domenica 15 marzo 2015

Il Sole 15.3.15
Le riforme e la destra
Di quale opposizione ha bisogno l’Italia
di Luca Ricolfi


Sono passati più di vent’anni da quando, con la discesa in campo di Berluconi (1994) e l’abbandono del fascismo da parte di Fini (1995), “essere di destra” ha cessato di essere un tratto inconfessabile. In questi lunghi anni la destra è stata un po’ al governo, un po’ all’opposizione, ma la sua legittimità e il suo ruolo non sono mai stati veramente in discussione.
Oggi le cose stanno cambiando. Non perché gli italiani stiano tornando a demonizzare la destra, ma perché la destra, o meglio le forze politiche che pretendono di rappresentarla, stanno accuratamente distruggendo quel poco che in vent’anni erano riuscite a costruire.
Lo spettacolo è davvero penoso. La Lega di Salvini ha dimenticato di botto le sue radici federaliste, liberiste e anti-centraliste, e si sta ridefinendo essenzialmente come forza anti-immigrati e anti-Europa. In questo processo, che per ora la premia elettoralmente, ha già perso un pezzo dell’elettorato veneto e un leader importante, come il sindaco di Verona Flavio Tosi. Del partito di Alfano non è neppure il caso di parlare, tanto la sua immagine è schiacciata su quella del governo, di cui appare come una semplice e pallida ombra. Resterebbe Forza Italia, ma non è chiaro neppure quante siano le fazioni che se ne contendono le spoglie, dopo che il patto del Nazareno ha innescato la balcanizzazione del partito.
Qualcuno ora ipotizza che, tornato libero (fine dell’affidamento ai servizi sociali) e resuscitato politicamente (assoluzione nel processo Rubi), Berlusconi possa rimettere insieme i cocci del suo partito, rilanciare Forza Italia, e da quella posizione tornare a svolgere il ruolo di federatore del centro-destra. Sarò ingenuo, ma mi sfugge completamente come una tale operazione possa andare in porto.
Contro la ricostituzione di uno schieramento di centro-destra, capace di contendere il governo a Renzi, militano ragioni minori ovvie, e ragioni maggiori forse meno ovvie. Fra le ragioni ovvie: le 6-7 fazioni in campo sono litigiose e avide di potere; Berlusconi non si farà da parte, ma ormai la sua presenza è un “valore sottratto” più che un valore aggiunto; il premio di maggioranza previsto dall’Italicum non va alla coalizione ma al partito (un’incredibile concessione di Berlusconi al Pd di Renzi).
Ci sono però anche ragioni più serie, ovvero più strutturali, per cui la ricostituzione di un’opposizione di destra credibile, competitiva con il “partito di Renzi”, appare oggi un’impresa disperata.
Le riassumerei con una domanda: c’è bisogno di una destra oggi in Italia?
Per certi versi sì, su terreni secondari come le politiche dell’immigrazione, o la lotta contro la criminalità, in cui è chiaro che il duo Renzi-Alfano non è in grado di intercettare il sentimento di tanti elettori, sconcertati dall’impotenza dello Stato di fronte al mancato rispetto delle regole.
Ma sulle cose fondamentali, sulle cose da cui dipende il futuro economico-sociale del Paese, forse non è una ricomposizione dello schieramento di destra quello che manca all’Italia. È vero, quello di cui avremmo bisogno è una scossa di tipo liberale al sistema, che faccia dimagrire lo Stato e ridia ossigeno ai produttori.
Il punto, però, è che, quando ha governato, la destra non è mai stata né capace né incline a fornire una tale scossa. E quel poco (e spesso pasticciato) che Renzi sta facendo in questa direzione, è comunque di più di quello che la destra ha saputo fare quando era al comando.
Il dramma dell’Italia è che né la destra né la sinistra hanno una matrice liberale, ma la sua anomalia – ciò che rende, anche in questo, eccezionale il nostro straordinario paese – è che la destra, questo carrozzone che ora Berlusconi si accinge a rimettere in cammino, è ancora meno liberale della sinistra. Detto più esplicitamente, e ancora più crudamente: nulla assicura che, se andasse al governo, l’ennesima ammucchiata guidata da Berlusconi non finirebbe, come in passato, di lasciarsi paralizzare dai contrasti interni.
Questo significa che Renzi va lasciato lavorare in pace, e che non c’è alcun bisogno di un’opposizione?
Tutt’altro, di un’opposizione c’è sicuramente bisogno. Il mio dubbio è che l’opposizione che servirebbe oggi in Italia sia un’opposizione di destra. Renzi è già abbastanza di destra da lasciare ben poco spazio a un’opposizione dello stesso tipo. Pensate a quel che ha fatto o sta facendo sulla Costituzione, la legge elettorale, l’articolo 18, i tagli alla spesa pubblica, la riduzione dell’Irap, gli sgravi sul costo del lavoro, la riforma della magistratura (responsabilità civile dei giudici), la gerarchia nella scuola (potere di assunzione ai presidi). Vi sembrano cose di sinistra?
No, sono cose ragionevoli, più che ragionevoli, ma abbastanza di destra. Tutta la destra che l'Italia può realisticamente concedersi sta già nell’agenda di Renzi. E infatti Renzi miete consensi anche nell’elettorato tradizionale della destra, fra i lavoratori autonomi, i professionisti, gli imprenditori.
Il punto debole di Renzi, sul piano sociale, sono gli esclusi, gli outsider, le donne e i giovani cui ama rivolgersi ma per i quali sta facendo pochissimo. Impegnato com’è a catturare il consenso di entrambe le basi sociali, quella tradizionale della sinistra (con gli 80 euro in busta paga) e quella tradizionale della destra (con il Jobs Act), Renzi sta scordando la Terza società, fatta di disoccupati, lavoratori in nero, donne e giovani “scoraggiati” che un lavoro non lo cercano più perché hanno perso ogni speranza di trovarlo. Sono 10 milioni di persone, cui pensano in pochi, e che non sembrano interessare né la destra né la sinistra, né il governo né l’opposizione, né i populisti alla Grillo né i nostalgici alla Landini e Cofferati.
Ecco perché dico che ci vorrebbe una vera opposizione, ma nulla fa pensare che avremo il piacere di vederne presto una in campo.

Corriere 15.3.15
La coalizione di Landini sfida Renzi
Prima mossa: i referendum sui diritti
La strategia del leader spiegata nell’incontro (a porte chiuse). Si parte dal Jobs act
di Lorenzo Salvia


ROMA «Loro hanno già deciso lo schema, il sindacalista che si presenta alle elezioni perché ha i voti. Anzi, hanno deciso pure quali calzini e quali mutande dobbiamo metterci. Ecco: questo è il modo migliore per evitare che nasca qualcosa capace di mettere in discussione le politiche del governo». Maurizio Landini scandirà pure le parole, come ogni sindacalista (e politico) che si rispetti. Ma stavolta la voce del segretario della Fiom si sente appena. È che bisogna appostarsi dietro la cancellata, tendere le orecchie, approfittare di una finestra lasciata aperta nella sala laggiù al seminterrato. Insomma, origliare.
Avevano detto che sarebbe stato a porte chiuse il primo appuntamento della coalizione sociale, la «vasta alleanza» di movimenti per costruire un’alternativa al governo Renzi. E, finestra a parte, sono di parola. Gli uomini con il felpone rosso e la scritta Fiom vigilano sull’ingresso della sede di corso Trieste. Quando comincia a piovere si muovono a pietà e fanno entrare i giornalisti nell’androne. Ma se qualcuno chiede di andare al bagno lo accompagnano fin sull’uscio e poi aspettano. Non si sa mai. Giù nella sala, Landini arriva alle conclusioni, dopo cinque ore di interventi divisi tra una ottantina di associazioni, da Arci a Libertà e Giustizia, passando per Emergency, dove le parole ricorrenti sono «mutuo soccorso» e «narrazione»: «Dobbiamo batterci — dice il segretario dei metalmeccanici Cgil — per creare un consenso nella testa delle persone e non farci trascinare sul terreno di una politica intesa come lobby, come proprietà privata».
Poi, quando ripete a favore di telecamera, sceglie un tono altrettanto netto ma un po’ più ecumenico. Parla di «discussione inclusiva», dice che «vogliamo unire tutto ciò che il governo sta dividendo». Aggiunge che «bisogna rinnovare il sindacato contro chi lo vuole cancellare» e torna a smentire l’idea di voler fondare un partito: «Non conosco questa parola. Chiedetelo a Speranza (capogruppo Pd alla Camera, ndr ), è lui che fa politica. Noi facciamo sindacato». Ma la risposta gli arriverà più tardi dal vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerrini: «Si conferma che l’opposizione di questi mesi era più politica che sindacale».
L’avversario di Landini non tanto è la sinistra Pd, e nemmeno quella indefinita galassia a sinistra del partito. Per ora i suoi sforzi si concentrano proprio sul governo e i renziani: «Vorrei ricordare — scandisce e stavolta si sente bene — che siamo di fronte a una novità assoluta: non era mai successo che il governo cancellasse dei diritti senza un confronto con i sindacati e le persone interessate». Il punto è proprio questo. Perché la coalizione sociale proseguirà i suoi lavori con il solito metodo dei tavoli per arrivare ad una proposta sui singoli temi, dalla scuola all’ambiente. Ma il cuore di tutto è il lavoro: «È il tema più trasversale, perché riguarda tutti e perché non si parla solo di regole, di decreti e di Jobs act , ma della vita delle persone. La qualità del lavoro è la condizione per gli altri diritti di cittadinanza». La raccolta di firme per il referendum abrogativo sul Jobs act non solo è una certezza. Ma potrebbe diventare la prima di una serie che toccherebbe altri temi. Fare politica ma fuori dal Parlamento. Non a caso tra le associazioni invitate ci sono anche i promotori del referendum (vinto e archiviato) sull’acqua pubblica. «È chiaro che se nelle Camere nessuno ci ascolta quella è una strada», chiarisce Landini.
Anche per questo le porte restano chiuse a chi ha incarichi politici. Anche per i parlamentari ex Movimento 5 stelle: nella sede di Fiom si presentano Laura Bencini, Maria Mussini e Maurizio Romani. Ma dopo meno di due ore lasciano la sala, invitati ad uscire proprio per rispettare il «divieto». Quelli di Sel, che tanto volevano esserci, evitano di farsi vedere. Si affaccia qualche ex, come Alfonso Gianni, un passato in Rifondazione. Ma è solo un attimo. Almeno in prima linea Landini non vuole la vecchia sinistra Arcobaleno. Anche se sociale, coalizione fa sempre rima con rottamazione.

La Stampa 15.3.15
Landini in movimento
“Il Pd cancella diritti, io provo a difenderli”
Speranza lo aveva attaccato: le urla non servono
di Roberto Giovannini


Un partito non è, una lista elettorale neanche. L’assemblea (a porte chiuse) di ieri non è l’avvio di Podemos o Syriza all’italiana. Ma solo «una chiacchierata» che apre la strada alla nascita della «coalizione sociale» fatta di movimenti e associazioni che fuori dai partiti - ma nella società - affianchi e sostenga le ragioni dei lavoratori, che il Pd ha ormai abbandonato. Ancora non si sa in che modo evolverà la «cosa» concepita dal leader della Fiom Maurizio Landini. Ma è evidente a tutti l’impatto politico di un’operazione che potenzialmente potrebbe riconfigurare la sinistra, riaggregando il vasto campo che non si riconosce nelle scelte politiche e nelle riforme di Matteo Renzi e del suo governo. Un’iniziativa che avrà presto la «controprova» della piazza, con la manifestazione contro il «Jobs Act» di sabato 28 marzo a Roma. Che crea problemi a tutto il Pd, e grandissimi imbarazzi alla Cgil di Susanna Camusso.
Nella sede nazionale della Fiom ieri c’erano rappresentanti di tante realtà: da Emergency ad Arci, da Libera ad Articolo 21, ma anche categorie professionali. L’unica «politica», la senatrice ex-M5S Maria Mussini. Landini ha spiegato che il cantiere della «coalizione sociale» ha l’obiettivo di «mettere nelle condizioni di poter difendere i diritti» di tutti, «diritti di cittadinanza a partire da quello del lavoro, non solo quello salariato, ma in tutte le forme». Per cui - se il capogruppo Pd Speranza lo attacca, «le urla di Landini non servono» - lui risponde che «non era mai successo dal dopoguerra che un governo facesse leggi che cancellano i diritti senza consultare i diretti interessati né i sindacati, che semmai c’è l’intenzione di cancellare». Ma anche diritti sociali e civili, antimafia, ambiente, «la politica non è proprietà privata». Di partito non se ne parla, giura Landini, e in ogni caso le critiche del Pd (sinistra bersaniana compresa) valgono poco: «Vorrei ricordare - dice - che una parte del Pd ha votato per la cancellazione dello Statuto dei Lavoratori. Quindi si può fare peggio di chi urla». E la Fiom? «Facciamo il nostro mestiere di movimento sindacale e sociale. Agiremo sui luoghi di lavoro per riconquistare i contratti. Ma cambiare le leggi vuol dire fare proposte per costruire un consenso. E se necessario fare proposte di referendum abrogativi perché quando una legge non va bene si cambia».
Matteo Renzi sembra convinto che molto presto la «coalizione sociale» diventerà una cosa più concreta. «Si dimostra che l’opposizione della Fiom di questi mesi, era politica non sindacale», è la tesi del premier e dei renziani, che a questo punto vogliono cambiare le regole sindacali varando una legge sulla rappresentanza sindacale e attuando l’articolo 39 della Costituzione. Il problema più serio per adesso però ce l’ha la Cgil e il suo leader Susanna Camusso. Nessun commento ieri dal segretario generale, in visita con degli studenti ai campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Ma in Cgil ormai c’è palese preoccupazione, perché Landini sta chiaramente superando le «linee rosse». «La Cgil non può fare un partito politico, una corrente di un partito, né essere mallevadore di un movimento politico», disse a suo tempo il segretario. E Landini - sia pure giurando di non farlo - certamente è andato oltre. Mettendo a rischio l’autonomia della Cgil, e indebolendo la Confederazione nei confronti degli altri sindacati, delle controparti. E anche verso un governo che già non nasconde la sua ostilità.

il Fatto 15.3.15
È Landini l’antiRenzi. C’è e spara sul Pd
La “Coalizione sociale” varata dal segretario Fiom prende forma già in piazza il 28
Ad aprile è prevista anche una “Leopolda rossa”
di Salvatore Cannavò


Il leader Fiom a testa bassa contro il Pd: “Distrugge i diritti, la politica non è una cosa privata”. E lancia la sua “Leopolda rossa”. Guerini: “La sua è opposizione politica”. Il piano di Matteo per uccidere prima la destra e poi la minoranza interna
Cosa sarà davvero la “coalizione sociale” di Maurizio Landini si capirà un po’ alla volta. Quello che è chiaro da ieri, giorno in cui il segretario della Fiom ha riunito alcune decine di associazioni, strutture sociali, singole persone in una sede Fiom assediata dai giornalisti, è che la Coalizione è stata avviata e che ha un avversario molto preciso: il governo Renzi e le politiche europee di cui è portatore.
“NOI NON ACCETTEREMO il terreno che ci è imposto da altri”, ha precisato il leader sindacale nelle conclusioni. “Vogliono decidere come siamo vestiti, quali mutande portiamo, che calzini indossiamo. È il modo migliore per evitare che nasca la coalizione sociale”. Il riferimento è al Corriere della Sera che ha parlato di un “progetto Podemos”, un modo per alludere “a un perimetro ristretto e poi depotenziarlo”. Lo stesso atteggiamento assunto da Matteo Renzi quando ha parlato di un Landini “sconfitto che si butta in politica”.
La strada del “partito”, però, è esclusa: “Chi ha in mente questa soluzione può anche andarsene”, dice all’inizio della sua introduzione. E, non si sa se, folgorati dalla frase, i primi a lasciare la sala saranno proprio i due senatori ex M5S, Maria Mussini e Maurizio Romani, ospiti inaspettati e che abbandoneranno i lavori dopo circa mezz’ora. Di partiti non si vede traccia. Non c’è Sel né il Prc. Sarà presente Alfonso Gianni, già stretto collaboratore di Fausto Bertinotti e poi sottosegretario nel governo Prodi, oggi attivo nell’Altra Europa con Tsipras. Ma è una presenza individuale. Il grosso dei partecipanti compone una rete di associazioni più o meno grandi, più o meno radicali. C’è Libera con Gabriella Stramaccioni anche se la struttura, come spiegato ieri al Fatto da don Luigi Ciotti non farà parte in quanto tale della Coalizione. Ma non è un caso che la sua campagna “100 giorni per un reddito di dignità” sia tra le prime misure proposte ieri. Avrebbe dovuto intervenire da Milano via streaming Cecilia Strada, ma un guasto ha impedito il collegamento. L’Arci è rappresentata da Filippo Mira-glia che mette a disposizione i suoi circoli per pratiche mutualistiche; c’è Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia, Legambiente, il Forum per l’acqua pubblica, ma anche i centri sociali che hanno dato vita allo Strike Meeting, quelli del nord-est, gli studenti della Rete della conoscenza e dell’Udu, la Flc-Cgil, i Comitati “Per una buona scuola”, l’associazione di avvocati free lance e i parafarmacisti, la fabbrica recuperata Rimaflow che sta organizzando una Casa del Mututo soccorso.
Nessuna “costituente di un nuovo partito” e nemmeno una iniziativa in cui “cinque decidono il progetto” spiega Landini. La Coalizione potrebbe divenire una “associazione di associazioni” ma anche uno spazio in cui dare spazio a singoli e personalità. Del resto, tra le figure finora coinvolte da Landini ci sono nomi come Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, don Luigi Ciotti, Gino Strada, Sergio Cofferati. L’importante è che ci sia “un programma condiviso tra soggetti diversi” e “un’azione collettiva” contro le politiche di austerità in Europa e in Italia, da radicare sui territori. Offrire di nuovo “il diritto alla coalizione” a chi lavora ma anche a chi, ad esempio , difende l’ambiente.
Il problema del rapporto con la politica è però presente. In diversi invitano a non contrapporsi alla sinistra esistente, in particolare le strutture più legate a Sel. Landini chiude dicendo che non c’è contrapposizione con i partiti ma la politica che propone è quella basata su un mix di “programma e iniziative: avremo successo se avremo consenso”.
Il progetto non sarà semplice anche perché, al momento, poggia sulle spalle della sola Fiom dove, però, sono convinti che “ne valga la pena”. Qualche segnale positivo è giunto dalla Cgil, ieri assente, ma con alcune strutture che hanno aderito alla manifestazione del 28 marzo lanciata dalla Fiom: sono la Cgil dell’Emilia Romagna, la Flc, il sindacato di scuola e università, e la Fisac-Cgil del Lazio. E il rapporto con la Cgil resta decisivo. “Anche il sindacato ha bisogno di rinnovarsi” ripete il segretario Fiom e non è un mistero che questa sua iniziativa sia rivolta a offrire una via d’uscita dalla sconfitta subita sul Jobs Act e alle difficoltà che il sindacato sta vivendo.
Quello del 28 marzo sarà un appuntamento rilevante. Landini precisa che la Coalizione non deve cercare la prova della piazza a tutti i costi, non ora, e l’appuntamento, “Unions”, è stato già indetto dalla Fiom. Lo scontro con Renzi, sarà evidente, come dimostra il nuovo attacco mosso ieri al premier e al Pd: “Nel silenzio si distruggono i diritti”.
PRIMA DEL 28, la coalizione si farà europea partecipando al Blockupy di Francoforte contro la Bce. Il 21 marzo ci sarà invece la giornata per ricordare le vittime di tutte le mafie, promossa da Libera a Bologna. Ma il primo vero appuntamento nazionale, una sorta di “Leopolda sociale” si svolgerà a metà aprile presso un albergo confiscato alle mafie nei pressi di Roma. Sarà una grande assemblea con tavoli tematici e l’occasione, quindi, per mettere a punto programma e iniziative future. Poi, propone Landini alla costituenda Coalizione, ci sarà il 25 aprile a Milano e il 2 giugno a Bologna, in difesa della Costituzione . Infine, il radicamento territoriale. La proposta è di organizzare Coalizioni sociali a livello di base: si cita l’esempio del Fondo di solidarietà creato a Pomigliano ma anche Milano dove la festa della Fiom presso la fabbrica recuperata Rimaflow potrebbe divenire una festa della Coalizione sociale.

