politica è stata un refrain della Fiat negli ultimi anni.
Ma anche se la “coalizione sociale” non è l’embrione di un partito, il nuovo modello sindacale proposto da Landini crea sussulti e irritazione. La più clamorosa è quella dei vertici della Cgil che, con una nota hanno smentito le affermazioni del leader della Fiom a «In mezz’ora »: «Né il segretario Susanna Camusso, nè la segreteria della Cgil erano stati informati dell’iniziativa organizzata dalla Fiom per l’avvio di una ‘coalizione sociale’, né tantomeno hanno espresso appoggio». La Camusso non interviene direttamente. Dopo i mesi del dialogo diretto tra Landini e Renzi, rapporto che tendeva a saltare i vertici di Corso d’Italia, il silenzio del segretario generale della confederazione è un messaggio indiretto a entrambi. Che l’operazione lanciata da Landini possa cambiare la natura del sindacato è dimostrato dalla curiosità con cui dai partiti si guardava ieri all’iniziativa della Fiom di chiedere incontri a tutti i gruppi parlamentari in vista della manifestazione del 28 marzo per i diritti del lavoro. Landini fa le consultazioni? «Ma quali consultazioni? La Fiom ha incontrato tutti prima delle manifestazioni importanti ».
Eppure, il governo lascia filtrare una mossa che finirebbe per andare incontro alle proposte della Fiom, quella di regolamentare per legge la rappresentanza sindacale. Cavallo di battaglia di Landini perché certificare quanti iscritti ha davvero un sindacato significa dare il diritto di trattare con le controparti a chi è rappresentativo e non a chi firma accordi più o meno graditi alle aziende. «Ma bisogna vedere quale legge sulla rappresentanza vuole varare il governo», risponde guardingo il leader della Fiom. Un accordo tra Cgil, Cisl e Uil con Confindustria era stato firmato a gennaio 2014. E ieri la Cgil ha ripetuto che quell’intesa «potrebbe essere la base per la nuova legge». A suo tempo la Fiom aveva criticato quell’accordo. Contraria a regolamentare la rappresentanza per legge è la Uil, come ripete il segretario Barbagallo.
Al di là degli aspetti tecnici, una legge sulla rappresentanza finirebbe per favorire quel sindacato di movimento, basato sulla democrazia diretta, che la Fiom propone da tempo. E che avrebbe conseguenze anche nella maggiore delle tre organizzazioni sindacali: «Immagino una Cgil in cui il segretario generale sia eletto direttamente dai delegati degli uffici e delle fabbriche — dice Landini — penso a un sindacato che confronti le sue piattaforme con la coalizione sociale che proponiamo di formare. Perché la piattaforma degli edili non deve essere discussa insieme alle organizzazioni ambientaliste o a chi vigila sulla legalità negli appalti? ». Perché il sindacato deve modificare a tal punto la sua natura? «Perché quella natura è già cambiata. Abolire il ruolo dei contratti nazionali, come si sta facendo consentendo alle aziende ogni sorta di deroga, significa far prevalere il modello di un sindacato d’azienda, frantumato in tante realtà diverse. La coalizione sociale dovrebbe sopperire a quella frammentazione, rimettere insieme associazioni, lavoratori e disoccupati », risponde Landini. Che annuncia per aprile «due giorni di discussione con le associazioni della coalizione». Una Leopolda della Fiom? «Non diciamo stupidaggini ». Per ora l’unico appuntamento è quello del 21 marzo con le minoranze del Pd, a cui andranno anche esponenti di Sel. Ma in quell’occasione per il sindacato ci sarà la Cgil, non la Fiom.

Repubblica 16.3.15
Una nuova sinistra extra parlamentare
di Ilvo Diamanti


MAURIZIO Landini ha annunciato la sua prossima “discesa in piazza”. A capo di un movimento di opposizione, che ha già previsto una prima occasione per mobilitarsi. La manifestazione del 28 marzo contro le politiche economiche e sul lavoro del governo Renzi. Per primo: il Jobs Act. Non un partito, dunque.
NON una lista in prospettiva elettorale. Perché Maurizio Landini non è uno sprovveduto. E sa che, a sinistra, in Italia non c’è spazio. Oggi. Anche perché, fino a ieri, gran parte di questo spazio è stato occupato dal Partito Comunista e dai suoi eredi. Il Partito Comunista, prima e dopo Berlinguer, ha presidiato il campo dell’opposizione. In modo permanente e senza possibilità di alternativa. Fino alla caduta del Muro. Berlinguer lo teorizzò apertamente. Unica soluzione possibile: l’intesa con la Dc, pre-destinata a governare. Tradotta nel “compromesso storico”, promosso negli anni Settanta da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro. Sancito — e concluso — dal tragico (e non casuale) rapimento di Moro. A sinistra del Pci, allora, non c’era spazio. Se non per soggetti — temporanei — destinati a svolgere un ruolo di denuncia e testimonianza. La sinistra, cosiddetta, extra-parlamentare. Perché, per quanto la legge elettorale (ultra-proporzionale) permettesse loro una presenza (molto limitata) in Parlamento, la loro azione si svolgeva all’esterno. Nelle piazze, nelle fabbriche e nelle scuole. Fra gli operai e gli studenti. Proprio ciò che si propone di fare oggi — meglio, domani — Maurizio Landini. Intercettando — e alimentando — il clima di insoddisfazione sociale che pervade il Paese. E coinvolge il governo. Che attualmente dispone, secondo diversi sondaggi (oltre a Demos, anche Ipsos), di un consenso ancora elevato, ma non più maggioritario. Intorno al 40%. Ciò significa che il clima di insoddisfazione verso il governo è divenuto molto ampio. Tuttavia, Renzi resta ancora il leader, di gran lunga, più “stimato” nel Paese. Apprezzato da oltre 4 italiani su 10. Mentre il grado di fiducia nei confronti di Maurizio Landini è intorno al 25%. Superato, largamente, da Matteo Salvini, sopra il 30%. Ma anche da Giorgia Meloni (vicina al 30%).
Per imporsi come riferimento dell’opposizione, la soluzione obbligata, per Landini, è, dunque, restare fuori dalla competizione partitica. Fuori dal Parlamento. Dove, peraltro, anche volendo, non potrebbe essere presente, per un periodo non breve, visto che il ritorno alle urne non sembra vicino.
Fuori dal Parlamento e dai partiti, però, ci sono due spazi, due luoghi, dove Landini può agire, per mobilitare l’opposizione e l’opinione pubblica. Il primo è, appunto, la società. In particolar modo, l’area dei lavoratori. Dove, però, il suo consenso appare ampio non tanto fra gli operai, quanto, secondo i sondaggi, fra gli impiegati e i tecnici privati. Ma ancor più, tra gli “intellettuali”, che operano nel mondo della scuola. Oltre ai pensionati. Perché Landini non attrae tanto i giovani, ma le persone di età centrale e medio-alta (fra 45 e 65 anni) e gli anziani. Insomma, raccoglie la base tradizionale della Sinistra. Sfidata e indebolita, fra i giovani e gli studenti, dal M5s. E, fra i lavoratori dipendenti, dalla Lega Il secondo terreno di azione, per Landini, è la “comunic-azione”. In particolare, la televisione. Dove il segretario generale della Fiom-Cgil è una presenza fissa. Invitato dovunque. Nei principali talk politici di tutte le reti nazionali. Come Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Perché garantiscono ascolti. La loro apparizione alza lo share di 1 punto percentuale e anche di più. Un contributo importante, anzi, irrinunciabile per i programmi di dibattito e approfondimento politico, in tempi di declino degli ascolti.
Così Landini — come, soprattutto, Salvini — alterna la piazza e la televisione. Ma ciò ne limita le possibilità di affermazione. Anzitutto, come leader dell’opposizione. Perché la “questione sociale”, per ora, è riassunta da altre rivendicazioni, “rappresentate” da altri soggetti politici di successo. L’antieuropeismo e, in particolare, l’opposizione all’euro. Che la Lega di Salvini agita, insieme alla paura degli immigrati. E il M5s associa al sentimento anti-politico. Alimentato contro i privilegi dei “politici” e dei partiti. Mentre, sulla questione della rappresentanza del lavoro, Landini e la Fiom incrociano, inevitabilmente, il loro percorso con l’azione del sindacato. In particolare, della Cgil. Non a caso, intervistato da Lucia Annunziata, proprio ieri, Landini ha sostenuto che «il sindacato deve essere un soggetto politico». Perché «se non fa politica è aziendale». Mentre la segreteria della Cgil ha preso, apertamente, le distanze dall’iniziativa del segretario Fiom. Per questo, nel discorso politico di Landini, echeggia, di continuo, il richiamo a Renzi e al PdR. Il Pd di Renzi. Il Partito di Renzi. Alleato di Confindustria nel progetto di cancellare i diritti dei lavoratori. E, quindi, un nemico, anzi, “il” nemico da contrastare.
Così, la sfida di Maurizio Landini evoca una “coalizione sociale” e del lavoro. Per ora. Ma è inevitabile, in prospettiva, leggerla sul piano politico. Ed elettorale. Perché è chiaro il riferimento a Syriza, in Grecia, e Podemos, in Spagna. Se valutiamo la fiducia nei confronti di Landini, sul piano politico, è, d’altronde, evidente la sua caratterizzazione a Sinistra. Ma anche una certa trasversalità. È, infatti, elevata non solo fra gli elettori di Sel (intorno al 50%), ma anche del Pd (35% circa) e del M5s (32%).
La “coalizione sociale” evocata da Landini, dunque, mira a divenire coalizione “politica”, che attrae le liste a Sinistra del Pd e l’area del disagio interna al Pd. Magari non un partito — almeno per ora: domani si vedrà. Anche se c’è da sospettare che il più interessato alla costruzione del nuovo soggetto partitico di Landini sia proprio Renzi. Che “neutralizzerebbe” l’opposizione di sinistra in uno spazio, presumibilmente, circoscritto. Intorno al 5% (o qualcosa di più). E allargherebbe ulteriormente lo spazio di influenza del suo PdR verso il centro. Assorbendo quel che resta dell’elettorato berlusconiano. Così resterebbero fuori solo Salvini (e Meloni), il M5s. Insieme a Landini. L’opposizione che piace al premier.