Corriere 15.3.15
Landini e Camusso, la corsa a ostacoli per conquistare i cuori dei nuovi lavoratori


Nel suo progetto di allargamento della rappresentanza sociale la Fiom di Maurizio Landini pensa di poter recuperare il rapporto con i nuovi lavori e i giovani. Il rinnovamento del sindacato a cui il leader accenna da giorni è questo: da qui la parola d’ordine di un nuovo Statuto del lavoro che probabilmente comprende anche il reddito di cittadinanza caro ai grillini.
   Anche in casa Cgil la riflessione si muove lungo lo stesso filone. C’è stato finora qualche timido accenno a una contrattazione di filiera, che riconduca al soggetto sindacale «forte» la rappresentanza dei lavori di fornitura a metà tra l’autonomo e il dipendente, compresi quelli a più spiccata valenza professionale. A metà aprile dovrebbe essere presentata un’importante indagine della Cgil sulle partite Iva e a quel punto sarà più chiaro l’orientamento di Susanna Camusso.    Che dire? Da un lato è positivo che anche sindacati molto tradizionalisti abbiano maturato la convinzione dei profondi mutamenti che attraversano e ridisegnano il vecchio processo produttivo. Fino a ieri erano soliti tacciare questi argomenti come un’elaborazione di destra e anti-sindacale.    Dall’altro lato sarà interessante capire se una rivisitazione della rappresentanza in stile Novecento è in grado di interessare le nuove leve del lavoro e i professionisti della conoscenza. L’impressione è che il passaggio di secolo corrisponda anche al farsi largo di un’altra visione in cui l’affermazione di un progetto professionale ha la meglio sull’idea di produrre massa critica per via sindacale.    Insomma, la mobilitazione individuale, magari arricchita dalla capacità di fare networking, pare essere il linguaggio prevalente e la mobilitazione collettiva quando vive è fatta più di flash mob e tweetbombing che di tessere sindacali. E i luoghi deputati a narrare il lavoro ibrido sembrano essere più i coworking e i fablab che le sedi Fiom. Ma siamo solo al primo atto: e non è giusto affrettare le conclusioni.

il Fatto 15.3.15
Il segretario di Prc Paolo Ferrero
“Unire anche la sinistra politica”
di Sal Can.


Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, plaude a Landini ma dice anche che “la sinistra politica deve comunque unirsi”. Ferrero è di ritorno da Atene dove, su invito di Syriza, ha partecipato alla presidenza della Sinistra europea, la coalizione che riunisce forze come la Linke tedesca, il Pcf francese e altri ancora.
Che situazione ha trovato in Grecia?
All’interno di Syriza c’è la consapevolezza della durezza della trattativa e della necessità di un movimento in tutta Europa per non rimanere soli. I pochi margini di manovra strappati finora, molto esili ma esistenti, serviranno a una serie di leggi sociali come quella di contrasto alla povertà estrema che sta per essere varata.
Tsipras ha avuto, però, diverse contestazioni interne al suo stesso partito.
Sì, ma nei colloqui che ho avuto con la sinistra di Syriza, si respira un’aria di grande lealtà: c’è la critica per le concessioni fatte alla Ue, ma si sta parlando comunque del proprio governo.
Cosa propone la Sinistra europea per non lasciare sola la Grecia?
Lanciare un’alleanza contro l’austerità, Alliance against austerity che costituisca un’AAA alternativa alle agenzie di rating. Si tratta di una coalizione non solo in termini di sinistra europea, ma anche sociale e associativa
Appuntamenti immediati?
Proponiamo che il 1° maggio di quest’anno sia una giornata contro l’austerità europea e già il 18 marzo parteciperemo alla manifestazione europea di Francoforte.
Cosa pensa della Coalizione sociale di Landini?
La proposta di Landini è positiva. Capisco anche che si voglia fare questo percorso senza i partiti. Però c’è un dibattito tra chi ritiene che ci sia bisogno anche di una soggettività politica.
Quali forze sono coinvolte?
Il Prc, l’Altra Europa, Sel. Stiamo facendo passi avanti sulla proposta di una nuova soggettività politica.
In che termini?
Non dobbiamo unire quello che c’è, ma la nostra unità è la precondizione per un processo costituente aperto anche a coloro che nei partiti non ci sono. Il tema della sinistra politica in questo paese è ancora aperto.
La nuova soggettività si lascerà alle spalle anche quelle vecchie?
No. Dobbiamo costruire una soggettività democratica e partecipata in cui ognuno partecipa a partire dalla propria. L’immagine che mi piace è quella del “campeggio”: si rispettano le differenze ma si perseguono le dieci cose fondamentali. E oggi la cosa fondamentale è la sconfitta dell’austerità e del neoliberismo.   
   
La Stampa 15.3.15
La terza via di Bersani
“Maurizio non fa politica”
di Franco Giubilei


Scissione sì o scissione no? L’ex segretario Bersani risponde: «Noi siamo sempre con l’idea di stare con tutti i piedi nel Pd, e a chi ci dice “se non siete d’accordo andate fuori”, io rispondo: “no, vai fuori tu, che questa è casa mia”». Scene dall’assemblea convocata da Area riformista, corrente bersaniana di cui il diretto interessato nega che sarà mai il capocorrente, semmai «qualcuno che dirà sempre la sua», col capogruppo alla Camera Roberto Speranza e il ministro Maurizio Martina. Occasione per ricordare che «nell’ipotesi che sia la legge costituzionale sia quel progetto di legge elettorale rimangano così, io non sono in condizione di votare la legge elettorale così come è fatta. Ma sono convinto che ci sarà disponibilità a ragionare». Nessuna rottura traumatica neanche in caso di voto contrario, considerato che gli statuti del partito prevedono «la famosa eccezione alla lealtà sui temi di rango costituzionale», al massimo, aggiunge Bersani, «un’incrinatura seria e profonda». Ma non succederà perché il ragionamento prevarrà, dice l’ex segretario con toni moderati proprio nel giorno in cui Landini lancia la sua coalizione sociale. E se Speranza rivolge una frecciata al leader della Fiom, accostandolo nelle pulsioni antagoniste addirittura a Salvini – «non credo che il futuro della sinistra abbia senso in un campo antagonista che si basa sulle urla televisive di Landini (in un lapsus però si lascia scappare Salvini, ndr)» -, Bersani la mette giù in termini più morbidi: «Non credo che Landini voglia mettersi in politica, per quel che lo conosco. Mi sembra di leggerlo come un movimento che magari mette in discussione un’idea di sindacato, più che un soggetto politico o prepolitico, ma non tocca a me dirlo». Tornando sul tema delle riforme, il capogruppo Speranza definisce inaccettabili le blindature alla legge elettorale: «Si riapra la discussione e si riduca il numero dei parlamentari nominati», e poi che si convochino congiuntamente i gruppi parlamentari, perché ogni modifica decisa alla Camera «abbia garanzia di tenuta anche in Senato». C’è spazio anche per le coppie omosessuali: «Sono convinto che sia il tempo dei matrimoni gay anche in Italia».

Corriere 15.3.15
«Il capo dei metalmeccanici? È chiaro che fa politica»
Serracchiani alla minoranza: non si possono fare interventi costituzionali a propria immagine
di Alessandro Trocino


ROMA «A mio parere, a oggi, spazi per modifiche alla legge elettorale non ce ne sono. Ci deve essere però un dialogo vero con la minoranza, che inizieremo da subito, per entrare nel merito e trovare una sintesi». Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd e presidente del Friuli-Venezia Giulia, nel 2012 ha votato per Pier Luigi Bersani, per poi avvicinarsi al premier Matteo Renzi. Forse per questo, l’ex segretario la cita come possibile mediatrice.
Bersani sostiene che lei potrebbe essere nelle condizioni di lavorare a una sintesi. Anche se poi aggiunge «non so se ha l’attitudine e il carattere».
«Onestamente non credo che siano necessari mediatori. Penso che sia necessario parlarsi. Farlo in modo schietto e chiaro. La forza del Pd è sempre stata quella che nei momenti importanti facciamo le cose insieme. E credo che ci siano tutte le condizioni».
Per Bersani l’Italicum senza correzioni non è votabile.
«Io ritengo che il testo sia già votabile, perché tiene conto di moltissime richieste fatte da varie forze, dalla parità di genere al premio di maggioranza, al giudizio preventivo della Consulta. Detto questo, sono per fare una discussione vera e rapida. Siamo obbligati tutti ad ascoltarci. E poi siamo obbligati a decidere e a rispettare la decisione».
Insomma, la legge elettorale è intoccabile o no?
«È molto difficile pensare di toccarla, anche per la difficoltà di un ritorno al Senato».
Bindi e Cuperlo chiedono di intervenire anche sulla riforma costituzionale.
«Il testo originario del governo è stato modificato, nessuno può pensare di avere una riforma del genere a sua immagine e somiglianza. Non si può portare via il pallone, quando si gioca a calcio».
Bersani rivendica il metodo Mattarella: il Pd ce la fa anche senza Berlusconi. Che ora, dopo l’assoluzione si sente più forte.
«Non siamo particolarmente affezionati a Berlusconi. Trovo normale che quando si fanno le riforme ci si rivolga a tutti. Lui ha risposto, altri no. Quanto all’assoluzione, non abbiamo sentito la sua mancanza quando era a Cesano, perché in realtà era costantemente presente. Credo che Forza Italia dovrebbe votare le riforme che ha appoggiato».
Speranza e Bersani dicono no alla scissione.
«Non posso che essere d’accordo. Nessuno deve essere cacciato e nessuno deve sentirsi escluso. Ma in un partito serve rispetto, ascolto, dialogo e lealtà. Ci si può dividere ma non sul cognome, sui temi. Io per esempio sui diritti civili ho posizioni diverse da Renzi».
Speranza ha detto che è a favore del matrimonio gay.
«Anche io. Quando arriverà il momento cercheremo una sintesi. Io chiedo che l’Italia entri nel novero dei Paesi europei che hanno una disciplina sulle unioni di fatto».
E sull’eutanasia?
«Non ho un’idea chiara, ma in Friuli abbiamo inserito la dichiarazione anticipata di trattamento nella tessera sanitaria. Un atto simbolico ma importante. Bisogna affrontare il tema del fine vita».
Landini ha lanciato la sua coalizione sociale.
«Mi sorprende la sua necessità di dire che non sta facendo politica. È chiaro che la sta facendo. Va chiarita la sua posizione con il sindacato, come gli ha chiesto la Cgil. Non capisco l’imbarazzo. Forse è in difficoltà. Mi domando poi se soggetti come Libera si troveranno a loro agio dentro la politica».
State pensando di occuparvi della legge sulla rappresentanza sindacale?
«Assolutamente sì, penso che il governo possa procedere su questa strada».
E Tosi? È diventata tosiana anche lei?
«No, ma la mia impressione è che Salvini lavori per l’immediato, mentre Tosi sta pensando di costruire un progetto più moderato. E poi c’è la questione regionale. Il Veneto per la Lega è sempre stato portatore d’acqua, d’ampolle e di voti. Ma alla fine chi conta è sempre a Bergamo o Varese».

Corriere 15.3.15
Uniti contro la crisi
Quel precedente che naufragò in piazza San Giovanni


La prima coalizione sociale della Fiom finì all’angolo tra via Cavour e i Fori Imperiali. Il corteo si spezzò in due. La maggioranza, quelli che protestavano contro il governo Berlusconi, tentò di andare avanti per la sua strada. Quelli che invece volevano il conflitto lo trovarono cercando di sfondare verso i cosiddetti palazzi del potere. L’immagine che resta del 15 ottobre 2011 è la camionetta dei carabinieri incendiata in piazza San Giovanni.
Uniti contro la crisi, si chiamava così, nacque il 20 settembre 2010 e morì quel giorno. L’appello iniziale, firmato da 25 «attivisti di movimento, del mondo associativo e della Fiom» venne raccolto ben presto da altri soggetti come Legambiente e Arci, ma la novità era l’ombrello fornito per la prima volta dal sindacato dei metalmeccanici Cgil, primo tra i pari.
Gli scontri di piazza San Giovanni furono il risultato della lotta interna tra due idee di antagonismo sociale. A rovinare la manifestazione furono coloro che contestavano l’intenzione della neonata coalizione di «entrare nel sistema» presentando candidati nelle liste di Nichi Vendola, a quel tempo di moda. Tutto è cambiato, ma la cruna dell’ago resta la politica. Secondo Luca Casarini, tra i fondatori di Uniti contro la crisi, da lì toccherà passare. «Bene rianimare i movimenti, ma il nodo è la creazione di una alternativa all’attuale governo. Anni fa pensavo si dovesse cambiare il mondo senza prendere il potere. Oggi credo sia necessario prendere più potere possibile per cambiare il liberismo subdolo di Renzi. Uniti contro la crisi fallì perché non riuscì a darsi una proposta politica unitaria».
Con calma, dice l’economista Guido Viale, oggi in area Tsipras, ieri tra i 25 firmatari di cui sopra. «La gravità della situazione italiana può rendere più facile la coesione su alcune iniziative di proposta. C’è spazio perché avvenga l’opposto di quanto accaduto con Uniti contro la crisi». A casa Landini sostengono che la nuova coalizione sociale abbia natura ben diversa da quella defunta nella culla. Laddove c’era una piattaforma da caleidoscopio, qui c’è solo la tutela del lavoro e il rilancio dell’iniziativa del sindacato. Ma anche Uniti contro la crisi nacque come reazione all’esito del referendum alla Fiat di Pomigliano d’Arco. In Italia si scrive movimenti e si legge mele e pere: soggetti magari simili ma spesso in disaccordo su quasi tutto. Il fallimento della precedente esperienza targata Fiom fornisce la misura del rischio di questa scommessa.

il Fatto 15.3.15
Un gioco a perdere
Le tribù democratiche tra Matteo e Maurizio
I bersaniani non vogliono andarsene e chiedono ritocchi all’Italicum
Il premier aspetta le elezioni per decidere se gli servono o farli fuori
di Ma. Pa.


A sinistra nel Pd”. Sotto questa premessa le molte minoranze del Partito democratico si riuniscono sabato prossimo a Roma. L’appuntamento ha un significato - per il momento in cui cade - più psicanalitico che politico. Molte persone, con idee e prospettive assai diverse tra loro, forzate a stare insieme dall’azione di due potenti forze centripete (e dall’irrilevanza): da un lato gli schiaffoni - non tutti metaforici - che gli rifila Matteo Renzi, dall’altro l’attivismo finora un po’ fumoso di Maurizio Landini, che sembra proporre alla sinistra residua una piattaforma programmatica sul modello Syriza proprio mentre il governo di Alexis Tsipras scopre la dura realtà dei rapporti di forza in Europa.
INSOMMA, “a sinistra nel Pd” va bene, ma fino a quando? La risposta l’ha già data Matteo Renzi: fino a dopo le regionali, quando si procederà ai voti parlamentari su Italicum (Camera) e riforme costituzionali (Senato). A quel punto il premier saprà - vedi l’articolo sotto - se avrà a disposizione i voti dei “verdiniani”: se andasse così, l’addio sarebbe un fatto scontato, nel senso che o escono dal Pd le minoranze oppure il Pd uscirà da loro attraverso un accurato lavoro di ripulitura etnica durante la composizione delle liste elettorali per le probabili Politiche del 2016.
Da ora fino a giugno, in altre parole, la sinistra “nel Pd” ha a disposizione praticamente solo la convegnistica, declinata - ahiloro - in dolorosa autocoscienza. Ieri, ad esempio, a Bologna c’è stata la riunione di “Area riformista”, che poi è all’ingrosso l’associazione dei bersaniani, i quali a loro volta sono un arcipelago di posizioni politiche inconciliabili: ci sono i bersaniani ortodossi (Stumpo, Migliavacca, Gotor), gli eterodossi (Epifani, Damiano, Giorgis), gli anti-euro sottovoce (Fassina, D’Attorre), i renziani (Martina, Speranza), gli ex lettiani (Boccia) e Bersani stesso, che sta un po’ con tutti. Anche se esprime programmi e persegue tattiche a volte contrapposte, però, “Area riformista” vorrebbe rimanere, tutta assieme, dentro al Pd in attesa che qualche colpo di fortuna gli faccia riguadagnare il controllo del partito: “Nella denegata ipotesi che sia la legge costituzionale, sia l’Italicum rimangano così - ha ridetto ieri Bersani - io non sono in condizione di votare la legge elettorale così com’è fatta. Ma sono convinto che ci sarà disponibilità a ragionare”. Scissione? Non sia mai, “il Pd è casa mia”. Meno convinte della volontà di “ragionare” del segretario/premier sono altre anime al Pd: Massimo D’Alema, ad esempio, è da un po’ che lo pensa e tenta di convincere Gianni Cuperlo che, in prospettiva, non c’è vita per la sinistra nel partito di Matteo Renzi. Finora, però, gli unici ad aver considerato seriamente la scissione sono i seguaci di Pippo Civati, che al momento stanno a guardare quel che combina Maurizio Landini. Tradotto: sarà Renzi a decidere se i voti delle minoranze gli servono o no, tutto il resto verrà da sé.
Eppure la convention di sabato ha un suo interesse, che è riassunto nel titolo : “L’Italia può farcela”. Non per il concetto in sé, ma perché volutamente riprende il titolo dell’ultimo libro di Alberto Bagnai (L’Italia può farcela, appunto), il principale economista anti-euro: Stefano Fassina, d’altronde, sul tema dell’uscita dalla moneta unica ha fatto di recente la sua prima affermazione chiara, e anche D’Attorre e Cuperlo sembrano sulle stesse posizioni.
DAL PALCO, peraltro, parlerà anche Vladimiro Giacché, economista marxista, pure lui tra i fautori di una dissoluzione dell’Eurozona. Il problema è che Maurizio Landini – con cui pure il gruppo dei “bersaniani anti-euro” ha avuto almeno un pour parler – dall’orecchio moneta unica non ci sente e ripropone semmai lo schema di Tsipras e dei suoi sostenitori italiani: il problema è l’austerità, non l’euro. Se il capo della Fiom conquisterà spazio, però, al prossimo convegno della sinistra Pd ci sarà anche la corrente “landiniana”. Tanto alle cose serie ci pensa Renzi.

La Stampa 15.3.15
Ma una Fiom interventista non scalda i cuori a sinistra
di Federico Geremicca


Difficile dire se Maurizio Landini attendesse risposte diverse da quelle che sono arrivate alla sua proposta di mettere in campo una «coalizione sociale» che avversi le politiche del governo Renzi e sia in prima linea nella difesa dei diritti di tutti i lavoratori. Certo non attendeva applausi dalle tribune occupate dalla destra; e probabilmente aveva messo nel conto - conoscendone le ragioni ufficiali e ufficiose - il gelo e il distacco riservatigli dal mondo dal quale proviene: e cioè quello del sindacato.
Meno scontati, forse - e per questo più dolorosi - i distinguo e le critiche esplicite arrivati al suo progetto dalla minoranza interna al Pd, che dal Jobs Act alle riforme costituzionali (fino all’allarme sul rischio di svolte autoritarie) ha un pacchetto di lagnanze e di proposte assai vicino a quello del leader Fiom. Invece, lui lancia la sua «coalizione sociale» ed apriti cielo. Non è una soluzione - ha contestato Speranza, capogruppo Pd e tra i leader della minoranza - «una sinistra antagonista che nasce dalle urla tv di Landini». E peggio ancora - perché sparge sale sulla ferita - Pier Luigi Bersani: «E’ un’iniziativa che mette in discussione, anche in margine, un’idea di sindacato».
Se il buongiorno si vede dal mattino, dunque, la mossa di Landini sembra destinata ad aumentare la tradizionale conflittualità a sinistra e consegna al segretario della Fiom due problemi di non semplice soluzione. Il primo riguarda - come si dice in gergo - i rapporti con l’area politica di riferimento. I generici sostegni di Sel e Rifondazione, infatti, non bastano a pareggiare i «no» arrivati dalla minoranza Pd. In più, una certa resistenza (storica, a sinistra) a cedere quote di sovranità - leadership, per essere più chiari - costituisce una ulteriore e paralizzante complicazione.
Ma è certamente il secondo problema - non foss’altro che perché più immediato - il vero scoglio che Landini dovrà aggirare, pena il rischio di naufragio: e cioè il rapporto con la Cgil (Camusso) e le altre organizzazioni sindacali. In Corso d’Italia, infatti, sono convinti che quella della «coalizione sociale» sia solo la foglia di fico dietro la quale si prepara la nascita di un nuovo partito di sinistra: e questo - fanno sapere - non è possibile, lo Statuto lo vieta e l’iniziativa potrebbe mettere Landini di fronte a un bivio, col rischio di finire ai margini - se non fuori - della confederazione sindacale.
Per quanto l’obiezione possa apparire speciosa o strumentale, non vi è dubbio che abbia un solido fondamento statutario e di prassi. Per altro, particolari passaggi politico-sindacali potrebbero davvero rendere di difficile gestione l’originale «doppio incarico» nel quale Landini pare volersi calare. Il primo di questi passaggi - giusto per dire - cade tra due settimane: cosa sarà e come andrà interpretata la manifestazione già convocata a Roma per il 28 marzo? Sarà un’iniziativa puramente sindacale o la prima uscita politica del nuovo movimento?
Forse Maurizio Landini non s’attendeva nulla di diverso da quanto sta accadendo: ed è pronto a dare battaglia. Magari starà perfino ripensando alle suggestioni di un po’ di mesi fa, quando lui e Renzi - lontanissimi su tante questioni - venivano accomunati per la forte battaglia di rinnovamento avviata: «i rottamatori», venivano definiti. Il leader Fiom ha seguito tutta l’ascesa del segretario-premier, scrutandone mosse, tattica e stili: e ha visto che il successo di Renzi è stato possibile solo dopo e grazie ad una durissima ed esplicita battaglia generazionale e di programmi. In politica, infatti, nessuno regala niente a nessuno. Landini potrebbe averlo imparato: e se così fosse, dentro e fuori il sindacato se ne potrebbero rapidamente vedere delle belle.

La Stampa 15.3.15
“È l’età dell’incertezza. Siamo come gli ebrei davanti al mar Rosso”
A Torino dal 25 al 29 marzo la quarta edizione di Biennale Democrazia che ha per tema i “Passaggi”
Parla il presidente, Gustavo Zagrebelsky
di Jacopo Iacoboni


«Ciò che non siamo ciò che non vogliamo», scriveva Montale. Ma qui non siamo in una sfera poetica, siamo nella più prosaica delle realtà. «Sappiamo ciò che non siamo più, non sappiamo ciò che saremo, cosa stiamo diventando», dice Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia, per spiegare il titolo della nuova edizione che si chiamerà «Passaggi».
Professore, «Passaggi» fa venire in mente ipassagesdi Walter Benjamin, ilflâneurche attraversa Parigi - prototipo della città democratica, dunque in senso lato degli Stati - scoprendone aspetti nascosti, anfratti, possibilità. Era questo il riferimento a cui pensavate per la Biennale?
«Ci eravamo posti il problema di questa assonanza, ma poi ci siamo chiesti: a quanti verrà in mente? In realtà il termine “passaggi” allude a un tempo di incertezza, il passaggio tipico è quello del mar Rosso da parte degli ebrei. Noi, come gli ebrei allora, non sappiamo a cosa andiamo incontro; abbiamo la sensazione di non esser più quello che eravamo prima, ma non sappiamo cosa troveremo. In questa traversata, come gli ebrei nel mar Rosso, rimpiangeremo le cipolle del Faraone. Ma dovremo andare avanti».
Avanti senza sapere dove, o il dove s’intravede, per esempio nel politico? Nietzsche scriveva «la navicella ha rotto gli ormeggi, non ti prenda nostalgia della terra».
«Ormai siamo post, ma non sappiamo cosa siamo. Il post più tipico è il post-democrazia. L’Italia è in un regime post-democratico, in cui non solo non sappiamo il futuro, ma non sappiamo neanche bene il presente. Per questo sarà la Biennale delle inquietudini, dell’incertezza, e magari della seminagione di qualche prospettiva».
Queste inquietudini riguardano la politica, innanzitutto?
«Uno degli orizzonti è sicuramente la politica. Che fine sta facendo la politica in un’epoca in cui gli Stati nazionali, nei quali la politica si è condensata, hanno perso gran parte della sovranità? Le grandi scelte “politiche” di un tempo sono diventate ormai scelte meramente esecutive. E per “esecutive” intendo scelte dell’esecutivo. Io faccio una distinzione tra esecutivo, che esegue, e governo, che invece dovrebbe dare direttive politiche, governare, appunto. Cultura esecutiva significa che tutti i governi sono sotto la legge della necessità, l’equilibrio finanziario, costretti a eseguire direttive distanti dalla politica».
Gli altri passaggi quali sono?
«Le trasformazioni geopolitiche. L’Europa ha perso la sua funzione centrale, oggi è un tassello, impotente. Per questo avremo un’attenzione particolare non solo per le istituzioni europee, ma per la cultura, l’influenza, la posizione. Ne parlerà Claudio Magris in una lezione magistrale. Poi quei passaggi che sono le migrazioni, incontro, scontro. E i mutamenti economici, il passaggio dall’economia reale a quella finanziaria. Infine, a me stanno molto a cuore i passaggi generazionali».
Qui parliamo anche dell’Italia di Renzi, il «rottamatore» vero o presunto. Che si muove nel quadro del tramonto degli Stati, della fine del potere, la crisi della democrazie ovunque. Lei è assai critico con Renzi.
«Penso che con la fine delle ideologie si è cancellato ogni discorso delle idee, esiste solo un discorso tecnico, la politica è diventata pura riparazione di guasti sociali, e lo Stato - da entità giuridica - si è trasformato in un concetto quasi da diritto commerciale, qualcosa che può “fallire”, il che è un totale controsenso».
Alcuni Paesi hanno più anticorpi nella società, nei corpi intermedi. L’Italia no, non crede?
«In Francia, per dire, dopo Charlie Hebdo si è aperto un grande dibattito - di cui parlerà Carlo Ossola -, è venuta fuori la tradition républicaine. In Italia tutto questo non c’è stato. E se cittadinanza e forze intermedie vengono a mancare, la politica diventa pura decisione dall’alto, chiusura oligarchica».
Lei parlerebbe di «democratura», per l’Italia e per Renzi?
«Guardi, nella teoria parliamo da anni di questo termine: indica semplicemente una democrazia malata. Io stesso l’ho usato più volte. Ma quello che vedo in atto è soprattutto una chiusura oligarchica. Ernest Renan diceva che la nazione è un plebiscito di ogni giorno, oggi potremmo dire che gli Stati sono un plebiscito dei mercati ogni giorno».
Oggi tutta la retorica è lo scontro giovani/vecchi, ma non è secondo lei solo una narrazione che occulta la realtà?
«Un tempo le età erano tre, giovinezza, maturità, vecchiaia. Ora è scomparsa la maturità, tutti ragionano in modo binario, giovani/vecchi. Oggi in Italia siamo a un passaggio in cui c’è una generazione nuova, Renzi l’ha chiamata “generazione Telemaco”. Ma in cos’è che siete nuovi, chiederei loro, cosa vi dà identità? Dicono: innovazione, velocità, concorrenzialità. Prenda il tema del lavoro: tramonta quella che Bobbio, Rodotà, io stesso chiamavamo l’età dei diritti. La generazione Telemaco vuole più velocità e più concorrenza, e per far questo deve tagliare i diritti. I più danneggiati saranno i diritti degli anziani, le pensioni, ma in generale i diritti di tutti coloro che non producono. Una volta gli improduttivi venivano eliminati fisicamente...».
A Sparta, a Tebe... E oggi?
«Anche nelle tribù nordamericane: gli anziani venivano fatti addormentare in un termitaio e divorati. Oggi ci stiamo trasformando in una società in cui i diritti li hanno solo i produttori. Entriamo nell’età dei senza diritti».

Corriere 1.3.15
Ma serve ancora votare?
di Angelo Panebianco


Il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, tra un attacco alla Germania e l’altro, ha anche dichiarato che, per arrivare a un accordo con l’Europa, il suo governo è pronto a rinviare alcune promesse elettorali. Poiché i greci non vogliono suicidarsi e il resto d’Europa (con l’apparente eccezione del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble) sembra pensare che Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro, sarebbe un disastro per tutti, è possibile che alla fine si riesca a trovare un compromesso. In tal caso, la speranza di aver chiuso definitivamente la partita greca sarebbe talmente forte che governi, autorità dell’Unione, mass media, cercherebbero di presentare il compromesso come un grande successo. Però, stiano attenti alla natura del compromesso che si realizzerà (se si realizzerà) perché il suddetto «successo» potrebbe anche essere l’anticamera di un più generale fallimento, quello dell’Unione.
Quale è il grande e irrisolto problema dell’Europa oggi? È il «disallineamento» in atto da tempo fra il patto europeo e le regole e i principi su cui si reggono tuttora le democrazie nazionali (europee): il primo (il patto) impone che gli impegni presi reciprocamente fra i governi dell’Unione debbano essere rispettati, i secondi (le regole e i principi) impongono che i governi rispondano prima di tutto ai loro elettorati e soltanto dopo, solo in seconda istanza, all’Unione.
La data emblematica in cui prende il via, platealmente, il processo di disallineamento è il 2005.
Fino ad allora, integrazione europea e democrazie nazionali avevano quasi sempre marciato insieme (con qualche eccezione, soprattutto all’epoca del gollismo negli anni Sessanta). Nel senso che gli accordi in sede europea erano sempre stati tacitamente accettati e sottoscritti dai vari elettorati.
Nel 2005, il referendum francese che affondò il trattato costituzionale europeo fu il primo segnale della grande svolta: ormai non era più pacifico o automatico che gli elettorati trangugiassero senza fiatare tutti i cocktail (o gli intrugli) preparati a Bruxelles. Poi la crisi economica ha fatto il resto: oggi il disallineamento è assai forte. Da un capo all’altro del Vecchio Continente ci sono ormai tanti leader politici che ottengono grandi ascolti e mietono successi elettorali contrapponendo la democrazia (nazionale), le prerogative degli elettori, i diritti dell’uomo comune, alla «dittatura» europea, al potere, più o meno anonimo, delle eurotecnocrazie, alla «arroganza» della Germania, eccetera, eccetera.
Conta poco il fatto che nella propaganda antieuropea ci siano, oltre a qualche verità, anche diverse bugie. Importa che, per effetto sia di una lunga crisi economica che degli errori commessi nel corso del tempo dalle autorità europee, quella propaganda faccia breccia in porzioni non irrilevanti degli elettorati.
Allora, attenti alla natura del compromesso che ci sarà (se ci sarà) fra i greci e l’Europa. Se potrà essere letto soprattutto come una vittoria dei greci, scatenerà i rancori dell’opinione pubblica tedesca e dei Paesi più vicini all’orientamento tedesco: sarà letto come il successo degli imbroglioni (quelli che truccano i conti), degli scialacquatori, dei parassiti che vivono alle spalle altrui. Niente di buono si preparerebbe allora per l’Unione. Se il compromesso sarà invece letto come una sconfitta del governo greco, allora il messaggio generale — che verrà usato e rilanciato da tutti i leader antieuropei — sarà che la democrazia, in Europa, non conta nulla, che è irrilevante ciò che gli elettori vogliono mandando al governo questo o quello. Anche in questo secondo caso un futuro piuttosto cupo si preparerebbe per l’Unione.
Un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una catastrofe per l’Europa, dicono quasi tutti. E se lo dicono quasi tutti, sarà vero. Però, alla Grecia — un Paese che non avrebbe mai dovuto essere ammesso nell’Europa monetaria — si chiedono «riforme» che dovrebbero trasformarla in una «buona economia di mercato» (come ha osservato Giacomo Vaciago, Il Sole 24Ore , 11 marzo), in quanto tale compatibile con la moneta unica. Il punto, naturalmente, è che nessun governo greco è in grado di riuscire nell’impresa, men che mai in tempi brevi. Figuriamoci poi se può farlo un governo formato da una coalizione fra un partito di estrema sinistra (Syriza) e una formazione di destra (Greci Indipendenti). Sarebbe come se in Italia qualcuno chiedesse a un eventuale governo presieduto da Nichi Vendola e appoggiato dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, di lavorare per il libero mercato. Vendola e Meloni (giustamente, dal loro punto di vista) penserebbero che a quel qualcuno manchi una rotella.
Grexit, dicono tante voci autorevoli, sarebbe un disastro. E chi siamo noi per dubitarne? Non tutte le alternative, però, sono migliori.