Repubblica 16.3.15
Alfredo D’Attorre
“Su Europa e lavoro può aiutarci a correggere la linea del Pd”
intervista di Giovanna Casadio


Parla D’Attorre, bersaniano della corrente Area riformista “Renzi sbaglia a delegittimare”
ROMA «Facciamo con Landini battaglie comuni su singoli punti: su lavoro, democrazia, Europa». , dem della corrente “Area riformista”, bersaniano, lancia un ponte verso il segretario della Fiom e il suo progetto di “Coalizione sociale”.
D’Attorre, nell’assemblea nazionale della vostra corrente sabato a Bologna, Roberto Speranza ha definito quelle di Landini “urla in tv”. Condivide?
«È stata estrapolata una singola frase del discorso di Roberto. Non ho condiviso quando Landini ha commentato in modo sprezzante il voto del Parlamento sul Jobs Act. Io non ho votato la riforma del lavoro ma ritengo si debba avere rispetto per chi ha lavorato a una strategia di “riduzione del danno” e, alla fine, ha espresso un “sì” sofferto».
Landini è un interlocutore, quindi?
«Penso che Landini vada preso sul serio quando dice di non volere fare un partito. Penso che Renzi sbagli a utilizzare questo argomento per delegittimare le ragioni di merito che Landini solleva. E penso anche che su diversi temi in una limpida distinzione di ruoli tra forze sociali e forze politiche, Landini sia un interlocutore importante. Con lui non credo vada fatto un nuovo partito ma ci possono essere su singoli punti — lavoro, democrazia, rapporto con l’Europa — battaglie comuni che saranno anche utili per correggere l’attuale linea politica del Pd».
Chi ha organizzato la convention dem a Roma di sabato prossimo?
«È un’assemblea delle diverse minoranze del Pd. Sarà un confronto».
Nascerà il “correntone” anti Renzi?
«No, non è che lì nascerà il “correntone” anti renziano; nessuno di noi pensa a un fronte delle opposizioni a Matteo. Vogliamo piuttosto cominciare a individuare i punti condivisi di una nuova proposta per il Pd e l’Italia, a partire dal tema della democrazia ».
Avete invitato Sel e la Cgil?
«Sì e interverranno come ospiti, non so se Scotto o Fratoianni per Sel e esponenti della Cgil. I leader dem presenti saranno Pierluigi Bersani, Speranza, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi, Pippo Civati, Francesco Boccia e molti altri. Rafforziamo la voce della sinistra nel Pd».
Ma da che parte state lei e la corrente bersaniana?
«A sinistra nel Pd. La nostra è l’idea di rafforzare l’autorevolezza e la credibilità della sinistra dentro il Pd, anche per evitare il definitivo snaturamento in senso moderato del partito e il suo distacco dal mondo del lavoro. Da questo punto di vista con le differenze che pure ci sono all’interno delle stesse minoranze dem, ci deve essere tra di noi un obiettivo comune e questo è nell’interesse dello stesso progetto di Pd».
Rischiate di essere né carne né pesce?
«La strada di far vivere un punto di vista critico su alcuni temi nel Pd è oggi più difficile, però continuo a credere che sia anche la più necessaria. Non si difende il mondo del lavoro e non si rafforza la sinistra, mettendola nel cantuccio di un partito di testimonianza. Lo si fa correggendo la rotta del più grande partito italiano del centrosinistra ».
State tentando una scalata del partito o gettate le basi di una scissione?
«L’alternativa al Pd renziano abbiamo il dovere di costruirla nel Pd, ma non con scorciatoie organizzative bensì con una proposta più innovativa e riformatrice davvero rispetto a quella di Renzi».

il Fatto 16.3.15
Povero Renzi, troppo amato
di Ferruccio Sansa


Il sondaggio parlava chiaro: il 99% degli italiani erano renziani. Matteo Renzi si aggirava per i corridoi di palazzo Chigi con le mani screpolate, quasi sanguinanti, tanto se le era sfregate. Qualche dubbio poteva sussistere, pure i sondaggisti erano renziani. Un tarlo comunque lo rodeva: chi era quell’uno per cento che si ostinava a resistere?
Ma qui il principe si fermava, cominciava a intravvedere all’orizzonte il vero ostacolo: se tutti gli italiani erano diventati renziani, come fare per sceglierne uno piuttosto che un altro? Sulla scrivania ecco il foglio per la nomina del nuovo amministratore Rai. Era tutto pronto, mancava solo il nome. Ma chi premiare, se tutti stavano dalla sua parte? Il più ossequioso , il più obbediente, il sostenitore di più lungo corso? Scartò il più capace, gli pareva che la scelta potesse nascondere delle insidie. No, non riusciva a decidere, prese il telefono per chiedere consiglio agli uomini di cui si fidava di più. Ma di nuovo si arrestò. Gli avrebbero dato ragione, tutti, comunque, perché erano senza eccezione renziani. Erano d’accordo con il capo, più d’accordo di quando non fosse lui stesso. Non andò meglio quando pensò di scegliere i responsabili dei tg: Rai1, vabbé, era il canale filo-governativo. Ma Rai2, l’emittente dell’opposizione? Stava per chiedere a Verdini, ma si fermò. Renziano pure lui. E Rai3? Gli veniva quasi da rimpiangere i vecchi tempi del pentapartito, le trattative, il tentativo di ogni partito di mettere il proprio uomo. Ma adesso? Di sinistra, destra, centro, erano tutti renziani.
Lanciò via dalla scrivania i fascicoli con le altre pratiche: Ferrovie, Poste, Finmeccanica. Niente da fare. Era sempre lì. E i grandi quotidiani? D’accordo, non era compito suo, in teoria. Ma cambiava poco: tutti renziani. Quello che aveva scritto libri con lui, l’altro che gli aveva dedicato un’agiografia (troppo, perfino per lui?) o magari il cantore del neo-ottimismo (renziano). Scese in cucina, aprì il frigo: che cosa di meglio di un po' di squacquerone di Eataly, renziano doc. Accese la televisione, una piccola distrazione - anche il premier ne ha bisogno ora che non ci sono più i bunga bunga - ecco il solito talk show: due signori che litigano a chi è più renziano. L’argomento? Che importa.
Ah, c’è la gara della Ferrari. Ecco Marchionne ed Elkann. Renziani pure loro, renziana anche la Ferrari. Era quasi tentato di rimpiangere quelle serate passate da ragazzo a chiacchierare “a cinci sciolto”, nei bar di Firenze. Qualcuno allora c’era che lo contraddiceva. A volte si ritrovava solo. Contro tutti. Già con quel suo carattere un filino arrogante. Bastiancontrario, proprio come adesso. Fu allora che capì: c’era davvero quell’uno su cento che non li sopportava più tutti quei renziani leccaculo. Era proprio lui.

il Fatto 16.3.15
Ricordare Danilo Dolci: la nonviolenza italiana
di Furio Colombo


Se potete, prendetevi una vacanza dallo squallore degli eventi politici quotidiani, e prendete in mano il volumetto, Processo all’articolo 4 di Danilo Dolci, editore Sellerio (che si conclude con un saggio di Pasquale Beneduce, indicato come “postfazione”). Leggendo non potrete evitare due domande disturbanti. La prima è: perchè la cultura italiana sanno così poco e parlano così di rado di Danilo Dolci? La seconda: perchè l’Italia dei contemporanei di Dolci, intellettuali inclusi (anni Cinquanta) si è così poco e malvolentieri occupata di lui? Nella speranza che vi siano giovani fra i lettori, ricorderò che stiamo parlando dell’unico italiano che  – oltre alla mafia – ha attratto l’attenzione internazionale sulla Sicilia, la sua povertà, il suo isolamento, la sua lotta per il lavoro. Non era un sindacalista, Danilo Dolci, ma è stato arrestato mentre conduceva una colonna di contadini senza terra e senza lavoro a coltivare terre abbandonate, in una specie di sciopero alla rovescia. La domanda: Perchè è stato arrestato (e processato)? Resta senza risposta. E il lettore del volumetto dovrà fare riferimento alla ‘postfazione’ di Beneduce per ritrovare il mondo in cui l’evento narrato in questo libro (una delle molte testimonianze di Dolci) ha potuto compiersi nell’Italia democratica, dopo la Resistenza. Una delle ragioni, a cui adesso è difficile credere, dopo il lungo lavoro politico e pedagogico dei pochi ma ostinati Radicali italiani, guidati da Pannella e Bonino, è la nonviolenza. Senza di loro il concetto stesso sarebbe rimasto per sempre estraneo alla vita e alla cultura italiana, anche perchè a quel tempo Gandhi era un mito di storia indiana (e forse proprio per questo Vittorini, testimone al processo contro Dolci, parla a lungo della vita contadina indiana, per persuadere i giudici della affinità naturale di Dolci con le pratiche del digiuno e della nonviolenza) e Martin Luther King non era ancora sulla scena internazionale. Danilo Dolci è diventato importante da solo e prestissimo e contro usi costumi e potere di questo Paese. Posso testimoniarlo a causa di due esperienze che lo riguardano e mi riguardano. La prima è il primo settimanale televisivo della neonata TV della Rai, 1954. Si chiamava Orizzonte, era presentato in studio dal giovanissimo Gianni Vattimo, il sottotitolo era “per i giovani”. A me era stato dato, incautamente, l’incarico di dirigerlo. E poichè si andava in onda dal vivo non poteva esserci censura. Ma quando abbiamo invitato Danilo Dolci (mai visto prima in televisione o ascoltato alla radio) a parlarci dello sciopero alla rovescia per creare lavoro, della nonviolenza per impedire lo scontro, la nuova trasmissione è stata rapidamente cancellata. Diverso l’esito quando Danilo Dolci è venuto a New York (primi anni ‘60) e mi ha chiesto di invitare “qualche americano” ad ascoltarlo. In casa mia e – nelle sere successive – in altre case di New York, si è radunata una folla di sostenitori e ammiratori di questo leader senza potere della nonviolenza italiana, che ne ha subito fatto un esempio e un mito.