Il Sole 15.3.15
Il voto di martedì. Il Paese cerca la «normalità» alle elezioni politiche
Gli israeliani alle urne pensando all’economia
Netanyahu indietro nei sondaggi, Herzog in testa
di Ugo Tramballi


GERUSALEMME. Per i presidenti degli Stati Uniti che vi giocano la reputazione, per i parlamenti europei che si dividono, per gli arabi e le Nazioni Unite, le elezioni in Israele sono sempre un referendum a favore o contro la pace con i palestinesi. Per gli israeliani non lo sono quasi mai, almeno da un trentennio: sforzandosi di essere cittadini di un Paese normale, in condizioni normali e con normali frontiere, in genere pensano alla loro condizione economica.
Sarà così anche martedì quando, per l’ennesima volta nella sua storia contemporanea, Israele andrà al voto anticipato. Il sistema politico - un proporzionale ai limiti della purezza, che ha dimostrato di essere irriformabile nonostante sia un certificato d’instabilità - impedisce a chiunque di vincere davvero. Lo scontro è su chi sarà chiamato a formare un esecutivo di coalizione. I due concorrenti sono l'uscente Bibi Netanyahu, premier e leader del Likud, la destra; e il laburista Isaac Herzog che si presenta con l’ex Kadima Tzipi Livni, in una lista chiamata Sionismo Unito. Negli ultimi 38 anni il Labour, il partito che ha fondato Israele, ha governato solo per 11. Questa volta, forse, vincerà: l’ultima era stata con Ehud Barak nel 1999. Ma i quattro seggi in più sul Likud, che tutti i sondaggi prevedono, potrebbero non bastare per formare una coalizione di centro-sinistra. In un parlamento con 120 seggi e una pletora di partiti, Herzog e Livni possono arrivare a 26.
Uscendo lentamente dalla crisi finanziaria europea, si fatica a individuare gli scricchiolii di un’economia che, calcola l’Ocse, nel 2014 è cresciuta “solo” del 2,6%, quest’anno sarà del 3, e del 3,5 nel 2016. Secondo l’Ufficio centrale di statistica, nel terzo trimestre del 2014 che ha compreso i cinquanta giorni di guerra a Gaza, l’economia è cresciuta dello 0,2% rispetto alle stime precedenti il conflitto. Quella guerra non è stata combattuta solo nella striscia: Hamas ha lanciato razzi fino in Galilea.
L’impermeabilità ai conflitti maturata con l’abitudine, aiuta a capire perché gli israeliani guardano più all’economia che all’ipotetica pace con i palestinesi. Nel 2006, in piena Intifada, ci fu il successo della lista dei pensionati; nel 2013 la sorpresa fu Yair Lapid con il suo partito della classe media schiacciata dal costo della vita e dalla disuguaglianza sociale, a favore del vertice più ricco. Fra i Paesi Ocse solo Cile e Messico hanno un tasso di povertà più alto d’Israele. I sefarditi, la parte più povera, hanno sempre votato il loro partito religioso per avere sussidi e agevolazioni. Le stesse ragioni che hanno spinto gli immigrati russi a scegliere il partito di Natan Sharanski nel 1996 e quello di Avigdor Lieberman nel 2009. Se davvero martedì notte Bibi Netanyahu perdesse, la principale ragione della sua sconfitta sarebbe di aver dato poca importanza alle preoccupazioni economiche degli israeliani. E troppa all’ideologia dell’ “essenza ebraica dello Stato”, al nucleare iraniano, alla minaccia qaidista, insistendo ossessivamente sulle paure e mai sulle opportunità.
La sorpresa di quest’anno potrebbe essere ancora Lapid o il partito di Moshe Kahlon, transfuga del Likud, anche lui con un programma economico per la middle class. Il giornale Ha'aretz li definisce «la grande speranza bianca per l’economia». Ma ci sono anche gli arabi che non sono i bianchi ma gli indiani di questa storia, cioè i palestinesi. Sono loro la possibile vera sorpresa: gli arabi d’Israele, il 20% della popolazione, i palestinesi che nella guerra del 1947/48 non fuggirono né furono cacciati dalle loro case. Per la prima volta, i quattro piccoli, insignificanti e rissosi partiti corrono in una Lista Comune guidata da Ayman Odeh, avvocato socialista di Haifa, musulmano educato in una scuola cristiana, che si dichiara ateo. Potrebbero diventare il terzo partito La piattaforma dedica poco al conflitto e molto al sociale. Con gli ultra-ortodossi ebrei, sono la sezione più povera del Paese. Il 70% vuole migliorare le sue condizioni economiche, il 60 è anche favorevole a entrare in una coalizione di governo con i sionisti: sarebbe un evento storico.
Dimenticato o sotto traccia, il conflitto comunque c’è. Ogni comandante militare e capo dei servizi segreti, presente o passato, ricorda che riprendere la trattativa con i palestinesi dei Territori è la priorità per la sicurezza nazionale. Le differenze fra Netanyahu e Herzog sono acute. L’ultima volta che il primo ministro ha parlato di “Stato palestinese”, sotto la pressione americana, risale al 2009. Poi più nulla. Secondo l’ex ministro delle Finanze Yuval Steinitz, braccio destro di Bibi, «nelle attuali circostanze qui, in Medio Oriente, ogni ritiro dai Territori o da Gerusalemme non è una formula per la pace ma per il disastro»: anziché la Palestina nascerebbe un califfato.
Dal nome dato alla sua lista, Sionismo Unito, Isaac Herzog chiarisce di appartenere saldamente al campo della trattativa: un sionismo moderno che si consolida nella pace e non più nella conquista territoriale. Se riuscisse a governare, Herzog tornerebbe immediatamente alla trattativa sulla base del piano proposto da John Kerry, il segretario di Stato americano. Con due posizioni così opposte, sarà interessante vedere cosa accadrà se il risultato elettorale e il sistema israeliano costringeranno Netanyahu e Herzog a governare insieme.

Corriere 15.3.15
La solitudine di Netanyahu e il ritorno dei laburisti
Netanyahu alla partita della vita Ma ex generali e 007 lo scaricano
di Davide Frattini


Israele al voto, martedì prossimo, per eleggere i 120 membri della Knesset, il Parlamento monocamerale del Paese. I sondaggi danno l’Unione Sionista, i vecchi laburisti con nome nuovo e l’aggiunta di Tzipi Livni, guidata da Isaac Herzog, in vantaggio sul Likud di Benjamin Netanyahu. Il primo ministro è preoccupato per il partito dei pensionati. Ex capi dei servizi segreti, ex generali, ex ufficiali delle forze speciali, ex comandanti dell’aviazione — in pensione, ma ancora agguerriti — si sono coalizzati per ridimensionare il messaggio ripetuto da Netanyahu in campagna elettorale: nessun altro può garantire meglio di me la sicurezza di Israele.
GERUSALEMME A preoccuparlo è il partito dei pensionati. Un partito che non presenta candidati, non punta a conquistare voti ma scommette che sia lui a perderli. Ex capi dei servizi segreti, ex generali, ex ufficiali delle forze speciali, ex comandanti dell’aviazione — in pensione, ancora agguerriti — si sono coalizzati per ridimensionare il messaggio ripetuto da Benjamin Netanyahu durante la campagna elettorale: nessun altro può garantire meglio di me la sicurezza di Israele.
Giocando con il suo soprannome, il primo ministro si è presentato in un video come «Bibi-sitter»: l’unico adulto circ ondato da ministri bambini, inidonei a guidare la nazione in un conflitto (il bimbo che impersona Naftali Bennett, il più bellicoso tra loro, viene mostrato mentre muove i carrarmatini e i soldatini).
I 186 militari a riposo hanno messo tutta la loro tempra per spiegare che Netanyahu ha portato il Paese «a uno dei livelli più bassi dalla fondazione»: «La guerra eterna non è una strategia», sintetizza Shabtai Shavit, ex direttore del Mossad. Meir Dagan, altro capo dei servizi segreti, ha raccolto la vitalità che gli resta (ha subito un trapianto di fegato) per salire sul palco in piazza Rabin a Tel Aviv e proclamare davanti a 40 mila persone: «Israele è circondata da nemici, non sono loro a farmi paura. Mi spaventano i leader politici, la mancanza di visione e strategia».
La reazione del Likud alle critiche di Dagan — che i giornali definiscono un «vero patriota» — dimostra quanto la destra tema di perdere le elezioni. I fedelissimi del primo mini stro non hanno esitato a infangare l’uomo che pure gli è stato a fianco nella sfida contro l’atomica iraniana, sono arrivati a rinfacciargli di aver chiesto aiuto a Netanyahu per ottenere il trapianto. A due giorni dal voto, i sondaggi danno l’Unione Sionista guidata da Isaac Herzog in vantaggio di almeno quattro seggi, i vecchi laburisti (con nome nuovo e l’aggiunta di Tzipi Livni) tornerebbero a vincere le elezioni per la prima volta dal 1999. È allora che Ehud Olmert dichiara finita l’«era del prestigiatore»: Netanyahu viene sconfitto da Ehud Barak, sembra aver perso il tocco magico che gli permetteva di riemergere dalle crisi, lascia la politica, dice per sempre. Invece ritorna da leader del Likud, riprende il potere nel 2009 e arriva a totalizzare nove anni da primo ministro, più di David Ben-Gurion, il padre fondatore della patria.
La campagna elettorale del Likud è stata costruita attorno a lui, dai poster alle apparizioni televisive: stasera dovrebbe parlare in piazza Rabin, la destra si appropria del luogo simbolo della sinistra israeliana. Troppo poca visibilità — dicono adesso gli attivisti — è stata lasciata agli altri ministri, ai deputati che conoscono per nome gli elettori nelle piccole città. Netanyahu-Houdini non si sarebbe reso conto di aver perso la bacchetta dell’illusionista e il contatto con il Paese: «Una volta era la soluzione, ora è diventato il problema», commentano nel partito quelli che già pensano alla lotta per la successione.
No n sembrano bastati il discorso davanti al Congresso americano e la contrapposizione frontale — in nome degli interessi nazionali — con il presidente Barack Obama. Sembrano bastati il dossier del Ragioniere dello Stato sulle spese eccessive della famiglia Netanyahu (con soldi dei contribuenti) e lo scandalo soprannominato bottiglia-gate: la moglie Sara intascava i centesimi dei vuoti a rendere che sarebbero dovuti tornare nelle casse dello Stato. «Gli israeliani ne hanno abbastanza di Bibi — scrive Nahum Barnea, la firma più letta dal quotidiano più venduto — il fascino si è consumato, il tentativo di reinventarsi come il saggio anziano della tribù è fallito».
Il premier accusa proprio Yedioth Ahronoth e gli altri giornali «sinistrorsi» di aver organizzato una campagna («pagata da miliardari stranieri», scrive sulla sua pagina Facebook») per impedirne la rielezione. Ognuno dei «congiurati» avrebbe le sue motivazioni: le or ganizzazioni internazionali — commenta — vogliono il ritiro dai territori palestinesi e «la divisione di Gerusalemme».
In realtà la discussione su un eventuale accordo di pace è rimasta fuori dalla campagna elettorale. Gli israeliani restano più preoccupati dal costo della vita, dai p rezzi degli appartamenti che salgono, dalla crescente disparità sociale. Sono arrabbiati e uno spot anti Netanyahu mostra la loro furia, in banca, nella corsia di un ospedale, esplodere in schede di voto. «In questo fine settimana Netanyahu rifletterà su quanto sia stata una mossa azzeccata — ragiona Yossi Verter sul quotidiano Haaretz — licenziare due ministri tre mesi fa e puntare sulle elezioni anticipate».
Perché quei due ministri sono balzati fuori dallo sgabuzzino politico in cui in parte si erano cacciati, in parte li aveva richiusi il premier. Yair Lapid (bersagliato da responsabile delle Finanze) incarna di nuovo la speranza della classe media, Tzipi Livni — incaricata (e così dimenticata) di seguire le trattative senza scopo con i palestinesi — rischia di ritornare da vincitrice in coppia con Herzog. Gli analisti avvertono che la partita non è chiusa, ricordano il 1996 quando il laburista Shimon Peres era in vantaggio nei sondaggi e alla fine perse proprio contro Netanyahu. Che anche da secondo arrivato potrebbe essere l’unico in grado di mettere insieme la coalizione per governare, è già successo nel 2009. Il «prestigiatore», da ventidue anni sulla scena, prepara un ultimo stratagemma .
Davide Frattini

Corriere 15.3.15
L’ultradestra di Liberman e la legge boomerang


Un anno fa ha manovrato tra i deputati perché votassero la legge per innalzare la soglia elettorale dal 2 al 3,25 per cento. Adesso rischia di restare fuori dal parlamento. Avigdor Liberman è il ministro degli Esteri meno diplomatico nella storia di Israele, pochi giorni fa ha proposto di decapitare (con un’ascia) gli arabi israeliani che appoggiano gli attacchi terroristici. Prima aveva cercato di ghigliottinare i loro partiti. La norma che ha elevato il numero di voti minimo da ottenere è stata progettata da Liberman anche per mettere in difficoltà i piccoli gruppi arabi. Che hanno risposto riunendo in una sola lista quattro formazioni: i sondaggi calcolano che la coalizione potrebbe raggiungere i 13 seggi — gli arabi israeliani rappresentano il 20 per cento della popolazione — lo stesso numero ottenuto da Liberman nel 2013. Questa volta il suo Israel Beitenu (Israele è la nostra casa) rischia di non farcela e il ministro oltranzista resterebbe senza posto. Immigrato dall’ex Unione Sovietica nel 1978, ha fondato il partito per incanalare i voti di quel milione e settecentomila «russi» che vivono in Israele. Alleato del premier Benjamin Netanyahu, ha rappresentato l’ala oltranzista nel governo. Gli elettori di destra potrebbero scegliere di sostenere il Likud , risulta secondo nei sondaggi, a scapito degli altri partiti nazionalisti. È questo l’appello di Netanyahu: non vuole che i voti della destra vadano dispersi. Anche a sinistra i radicali di Meretz temono di non superare la soglia di sbarramento.
D. F.

il Fatto 15.3.15   
Israele e il fantasma di Bibi
Senza di lui niente governo
Netanyahu in svantaggio, ma resta l’uomo chiave per formare l’esecutivo
di Cosimo Caridi


Gerusalemme Aumenta la distanza, almeno nei sondaggi, tra centrosinistra e centrodestra.
I laburisti sono stabili a 25 seggi (sui 120 della Knesset), mentre il Likud scende a 21. Se le urne dovessero confermare questi numeri si annunciano tempi duri per il presidente israeliano Reuven Rivlin. Yitzhak Herzog, leader dell’Unione Sionista, otterrà da Rivlin l’incarico di formare il governo, impresa ardua. Herzog può contare sull’appoggio, alla sua sinistra, di Merez (6 seggi) e dei due partiti di centro Yesh Atid (12), guidato da Yair Lapid, ex ministro di Netanyahu, e Kulanu (11) recentemente creato da un gruppo di fuoriusciti dal Likud, partito del premier uscente. Nella più rosea delle ipotesi il governo laburista conterà su 54 parlamentari, numero ben lontano dalla maggioranza assoluta fissata a 61.
Possibile stampella del governo Herzog sarebbero i 13/15 eletti della Lista Araba Unita, sulla carta terza forza del parlamento. Per la prima volta nella storia israeliana, complice l’innalzamento della soglia di sbarramento dal 2 al 3,25 percento, la minoranza araba ha deciso si presentarsi compatta all’appuntamento elettorale. Per molti palestinesi un’alleanza dei propri rappresentati con l’Unione Sionista, partito fondato da Tzipi Livni conosciuta tra gli arabi per il suo atteggiamento interventista a Gaza, aprirebbe una ferita non rimarginabile. L’altra opzione di Bougie sarebbe un governo d’unità nazionale, chiedendo l’appoggio a Netanyahu. Bibi accetterebbe controvoglia, e solo sotto forti pressioni, il ruolo di comprimario. La premiership resterebbe a Herzog, ma almeno due ministeri di peso, Finanze e Interno o Esteri, rimarrebbero in mano al Likud.
SECONDO GLI ANALISTI sono 11 i partiti che martedì vedranno eletti dei loro rappresenti alla Knesset. Netanyahu potrebbe riuscire a raccogliere alla sua corte i partiti religiosi e quelli dell’ultradestra, collezionando oltre 50 seggi. A quel punto al premier uscente basterebbe convincere uno degli ex alleati di centro, cacciati dal governo appena tre mesi fa, per diventare nuovamente primo ministro. Questa opzione consegnerebbe il paese in mano a una coalizione estremista, nella quale “il moderato” sarebbe Netanyahu.
Rivlin, storico esponente del Likud, ma in netto contrasto con le politiche di Sharon prima e Netanyahu dopo sulla questione palestinese, potrebbe mostrare numerose riserve su un governo a trazione integrale a destra. La pressione internazionale, in particolare quella statunitense, vorranno escludere un esecutivo di falchi pronti a intervenire militarmente a Gaza, come in Libano o sulle alture del Golan e con l’ossessione della questione nucleare iraniana.
GLI ISRAELIANI, sotto la pressione del costo della vita in continuo aumento e alle prese con una situazione economica, dopo gli anni delle liberalizzazioni e privatizzazioni volute da Netanyahu, sempre meno brillante, sono pronti a voltare pagina. Ma non potranno farlo senza Bi-bi, che sia lui il primo ministro o anche solo l’uomo chiave per la formazione del nuovo esecutivo.
Intanto gli Stati Uniti, da sempre attenti alle evoluzioni politiche in Israele, lasciano al segretario di Stato Kerry il compito di una dichiarazione ufficiale; il messaggio è che gli Usa sperano che Israele elegga un governo capace di rispondere alle necessità interne e che non deluda “le speranze di pace”. Nessun riferimento diretto alle polemich fra Bibi e Obama sull’accordo con l’Iran riguardante il nucleare. Kerry ha parlato a margine della Conferenza economica egiziana di Sharm el Sheikh, auspicando che, qualunque cosa decideranno gli elettori israeliani, ci sia la possibilità di veder ripartire gli sforzi di pace.
Il Segretario di Stato non ha voluto aggiungere altro, affinché nessuno interpreti le sue parole come un’ingerenza nelle elezioni del 17 marzo

il Fatto 15.3.15   
Raffaello innamorato e la musa popolana che diventò Madonna
di Dario Fo


IL PITTORE E LA PASSIONE PER MARGHERITA, EX PROSTITUTA E SUA SPOSA: C’È IL SUO VOLTO DIETRO SANTE, VENERI E NINFE

Torna domani sera, alle 21.15, su Rai5 l’appuntamento con “L’arte secondo Dario Fo”. La puntata è dedicata a “Raffaello, oh bello figliolo che tu sei”. Eccone un’anticipazione.
Per dire del suo fascino di Raffaello, quando a Roma, a Carnevale, il carro sul quale stavano vocianti le ragazze “smaritate”, così si chiamavano quelle che non avevano ancora marito, col loro carro a bellapposta transitava sotto le finestre del palazzotto dove stava il pittore, da quel carro saliva un coro d’elogio appassionato cantato a tutta voce dalle ragazze per il giovane pittore, che diceva:
Bello figliolo che tu se’, Raffaello, come te movi appresso a lu Papa quanno sorte a passaggiare, tu se’ l’àgnolo Gabriele, ìllo pare lo tòo camariere. Dòlze creatura con ‘sto cuorpo tuo che pare in danza, comme me vorrìa rotolar co’ te panza panza dentro lu vento, appesa alle labbra tue da non staccarme mai uno momento: Raffaello mettime dinta ‘na tua pittura dove ce sta ‘no retratto de te tutto intiero così de notte ce se potrebbe cerca’ e infrattati nell’oscuro facce l’amore. Si nun me voi amà, Raffaello dolze, canzéllame da la tua pittura, méjo morì se non son tua.
Quando morì, Raffaello aveva appena trentasette anni. Si racconta che per il dolore anche i sampietrini si staccarono, rotolando fuori dal selciato, e mezza Roma urlando piangeva disperata.
L’orecchio scoperto e gli occhi da impunita
Nella Sacra Famiglia detta di Francesco I assistiamo alla scena in cui il bimbo in piedi corre disperato verso la madre. Forse in mezzo a tanta gente l’ha perduta di vista. Ora l’ha ritrovata e le si getta addosso a braccia spalancate, aggrappandosi alle sue vesti. Il bimbo sembra accennare a un timido sorriso, la madre purtroppo non lo ricambia appena. Nello splendido disegno preparatorio, oggi agli Uffizi, notiamo che il gesto del bimbo che si lancia verso la madre è di certo più drammatico rispetto a ciò che ci mostra il quadro a olio. Le braccia sono più protese e la mano della Madonna che lo afferra è di gran lunga più evidente. Inoltre il bambino chiaramente sorride, la Madonna purtroppo nel disegno non c’è. Ma al Louvre abbiamo ritrovato un altro disegno che sembra riprodurre la Vergine della Sacra Famiglia in questione. Questa giovane accenna solo a un sorriso ma se non altro ci prova. Poi abbiamo scoperto, leggendo la didascalia, che non si tratta del volto di una Madonna, ma di un ritratto dal vero, o meglio lo studio di una testa di donna, che gli servirà per realizzare La Madonna. Ma qui la cosa più importante è che per la prima volta vediamo una Madonna con l’orecchio completamente scoperto, come usavano le donne del popolo, come era la Fornarina, la sua innamorata, di cui conosciamo già i due ritratti: quello dove si mostra seminuda e quello detto La Velata. Le due pitture ci mostrano una ragazza di grande bellezza e fascino. Gli occhi molto grandi, una bocca ben disegnata dalle labbra turgide, un lieve sorriso da impunita. Su questa giovane donna, dotata di una straordinaria carica sessuale, si sono scritte migliaia di pagine, romanzi, sceneggiature cinematografiche... Selezionando le varie notizie, abbiamo elaborato un profilo della Fornarina, secondo noi il più attendibile.
La Fornarina, l’anello e il segno del matrimonio
La ragazza proviene da Siena, guarda caso proprio come la famosa modella di Michelangelo da Caravaggio. È figlia, si dice, di un fornaio. Ma c’è un’altra versione del significato di quel nome: nel gergo popolare romano “infornare” allude a un rapporto sessuale. Evidentemente si sottintende una ragazza che si prostituiva. Ad ogni modo la Fornarina ha un suo nome, quello di Margareta, o Margherita. Come lo sappiamo? Ricercatori abilissimi hanno esaminato le metafore che tradizionalmente i pittori del tempo inserivano nei ritratti (i Fiamminghi sono stati forse gli iniziatori di questa moda) e, confrontando fra di loro i due dipinti della modella di Raffaello, hanno ritrovato identici simboli allusivi. In entrambi i ritratti appaiono due brocchette dalle quali pendono delle perle. Le brocchette sono fermagli che legano il velo ai capelli. Le perle nella convenzione allegorica indicano un nome, appunto Margherita. Ma significano anche amante. Scopriamo poi che la Fornarina è da poco maritata, anche se qualcuno, con velature a olio, ha tentato di cancellare l’anello che Margareta portava all’anulare della mano sinistra. Nella Velata la mano sinistra è nascosta sotto il panneggio. Evidentemente il matrimonio doveva rimanere segreto. Ma con chi era sposata la modella? Ce lo dice lei stessa, che nel dipinto in cui appare seminuda esibisce, avvolto al braccio, un cerchietto con scritto il nome del suo uomo: il nome è Raphael Urbinas.
Raffaello quindi era lo sposo e solo se immaginiamo l’esplodere di una passione davvero incontenibile ci riesce di capire quale folle carica amorosa debba aver spinto l’ancor giovane maestro a decidere di affrontare la situazione che si sarebbe per lui creata con quel colpo di testa. Il maestro di Urbino in quel tempo non era solo un pittore famoso: era stato scelto dal papa, oggi diremmo, come sovrintendente massimo delle antichità e dei nuovi progetti di Roma, compresa la Basilica di San Pietro e il riassetto urbanistico di tutta l’Urbe. Il pittore di Urbino godeva dell’ossequio di tutti i principi e di molti banchieri nostrani e foresti che facevano la coda pur di avere un suo ritratto o dipinto sacro. Come poteva gestire Raffaello la presenza vicino a lui di questa sua ragazza splendida, ma dal passato tanto chiacchierato?
“Mi permetto di presentarle la mia sposa. La conoscevate di già? Dove? In che occasione? Nuda? Basta così...”.
I poemi, i sonetti e il cambio di stile
Il fatto è che Raffaello ormai non poteva più vivere senza quella donna. Margherita era sempre nei suoi pensieri, non riusciva a stare lontano da lei. È risaputo che l’innamorato scriveva sonetti a lei dedicati mentre preparava i cartoni: sui fogliacci che ci sono pervenuti si sono trovate tracce di piccoli poemi, sonetti, di certo dedicati alla sua donna. Eccone uno a caso:
Io vorrebbe criare a tutta voce quando tu me avveluppi con le tue brazza contro le membra tue e per tutto me baci e m’accarezzi fin dentro l’ànema.
Criàr vurrìa ma non lo puòzzo fare che tutto me resveierèbbe tosto a cagion d’esto mio grido dallo sogno bello che eo me sto vivendo.
Crediamo che da questo canto all’improvvisa si possa capire meglio che da ogni altro discorso quale metamorfosi abbia condotto Raffaello a cambiar registro di pittura in ogni sua forma e maniera. Infatti da un certo momento in poi ecco che ritroviamo in Madonne, Ninfe, Sante poco note, Veneri e perfino dentro le facce di giovani efebi, sempre il volto di Margherita, spesso dipinta ignuda, di fronte, di scorcio, di schiena, sdraiata, dormiente, perfino con le ali... sempre Margherita.
Lo sguardo puntato sullo spettatore
Nella Madonna che abbraccia il Bambino è la prima volta che incontriamo in un quadro di Raffaello un gesto tanto appassionato e autentico nella madre santa, la donna stringe a sé il bambino come volesse per intero legarlo al proprio corpo. E guardate bene il viso della Vergine: è il ritratto della Fornarina. Ed è anche la prima volta che in una Madonna di Raffaello, tanto la vergine che il bambino puntano gli occhi verso gli spettatori che li osservano.
C’è anche un’altra, detta la Madonna della Seggiola, ed è composta dentro un cerchio. Le braccia della Madonna e le gambe del figlio disegnano figure geometriche roteanti intorno al centro. Si tratta di un capolavoro di potenza inarrivabile. A nostro avviso, la più bella Madonna che abbia mai dipinto Raffaello. Una Madonna popolare, anzi popolana, che mostra il suo orecchio scoperto. Significa che Raffaello ha compiuto anche un salto di classe. Ha deciso che da questo momento la Vergine madre non è più una fanciulla nobile ma una donna del popolo. E scusate se è poco.

Corriere Salute 15.3.15
Nuova ipotesi sugli attacchi di panico
A provocarli potrebbe essere una forma di paura di aver paura
di D. di D.


Una strana forma di paura della paura potrebbe essere alla base dei tanto temuti attacchi di panico. È l’ipotesi avanzata da un modello cognitivo di questo disturbo che frequentemente inizia a presentarsi già nell’adolescenza e che colpisce soprattutto le donne, ma che non risparmia neppure gli uomini. All’attacco di panico spesso si associa la cosiddetta agorafobia, la specifica paura di trovarsi in luoghi nei quali può essere difficile o imbarazzante ricevere soccorso.
Secondo questo modello, alla base dell’insorgenza degli attacchi di panico ci sarebbe un’interpretazione erronea, di carattere catastrofico, di sensazioni di per sé normali e trascurabili provenienti dal corpo o dalla stessa mente. Interpretazione catastrofica vuol dire attribuire un esagerato significato negativo e patologico a sensazioni che magari un’altra persona quasi neppure noterebbe. «Le sensazioni che vengono più frequentemente mal interpretate sono soprattutto quelle collegate alle normali risposte ansiose — dicono alcuni ricercatori guidati da Myriam Rudaz, del Department of psychology dell’University of California di Los Angeles, autori di un articolo pubblicato sulla rivista Depression and Anxiety , dedicato proprio alla paura della paura —. Ad esempio, si tratta di palpitazioni o di vertigini, ma includono anche altre sensazioni fisiche o mentali, come la percezione di corpuscoli nel campo visivo o sensazioni di vuoto mentale. L’ipotesi è che, quando queste sensazioni sono percepite come catastrofiche, l’ansia che ne deriva produce un aumento delle stesse sensazioni. Ne risulta così un circolo vizioso di sensazioni, risposte ansiose e pensieri catastrofici che alla fine sfociano nell’attacco di panico». Quindi, secondo tale ipotesi, a provocare l’attacco di panico sarebbe, pur senza rendersene conto, la stessa persona che ne soffre.
Questo modello cognitivo della genesi degli attacchi di panico è più di una semplice ipotesi. Diversi studi hanno dimostrato che chi soffre di attacchi di panico ha davvero la tendenza a dare interpretazioni catastrofiche di innocui segnali provenienti dal suo interno. Un tratto che, pur con sfumature diverse, si trova più in generale in chi soffre di disturbi d’ansia, anche se in questo ultimo caso le interpretazioni catastrofiche tendono a coinvolgere principalmente i segnali provenienti dal mondo esterno. Sottoposte a questionari per la rilevazione della paura di segnali interni, come il Body sensation questionnaire, le persone che soffrono di attacchi di panico fanno registrare punteggi più elevati sia rispetto a chi soffre di disturbi d’ansia, sia nei confronti della popolazione generale.
Un interessante legame esiste anche tra gli attacchi di panico e l’ipocondria, la paura delle malattie in generale, oggi ridefinita all’interno del DSM-5, l’ultima versione del manuale diagnostico e statistico dell’American Psychiatric Association. In questa nuova versione l’ipocondria non è più considerata in quanto tale, ma è stata sostituita da due diversi disturbi: il disturbo da sintomi somatici e quello da ansia di malattia. Il primo è caratterizzato da un elevato livello di ansia per la salute alla quale si associano sintomi somatici percepiti dalla persona; il secondo è costituito essenzialmente dalla sola ansia per la propria salute. Alcune ricerche hanno chiarito come in quasi la metà delle persone che soffrono di attacchi di panico con o senza agorafobia, prima che questi si manifestassero, erano già presenti altri sintomi correlabili alla fobia delle malattie.
D. d. D.

Corriere La Lettura 15.3.15
La coscienza è figlia dei microbi
Il sistema nervoso copia il sistema immunitario che ci aiuta a riconoscere l’altro da noi (e forgia l’«io»)
di Sandro Modeo


Stranamente, nel suo libro notevole sulle «grandi tappe dell’evoluzione», dalla fotosintesi al Dna, dal movimento alla coscienza ( Le invenzioni della vita , il Saggiatore), il biochimico Nick Lane esclude la comparsa del sistema immunitario; eppure, una sequenza simile dovrebbe suonargli necessaria. È una rimozione sintomatica, che aiuta a spiegare quella più generale patita dall’immunologia, disciplina che uno dei suoi protagonisti, l’australiano Frank Macfarlane Burnet, eleggeva a «scienza filosofica», e che invece arriva alla platea mediatica per lo più con generiche e spesso fuorvianti zoomate biomediche, come quella sull’inutilità-nocività dei vaccini.
Per fortuna due libri provano a sottrarla al cono d’ombra. Il primo, dell’immunologo britannico Daniel Davis ( The Compatibility Gene , appena ristampato in paperback ), mette a fuoco i nessi tra immunologia e genetica, concentrandosi soprattutto sull’Mhc o «complesso maggiore di istocompatibilità», cioè su quel network di geni altamente polimorfi che sovrintendono per esempio alla risposta immunitaria nei rigetti di trapianto. Il secondo, della neuro-immunologa israeliana Michal Schwartz ( Neuroimmunity , di prossima pubblicazione da Yale) è invece una rassegna aggiornata sul rapporto tra i processi immunitari e il sistema nervoso, con le relative implicazioni diagnostiche e terapeutiche per una vasta gamma di neuro e psicopatologie (dall’Alzheimer alla depressione).
In sintonia nel ripercorrere le stazioni-chiave del «pensiero immunologico» proprio nell’accezione di Burnet, i due scienziati convergono anche nell’evocarne (la Schwartz, fatalmente, in modo più esplicito) uno dei motivi più avvincenti: il tradursi delle omologie strutturali tra il sistema immunitario e quello nervoso in un’analogia funzionale tra l’identità «biologica» dell’individuo e quella psicologica; tra la discriminazione fra self (sé) e not-self (non-sé) che l’organismo compie quando gli anticorpi si oppongono agli antigeni (virus e batteri) e quella tra l’«io» della coscienza e l’ambiente circostante, tra la mente e il mondo.
Per comprendere a fondo questo accostamento, è utile tornare ai libri di Gerald Edelman, lo scienziato (scomparso quasi un anno fa) che più d’ogni altro li ha studiati e illuminati insieme , vincendo da un lato il Nobel per i suoi contributi sulla struttura degli anticorpi e formulando, dall’altro, una delle teorie più originali sulla genesi della coscienza. Decisiva è proprio la descrizione dell’orchestrazione immunitaria, incentrata sul «continuo adattamento» (la capacità di distinguere i propri costituenti molecolari da quelli degli «invasori», contrastando questi ultimi con anticorpi ad hoc ) e sulla «memoria» (la facoltà di conservare progenie di quegli anticorpi in caso di ritorno dello stesso agente).
Il passaggio cruciale, fortemente contro-intuitivo, consiste nel fatto che l’anticorpo non «si adatta» all’antigene che gli si presenta per la prima volta assumendo informazioni sulla sua forma e struttura e costruendo sul momento la chiave giusta per la serratura; al contrario, il sistema è composto da un repertorio vastissimo di cellule coi relativi anticorpi (di chiavi «elastiche») in attesa attiva; e quando un antigene (o meglio una sua porzione) si lega a un anticorpo in modo «più o meno» complementare, stimola la cellula che porta quell’anticorpo (il linfocita) a dividersi e quindi a riprodursi.
Sono così evidenti i tratti comuni tra i due sistemi, immunitario e nervoso. Tutti e due si basano sull’«adattamento» e la «memoria»; tutti e due funzionano non «per istruzione», ma «per selezione», cioè non con «risposte» agli stimoli, ma con una ridondanza di «proposte» a monte che si traducono in adattamenti a valle visibili solo a posteriori (vedi, nel cervello del neonato, tra i 2 e i 4 mesi, il mezzo milione di sinapsi al secondo sottoposte a scrematura selettiva); e tutti e due ricordano come l’evoluzione sia un processo insieme robusto e plastico, strutturato e aperto: vedi, nell’anticorpo, la partizione tra regioni fisse e variabili, le seconde legate al rimescolamento genetico nei linfociti in seguito ai feedback dell’esperienza.
Quest’ultimo punto rimarca, per inciso, l’irriducibile soggettività dell’identità immunitaria, anche in questo analoga a quella dell’assetto neurale. Del resto, le omologie-analogie (e persino le sovrapposizioni e prossimità) sono avvertibili anche risalendo lungo la filogenesi. In tutti e due i sistemi, infatti, vediamo sia la continuità tra organismi ancestrali e più evoluti, sia lo svilupparsi di strutture diverse (in linee evolutive separate) per le stesse soluzioni adattative. Lo schema di discriminazione tra self e not-self del sistema immunitario, per esempio, emerge già in invertebrati come le larve di stelle marine nel famoso esperimento di uno dei padri fondatori dell’immunologia, Ilya Mechnikov, con gruppi di cellule che si coalizzano «circondando» le spine introdotte dallo scienziato; mentre «fossili viventi» come le lamprede, apparse 400 milioni di anni fa, dispiegano un sistema di difese differente dal nostro, ma altrettanto efficiente (sottoposte all’antrace, riescono con un gene a produrre miliardi di possibili proteine immunitarie), sconfessando la credenza che il sistema immunitario «adattativo» (specifico e più plastico) si sia sviluppato nei vertebrati da quello innato (aspecifico e più rigido) anche grazie alla mandibola, della quale le lamprede sono sprovviste. Quanto ai sistemi nervosi «primitivi», già a partire da organismi pluricellulari di 600 milioni di anni fa appaiono circuiti a rete; mentre un protista come il paramecio, davanti a un ostacolo, mostra un’eccitabilità elettrica (un cambiamento di voltaggio) che anticipa il «potenziale d’azione» dei nostri neuroni.
A sintesi di tutto, risaltano certe colonie di antichissime spugne, le cui proteine di adesione cellulare sono i precursori sia di quelle dei recettori delle nostre sinapsi, sia delle dinamiche molecolari immunitarie: dimostrazione definitiva dell’incessante ricombinazione di strutture e funzioni nel corso del bricolage evolutivo. A rigore, ha ragione Edelman a ricordare come i due sistemi — immunitario e nervoso — presentino molte somiglianze di principio e divergano poi nei meccanismi e nei dettagli. Ma è altrettanto vero che i loro nessi, evolutivi e strutturali, sono la chiave (vedi la Schwartz) di tante neuropatologie, come si vede nel rapporto tra alterazione dei neurotrasmettitori nella depressione e insorgenza di allergie e malattie autoimmuni, o tra infezioni virali e quadri psicotici acuti come la schizofrenia. Di conseguenza, quei nessi restituiscono anche al rapporto fisiologico mente/corpo una concretezza e un’esattezza cui sembrano averlo sottratto l’evasività e le approssimazioni di tanta psicologia naïf o new age .
In fondo, la distanza tra il «sé» psicologico e quello immunitario è meno siderale di quanto si creda: tutti e due convergono nell’eseguire la partitura della nostra identità irripetibile; quella musica (scrive Eliot nei Quartetti ) «sentita così intimamente da non essere nemmeno sentita».