Repubblica 16.3.15
Chi può ancora salvare il paesaggio toscano
di Tomaso Montanari


ORA il Piano del Paesaggio della Regione Toscana è, anche formalmente, una questione nazionale. Nella sostanza lo era fin dall’inizio: perché esso decide il futuro di un pezzo importantissimo di quello che la Costituzione chiama il «paesaggio della Nazione». Ma anche perché aveva l’ambizione di indicare a tutto il Paese un futuro sostenibile, capace di tenere insieme sviluppo, ambiente e salute. Una via in cui la tutela dell’ambiente non fosse affidata ai vincoli delle soprintendenze (indispensabili, in mancanza di meglio), ma ad un progetto politico responsabile.
A tutto questo serviva il testo voluto dal presidente Enrico Rossi, scaturito dal lavoro di Anna Marson (assessore alla Pianificazione della Regione Toscana) e adottato dal Consiglio regionale nello scorso luglio. Ma dopo l’estate qualcosa è cambiato: il vento dello Sblocca Italia (la legge a favore del cemento scritta dal ministro Lupi, e approvata a novembre) ha cominciato a soffiare anche sulla Toscana, ridando forza e voce ai centri di interesse che Rossi era riuscito a contenere. Così, nelle ultime settimane, il Piano è stato smontato pezzo a pezzo in Commissione, grazie al sistematico voto congiunto di un Pd che ormai non risponde più a Rossi e di una Forza Italia scatenata: una specie di Patto del Nazareno contro il futuro del Paesaggio toscano. Se passasse così com’è stato ridotto, il Piano sarebbe un atroce boomerang. Facciamo solo qualche esempio: nuovi fronti di cava potrebbero essere aperti sulle Alpi Apuane anche sopra i 1200 metri (cambiando per sempre lo skyline della regione); le strutture su tutta la linea di costa potrebbero ampliarsi a piacimento, e si potrebbe costruire perfino nel Parco di San Rossore; case potrebbero sorgere anche negli alvei dei fiumi soggetti ad alluvioni, e lo sprawl urbano potrebbe mangiarsi quel che rimane dei meravigliosi spazi rurali della piana di Lucca.
Di fronte a questo concretissimo rischio (si vota domani), Rossi ha chiesto aiuto al governo: una scelta paradossale, che segnala il coma irreversibile del regionalismo. Ma è il ministero per i Beni culturali l’unico freno di emergenza che può evitare che il paesaggio toscano cappotti in parcheggio.
Il Piano dev’essere, infatti, approvato e condiviso dal ministero: che solo in presenza di forti garanzie può contenere i suoi vincoli. Per questo Rossi incontrerà Dario Franceschini, sperando paradossalmente in un “no”: quel “no” che può permettergli di tornare a Firenze ricacciando nell’angolo gli interessi delle lobby che parlano attraverso i ventriloqui dell’assemblea regionale.
Ma quel “no” arriverà? Come si è capito anche dalle forti dichiarazioni della sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni (che ha la delega al Paesaggio), la struttura tecnica del Mibact considera il Piano irricevibile. Ci auguriamo che i tecnici potranno fare il loro lavoro, e che non prevarrà invece la linea politica di un governo che sembra aver fatto del motto «padroni in casa propria» (parola d’ordine del ventennio berlusconiano) uno slogan positivo.
Dario Franceschini saprà dimostrare di essere diverso da Maurizio Lupi, santo patrono del consumo di suolo? E che ruolo giocherà il toscanissimo Matteo Renzi, che sembra fermo ad un’idea di sviluppo territoriale che era già vecchia negli anni Sessanta?
Da ciò che avverrà nelle prossime ore non capiremo solo se la Toscana dei nostri figli sarà resa simile alla Calabria di oggi: ma capiremo anche se “sviluppo” continuerà ad essere sinonimo di “cemento”. O se, finalmente, cambieremo verso.

La Stampa 16.3.15
Israele domani alle urne
Herzog verso la vittoria
In Israele è sfida all’ultimo voto
Netanyahu costretto a inseguire
Il premier superato dal centrosinistra va all’attacco: niente concessioni ai palestinesi
di Maurizio Molinari


I cittadini israeliani domani andranno alle urne: in palio ci sono i 120 seggi della Knesset. L’astro emergente del centrosinistra Herzog avanti nei sondaggi: il premier Netanyahu costretto a inseguire.
«Niente concessioni né ritiri»: Benjamin Netanyahu prova a scongiurare la sconfitta nelle elezioni di domani con un comizio a Tel Aviv che lo vede rivolgersi all’elettorato del Likud con accenti nazionalisti. L’opposizione a concessioni territoriali ai palestinesi diventa netta, gridata. Il motivo della scelta del premier è che l’indebolimento del Likud nei sondaggi si deve allo scontento dei suoi votanti tradizionali sui temi dell’economia. È il sotto-proletariato urbano che si allontana da lui, lamentando affitti troppo cari e stipendi troppo bassi. Sono elettori che tendono a disertare i seggi, consentendo al centrosinistra «Campo Sionista» di Isaac Herzog e Tzipi Livni di puntare al successo.
Voti da recuperare
Per recuperarli, davanti ad una folla di almeno 30 mila sostenitori, Netanyahu dice di essere l’«unica garanzia» per evitare l’atomica dell’Iran e promette «niente concessioni territoriali» ai palestinesi e «basta liberazioni di terroristi». Ma c’è dell’altro perché, per la prima volta, compie un passo anche sul fronte dell’economia: «Se sarò rieletto nel nuovo governo Moshe Kahlun sarà ministro delle Finanze». Si tratta del leader del nuovo partito «Kulanu», che viene dal Likud. Kahlun è noto per aver firmato la liberalizzazione dei cellulari e, nelle ultime settimane, si è dimostrato abile nel corteggiare i voti a destra. Ad esempio sul fronte dei tassisti - tradizionali elettori del Likud - che ha incontrato in una raffica di riunioni di città e quartiere, promettendo soluzioni al caro-benzina, trovando ascolto e riscuotendo i favori. Netanyahu è convinto che assicurando le Finanze a Kahlun molti voti del Likud torneranno a casa e la vittoria del centrosinistra diventerà più ardua.
Stessa platea
Sul fronte opposto, Herzog si rivolge anch’esso all’elettorato della destra, confermando che è questo il terreno su cui si gioca l’esito delle elezioni per assegnare i 120 seggi della Knesset. Per arginare il ritorno di Netanyahu, Herzog va all’attacco sulla sicurezza, giocando la carta di Gerusalemme: «Nessuno meglio di me riuscirà a garantire la sicurezza della nostra capitale» promette durante una visita al Muro del Pianto per attestare l’indivisibilità della città. La sfida fra «Bibi» e «Bougie» è oramai un duello. Colpisce il silenzio di Livni, n. 2 del centrosinistra. Se dalle urne non uscirà un chiaro vincitore, potrebbe essere lei a trattare.

La Stampa 16.3.15
Se le donne ortodosse sfidano i maschi


Ruth, Noa e Keren: la rivoluzione politica è donna nel mondo degli ultraortodossi. Gli «Haredim» compongono circa il 18% della popolazione israeliana e votano in gran parte per i partiti religiosi. Ma sono forze di matrice ashkenazita o sefardita - originarie dell’Europa dell’Est o del mondo arabo - composte solo da uomini. «Tutti uomini sono i leader e solo uomini sono gli eletti e i candidati» afferma Ruth Colian, 33 anni, che dopo essere stata respinta un’ultima volta nella richiesta di correre per il Parlamento ha scelto la sfida frontale fondando «B’Zhutan» (Per diritto delle donne) ovvero «le donne ultraortodosse vogliono il cambiamento». È un partito che chiede alle donne «haredi» di non votare più per i partiti religiosi «maschilisti» e si propone di avere un impatto che va ben oltre la Knesset, puntando a diventare un movimento per «rafforzare i diritti delle donne fra gli ortodossi» come dicono Noa e Keren portando sul terreno della politica l’emancipazione femminile nel mondo ebraico che Barba Streisand interpretò in «Yentl». [m.mo.]

La Stampa 16.3.15
Il sogno di Herzog è realizzare la “speranza” di Ben Gurion
Il laburista ora favorito per la vittoria: includerò gli arabi
di M. Mol.


Erede di una famiglia protagonista della formazione d’Israele, educato nella scuola ebraica più esigente di New York, ufficiale nell’unità più segreta di Tzhaal e leader politico quasi per caso, sottovalutato da avversari che riesce a sorprendere: Isaac Herzog può riportare i laburisti a guidare il governo dopo 15 anni perché incarna un’idea di sionismo basato sulla democrazia auspicata da David Ben Gurion, capace di includere tutti, arabi compresi.
Come i Kennedy
Se gli Herzog vengono considerati i «Kennedy d’Israele» è per un albero genealogico che assomiglia a quello dello Stato: il nonno Isaac Halevi fu rabbino capo ashkenazita nella Palestina mandataria e quindi d’Israele, il padre Chaim fu capo dello Stato per dieci anni, governatore di Gerusalemme dopo la riunificazione, ambasciatore all’Onu e capo dell’intelligence militare, per zio ha avuto il ministro degli Esteri Abba Eban, fra i fratelli ha l’ex generale Michael consigliere sul negoziato con i palestinesi di quattro premier e la madre Aura, francofona d’origine egiziana, ha fondato il Concorso biblico nazionale e il Consiglio di «Beautiful Israel» per promuovere il legame delle nuove generazioni tanto con il Vecchio Testamento che con la natura. Aggiungendo il lontano cugino Sidney Hillman, consigliere di Franklin D. Roosevelt, e la moglie Bessie, che affiancò Eleanore Roosevelt, si arriva a comprendere perché gli analisti adoperano l’espressione «sangue blu» per descrivere il mondo da cui proviene Isaac, nato nel 1960. Non a caso quando Shimon Peres ha chiesto agli elettori di votarlo, ha esordito così: «Conosco la sua famiglia da anni».
Alle radici laburiste, Herzog somma esperienze che ne descrivono il carattere. Quando il padre è ambasciatore all’Onu, a New York, studia nella scuola «Ramaz» dell’Upper East Side, una roccaforte «modern orthodox» fra le più esigenti e difficili di Manhattan.
Nei corpi di élite
Al momento di vestire la divisa enra nell’«Unità 8200» - l’intelligence elettronica - di cui allora nessuno conosceva l’esistenza e ne diventa ufficiale. Studia l’arabo e secondo alcuni «lo padroneggia». Avvocato nello studio di Tel Aviv che fu del padre, entra in politica con i laburisti nel 1999, quando il premier Ehud Barak, ultimo premier laburista, lo vuole come consigliere. Diventerà deputato e poi ministro ma sempre accompagnato da scarsa considerazione, degli alleati come degli avversari, per un’espressione mite ed una voce che lo fanno sembrare una «bambolina» ovvero proprio ciò che suggerisce il soprannome «Bougie», inventato dalla mamma quando era piccolo sommando il termine francese per bambola - «poupee» - con quello ebraico «buba». Ma lui è tutt’altro che docile. Nel 2013 sfida nella corsa alla leadership del partito Shelly Yachimovich, eroina delle proteste contro il carovita. Nessuno crede che possa farcela ma lui alle primarie prevale 58 a 41 per cento, diventa il volto del Labour e comincia a rigenerarlo. Dice di «voler andare al governo» ma nessuno gli crede. C’è chi chiede a Yachimovich di tornare ma «Bougie» tiene duro perché ha in mente un «sogno». «I miei modelli sono Obama e de Blasio - afferma - voglio realizzare i sogni di Israele» ovvero, «più solidarietà e speranza». La «solidarietà» è per chi soffre puntando a ridurre le differenze sociali ricchi-poveri ereditate da Netayahu. La «speranza» ha invece a che vedere con i palestinesi di Abu Mazen, a cui manda a dire «a Ramallah c’è un interlocutore nella pace», suggerendo «creatività per superare lo stallo». Ma ciò a cui più tiene è la «coesione interna» - da cui il termine «Campo sionista» per il patto elettorale con Tzipi Livni - per tornare alle origini di un sionismo inteso come «società democratica» ovvero «inclusiva di tutti». Anche degli arabi. Da qui l’ipotesi, ventilata da Herzog, di nominare un «ministro arabo nel mio governo». Per far capire che il progetto di Ben Gurion può riprendere la sua strada.