Corriere La Lettura 15.3.15
Il perturbante è desiderio senza freni: la tv insegna
di Anna Momigliano


Che cosa rende qualcosa raccapricciante, da brivido? Che cosa genera in noi quella combinazione di repulsione e paura difficile da descrivere, facendoci accapponare la pelle? Il filosofo tedesco Friedrich Schelling, nella Filosofia della Mitologia (1835), definì l’ Unheimlich — ciò che incute timore, tradotto anche «perturbante» — come «ciò che avrebbe dovuto restare nascosto ma è venuto allo scoperto». Più tardi Sigmund Freud, nel saggio Das Unheimliche (1919, pubblicato in italiano come Il perturbante ) riprese le teorie di Schelling giungendo a una definizione diversa: è «perturbante» ciò che «ci è noto da lungo tempo, che ci è familiare e che è diventato estraneo alla mente attraverso la repressione».
Charles Dickens, nel suo capolavoro David Copperfield (1849), coniò invece una nuova espressione — the creeps , termine oggi diffusissimo nel mondo anglofono — per descrivere una sensazione a metà strada tra il ribrezzo e la paura. Traducibile come «brividi» (più difficile rendere l’aggettivo che ne deriva, creepy ), l’espressione the creeps ha un’etimologia complessa: dal verbo to creep (strisciare, insinuarsi), nell’Inghilterra del XIX secolo erano definiti creeps i ladri specializzati nell’intrufolarsi dentro i bordelli.
Dickens ricorse a quell’immaginario di maligna invasione della privacy — che avveniva, per giunta, in un luogo volto a custodire il nascosto: le case chiuse — per indicare i brividi generati non dal freddo, bensì da un misto tra repulsione e timore. Partendo da Freud e Dickens, il giovane filosofo e teologo Adam Kotsko ha provato ad analizzare il raccapricciante nella cultura pop con il saggio Creepiness , appena uscito negli Usa per Zero Books (pagine 137, $ 13.50). Classe 1980, docente allo Shimer College di Chicago e traduttore di Giorgio Agamben, Kotsko passa in rassegna film e, soprattutto, serie tv.
L’immaginario contemporaneo, sostiene, è popolato da figure inquietanti che si intrufolano nelle esistenze altrui, come i vampiri di True Blood o Don Draper di Mad Men , impostore che ricopre la parte dell’intruso nella sua stessa famiglia. Kotsko però si spinge oltre, trovando una nuova definizione del ribrezzo: dà i brividi ciò che comunica «un desiderio invadente e smodato», diretto là dove non dovrebbe esserlo. Ciò che rende particolarmente raccapriccianti alcuni maschi «provoloni», che continuano a fare avance alle ragazze nonostante i rifiuti, spiega Kotsko, è precisamente il fatto che non si preoccupano del loro fallimento: dunque non è l’idea di conquistare una bella donna che li eccita, bensì l’atto stesso di importunarla. Kotsko la definisce «energia sessuale dislocata»: il desiderio è perturbante di per sé, ma diventa più perturbante quando è senza speranza.

Corriere 15.3.15
I versi irriverenti della Szymborska che indispettirono il vate Milosz


Un lavoro certosino quello delle due biografe di Wislawa Szymborska, la poetessa polacca premio Nobel per la Letteratura scomparsa tre anni fa. Per comporre Cianfrusaglie del passato (Adelphi) le due ricercatrici, Anna Bikont e Joanna Szczesna, hanno avvicinato decine di amici e conoscenti della poetessa, hanno passato al setaccio fine la sua opera, hanno letto, indagato, controllato un numero straordinario di fonti, dirette e indirette, e poi, naturalmente, hanno incontrato più volte la protagonista del loro libro, intrattenendosi in lunghe conversazioni con lei.
Tessera dopo tessera il ritratto si è andato formando, ma si sente che il compito è stato particolarmente impegnativo: per la semplice ragione che Wislawa non amava parlar di sé e della sua vita privata, evitava con massima cura gli incontri pubblici, le cerimonie ufficiali e volentieri faceva a meno di firmare copie dei suoi libri; era timida, discreta e riservata. Del resto, lei stessa diceva: «Non sono al centro dei miei interessi». Figurarsi, perciò, lo stress che deve aver rappresentato per lei l’assegnazione, nel 1996, del Nobel con tutto il suo contorno di cerimonie.
Si può dire che da quel momento la sua vita si trasformò in una battaglia di posizione per cercare salvezza dagli inviti a tenere conferenze, inaugurare festival, salire su palchi, pronunciare discorsi, visitare centri culturali, istituzioni e biblioteche dentro e fuori la Polonia. Non a caso per tre anni non riuscì a scrivere nemmeno una poesia. Però rime scherzose sì, che erano un po’ la sua specialità, brevi filastrocche giocose per il divertimento suo e degli amici, una specie di «seconda linea» che è sempre andata in parallelo con la prima, quella alta e (più) seria.
Così scherzando descrisse, per esempio, il suo conterraneo, il poeta e premio Nobel a sua volta, Czeslaw Milosz, con il quale, a partire appunto dal ’96, entrò in una certa confidenza, sempre mista — da parte di lei — a soggezione: «Incede Milosz, severo, assorto./ Prostrati e recita un Padrenostro». E pare che il vate non si divertì affatto quando gliela lessero.
L’ironia — mista a melanconia — è comunque il segno di riconoscimento di tutta la sua opera, come lo sono anche i temi domestici, mai «alti», e i toni lievi, mai solenni, per dei versi sostanzialmente facili, accessibili, dai quali volentieri ci si fa accompagnare, come fossero testi di un breviario da tenere sempre a portata di mano. Raccontano questi versi di quel che vede e sente, commentano quel che succede intorno a lei. Per questo le biografe li hanno analizzati con puntiglio, spremendoli, in un certo senso, per ottenere più notizie possibili sulla loro autrice. E infatti, disseminati con criterio tra le pagine, accuratamente riecheggiano gli avvenimenti, i ragionamenti, gli incontri narrati da quanti conoscevano e frequentavano Wislawa, qualche rara volta anche da lei stessa.
Apprendiamo così della sua famiglia «bene», un tempo agiata poi finita in miseria, dell’adesione — breve — al comunismo seguita da un distanziamento progressivo dalla politica di qualsiasi segno; del suo primo marito, il poeta Adam Wlodek, rimasto amico e suo primo lettore anche dopo la separazione; apprendiamo del grande amore, durato oltre vent’anni, con il bellissimo scrittore Kornel Filipowicz, appassionato di pesca, di bridge e di escursioni nella natura; apprendiamo della sua passione per i collage che mandava ad amici e conoscenti, dei suoi ripetuti viaggi — lei che non amava viaggiare — in Italia dove, tra l’altro, a Bologna, nell’aula magna dell’Università, in un colloquio con Umberto Eco, fece accorrere millesettecento spettatori, numero mai uguagliato in nessun’altra sua apparizione pubblica.
E apprendiamo anche di come la vedevano coloro che le erano vicini, familiari, colleghi scrittori, amici: una signora fragile, schiva, elegante, quasi una dama settecentesca di grande classe, spiritosissima, che leggeva, leggeva, in modo quasi maniacale, qualsiasi cosa, anche guide o manuali di vario tipo, per esempio di geografia, di archeologia, perfino di ornitologia.

Corriere La Lettura 15.3.15
I due viaggi di Dino Campana : in Sud America e dentro la sua anima
di Ermanno Paccagnini


Sono sempre «incursioni dietro le linee per catturare la vita» quelle di Laura Pariani. Specie se si tratta di autori. Era accaduto con Garcilaso de la Vega «El Inca» in La spada e la luna (1995); con Nietzsche in La foto d’Orta (2001); con Witold Gombrowicz in La straduzione (2004), e con Dostoevskij sempre a Orta in Nostra Signora degli scorpioni (2014).
In Questo viaggio chiamavamo amore tocca a Dino Campana, rivisitato nel buco nero del 1907 della fuga come «matto» da Marradi e famiglia per imbarcarsi per Montevideo: viaggio di «al massimo sei mesi, traversate incluse» (ricorda Vassalli), di cui restano suggestioni poetiche in Viaggio a Montevideo . In tal senso il romanzo non solo si offre a dittico con La straduzione , dandosi entrambi i protagonisti, oltre che affetti da una sia pur differente forma di «pazzia» (così si qualifica Gombrowicz), come fuggiaschi in quell’Argentina luogo privilegiato di molti romanzi della Pariani; ma, considerando la ricordata alternanza dei luoghi d’ambientazione, suggerisce pure certa specularità sia con le «fughe» dell’autrice che ha scelto di dividersi tra Orta e Argentina, sia d’un rileggersi scrittoriamente attraverso quelle figure, sia pur più lievemente e sotterraneamente rispetto a La straduzione , rapportando il tutto alla intimità dei sentimenti di libertà, solitudine e sul senso stesso dello scrivere.

Quanto al romanzo, strutturalmente è suddiviso tra il piano del presente (dal novembre 1926 all’aprile 1930, con postilla nel 1932 della morte), quando al Regio Manicomio di Castel Pulci il «Màt Campèna» viene «tormentato da un certo dottor Pariani che tramite suggestione vuole trasformarmi in un uomo diverso», per darne poi conto nel discusso volume Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore ; e il piano del lontano viaggio del 1907 verso lo «spazio grande» e libero dell’America quale rifugio alla «propria fragilità» e vulnerabilità della «propria anima». Un viaggio che ora, chiuso tra i «muri grigi e muffosi» del cronicario, gli si dà quale luogo ideale per la libertà della mente, scappando «fuori da qui, col ricordo di viaggi lontani»: rivivendo però con l’avventura di vent’anni prima, pure l’abisso che «è dentro di me, proprio qui in mezzo alla mia mente». Ed è un viaggio dalle forme tutte mentali (si tratti di «lettera», «visione», «taccuino», la stessa sillabazione dei versi di Baudelaire o Rimbaud), nel segno di una immaginazione al tempo stesso dolorosa e liberatoria, visionaria e introspettiva, propria di chi viene «intingendo la dritta penna del mio affetto nel mio negrissimo inchiostro interiore».
Una visionarietà ricca di incontri «magici», soprattutto femminili, che l’autrice dona al poeta nel corso del suo viaggio da Montevideo a Rosario, a piedi o con mezzi occasionali, mantenendosi con lavori provvisori quali il bicicletero , guardiano di zoo, sterratore o fuochista per le ferrovie, tra emigrati, gauchos, schiave, prostitute e nobildonne, che Campana fa rivivere in forma di lettera (ben undici, ai personaggi più diversi: da un ragazzo emigrante a De Sade, Edison, ma pure «a Noi»), di conversazioni, messaggi telepatici, telefonate (a Freud), suggestioni radiotelefoniche. Di qui la pluralità di registri narrativi: tra un Campana ora mentalmente epistolografo; ora mentalmente postillatore tra insofferenza, derisione e «volontà di contar balle» degli incontri col credulone «avversario» Pariani; ora offerto con prospettiva interna in terza persona, con passaggi più narrativi sui rapporti col personale, in specie con la «stupida gradígia di quel tal Calibàn» infermiere. Momenti nei quali Laura Pariani gioca anche su differenti registri linguistici, oltre che su screziature che svariano dal parlato alla citazione, alle diverse lingue colte o da emigrante.
Perché, se nelle lettere è l’autrice a regalare a Campana il proprio mondo visionario del Sudamerica, nel ripiegarsi di Campana su di sé, sulla propria solitudine, sulle interrogazioni a proposito della scrittura, sulla «nostra brama di assoluto», sul rapporto scrittura-mondo, è invece il poeta a suggerire momenti di riflessione. Senza che con tutto ciò sia fatta violenza alla poesia, all’umanità e alla storia stessa del poeta; di cui sono richiamati con leggerezza di tocco anche vari momenti biografici, pure quelli sgradevolmente leggendari.

Il Sole Domenica 15.3.15
Peccato e Misericordia
Papa Francesco indice un Giubileo su un tema al centro delle riflessioni del teologo luterano Bonhoeffer, ucciso da Hitler esattamente 70 anni fa


Ogni giorno la comunità cristiana canta: «Ho ricevuto misericordia». Ho avuto questo dono anche quando ho chiuso il mio cuore a Dio; quando ho intrapreso la via del peccato; quando ho amato le mie colpe più di Lui; quando ho incontrato miseria e sofferenza in cambio di quello che ho commesso; quando mi sono smarrito e non ho trovato la via del ritorno. Allora è stata la parola del Signore a venirmi incontro. Allora ho capito: egli mi ama. Gesù mi ha trovato: mi è stato vicino, soltanto Lui. Mi ha dato conforto, ha perdonato tutti i miei errori e non mi ha incolpato del male. Quando ero suo nemico e non rispettavo i suoi comandamenti, mi ha trattato come un amico. Quando gli ho fatto del male, mi ha ricambiato solo con il bene. Non mi ha condannato per i misfatti compiuti, ma mi ha cercato incessantemente e senza rancore. Ha sofferto per me ed è morto per me. Ha sopportato tutto per me. Mi ha vinto. Il Padre ha ritrovato suo figlio. Pensiamo a tutto questo quando intoniamo quel canto. Fatico a comprendere perché il Signore mi ami così, perché io gli sia così caro. Non posso capire come egli sia riuscito e abbia voluto vincere il mio cuore con il suo amore, posso soltanto dire: «Ho ricevuto misericordia».
23 gennaio 1938

La sofferenza del giusto
«Molti sono i mali del giusto, ma da tutti lo libera il Signore» (Salmo 34, 20). Il giusto soffre per il mondo, l’ingiusto no. Il giusto soffre per cose che per altri sono naturali e necessarie. Il giusto soffre per l’ingiustizia, l’insensatezza e l’assurdità degli avvenimenti. Soffre per la distruzione dell’ordine divino del matrimonio e della famiglia. Soffre per questi motivi non soltanto perché gli appaiono come una privazione, ma perché riconosce in essi qualcosa di malvagio, di empio. Intorno a lui tutti dicono: è così, sarà sempre così e così dev’essere. Il giusto dice: non dovrebbe essere così, è contro Dio. Il giusto si riconoscerà proprio dalla sua sofferenza: egli porta, per così dire, il sensorio del Signore sulla terra. Per questo egli soffre come il creatore soffre nel mondo. Nella sofferenza del giusto, però, c’è sempre l’aiuto del Padre, che gli è continuamente vicino. Il giusto sa che lo lascia soffrire affinché impari ad amarlo per causa sua. Nella sofferenza il giusto trova Dio. È questo il suo aiuto. Trovate Dio nella vostra separazione e troverete aiuto!
8 giugno 1944