Corriere 16.3.15
«Il sionismo è solidarietà» Il gran ritorno dei laburisti
di Davide Frattini


TEL AVIV Stav la rossa ha imparato a volare. Da bambina sognava di diventare un’astronauta o una pilota di jet (ci ha provato, non ha superato il test dell’aviazione militare). Saltando dal tavolo della cucina si è rotta il braccio due volte. «Non capivo — dice alla rivista Forward — perché gli esseri umani non potessero volteggiare liberi come uccelli». Adesso sta ascendendo, almeno in quello che chiamano il firmamento della politica.
A 29 anni è la deputata più giovane nel parlamento uscente, è arrivata seconda alle primarie del partito laburista (prima di lei solo il capo Isaac Herzog), è una celebrità fuori dalla Knesset anche grazie a un video dei primi giorni di febbraio quando ha ribattuto alle accuse della destra: «Non venite a insegnarci che cosa significhi essere sionista, perché il vero sionismo vuol dire distribuire il denaro pubblico in modo equo tra i cittadini, il vero sionismo è prendersi cura dei più deboli, il vero sionismo è solidarietà, non solo in battaglia anche nella vita di tutti i giorni. E tutto questo il governo non lo fa». Alla seduta erano presenti pochi parlamentari, il filmato è stato diffuso su YouTube riportando la «gingit» (com’è soprannominata in ebraico per il colore fulvo dei capelli) alla popolarità di quattro anni fa. Allora girava da leader tra le tende dell’accampamento sotto le jacarande di viale Rothschild a Tel Aviv, spiegava perché quella protesta contro il costo della vita fosse importante, raccomandava di non mollare, di non tornare a chiudersi negli appartamenti troppo piccoli e troppo cari.
È stata lei — ancor più di Herzog — a garantire che la campagna elettorale dell’Unione Sionista (i vecchi laburisti alleati con Tzipi Livni) non dimenticasse quello che gli israeliani si ricordano ogni mattina: le difficoltà finanziarie, la disparità sociale che cresce (anche se l’economia del Paese corre). Il 56 per cento dichiara di andare a votare con le questioni economiche in testa (e in tasca). Non la sfida per impedire che l’Iran degli ayatollah abbia l’atomica (su cui ha puntato il premier Benjamin Netanyahu), non le possibilità di un accordo con i palestinesi (anche i laburisti hanno evitato di affrontare quello che è sempre stato il loro tema dominante).
«Gli israeliani vogliono la normalità — scrive Anshel Pfeffer sul quotidiano Haaretz — ed Herzog è riuscito in quella che sembrava una missione impossibile: trasformare HaAvoda in un partito normale, con l’aria da avvocato di buone maniere che è lì per risolvere i tuoi problemi». Suo padre è stato il sesto presidente di Israele, suo nonno il primo rabbino capo, suo zio un venerato ministro degli Esteri (Abba Eban, quello che sentenziò «i palestinesi non perdono mai un’opportunità di perdere un’opportunità»). È come se tutta questa gravitas familiare non avesse lasciato rughe solenni sulle fronte di Herzog: gli israeliani gli rinfacciano di avere — a 54 anni — un volto ancora infantile.
Prima della campagna elettorale ha preso lezioni per gonfiare di steroidi baritonali la voce chioccia. A differenza degli ultimi leader laburisti, non è un generale decorato come Ehud Barak o Amram Mitzna e neppure un boss carismatico come Amir Peretz o Shelly Yachimovich (al femminile). Con i consiglieri ha lavorato per indurire l’immagine arrendevole: gli analisti considerano un errore aver annunciato in anticipo la rotazione — in caso di vittoria — con Tzipi Livni, troppo generoso (o debole) per essere il primo ministro di una nazione che si considera in guerra permanente.
Modi Bar-On, intervistatore del Canale 2 , gli ha chiesto se gli israeliani non avrebbero bisogno di uomo con «modi più soldateschi e ricordi dalle trincee». Il capo della sinistra ha risposto: «Credo siano pronti per un premier responsabile e prudente, pronto a prendere decisioni al di là della retorica e delle mosse spettacolo». I sondaggi sembrano essere d’accordo con lui: è il primo leader laburista in quindici anni (da quando Barak sconfisse proprio Netanyahu) a rimanere sopra i 20 seggi (gli ultimi rilevamenti ne calcolano 24-25, quattro in più del premier in carica).
Ben Caspit sul quotidiano Maariv fa notare quanto l’atmosfera sia cambiata: «Herzog — ironizza l’editorialista — ha potuto presentarsi per una manifestazione ad Ashdod senza blindati e senza scorta». La città portuale è sempre stata la fortezza elettorale del Likud ma gli attivisti della destra sembrano già in ritirata, convinti che in parte i voti conservatori andranno a Moshe Kahlon, una transfuga dal partito, l’ex ministro delle Telecomunicazioni (con Netanyahu) che tutti gli israeliani ancora ringraziano per aver liberalizzato il mercato della telefonia mobile: prezzi più bassi e concorrenza a vantaggio dei consumatori.
Al comizio finale di Netanyahu, ieri sera in piazza Rabin, luogo simbolo della sinistra, la maggior parte dei quasi 15 mila partecipanti era rappresentata dai coloni nazionalisti. La destra moderata e quegli elettori di centro che ormai decidono le elezioni sono rimasti a casa. Il rischio per il premier è che lo facciano anche domani.

Repubblica 16.2.15
Il dilemma dei due Stati nelle urne di Israele
La terra contesa tra due popoli una sfida infinita all’ombra del voto
di Bernardo Valli


GERUSALEMME È COME la morte. Tutti ammettono che esiste e che è inevitabile. Ma si spera che arrivi il più tardi possibile. Non ci si pensa quindi troppo o la si ignora. È un modo un po’ brutale, me ne rendo conto, per affrontare il problema di cui, malgrado l’importanza, non si è parlato direttamente durante la campagna elettorale israeliana appena conclusa. Mi porta a questa azzardata immagine Amos Oz, uno dei maggiori scrittori viventi. Assente dal dibattito in vista del voto di domani, ma ben presente nelle menti e negli scritti, la questione è in realtà un dilemma: è meglio arrivare a uno Stato binazionale o a due Stati divisi, uno israeliano e l’altro palestinese? Oppure lasciare le cose così come sono, moltiplicando gli insediamenti israeliani nei territori occupati (o contesi)?
I partiti di estrema destra, quello di Nafali Bennet (Habayt Hayeudi) o di Avigdor Liberman (Yisrael Beiteinu), archiviano tutti gli interrogativi. Per loro la sovranità o il controllo di Israele sull’intera Palestina, con formule diverse, non sono in discussione. Sono un dogma. E nel corso della campagna elettorale gli altri partiti, in particolare quelli concorrenti di destra, per recuperare o non perdere voti si sono discostati con cautela da quelle posizioni estreme o addirittura le hanno appoggiate.
IL TEMA della sicurezza è uno dei più sentiti e attraversa in diagonale la società.
Dice Amos Oz che in generale ci si adagia da anni in una specie di violenta e incosciente routine, «una gestione del conflitto», pur di rinviare la grande decisione dei due Stati. L’appuntamento inevitabile in un futuro imprecisato, da rinviare il più possibile, sorge puntuale nella mente degli israeliani. Per gli uni è una rinuncia al Grande Israele. Per altri un incubo. Per altri ancora l’unica soluzione. Una soluzione obbligata; o razionale; o dovuta, trattandosi di un vitale adeguamento alla realtà, che certo travolge convinzioni, ma salva dal peggio.
La letteratura contemporanea israeliana ha l’affascinante peculiarità di esprimersi in un’antichissima lingua restaurata e ammodernata: l’ebraico. E gli scrittori che l’alimentano (come i registi e gli attori nel cinema, altrettanto vivo e critico della società) sono spesso le indispensabili coscienze di un paese in preda ad ansie e passioni. Nel pieno della campagna elettorale, quando nessuno affrontava il futuro assetto della terra contesa da due popoli, Amos Oz ha detto, in due conferenze, che quel trascurato problema è una questione di vita o di morte per Israele.
Se non si creano al più presto due Stati può nascere il timore di vedere deli- nearsi tra il mare e il fiume Giordano uno Stato arabo. L’autore di Giuda, l’ultimo suo romanzo, scarta l’idea di uno Stato binazionale, come quello spagnolo o belga. Per lui non è possibile in Medio Oriente. E pensa che la paura di uno Stato arabo possa portare a una temporanea dittatura di fanatici israeliani che opprimerebbe entrambi, gli arabi e gli stessi oppositori ebrei con una mano di ferro. La dittatura avrebbe una vita breve. È difficile infatti nella nostra epoca, secondo Amos Oz, che la dittatura di una minoranza, in tal caso israeliana, riesca a sopravvivere a lungo e non venga schiacciata dalla maggioranza. Da qui l’urgente necessità di creare due Stati ben divisi, perché una convivenza oggi è impossibile. Lo sanno bene entrambi i popoli. Ma adagiarsi in «una gestione del conflitto» come accade da anni, vale a dire continuando a usare il bastone in Cisgiordania, i missili a Gaza, affrontando puntuali intifade, scontrandosi con Hamas e con gli hezbollah, e aspettando o subendo altrettanto puntuali ventate di terrorismo, ritarda soltanto l’inevitabile appuntamento della divisione. Quella di Amos Oz può essere presa come una visione romanzesca, se non si tiene conto della situazione mediorientale, e delle giustificate apprensioni che essa suscita in chi vi è immerso. Ce l’ha sotto gli occhi.
Durante la campagna elettorale non si è parlato, è vero, di quel che Amos Oz chiama una questione di vita o di morte per Israele, e che la stragrande maggioranza dei paesi del pianeta, Stati Uniti in testa, chiede, cioè la nascita di uno Stato palestinese. Benyamin Netanyahu ha dimenticato da un pezzo il discorso pronunciato a Bar Ilan nel 2009 in cui accettò il concetto di due Stati e precisò di non avere l’intenzione «di costruire nuove colonie o di espropriare terre per quelle esistenti». I coloni nei territori occupati sono 350 mila, non sono mai stati tanti, e ce ne sono inoltre 300mila a Gerusalemme Est, che Israele ha conquistato nel 1967 e che ha annesso in seguito, con una decisione giudicata illegale da larga parte del mondo. Infatti quasi tutte le ambasciate, comprese l’americana e l’italiana, sono a Tel Aviv, nonostante la Knesset abbia dichiarato Gerusalemme capitale di Israele.
Penso che a Gerusalemme gli israeliani abbiano diritto alla precedenza, sul piano religioso. Per gli ebrei è il centro dell’universo, è la prefigurazione della Gerusalemme celeste. Mentre per i cristiani quel che conta non è tanto il luogo quanto la figura di Cristo. E per i musulmani prima di Gerusalemme vengono la Mecca e Medina. Sul piano politico capita tuttavia, come sabato sera, durante un breve dibattito televisivo con il laburista Isaac Herzog, che Benyamin Netanyahu si comporti con spavalderia. Ha detto spazientito: «Se gli ebrei non hanno il diritto di costruire a Gerusalemme, dove possono farlo? ». In realtà costruiscono da tempo a valle e sulle alture, dove vogliono, nonostante gli inviti a non farlo dell’Onu e degli Stati Uniti. Ma in quel contesto e con quel tono l’affermazione significava anche scartare l’idea dei due Stati, poiché Gerusalemme dovrebbe essere la capitale condivisa, sia pure in una sempre più vaga prospettiva. I palestinesi si stanno abituando alla vicina Ramallah, loro capitale provvisoria in espansione?
Netanyahu si è rivolto agli elettori del Likud e a quelli degli altri partiti di destra, la cui base popolare è spesso di origine orientale (sefardita). Ma in generale anche agli israeliani per i quali è impensabile una rinuncia sia pure parziale alla città per millenni punto di riferimento per gli ebrei sparsi nel mondo, e da anni annessa definitivamente allo Stato ebraico. Ma nella battuta su Gerusalemme c’era una frecciata anche per il presidente americano. Attraverso John Kerry, il segretario di Stato, Barack Obama aveva ribadito poche ore prima, la necessità di uno Stato palestinese, di cui parte di Gerusalemme potrebbe appunto essere la capitale.
La polemica con la Casa Bianca sul nucleare iraniano, portata da Netanyahu al Congresso di Washington, potrebbe essere almeno in parte disinnescata se gli Stati Uniti non arrivassero, entro fine mese come stabilito, a un accordo con Teheran. E non è scontato. L’estensione delle colonie in Cisgiordania, e il continuo aumento della loro popolazione, creano invece una netta e permanente divergenza con Obama sul problema palestinese. Problema destinato a ritornare in primo piano perché in aprile Abu Mazen, presidente dell’Autorità di Ramallah, il più mite e conciliante capo palestinese, dovrebbe presentare una denuncia contro Israele al Tribunale criminale internazionale per l’occupazione della Cisgiordania. Gli Stati Uniti l’hanno ritardata a lungo, minacciando anche di sospendere gli aiuti alla Palestina.
Non pochi intellettuali, tra i quali lo storico Zeev Sternhell, sostengono che la vittoria dell’Unione sionista, la coalizione di centrosinistra, non cambierebbe nulla. O molto poco. Isaac Herzog e la sua alleata Tzipi Livni non si sarebbero impegnati molto nel precisare il loro progetto sul problema palestinese. Si sono limitati a esprimere la vaga intenzione di rianimare il processo di pace. Per Herzog e Livni, in caso di vittoria primi ministri a turno, sarebbe comunque più agevole normalizzare i rapporti con il vasto mondo che, come Amos Oz, considera i due Stati affiancati una questione essenziale.

Corriere 16.2.15
Il discorso di Tsipras le responsabilità tedesche
risponde Sergio Romano


Sebbene la questione delle riparazioni di guerra alla Grecia da parte della Germania
sia vista come un tentativo di ricatto e sconfini nella polemica sterile, la minaccia di sequestro di beni tedeschi a riparazione di un massacro della Wehrmacht a Distomo nel 1944 e delle distruzioni provocate da quattro anni di occupazione, sta provocando irritazione e qualche preoccupazione nei palazzi della politica berlinese.
Alessandro Prandi

Caro Prandi,
Il discorso che il presidente del Consiglio greco ha pronunciato in Parlamento il 10 marzo merita qualche osservazione. Tsipras sa che il problema dei debiti tedeschi fu risolto dal Trattato di Londra del 1953 con una formula che riduceva di circa il 50% l’ammontare della somma dovuta. Una concessione troppo generosa? Le ragioni di quella «generosità» erano almeno due. In primo luogo una Germania ricostruita ed economicamente dinamica rispondeva allora, dopo l’inizio della Guerra fredda, alle esigenze delle democrazie occidentali e, in particolare, della Grecia, più esposta di altre alla minaccia sovietica. In secondo luogo tutti sapevano, finalmente, che gli esorbitanti indennizzi pretesi dalla Germania, dopo la fine della Grande guerra, avevano favorito il revanscismo tedesco e l’avvento di Hitler al potere.
Allo stesso modo Tsipras non ignora (lo ha riconosciuto nel suo discorso) che qualche anno dopo, nel 1960, la Germania aveva indennizzato le vittime del nazismo con la somma di 115 milioni di marchi e che il governo greco di allora aveva dichiarato di non avere altre pretese. Ma sostiene ora che quegli indennizzi concernevano le vittime dell’occupazione, non i danni sofferti dalle infrastrutture e, più generalmente, dal territorio nazionale. Non è sorprendente, in queste circostanze, che la Germania rifiuti di riaprire un partita ormai chiusa.
Vi è almeno un’altra ragione per cui il discorso del premier greco non è piaciuto a Berlino e non dovrebbe piacere neppure ad altri membri dell’Unione Europea. Tsipras ha presentato le sue richieste come un omaggio alle vittime del Terzo Reich e la necessaria continuazione di una lotta, mai definitivamente conclusa, contro il fascismo e il nazismo. Ha cercato di addolcire l’argomento ricordando i danni e le umiliazioni subiti dalla Germania. Ma una richiesta di denaro indirizzata oggi ai tedeschi dimostra che il passaggio del tempo e la generosità di cui hanno dato prova in molte circostanze non li rendono meno responsabili, agli occhi del governo greco, di quanto è accaduto nella prima metà del Novecento. Tsipras dimentica in questo modo quanti benefici la Grecia abbia tratto dalla politica di riconciliazione praticata in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non vi sarebbero stati settant’anni di pace e grandi progetti comuni come quello dell’integrazione europea, se non avessimo avuto il coraggio di chiudere le vecchie partite ereditate dal conflitto.
Un’ultima considerazione, caro Prandi. Temo che il discorso di Tsipras, con le sue richieste indirizzate alla Germania, cerchi di nascondere le responsabilità greche degli ultimi decenni. Possiamo e dobbiamo aiutare la Grecia a uscire dalla crisi, ma soltanto se è consapevole dei suoi errori e non cerca di mascherarli parlando d’altro.

Repubblica 16.3.15
Il futuro dell’Europa passa dagli investimenti pubblici puntiamo sul piano Varoufakis
di Mariana Mazzuccato