Tempi malvagi
Sono tempi malvagi, quelli in cui il mondo tace l’ingiustizia, quelli in cui l’oppressione dei poveri e dei miseri provoca un forte grido rivolto al cielo che lascia indifferenti i giudici e i potenti; quando le comunità perseguitate e sofferenti chiedono aiuto al cielo e giustizia agli uomini e sulla terra non si leva nessuna voce per difendere i loro diritti. Sono figli di Dio quelli che subiscono questi soprusi, non dobbiamo dimenticarlo: sono uomini come voi, sentono dolore come voi, subiscono la violenza che proviene da voi; hanno gioie e speranze come voi, provano onore e vergogna come voi; sono peccatori come voi e come voi hanno bisogno della misericordia del Signore; sono vostri fratelli! Sono muti? No, non lo sono, possiamo sentire ovunque le loro voci, ma le loro parole sono spietate, parziali. Non puntano alla giustizia, ma alla considerazione della persona. No, voi giudicate iniquamente sulla terra e le vostre azioni aprono la strada alla violenza. Quando la bocca dei padroni del mondo tace per ingiustizia, le braccia si preparano a compiere azioni malvagie. Il linguaggio espresso da questi atti è spaventoso e non crea equità. Da qui nascono la miseria e il dolore del corpo; la comunità perseguitata, prigioniera e sconfitta, prova il desiderio di redenzione. Abbandonatemi nelle mani del Signore, ma non in quelle degli uomini!
11 luglio 1937

Perché neghiamo i nostri peccati?
Esiste una sola via che piace a Dio e agli uomini: non negare le colpe, ma riconoscerle. Se finora non lo abbiamo fatto, c’è ancora tempo, se decidiamo di inginocchiarci davanti al Signore per ammettere i nostri peccati. Ci sono vari modi per negare le proprie colpe:
– Farle ricadere sugli altri. Incolpare il prossimo per liberare noi stessi, diventare accusatori dei fratelli. Equivale al tradimento e all’omicidio!
– Attribuirle al mio modo particolare di essere, a una mia predisposizione. «Non mi va», «non dipende da me», «ho bisogno di qualcosa di diverso». Rappresenta un pretesto infame per rifiutare la responsabilità che il creatore mi ha affidato. In questo modo divento accusatore di Dio.
– Minimizzare ogni cosa. È una «soluzione amichevole» di tutte queste faccende e dei peccati, una mancanza di rispetto per il fratello, per la vita in comune guidata dalla parola, dalla preghiera, dalla messa. Perché neghiamo le nostre colpe?
– Per paura di dovermi riconoscere come un cattivo cristiano e di dover prendere su di me tutta la responsabilità.
– Per paura di Dio, di avere a che fare con Lui e con la sua misericordia.
– Per paura delle conseguenze. Se riconosco il male me ne devo allontanare e questo comporta effetti evidenti. Gli altri se ne accorgeranno. Dovrò andare dal mio prossimo e chiedere perdono, cominciare finalmente a combattere contro di me e contro il peccato, rinunciando alla quiete e alla comodità . Devo rischiare e considerare la penitenza. Per questo nego tutto. Tuttavia non riesco a fare nemmeno ciò che voglio. Riconoscere il peccato e allontanarsene: questo è possibile. In che modo?
– Ammettendo di essere il colpevole di tutto. Non sono le circostanze, gli altri, una mia predisposizione: la colpa è mia. Il resto non c’entra. Sono io che ho disprezzato la messa, io che non ho sfruttato il tempo a mia disposizione per pregare, io che non ho rispettato il mio simile, che non ho pregato per lui, che non ho chiesto aiuto e consiglio. Solo io!
– Andando dal fratello per chiedergli perdono, in modo che non ci sia più nulla che ci separi.
– Con la penitenza. Ultima raccomandazione. Se non sei in grado di non peccare più, ne sarai capace con la penitenza. Questo riuscirai a farlo. Infine, rinuncia. L’odio per il peccato cresce con l’amore per Dio. Inizia una nuova vita con l’aiuto del Signore.
– Traduzione di Anna Maria Foli
© 2015 - edizioni Piemme
Dietrich Bonhoeffer

Il Sole Domenica 15.3.15
Ivan Pavlov 1849-1936
La biografia di Todes sullo scienziato russo basata su documenti finora inaccessibili è una miniera di sorprese e di informazioni
di Ermanno Bencivenga


Questo trimestre tengo due seminari, su Kant e Hegel. In entrambi abbiamo due libri di testo; ogni settimana ne discutiamo a fondo, per tre ore, una quarantina di pagine. Una mia studentessa nel frattempo sta prendendo un altro seminario, per cui vengono assegnati due libri la settimana. Lei, un po’ spaventata, ha espresso le sue preoccupazioni all’insegnante, che le ha risposto: «Ma non lo sai? I libri non si leggono, si sfogliano».
La frase mi è tornata in mente quando una decina di giorni fa ho aperto Ivan Pavlov di Daniel Todes, un libro di oltre 800 pagine su cui avevo deciso di scrivere. A suggerirmela è stato il fatto che più di un collega, nel corso degli anni, mi ha confessato a mezza voce di recensire un libro, spesso, basandosi sulla quarta di copertina. A me questa pratica, prima ancora che intellettualmente dubbia, è sempre apparsa autolesionista: leggere un libro spalanca un mondo; far finta di leggerlo significa buttare a mare l’opportunità che ci offre.
Visto che il libro riguarda uno scienziato sperimentale, tentiamo un esperimento: quale sarebbe la differenza fra recensire questo libro in base alle brevi descrizioni che lo promuovono e in base a una sua lettura? Dalle brevi descrizioni appuriamo quanto segue: (1) La traduzione «riflesso condizionato» è errata. Pavlov usava invece «riflesso condizionale», sottolineando non tanto il fissarsi di una reazione a un certo stimolo quanto invece il fatto che quella reazione si stabilisce sotto certe condizioni e svanisce sotto altre, mentre un riflesso «non condizionale» (per esempio la salivazione alla vista del cibo) si verifica comunque. (2) Durante il regime sovietico, e anche stalinista, Pavlov fu un clamoroso dissidente, che criticava in pubblico il governo ed era tollerato solo per la sua reputazione internazionale. Scomparso alla vigilia delle grandi purghe dei tardi anni Trenta, fu poi sfruttato dalla propaganda sovietica come brillante esempio di scienziato materialista, e anche dal behaviorismo americano che lo assimilò alla propria ideologia. Lui, in realtà, non negò l’esistenza e l’importanza della mente e dell’esperienza soggettiva, e concepiva la sua ricerca come tesa a illuminarne la struttura. (3) Lavorando per vent’anni e consultando documenti mai prima accessibili, Todes ha composto la prima «definitiva» biografia che separa l’uomo e lo scienziato dal mito.
Ce ne sarebbe abbastanza per scrivere un pezzo; convenite? Perché sottoporsi alla fatica di leggere questo tomo? Per scoprire che Pavlov, nel preparare il suo classico testo del 1897 sul sistema digestivo, selezionava fra i dati quelli che gli facevano comodo (in un caso, due su un totale di trentadue per «dimostrare» una regolarità che altrimenti non si presenterebbe)? Per apprendere che, dei quattro finalisti per il premio Nobel del 1901, Pavlov dovette aspettare il suo turno fino al 1904, e anche allora lo vinse a dispetto di gravi critiche solo perché aveva amici influenti nella commissione? Per assistere al suo imbarazzante annuncio nel 1924 di aver provato l’ereditarietà di caratteri acquisiti (la cui ritrattazione non impedì al regime sovietico di arruolarlo dopo morto in difesa della disastrosa «biologia» di Lysenko)? O per seguirlo mentre lo stato lo coccola investendo fondi enormi in istituti di ricerca da lui diretti (con risultati molto modesti) fino a riceverne gli interessi quando il famoso dissidente inaugura il congresso di fisiologia a Leningrado nel 1935 ringraziandolo per il suo sostegno alla scienza e la sua difesa della pace? Tempo perso, sembrerebbe.
Vediamo. Intorno a pagina 660 Pavlov sta esaminando il comportamento di due scimpanzè che imparano ad accumulare scatole per salirci sopra e raggiungere un frutto appeso in alto. È contrario alla spiegazione gestaltista di Wolfgang Köhler; per lui i primati procedono per semplici tentativi ed errori, seguiti dallo stabilirsi di un’associazione quando l’esito è vantaggioso. Ma decide di non chiamare questa associazione «riflesso condizionale». Perché? Perché gli scimpanzé stanno imparando qualcosa di vero. E finalmente capiamo che cosa c’è in ballo nella sua preferenza per «condizionale» su «condizionato»: associare la salivazione al suono di un metronomo non serve a niente, è un ghiribizzo dello sperimentatore, dimostra che ai cani (e forse agli esseri umani) si può fare di tutto; quando è la realtà a «condizionare» (cioè a fissare) una nostra reazione, quello non è un ghiribizzo, è apprendimento. Il che suggerisce un’idea della realtà come tutt’altro che arbitraria e capricciosa, forse anche come benevola. Intorno a pagina 480 Pavlov sta dibattendo con Fursikov, un suo collaboratore marxista che ha scoperto un interessante fenomeno. Oltre ai riflessi ci sono anche le inibizioni condizionali: lo sperimentatore può creare nell’animale un blocco della salivazione in presenza di certi stimoli, dissociandoli dall’offerta di cibo. E Fursikov ha riscontrato l’esistenza di una «induzione reciproca»: riflessi e inibizioni (a stimoli diversi) non si oppongono soltanto ma si rinforzano. Pavlov e Fursikov sono entrambi materialisti (almeno metodologicamente), ma Fursikov è un materialista dialettico, che crede nell’interazione e nel superamento degli opposti in natura. Pavlov resiste e alla fine cede; indipendentemente dal corteggiamento personale che riceverà dal regime, il suo accordo con l’ideologia marxista è già scritto nel suo accordo con Fursikov.
Sono esempi delle piccole sorprese che possono arricchire il nostro rapporto con (1) e (2) e convincerci che, a dispetto dell’enorme erudizione di Todes, il suo lavoro (per fortuna!) non è definitivo: su Pavlov c’è ancora molto da riflettere e da discutere. Un libro è come un viaggio: se da esso non impariamo nulla di più di quel che sapevamo in partenza, se non ci lascia con qualche interrogativo, non valeva la pena di leggerlo. Ma come possiamo impararne alcunché se ci limitamo a sfogliarlo?

Daniel P. Todes, Ivan Pavlov: A Russian Life in Science, New York, Oxford University Press, pagg. xx+856, $39,95

Il Sole 15.3.15
Matematica
L’arte di scolpire teoremi
Da Pitagora a Gödel la domanda ricorrente sui numeri è sempre la stessa: esistevano già prima che li scoprissimo oppure li inventiamo?
di Carlo Rovelli


«Oh, amici, cosa sono dunque questi meravigliosi “numeri” sui quali voi state ragionando?». Così Platone ai matematici, nel VII libro della Repubblica. Ventiquattro secoli più tardi ci poniamo ancora la domanda. La risposta sembra facile: i numeri sono quelle “cose” come 1, 2, 3, 4 eccetera. Ma intanto ci sono altri numeri oltre a questi numeri “naturali”; per esempio, 3,14 è un numero. E poi, cosa sono queste “cose-numero”»? Sono una nostra invenzione, oppure sono qualcosa che esiste indipendentemente da noi?
Molti matematici rispondono con convinzione che i numeri, con tutta la matematica, esistono indipendentemente da noi. L’insieme delle verità matematiche forma una realtà astratta che i matematici vanno esplorando e scoprendo un po’ alla volta, come gli esploratori dell’Ottocento esploravano l’Africa. Alain Connes, grandissimo matematico francese, scrive che per lui i numeri hanno «una realtà più stabile della realtà materiale che ci circonda». Roger Penrose, grandissimo matematico inglese, gli fa eco: «C’è qualcosa d’importante che si guadagna pensando che le strutture matematiche abbiano una realtà in se stesse». Raro caso di accordo fra francesi e inglesi. Platone sarebbe stato felice di queste risposte: lui immaginava un mondo di idee perfetto, del quale il nostro mondo non sarebbe che un pallido riflesso. In questo ideale mondo platonico, la matematica aveva una posizione regina.
Ma ci sono altri modi di pensare cosa siano i numeri: per esempio un’utile costruzione che noi abbiamo inventato. Oppure l’utile sviluppo di un sistema di regole che noi decidiamo di studiare, perché è bello e perché ci torna utile. Insomma, una costruzione umana, molto umana. «Noi creiamo nuovi numeri», scriveva per esempio nel XIX secolo Richard Dedekind, il matematico che ha formulato la moderna teoria dei numeri che misurano quantità continue, come la lunghezza di un segmento.
La domanda sulla natura dei numeri apre e chiude un testo di Umberto Bottazzini, Numeri. Il libro è di facile lettura, ma denso di fatti di storia della matematica. Ripercorre secoli di evoluzione del concetto di numero, da Pitagora al teorema di incompletezza di Gödel. Si parla dei numeri naturali, delle complesse strutture che questi nascondono, come i numeri primi, ma anche dei numeri razionali, come 0,1, dei numeri reali, come la radice quadrata di due, dei numeri complessi, come la radice quadrata di -1 eccetera. Ciascuna classe di numeri con le sue proprietà, ciascuna rivelatasi poi utilissima, anzi essenziale, per la scienza.
Bottazzini prende risolutamente parte nella disputa sulla natura dei numeri, fino a concludere: «La credenza nell’esistenza di una matematica platonica che trascende i corpi e le menti umane e struttura il nostro universo – credenza che corrisponde alla filosofia “spontanea” diffusa fra i matematici – appare sempre più destinata a essere relegata a materia di fede, non dissimile dalla fede religiosa». Questa posizione anti platonica è illustrata ricordando il pensiero classico dei matematici dell’Ottocento che l’hanno sostenuta, ma soprattutto viene collegata da Bottazzini ai risultati recenti delle ricerche scientifiche sul modo in cui i numeri sono codificati nel nostro cervello, sulle capacità numeriche di altre specie animali e sulla variabilità nella padronanza dei numeri delle diverse culture umane.
Quello che emerge da questa sintesi è che forse non è del tutto vero che i numeri li «creiamo liberamente noi», come voleva Dedekind, ma solo nella misura in cui la nostra istintiva padronanza dell’azione del numerare non è che un risultato della nostra evoluzione biologica. Come in molti altri campi, la sensazione dell’esistenza di realtà trascendenti indipendenti da noi è un abbaglio, che viene dall’assumere che i termini del nostro linguaggio facciano sempre riferimento a qualcosa, quando invece spesso la loro funzione è diversa da quella di designare. Insomma, i numeri sono strumenti e forme di una attività in cui siamo impegnati, e alla quale in parte l’evoluzione ci ha predisposti, non entità con esistenza autonoma.
E la sensazione dei matematici di scoprire cose che già esistevano?
Michelangelo ci ha lasciato scritto che uno scultore non crea una statua, perché la statua esiste prima dell’artista: è già nel blocco di marmo. Quello che l’artista deve fare è solo levare la pietra in più e «tirare fuori» la statua dal blocco di marmo. Nello stesso modo, dall’insieme amorfo e privo di senso di tutte le «proposizioni vere» che seguono dall’insieme di «tutti i possibili sistemi assiomatici», il matematico estrae, come Michelangelo dal marmo, gli scintillanti teoremi che fanno la bellezza e l’utilità della matematica. Agli occhi di Michelangelo, di Alain Connes o di Roger Penrose, forse non si tratta che trovare quello che già “esiste” – in fondo “esistere” è un verbo che possiamo usare come ci pare –. Ma agli occhi del resto di noi, sono Michelangelo e i Matematici che creano le forme. Le forme che parlano a noi che sono utili a noi che hanno senso per noi creature naturali in un mondo naturale. Senza bisogno di immaginare realtà al di là della realtà.
Umberto Bottazzini, Numeri, il Mulino, Bologna, pagg.208, € 14,00

Il Sole Domenica 15.3.15
Storia della scienza
Un puzzle, non una linea retta
di Anna Li Vigni


Se si provasse a chiedere a un liceale che cosa è il «progresso scientifico», probabilmente ne offrirebbe una visione idealistica, come di una “retta” che attraversa per lungo l’intero corso della storia umana dalle origini fino ai tempi nostri. Dal punto di vista etimologico non fa una grinza: progredior, in latino, significa “avanzare”. Vale la pena, però, fermarsi a riflettere, usando gli stessi strumenti critici coi quali il concetto di “progresso” fu smontato da Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia: l’avvicendarsi degli eventi che hanno caratterizzato la scienza, così come il susseguirsi di quelli che hanno determinato la storia, sono entrambi frutto di una serie – spesso causale e non controllabile – di incalcolabili circostanze singolari, i cui protagonisti sono gli uomini, le loro intelligenze, i loro sentimenti, i condizionamenti in cui vivevano immersi. Si cominci col dire agli studenti che, quando si parla di storia della scienza, l’idea del puzzle è più adatta rispetto a quella della linea. Una riuscita operazione di critica alla storia della scienza la leggiamo oggi nel volume del matematico e collaboratore di questo supplemento Giulio Bartocci. Nel suo Dimostrare l’impossibile, ci regala la narrazione di numerosi “casi” – di alcune tra le principali scoperte storiche nel campo della matematica, della fisica, di ogni ambito scientifico – secondo una prospettiva che è al contempo elegantemente letteraria e filosoficamente ineccepibile, una narrazione divulgativa nella quale il gusto per l’aneddotica si fonde con la precisione descrittiva di svariate evidenze.
Prendiamo a esempio la cosiddetta «rivoluzione scientifica», un luogo comune di cui si scrive tanto nei libri di scuola: il concetto, introdotto da Alexandre Koyré nel 1934, induce l’idea di un “sisma” epistemologico che avrebbe fatto crollare all’istante l’edificio della cosmologia tradizionale tolemaica agli esordi della modernità. Ma ciò non rende giustizia alla complessità dell’ampio ed eclettico tessuto culturale che ha contribuito alla creazione di quella nuova sensibilità, pronta a inglobare, sebbene in modo drammatico, le conseguenze teoriche delle osservazioni astronomiche fatte da Galilei; si pensi alla realistica rappresentazione della luna presente in un affresco del pittore amico di Galilei, il Cigoli, che di sicuro osservò il cielo col cannocchiale dello scienziato. Leggendo la biografia dell’americano George Starkey, che nel 1650 a Londra diviene amico di Sir Robert Boyle, scopriremo che l’arte alchemica, tanto denigrata dagli storici, non è poi così lontana dalla moderna chimica. Ci arrampicheremo sulle barricate parigine durante i moti rivoluzionari del 1830 con Evariste Galois. Ipotizzeremo che la teoria della relatività di Einstein possa aver preso forma dalle sue letture giovanili delle avventure di Lumen, supereroe letterario che infrange le leggi del tempo viaggiando per il cosmo. Ci innamoreremo, con Paul Valéry, della matematica, una forma di “poesia” costruita nella ricerca del possibile in condizioni di impossibilità. Leggendo le vicissitudini biografiche e teoriche di tanti studiosi, impareremo che la vera scienza «si rivolge – deve rivolgersi – a tutti. Solo non venendo meno a questa imprescindibile condizione il discorso scientifico – articolato in una pluralità di voci, anche discordanti – può essere considerato un esempio di ciò che Kant nel saggio Che cos’è l’Illuminismo? definisce fare pubblico uso della propria ragione». L’iperspecialismo in cui versano le scienze contemporanee – ciascuna ermeticamente chiusa nel suo bunker epistemologico – è un male gravissimo di cui soffre la cultura odierna. Il risultato è un sempre maggiore disinteresse da parte delle persone nei confronti della scienza e una sempre minore vigilanza critica da parte dell’opinione pubblica sulle decisioni politiche che implicano l’utilizzo della scienza. Un male anacronistico, considerato che oggi la rete permetterebbe una diffusione sconfinata e immediata dei risultati scientifici, e non solo presso gli addetti ai lavori – nel 2009, ad esempio, Tim Gower ha proposto un difficile quiz matematico indistintamente a tutti i lettori del suo blog. Forse è un male ancora guaribile.
Claudio Bartocci, Dimostrare l’impossibile, Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. 272, € 23,00