ILPRINCIPALEp roblema dell’Europa, si sente spesso ripetere, è che l’unificazione monetaria non è stata accompagnata da una vera politica fiscale comunitaria. E che senza una vera “unione fiscale” sarà impossibile uscire dalla crisi. Per “unione fiscale” si intende però soprattutto la necessità di correggere le differenze tra i Paesi.
OVVERO tra quei Paesi (fiscalmente irresponsabili) a cui è stato consentito di spendere troppo, finire nei guai e incrementare il rapporto tra debito e Pil e gli altri Paesi (fiscalmente prudenti) che si sono comportati in maniera responsabile, stringendo la cinghia e rendendosi più competitivi. “Unione fiscale” vorrebbe dunque dire che i Paesi deboli (Italia, Grecia, e via dicendo) oggi dovrebbero tagliare le spese … e naturalmente i salari dei lavoratori. Una soluzione, come è stato spiegato questa settimana a Cernobbio da Richard Koo (capo economista di Nomura ndr), Yanis Varoufakis e dalla sottoscritta, molto lontana dalla realtà. Per diventare competitivi servono investimenti intelligenti, non tagli.
Senza violare le regole di confidenzialità della conferenza di Cernobbio, quelle che gli anglosassoni chiamano Chatham House rules , permettetemi di elencare alcuni dei ragionamenti che abbiamo ripetuto nei nostri lavori ed interventi degli ultimi anni prima di incontrarci nella magnifica Villa d’Este sul lago di Como. Le posizioni convergono sull’idea che quando il settore pubblico “stringe la cinghia” peggiora la crisi invece che risolverla sia nel breve periodo (quando le imprese ed i consumatori privati stanno risparmiando) che nel lungo periodo (quando la vera crescita ha bisogno di investimenti strategici in nuove tecnologie e capitale umano). Quello che fa la differenza è il modo e la intelligenza con cui i soldi vengono spesi.
Cominciamo dal breve periodo. Richard Koo afferma da tempo nei suoi scritti che l’Europa ha confuso i propri problemi strutturali con i suoi, ben più urgenti problemi di contabilità in bilancio. Koo si riferisce al fatto che, come accade puntualmente durante le crisi determinate da un eccessivo debito privato, le imprese tentano di ridurre la propria esposizione finanziaria e, per quanto i tassi di interesse scendano si rifiutano di investire. È quanto vediamo succedere oggi: nonostante tassi di interesse pari a zero gli investimenti e la domanda non crescono e tutto ciò genera deflazione. Se, contemporaneamente al settore privato, anche quello pubblico inizia a comportarsi pro-ciclicamente, cioè a “stringere la cinghia”, si trasforma una recessione in una vera e propria depressione. Ed è proprio ciò che è accaduto.
Koo sostiene da vari anni che l’Europa dovrebbe imparare dagli errori compiuti dal Giappone, durante la crisi degli anni ‘90, quando il governo, ha aumentato le tasse e tagliato le spese; così il deficit, a causa dell’imponente calo negli investimenti e nella domanda, invece di ridursi è cresciuto del 70%. Purtroppo l’Europa non ha ancora imparato la lezione: i governi nazionali continuano a tagliare e il piano di investimenti “Juncker” della UE si basa sulla speranza ridicola che 21 miliardi possano produrre un coefficiente di leva pari a quindici, trasformando come per magia la cifra iniziale in un investimento di oltre 300 miliardi di euro.
Invece gli Usa la lezione giapponese l’hanno un po’ imparata, subito dopo la crisi, accanto al quantitative easing, hanno anche speso 800 miliardi di dollari in un piano di investimenti e di innovazione nel campo dell’energia rinnovabile di cui ci ha parlato a Cernobbio il brillante economista di Princeton Alan Kruegher che è stato il consigliere economico di Obama durante quegli anni. Una scelta anticiclica che nell’immediato ha fatto crescere il loro deficit del 10% (e noi ci mettiamo a litigare per un aumento del 3%!) ma che oggi produce risultati: il Pil cresce, il rapporto fra debito e Pil cala e la divergenza tra la crescita americana e quella dell’Unione Europea continua ad aumentare.
Veniamo al lungo periodo. Oggi in Europa i Paesi che se la passano bene non sono quelli che hanno stretto la cinghia, bensì quelli che hanno investito e invefakis maggiormente in tutti quei settori ed aree in grado di determinare un incremento della produttività, come formazione del capitale umano, istruzione, ricerca e sviluppo, nonché nelle banche pubbliche e nelle agenzie che favoriscono le sinergie tra settori diversi ad esempio le collaborazioni tra mondo scientifico e imprese. Il problema dell’Italia non è il deficit eccessivo ma la mancata crescita, perché da almeno venti anni non si fanno investimenti di questo genere. Ciò che è mancato all’Europa quindi non è un piano comune di tagli ma un piano comune di innovazione e di investimenti. Che è ben diverso dal litigare sul fiscal compact.
È lo stesso piano di investimenti che Yanis Varoufakis teorizzava, prima di prestare la sua competenza di economista come ministro del governo greco. Varou- viene spesso accusato di essere un ministro troppo accademico e non abbastanza “politico” e concreto. Niente di più lontano dalla realtà. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno sono proprio i politici in grado di coniugare delle prospettive di ampio respiro con gli strumenti di intervento nel breve periodo. Varoufakis lavora dal 2010 a quella che chiama una «modesta proposta per l’Europa» un piano di investimenti che ponga fine alle divergenze competitive che impediscono di uscire dall’attuale crisi. Se fosse stato ascoltato 5 anni fa, non saremmo di nuovo nei guai con i vari possibili “exit” dei prossimi anni (e non solo quello greco!). La sua proposta mirava alla creazione di denaro da destinare all’attività produttiva. L’idea era favorire una crescita trainata dalla Banca europea degli investimenti attraverso l’emissione di bond destinati all’investimento produttivo — con la Bce pronta ad acquistare quei bond, che avendo un rating tripla A sarebbero stati molto meno rischiosi dei bond nazionali. Finalmente l’Europa ha approvato un piano importante di quantitative easing, ma questo non basta, perché occorre dare una direzione al nuovo denaro creato, per evitare che finisca soltanto nelle casse delle banche le quali non necessariamente prestano denaro all’economia reale. Purtroppo, sino a quando la Germania non ammetterà che le differenze tra paesi forstono ti e paesi deboli sono dovute ai mancati investimenti strategici, finché non smetterà di proporre unicamente tagli ai bilanci nazionali, sarà difficile articolare una vera soluzione.
Per quante riforme strutturali si possano architettare, l’Europa non andrà da nessuna parte se non inizierà a programmare un futuro nuovo. Un futuro nel quale sia il settore pubblico che quello privato spendono di più nelle aree che favoriscono la crescita di breve e lungo termine. Proprio come su scala nazionale la Germania fa con il suo programma energiewende , che cerca di ottenere una vera trasformazione verde basata su nuove tecnologie e nuovi modelli di consumo e distribuzione. Insomma l’Europa dovrebbe fare come la Germania fa e non come la Germania predica ai Paesi europei in difficoltà. La «stagnazione secolare» non è affatto inevitabile, è un prodotto degli investimenti che decidiamo di fare o non fare. È ora di cambiare direzione, progettare, e creare, un progetto veramente comune.
(Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 16.3.15
Dall’Islam all’Apocalisse anatomia del Califfato

Ecco cos’è, cosa vuole e come si può sconfiggere
di Graeme Wood


L’Is ha bisogno di una giurisdizione e di un governo. Ed è davvero islamico. Fingere che non lo sia e confonderlo con Al Qaeda ha portato gli Stati Uniti a decisioni insensate Identifica il nemico in “Roma”, ossia l’esercito di infedeli, americani in primis. Crede che sconfiggerli a Dabiq, in Siria inizierà il conto alla rovescia alla “Fine dei giorni”

COS’È lo Stato islamico? Da dove viene, e che intenzioni ha? La semplicità di queste domande può trarre in inganno, eppure pochi leader occidentali sembrano conoscere la risposta.
Dopo aver conquistato Mosul, in Iraq, lo scorso giugno, oggi il gruppo controlla un territorio più esteso del Regno Unito. Il suo leader dal maggio del 2010 è Abu Bakr Al Baghdadi, di cui sino all’estate scorsa circolava una sola immagine: una foto segnaletica sfocata risalente all’occupazione dell’Iraq, quando Al Baghadi fu detenuto dagli Usa a Camp Bucca. Poi, il 5 luglio 2014, Al Baghdadi è salito sul pulpito della Grande Moschea Al Nuri di Mosul per pronunciare un sermone del Ramadan. In quel discorso, il primo del genere tenuto da un Califfo da molte generazioni, Al Baghdadi ha messo a fuoco i suoi propositi, non più sfocati ma ad alta definizione, e la propria posizione, che non era più quella di un combattente ricercato bensì di comandante di tutti i musulmani. Da allora l’arrivo dei jihadisti provenienti da ogni parte del modo procede con ritmi e numeri senza precedenti.
Per certi versi la nostra ignoranza sull’Is è comprensibile: si tratta di un regno eremita; pochi sono andati e tornati; Al Baghdadi ha parlato a una telecamera solo una volta. Ma quel discorso, e tutti gli innumerevoli altri video propagandistici, sono reperibili online. Se ne può dedurre che l’Is rifiuta la pace per principio; che è assetato di genocidio; che le sue opinioni religiose lo rendono strutturalmente incapace di operare modifiche, anche se da esse dipendesse la sua stessa sopravvivenza; e che si considera foriero della fine del mondo.
Lo Stato Islamico, noto anche con il nome di Stato Islamico dell’Iraq e Al Sham (Isis), s’ispira a una caratteristica varietà di Islam la cui strategia è determinata da particolari convinzioni riguardo alla strada che porta al Giorno del Giudizio. Convinzioni che possono aiutare l’Occidente a imparare a conoscere il proprio nemico e a prevederne il comportamento.
Abbiamo frainteso la natura dello Stato Islamico in almeno due modi. Innanzitutto, tendiamo a considerare il jihadismo monolitico e ad applicare la logica di Al Qaeda a un’organizzazione che l’ha eclissata. I sostenitori dello Stato Islamico con cui ho parlato attribuiscono ancora ad Osama bin Laden il titolo onorifico di “sceicco”. Dai tempi d’oro di Al Qaeda (1998-2003 circa) il jihadismo però si è evoluto, e molti jihadisti disdegnano le priorità del gruppo e la sua attuale dirigenza. Bin Laden considerava il suo terrorismo il preludio a un Califfato che pensava non avrebbe mai visto durante la propria vita. La sua organizzazione era flessibile e operava come una rete geograficamente diffusa di celle autonome. L’Is esige invece un territorio riconosciuto e una struttura che lo governi dall’alto.
Siamo vittime anche di un altro equivoco, frutto di una campagna dalle buone intenzioni ma ingannevole che nega la natura medievale della religiosità dello Stato Islamico. Peter Bergen, che nel 1997 intervistò per primo Bin Laden, intitolò il suo primo libro Holy War Inc. in parte per sottolineare l’appartenenza di Bin Laden al mondo secolare moderno. Bin Laden ha dato al terrore una struttura aziendale e ne ha fatto un franchising. Richiedeva specifiche concessioni politiche: come il ritiro delle forze Usa dall’Arabia Saudita. I suoi uomini si muovevano nel mondo moderno con piglio sicuro. Il giorno prima di morire, Mohammed Atta fece acquisti da Walmart e cenò da Pizza Hut.
Quasi tutte le decisioni dell’Is aderiscono a ciò che esso definisce, sui manifesti, sulle targhe e sulle monete, “la metodologia profetica”. La maggior parte delle iniziative del gruppo appaiono infatti prive di senso se non le si osserva alla luce di un impegno volto a riportare la civiltà al settimo secolo e, in definitiva, a scatenare l’Apocalisse. La realtà è che lo Stato Islamico è islamico. Molto islamico. La religione predicata dai suoi seguaci più ferventi deriva da interpretazioni coerenti e addirittura colte dell’Islam. Quasi tutte le sue leggi aderiscono alla “metodologia profetica”, il che significa attenersi meticolosamente alla profezia e all’esempio di Maometto. I musulmani possono rifiutare lo Stato Islamico, e quasi tutti lo fanno. Ma fingere che non si tratti di un gruppo religioso e millenario di cui, se lo si vuole combattere, occorre comprendere la teologia ha già indotto gli Stati Uniti a sottovalutarlo e ad appoggiare iniziative insensate per contrastarlo. Dobbiamo conoscere la genealogia intellettuale dell’Is se vogliamo agire in modo da non rafforzarlo, ma semmai aiutarlo ad autoimmolarsi nel suo eccessivo fervore.
I. DEVOZIONE
Lo scorso novembre lo Stato Islamico ha diffuso un video in stile telepromozione che faceva risalire le sue origini a Bin Laden. Riconosceva Abu Musab Al Zarqawi, spietato capo di Al-Qaeda in Iraq dal 2003 alla sua uccisione nel 2006, come suo più immediato progenitore, seguito nell’ordine da altri due leader guerriglieri che hanno preceduto Al Baghdadi. Dalla lista era assente Ayman Al Zawahiri, successore di Bin Laden: il chirurgo oftalmico egiziano che attualmente dirige Al-Qaeda. Al Zawahiri non ha giurato fedeltà ad Al Baghdadi ed è sempre più odiato dai suoi compagni jihadisti.
Nel dimenticatoio, insieme ad Al Zawahiri, è stato relegato anche un religioso giordano di 55 anni: Abu Muhammad Al Maqdisi, considerato a ragione l’architetto intellettuale di Al Qaeda nonché il più importante dei jihadisti sconosciuti ai comuni lettori. Nella maggior parte delle questioni dottrinali, Al Maqdisi e lo Stato Islamico sono d’accordo. Entrambi sono strettamente identificati con l’ala jihadista di un ramo del sunnismo chiamato salafismo dall’arabo “al salaf al salih”, i “pii antenati”. Questi antenati sono il Profeta in persona e i suoi primi seguaci, che i salafiti onorano ed emulano come modelli in ogni ambito: guerra, abbigliamento, vita familiare e persino igiene dentale.
Al Maqdisi è stato maestro di Al Zarqawi, che ha combattuto in Iraq tenendo a mente i suoi consigli. Con il tempo però Al Zarqawi ha superato il suo mentore in fanatismo, sino a meritarsi il suo rimprovero. Punto del contendere tra i due era la propensione di Al Zarqawi per lo spargimento di sangue e, in fatto di dottrina, il suo odio verso gli altri musulmani, al punto di scomunicarli ed ucciderli. La punizione per l’apostasia è la morte e Al Zarqawi aveva ampliato sconsideratamente l’elenco di comportamenti che potevano fare di un musulmano un infedele. Seguendo la dottrina del takfiri, l’Is è votato alla purificazione del mondo tramite l’uccisione di un gran numero di individui. La mancanza di resoconti obiettivi dai suoi territori rende impossibile determinare la reale portata del massacro, ma i social media lasciano intendere che le esecuzioni individuali si succedano continuamente e le uccisioni di massa a distanza di poche settimane. Gli “apostati” musulmani sono le vittime più frequenti. Risparmiati dall’esecuzione automatica sembra siano i cristiani che non si oppongono al nuovo governo: Al Baghdadi consente loro di restare in vita a patto di versare un’imposta speciale, detta jizya, e riconoscere la propria sottomissione. L’autorità coranica per questa pratica non è messa in discussione.
Senza conoscere questi fattori, nessuna spiegazione dell’ascesa dello Stato Islamico può dirsi completa, ma focalizzarsi su di essi escludendo l’ideologia riflette un altro pregiudizio occidentale: che, se a Washington o a Berlino l’ideologia religiosa non ha un gran peso, lo stesso debba essere vero a Raqqa o a Mosul. Quando un carnefice dal volto coperto esclama “Allahu Akbar” nel decapitare un apostata, talvolta lo fa per motivi religiosi.
Molte delle organizzazioni musulmane più convenzionali si sono spinte a dire che lo Stato Islamico sia, in realtà, non-islamico. È rassicurante sapere che la grande maggioranza dei musulmani non ha alcun interesse a sostituire le pubbliche condanne a morte ai film di Hollywood. Ma i musulmani che considerano lo Stato Islamico non-islamico sono, come mi ha spiegato Bernard Haykel, studioso di Princeton nonché maggiore esperto della teologia del gruppo, «a disagio e politicamente corretti, con una visione edulcorata della propria religione » che trascura «ciò che la loro religione storicamente e legalmente prevede». Molte smentite della natura religiosa dell’Is affondano e proprie radici in una «tradizione-interconfessionale- cristiana-priva di fondamento», ha detto.
Stando ad Haykel, gli appartenenti allo Stato Islamico sono profondamente intrisi di fervore religioso. Le citazioni coraniche sono onnipresenti, e «persino i combattenti snocciolano di continuo questa roba». «Si mettono in posa di fronte all’obiettivo e ripetono i loro precetti base con tono monotono, e lo fanno inin- terrottamente». Haykel considera l’idea che lo Stato Islamico abbia distorto i testi dell’Islam insensata e sostenibile solo grazie a una deliberata ignoranza. «Le persone vogliono assolvere l’Islam», dice. «È come un mantra: “l’Islam è una religione di pace”. Come se si potesse parlare di “Islam”! L’Islam è ciò che i musulmani fanno e il modo in cui interpretano i loro testi». Testi comuni a tutti i musulmani sunniti, non solo all’Is. «Questi tipi hanno la stessa legittimazione degli altri».
Tutti i musulmani ammettono che le prime conquiste di Maometto non furono una faccenda pulita e che le leggi di guerra tramandate dal Corano e nei racconti del Profeta erano pensate per un’epoca violenta. Secondo Haykel, i combattenti dell’Is si rifanno del tutto al primo Islam e ne riproducono fedelmente le norme belliche. Tale comportamento include diverse pratiche che i musulmani moderni preferiscono non riconoscere come parte integrante dei loro testi sacri. «Schiavitù, crocifissioni e decapitazioni non sono pratiche che degli squilibrati [i jihadisti] scelgono selettivamente dalla tradizione medievale», dichiara Haykel. I combattenti dell’Is «si pongono al centro della tradizione medievale, e la smerciano all’ingrosso».
La nostra incapacità di apprezzare le essenziali differenze tra Is e Al Qaeda ha portato a compiere decisioni pericolose.
II. TERRITORIO
Decine di migliaia di musulmani stranieri sono immigrati nello Stato Islamico. Le nuove reclute provengono da Francia, Regno Unito, Belgio, Germania, Olanda, Australia, Indonesia, Stati Uniti e molti luoghi ancora. Molti vengono a combattere e molti intendono morire.
Lo scorso novembre ho incontrato in Australia Musa Cerantonio, un trentenne che Neumann e altri ricercatori identificano come una delle due “nuove autorità spirituali” che inducono gli stranieri a unirsi all’Is. È stato per tre anni il televangelista della tv cairota Iqraan . L’ha dovuta lasciare perché invitava a fondare un Califfato. Adesso predica attraverso Facebook e Twitter.
Cerantonio mi ha raccontato la gioia che ha provata quando il 29 giugno Al Baghdadi è stato dichiarato Califfo e l’improvvisa e magnetica attrazione che la Mesopotamia ha iniziato a esercitare su di lui e i suoi amici. «Mi trovavo in un hotel [nelle Filippine] e, mentre guardavo la tv, mi sono domandato: Che ci faccio in questa fottuta camera?».
L’ultimo Califfato è stato l’impero ottomano, che raggiunse il proprio apice nel XVI secolo per poi avviarsi a un lungo declino, sino a quando il fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal Atatürk, lo sconfisse nel 1924. Tuttavia Cerantonio, così come molti sostenitori dell’Is, non considera il Califfato legittimo perché non applica appieno la legge islamica, che prevede lapidazioni, schiavitù e amputazioni, e perché i suoi califfi non discendono dalla Quraysh, la tribù del Profeta.
Il Califfato, mi ha detto Cerantonio, non è solo un’entità politica ma anche un veicolo di salvezza. La propaganda dello Stato islamico diffonde a scadenze regolari i giuramenti di baya’a , fedeltà, che giungono da gruppi jihadisti di tutto il mondo musulmano. Cerantonio ha citato un detto profetico secondo il quale morire senza giurare fedeltà equivale a morire jahil , nell’ignoranza, e quindi a “morire nel dubbio”. Considerate quale sorte i musulmani (o i cristiani) immaginano che Dio riservi alle anime di coloro che muoiono senza aver riconosciuto l’unica vera religione: non vengono né salvate né condannate definitivamente. Analogamente, ha aggiunto Cerantonio, il musulmano che riconosce un Dio onnipotente e prega, ma che muore senza giurare fedeltà a un legittimo Califfo e senza sostenere gli obblighi che derivano da quel giuramento, non ha vissuto una vita pienamente islamica.
III. L’APOCALISSE
Tutti i musulmani riconoscono che Dio è l’unico a conoscere il futuro. Ma sono anche concordi nel ritenere che ci ha concesso di scorgerne un lembo nel Corano e nei racconti del Profeta. Lo Stato Islamico si discosta da quasi ogni altro movimento jihadista in quanto crede che le scritture di Dio gli affidino un ruolo centrale. Questo ruolo rappresenta la più netta distinzione tra l’Is e i movimenti che lo hanno preceduto, nonché la più esplicita definizione della natura religiosa della sua missione.
Al Qaeda si comporta grosso modo come un movimento politico clandestino i cui obiettivi concreti rimangono sempre chiari: l’espulsione dei non-musulmani dalla Penisola araba, l’abolizione dello Stato di Israele, la fine del sostegno alle dittature nei territori musulmani. Anche lo Stato Islamico ha alcuni interessi concreti, ma la Fine dei Giorni è un leitmotif della sua propaganda. Bin Laden raramente ha parlato di Apocalisse.
Durante gli ultimi anni dell’occupazione Usa dell’Iraq, gli immediati padri fondatori dello Stato Islamico scorsero ovunque segni della fine del mondo. Lo Stato Islamico attribuisce una grande importanza alla città siriana di Dabiq, nei pressi di Aleppo. A essa ha intitolato la sua rivista di propaganda e ha celebrato follemente la conquista assai faticosa delle sue pianure, prive di importanza strategica. Il Profeta avrebbe detto che è proprio qui che si accamperanno gli eserciti di Roma. Gli eserciti dell’Islam verranno loro incontro e Dabiq per Roma sarà una Waterloo. I propagandisti dello Stato Islamico fremono di impazienza all’idea di un simile evento e implicano costantemente che si avvererà presto.
Nella narrazione profetica che preannuncia la battaglia di Dabiq, il nemico viene identificato in Roma. A cosa possa corrispondere “Roma” adesso che il Papa non ha più un esercito rimane oggetto di dibattito. Cerantonio suggerisce che Roma rappresentasse l’Impero romano di Oriente, la cui capitale era l’attuale Istanbul. Dovremmo dunque considerare Roma la Turchia, la stessa che novant’anni fa pose fine all’ultimo autoproclamato Califfato. Altre fonti dello Stato Islamico suggeriscono che qualsiasi esercito di infedeli, americani in primis , potrebbe rappresentare Roma.
IV. LA LOTTA
La purezza ideologica dello Stato Islamico contiene una virtù che la controbilancia: quella che ci permette di prevedere alcune iniziative del gruppo. Raramente Osama bin Laden era prevedibile. Lo Stato Islamico invece ostenta apertamente le proprie mire: non tutte, ma abbastanza perché, ascoltando attentamente, si possa capire come intende governare ed espandersi.
Puniti per la nostra iniziale indifferenza, oggi affrontiamo indirettamente l’Is attraverso i curdi e gli iracheni sul campo di battaglia e con regolari attacchi aerei. Queste strategie non hanno cacciato l’Is da nessuno dei suoi principali territori, sebbene gli abbiano impedito di attaccare direttamente Baghdad ed Erbil e di massacrare gli sciiti e i curdi che vi abitano.
Alcuni osservatori, tra cui alcuni prevedibili esponenti della destra interventista, hanno chiesto a gran voce un inasprimento dell’offensiva e reclamato il dispiegamento di decine di migliaia di soldati americani. Simili esortazioni non dovrebbero essere sminuite troppo frettolosamente: un’organizzazione dichiaratamente genocida si trova alle porte delle sue potenziali vittime e commette ogni giorno atrocità nei territori che già controlla.
Un modo per annullare il sortilegio che lo Stato Islamico esercita sui propri sostenitori sarebbe quello di sopraffarlo militarmente e occupare le zone della Siria e dell’Iraq attualmente in mano al Califfato. Al Qaeda non può essere sradicata perché è in grado di vivere sottoterra, come uno scarafaggio. Lo Stato Islamico no. Se perde la propria presa sul suo territorio in Siria e in Iraq cesserà di essere un Califfato. I Califfati non possono esistere sotto forma di movimenti clandestini, perché richiedono un’autorità territoriale. L’Is potrebbe non riprendersi più se tutte le sue forze raccolte a Dabiq venissero sconfitte.
Debitamente contenuto, lo Stato Islamico è probabilmente destinato a causare la propria fine. Nessun Paese gli è alleato e la sua ideologia garantisce che ciò non cambi. Le terre che controlla, benché vaste, sono perlopiù disabitate e povere. Mentre langue o si rimpicciolisce lentamente, la sua convinzione di essere motore della volontà di Dio e agente dell’Apocalisse perderanno vigore e i fedeli che si uniscono alle sua fila saranno sempre meno. Con il diffondersi di nuove testimonianze di infelicità dal suo interno, anche gli altri movimenti islamisti radicali saranno screditati: nessuno ha cercato con maggiore determinazione di implementare con la violenza la stretta osservanza della Sharia. Ed ecco i risultati.
Anche se le cose andassero in questo modo è improbabile che la morte dello Stato Islamico avvenga rapidamente e non è detto che le cose non possano prendere comunque una piega disastrosa. Se Al Qaeda giurasse fedeltà allo Stato Islamico, incrementando ad un tratto l’unità della sua base, potrebbe trasformarsi nel nostro peggior nemico. In mancanza di una simile catastrofe, o forse della minaccia che Stato Islamico attacchi Erbil, una vasta invasione di terra peggiorerebbe di certo la situazione.
V. DISSUASIONE
Definire il problema dello Stato Islamico “un problema con l’Islam” sarebbe facile, addirittura scagionatorio. La religione consente molte interpretazioni e i sostenitori dell’Is sono moralmente responsabili per quella da loro scelta. Tuttavia, limitarsi a denunciare lo Stato Islamico come non-islamico può essere controproducente, soprattutto se coloro a cui giunge tale messaggio hanno letto i testi sacri e visto come questi giustificano chiaramente molte delle pratiche del Califfato.
I musulmani possono dire che la schiavitù oggi non è legale e che nel nostro contesto storico la crocifissione è sbagliata. Molti di loro affermano precisamente questo. Tuttavia non possono condannare esplicitamente la schiavitù o la crocifissione senza entrare in contraddizione con il Corano e l’esempio del Profeta. «L’unica posizione fondata che gli oppositori dello Stato Islamico potrebbero adottare — afferma Bernard Haykel — è quella di dire che alcuni testi fondamentali e alcuni insegnamenti tradizionali dell’Islam non sono più attuali». E quello sarebbe davvero un atto di apostasia.
I funzionari occidentali farebbero probabilmente meglio a trattenersi del tutto dal commentare su aspetti relativi al dibattito teologico islamico. Lo stesso Barack Obama ha lambito il tema del takfiri quando ha affermato che lo Stato Islamico è «non-islamico». Sospetto che la maggior parte dei musulmani concordino con Obama: il presidente ha preso le loro parti sia contro Al Baghdadi che contro i nonmusulmani sciovinisti che tentano di addossare loro gesti criminosi. I musulmani però, nella maggior parte, non sono inclini a unirsi alla jihad. E coloro che invece lo sono, vedranno semplicemente confermati i loro sospetti: ovvero, che gli Stati Uniti mentono sulla religione per propri scopi.
Nel ristretto ambito della propria ideologia, lo Stato Islamico ferve di energia e persino di creatività. Ma al di fuori da esso difficilmente potrebbe essere più arido e silenzioso: una visione della vita come obbedienza, ordine, e destino. Musa Cerantonio potrebbe mentalmente passare dal contemplare le uccisioni di massa e la tortura eterna a discutere le virtù del caffè vietnamita o dei dolci al miele. Potrei godere della sua compagnia come di un vizioso esercizio intellettuale, ma solo sino a un certo punto. Quando recensì Mein Kampf nel marzo del 1940, George Orwell confessò di «non essere mai riuscito a detestare Hitler»; qualcosa in quell’uomo emanava un’aria da perdente, anche quando le sue mire erano vili o aberranti. «Se stesse uccidendo un topolino, saprebbe come farlo sembrare un drago». I partigiani dello Stato Islamico condividono in parte quello stesso atteggiamento: credono di essere coinvolti in una lotta che va oltre la propria vita e che essere risucchiati dalla tragedia stando dalla parte della virtù sia un privilegio e un piacere, soprattutto quando è al tempo stesso un peso. ( © 2-015 the Atlantic Media co.
Distribuito da Tribune Content Agency.
(Traduzione di Marzia Porta)

Il Sole 16.3.15
Investimenti. Dal 2015 Pechino ha speso 5 miliardi di dollari
L’euro più debole attira in Europa i capitali della Cina
Dall’inizio di marzo la moneta unica ha perso il 25% sul renmimbi
di Rita Fatiguso


Pechino L’euro ridotto all'osso sul renminbi spinge le imprese cinesi a intensificare gli investimenti in Europa.
A marzo la moneta unica ha perso il 25% sulla valuta cinese rispetto allo stesso mese dell'anno precedente, e per giunta sul mese prossimo si scaricherà anche l'effetto QE della Banca centrale europea: tutte ottime ragioni per intensificare le mosse in una delle aree del mondo a più alto valore aggiunto per le imprese cinesi, affamate di tecnologia e di soluzioni avanzate soprattutto in piazze politicamente stabili.
Le operazioni di acquisizione di Club Med e Louvre Hotels Group, rispettivamente per 4,3 miliardi e 1,5 miliardi di dollari, dimostrano che il 2015 si è aperto alla grande per gli investimenti cinesi. Non solo. Nell’Unione europea nei servizi finanziari sono stati investiti più di 2 miliardi di dollari di provenienza cinese, specie negli ultimi due anni, grazie alla progressiva liberalizzazione finanziaria e a nuove opportunità legate all’internazionalizzazione del renminbi. La Cina, inoltre, sta perfezionando il sistema di scambi internazionali cross-border e in Europa ha ormai le sue roccaforti - Londra, Francoforte, Parigi - che stanno diventando hub finanziari necessari a rendere più agevoli le operazioni effettuate tra Cina ed Europa. Non a caso il magnate Wang Jianlin creatore dell’impero Wanda Dalian ha appena eletto la Gran Bretagna sua meta preferita per gli affari.
Snocciola i dati Marco Marazzi di Baker & Mckenzie, avvocato esperto di operazioni crossborder, che ha coordinato un dossier sul tema: «Gli investimenti cinesi l’anno scorso sono stati pari a 18 miliardi di dollari, raddoppiati rispetto al 2013; 153 operazioni con tre settori in prima linea: l’alimentare, il settore energetico e l’immobiliare. Il Regno Unito con 5,1 miliardi è stato il primo mercato, seguito dall’Italia con 3,5 miliardi e poi dai Paesi Bassi con 2,3 miliardi. Segno che gli investitori cinesi stanno chiaramente sfruttando le opportunità sui mercati più soggetti ad instabilità economica, ma continuano a non sottovalutare il vantaggio di investire in Paesi più stabili politicamente».
La crescita, nel 2014, è stata trainata dagli investimenti in nuovi settori tra cui il real estate, il food, i settori finanziari. Big come Pizza Express nel Regno Unito e Peugeot Citroen in Francia tra le società destinatarie dei maggiori investimenti cinesi nel 2014.
E l’Italia? Il 2014 è stato un anno eccezionale, se paragonato ai parametri usati per i vini: nel 2014 è stata il primo mercato dell’Eurozona: ben 2,490 miliardi nell’energia, 598 milioni nei macchinari industriali, a seguire nel settore alimentare e agrobusiness 50 milioni e nei prodotti di consumo 32. Gli investimenti diretti cinesi erano quasi inesistenti fino al 2004, poi la media è stata di poco meno di 1 miliardo all’anno. A partire dal 2009 i flussi d’investimento sono triplicati a quasi 3 miliardi, prima di triplicare ancora nel 2010 oltre i 10 miliardi. In totale dal 2009 i flussi d’investimenti cinesi in Europa sono stati di 55 miliardi.
Aziende del made in Italy, asset immobiliari a Milano e Roma, hotel e resort, turismo, moda e aziende tecnologiche sono nel mirino. Gli affari con un valore superiore a un miliardo rappresentano ancora la maggior quota sul totale degli investimenti cinesi in Europa, le piccole (sotto i 100 milioni) e medie (tra 100 milioni e 1 miliardo) operazioni di M&A sono cresciute molto a partire dal 2011, anche perché meno rischiose. La Cina deve ancora sbrogliare il nodo del porto del Pireo, un deal rimasto incagliato nelle turbolenze della crisi della Grecia. I cinesi però guardano alla logistica e ai servizi pubblici e a differenza di un tempo accettano di acquistare quote nel capitale senza più l’idea fissa di dover acquistarne la totalità.
Toby Clark, a capo dell’Investment Banking di CICC Europe, dice che «le ultime operazioni denotano un salto di qualità da parte dei cinesi nelle loro politiche di investimenti diretti». Va ricordato che il governo cinese sta già applicando le nuove strategie taglia burocrazia, incluso l’ok un tempo sacro della Safe, l’autorità che si occupa della valuta estera.
Una cosa è certa: gli investimenti immobiliari commerciali in Europa hanno compensato la flessione del settore energia. Da zero a prima del 2013, nel corso del 2014 gli investimenti cinesi nel real estate commerciale europeo sono saliti ai 3 miliardi nel 2014. Senza contare gli investimenti per progetti di sviluppo futuri. Ma occhio anche allo shopping alimentare: l’olio italiano Doc Filippo Berio comprato dagli shanghaiesi di Brightfood è un precedente che farà scuola.