Il Sole Domenica 15.3.15
Filosofia politica
Il diritto collettivo al territorio
di Sebastiano Maffettone


Foundations of a Theory of the Territory di Margaret Moore, che insegna presso l’Università di Queens in Canada, è un libro importante e assai ben scritto su un tema classico ma da tempo trascurato della politica, il territorio. Coerentemente con il titolo, il libro presenta una teoria filosofico-politica del territorio. L’autrice discute la questione seguendo tre direttive: la terra, gli stati e le persone. La tesi di fondo è che le persone hanno legami profondi con il luogo in cui vivono che, qualora strutturati istituzionalmente, sono alla base di un vero e proprio diritto collettivo al territorio. Questo diritto al territorio ha numerose implicazioni che vanno dalla proprietà della terra e delle risorse al fatto che non si possono spostare individui e gruppi dal loro territorio senza consenso. Il diritto al territorio, così inteso, ha un elemento personale, che Moore lega alla residenza stabile in un luogo, e uno collettivo, che l’autrice attribuisce ai “people”. Esiste a suo avviso addirittura una qualità speciale chiamata “peoplehood” (più o meno “essere un popolo”) da cui dipendono diritti collettivi al territorio. La concezione di popolo di Moore è originale e, come capita in casi del genere, controversa. Gli aspetti centrali della sua visione sono: (i) l’identificazione del popolo in base a identità di gruppo; (ii) queste identità di gruppo poggiano a loro volta su relazioni tra persone perduranti e significative; (iii) tali basi morali implicano un’aspirazione collettiva a controllare le istituzioni principali che regolano il collocamento fisico delle persone nel territorio. Il pregio maggiore di questa tesi – e anche il suo punto più arduo – consiste nel collegare in maniera stringente relazioni umane sostanziali di natura morale con l’idea fondamentalmente istituzionale di auto-determinazione politica dei popoli. Si differenza così sia dalle teorie statiste, che ritengono solo gli stati capaci di diritti territoriali, sia da quelle culturaliste che legano i diritti sul territorio alla comunità etnica o religiosa. Su questa base, Moore può scrivere, nel centrale capitolo terzo del volume, che «le ragioni per cui l’autonomia collettiva è importante rispecchiano alcune considerazioni o argomenti che fondano il valore dell’autonomia personale». Una tesi come questa rompe con l’istituzionalismo liberale tipico della teoria politica contemporanea, secondo il quale la giustizia non dipende direttamente dalla realizzazione dei fini morali degli individui. In questo modo, Moore fonda il potere legale sul territorio nella capacità relazionale delle persone che conduce poi al formarsi di una volontà politica.

Margaret Moore,A Political Theory of Territory, Oxford University Press, pagg. 280, £ 47,99

Il Sole Domenica 15.3.15
Psicologi e torture
Sofferenza senza confini


Se la storia ci impedisce di stupirci, ma non di inorridire, di fronte alle torture perpetrate da militari e poliziotti, lo stupore quasi sopravanza l’orrore quando veniamo a sapere di psicologi implicati in torture e umiliazioni di detenuti. In Pay Any Price: Greed, Power and Endless War ( Ad ogni costo: avidità, potere e la guerra infinita) James Risen, premio Pulitzer del «New York Times», ricostruisce alcuni retroscena della lotta al terrorismo al tempo dell’amministrazione Bush: operazioni svolte nell’ombra da agenzie governative, programmi di tortura e contratti milionari per le consulenze di «esperti di terrorismo». Dove pare che il ruolo dell’American Psychological Association (Apa), in quegli anni, non sia stato cristallino. Di grande rilievo è dunque la pubblicazione di un documento, l’«Executive Summary of the Senate Select Committee Report on Intelligence», a cui molti guardano come un primo passo di trasparenza nel cuore di tenebra della politica estera americana. Ma soprattutto come l’ammissione da parte del governo americano dell’esistenza di una policy of torture. Il report identifica due psicologi messi sotto contratto dalla Cia, per milioni e milioni di dollari, come consulenti per estorcere informazioni dai prigionieri attraverso interrogatori enhanced, cioè “rinforzati”. Quegli stessi interrogatori che Kathryn Bigelow ha rappresentato in Operazione Zero Dark Thirty, facendo infuriare senatori come John McCain e scrittori come Bret Easton Ellis (poi si è scusato) che hanno accusato la regista di diffondere falsità romanzate moralmente discutibili.
Le indiscrezioni sul coinvolgimento di psicologi in torture effettuate in strutture di detenzione americane risalgono al 2004, con la comparsa di un articolo di Neil Lewis sul «New York Times». Due anni dopo compare sul «Time» un articolo in cui si riferisce della presenza di psicologi in interrogatori “rinforzati” da deprivazioni di sonno, esposizione al freddo, diniego di usare il bagno, waterboarding. Tutti sistemi che, senza scomodare Gandhi («Se il prezzo del nostro vivere fosse la tortura di esseri senzienti, dovremmo rifiutarci di vivere»), la legge internazionale considera torture. Stando a Risen tutto risalirebbe al settembre 2003, quando alcuni psicologi avrebbero insegnato al personale di Guantanamo tecniche basate sull’inversione di alcuni principi Sere (Survival, Evasion, Resistance, Escape), cioè tecniche di resistenza sviluppate durante la guerra di Corea e insegnate ai soldati per sopravvivere, se catturati, alle torture. Come incursioni post traumatiche tornano alla memoria le immagini dei militari nella prigione irachena di Abu Ghraib.
Nel 2006 la Commissione per i Diritti umani dell’Onu riporta in modo esplicito la violazione sistematica dell’etica professionale da parte di professionisti della salute, riconosciuti come complici di abusi su detenuti. L’Apa, senza svolgere adeguate indagini, nega però la partecipazione di psicologi a questi interrogatori. E solo quando le prove diventano incontestabili, c’è una parziale ammissione. Va qui ricordato che, nel 2008, la vicenda era ormai di dominio pubblico, tanto che i membri Apa decidono di approvare con un referendum la proibizione per gli psicologi di lavorare in strutture di detenzione, se non per il beneficio specifico del detenuto o per un terzo indipendente.
Secondo Robert Roe, presidente della Federazione Europea delle Associazioni di Psicologi (Efpa), che patrocinerà il XIV European Congress of Psychology che si terrà nel prossimo luglio a Milano, il rischio di psicologi coinvolti in interrogatori e torture esiste anche in Europa. Decide che bisogna meglio educare alla vigilanza quegli psicologi che si trovano a vivere situazioni in cui potrebbero diventare spettatori o attori di abusi, e per questo attiva una Task Force on Human Rights per indagare contesti istituzionali critici, come l’esercito e la polizia, e sensibilizzare gli psicologi ai temi dell’estremismo nazionalista, del fanatismo religioso, della xenofobia, del razzismo.
Nonostante qualche limite relativo alla trasparenza delle fonti, è interessante leggere il libro di Risen per ricordare che il nostro sacrosanto bisogno di sicurezza non deve mai lasciare spazio alla tentazione, sempre in agguato, in chiunque, di disumanizzare il nemico. Cioè di applicare (per il nostro divertimento, per la nostra aggressività, per la nostra noia) un “altro statuto”, appunto, “non umano”. L’esperimento di Zimbardo insegna.
«Il maltrattamento – continua Roe – è una minaccia costante all’interno delle “istituzioni chiuse”: scuole, collegi, conventi, case di riposo, carceri, centri di custodia cautelare eccetera; soprattutto dove i differenziali di potere sono grandi, nessun contatto è possibile con il mondo esterno e il segreto è la norma». È proprio su questi terreni difficili, lungo i confini dell’odio, che la psicologia può dare il meglio di sé assumendo una prospettiva transculturale. Lo testimonia Marwan Dwairy, docente all’Emek Yezreel Academic College e all’Oranim Academic College, che svolge la sua attività professionale a Nazareth, città araba in territorio israeliano. Dwairy racconta il suo approccio «culturalmente sensibile» nel bel volume Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani, appena pubblicato da Franco Angeli per la cura di Alfredo Ancora. Ci insegna infatti che il “confine” non ha solo un significato geopolitico, non è solo la linea che separa i territori (e le persone). Sul “confine” è possibile creare “spazi ulteriori”, facilitando la costruzione di ponti tra umani, anche se provengono da esperienze estreme su fronti nemici. Alla psicologia si chiede questo: l’esercizio della mediazione, non quello della sopraffazione né quello dell’estorsione.
James Risen, Pay Any Price: Greed, Power, and Endless War, Houghton-Mifflin Harcourt, New York, pagg. 286, $ 28,00
Marwan Dwairy, Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani, a cura di Alfredo Ancora, Franco Angeli, Milano, pagg. 208, € 29,00

Il Sole Domenica 15.3.15
Biennale Democrazia. Scontro di civiltà
Possiamo evitare un’altra Lepanto?
La società occidentale è stretta tra i suoi principi democratici e l’insofferenza per le idee diverse dell’Islam
La scelta dovrà essere tra la reciprocità o la soppressione dell’altro
La nostra idea di Stato, centralizzato e dotato di solidi confini è del tutto diversa
da quella di umma islamica, comunità senza confini
di Luigi Bonanate


La storia politica internazionale aveva conosciuto una delle sue svolte più significative nel 1989, con la fine del bipolarismo. Allora tutti pensarono che il mondo fosse migliorato e tutto sarebbe diventato più facile. Ma nel 2001 si dovette ammettere che le cose non erano andate così bene, e anzi da allora abbiamo avuto due guerre (Afghanistan e Iraq), limitate ma devastanti, mentre di una terza che avanza non abbiamo compreso i connotati, e una gravissima crisi finanziaria internazionale. Molti ne hanno dedotto che quella profezia, in sé infondata e anche provocatoria, lanciata da Samuel Huntington, che la diversità delle culture dominanti (ora che, apparentemente, le ideologie politiche sarebbero morte — ma questo è un punto sul quale la riflessione dovrebbe essere molto più attenta) avrebbe finito per causare lo scontro tra l’Occidente e l’altro maggiore raggruppamento identitario al mondo, l’Islam.
Se oggi viviamo le convulse, drammatiche e non di rado disgustose, vicende della lotta che si è scatenata nel cosiddetto Vicino Oriente, sembra che ci sentiamo ancora ripetere da Huntington (il quale però non è più tra noi da diversi anni) che la sua analisi era corretta e il grande pericolo verso il quale l’Occidente si sta lasciando trascinare è lo scontro non più soltanto ideale o teologico, ma violento e militare, con l’Islam che non potrà concludersi che con un vincitore e uno sconfitto. Una nuova Battaglia di Lepanto ci attende?
Tutte queste vicende sono state (e questo Huntington non l’aveva previsto), immerse in una dimensione strategica che va, nel nostro mondo occidentale, sotto il nome di «terrorismo», parola che per noi evoca pagine di storia terribili, dai tempi delle sue manifestazioni all’interno degli stati a quelli delle Twin Towers, di Madrid, di Londra. I nostri giornali riferiscono le vicende del Medio Oriente come la «lotta al terrorismo». Ma dov’è il terrorismo? I jihadisti (chiamiamoli così per semplicità) non uccidono gli americani perché vogliono conquistare gli Usa, ma perché vogliono costruire un tipo di società – sulle loro terre – distinta e diversa da quelle che vogliamo noi. Vogliono mandarci via dalle loro terre: possibile che non lo si capisca? Vogliono utilizzare loro le loro risorse.
L’Occidente deve decidere una cosa: se predilige l’idea dell’eguaglianza universale e dell’autogoverno (basi della concezione democratica) deve ritirarsi da dovunque non sia ben accolto, e permettere a chiunque di autogovernarsi come vuole (dopo ciò, potrà impegnarsi nella ricostruzione di rapporti di civiltà). Altrimenti deve avere una concezione della società secondo la quale l’idea occidentalistica è superiore a qualsiasi altra, e dunque essa deve combattere, ovunque nel mondo, modelli di società diversi. Una alternativa sconvolgente, non semplice perché molto coinvolgente, è quella cui Biennale Democrazia ci spinge ora con il riferimento alla categoria dei «Passaggi». Essi implicano un punto a quo («da dove veniamo»), l’analisi della situazione presente («chi siamo» diventati), quale futuro ci attenda («vero dove andiamo»). Se questa scansione (chi non vi ha riconosciuto il titolo di una delle opere più straordinarie di Paul Gauguin?) si presta all’individuazione di veri e propri punti di passaggio, meno chiaro è se essi siano spontanei e involontari, o se essi siano invece il prodotto di una nostra lucida e forse luciferina volontà o — chi sa — di errori che abbiamo commesso in buona fede.
L’Occidente è stretto tra principi astrattamente democratici e l’insofferenza (intollerante) per le idee “diverse” dalle sue; vorrebbe che tutti fossero uguali, ma vuole essere lui a sfruttare le risorse naturali dei “diversi”. O gli Usa (e noi con loro) ammettono il principio di «indifferenza universale» e lasciano che ciascuno si prenda quel che vuole, ovviamente in condizioni di reciprocità. In questo modo gli unici conflitti astrattamente possibili diverrebbero quelli che violano questo principio nel tentativo di appropriarsi di qualcosa che non è loro. La cosa non è banalissima: mentre da diversi secoli l’Occidente sfrutta l’Oriente, estremo o medio, questi due non hanno mai sfruttato l’Occidente. Noi siamo andati e andiamo da loro, mentre soltanto ora essi vengono da noi, e nel modo terribile che sappiamo. Oppure devono decidere di partire alla conquista del mondo.
Anche in questo caso, tertium non datur: o ci si accetta reciprocamente o uno deve sopprimere l’altro. Ragioni storiche non misteriose e ben comprensibili hanno fatto sì che l’Occidente si sia sviluppato prima e sia prevalso sul resto del mondo. Ma a un certo punto e un po’ per volta le differenze si attenuano e le distanze socio-culturali ed economiche si riducono. Sotto certi profili ci si potrà anche sovrapporre e accettare la stessa medicina e le stesse cure che oggettivamente migliorano le condizioni di vita dei malati; ma su come debba essere organizzato uno stato, ebbene, questo non è un tema sul quale si possa giungere all’accordo universale.
Anzi: l’idea di autogoverno che l’Occidente ha sempre propugnato nasce proprio dalla constatazione che gli stessi principi non valgono per tutti e non tutto piace ugualmente a tutti. L’idea di Stato occidentale non corrisponde per nulla a quella di umma islamica, una comunità senza confini. L’Occidente è passato dal Sacro romano impero (unitario, anche se solo in teoria) fondato sulla respublica christiana allo “stato moderno”, centralizzato, e dotato di confini vieppiù alti, solidi ed evidenti. La società planetaria islamica non ha mai cercato di organizzarsi in questo modo.
Dobbiamo stabilire che hanno fatto male? Potrebbe anche darsi, ma dovremmo discuterne e darci una spiegazione delle ragioni della nostra presunta superiorità.
In mancanza di tutto ciò, continueremo a combattere il terrorismo e non lo potremo sconfiggere per la semplice ragione che non c’è!
Chiamiamo terrorismo quel che non ci piace: è sufficiente?
Cambiamenti radicali in un’epoca di crisi, attraversamenti di mondi da un luogo a un altro come raccontano le migrazioni dei popoli, come il succedersi delle generazioni, il superamento delle barriere, con nuovi inizi e opportunità. E poi ancora cambiamenti di identità, di età e di genere. Sulle molteplici declinazioni dei Passaggi si discuterà a Torino fra il 25 e il 29 marzo, per la quarta edizione di Biennale Democrazia. Ogni passaggio dischiude infatti orizzonti e apre possibilità: dalla crisi economica alle capacità previsionali dei Big Data, dalle grandi riforme che il nostro Paese deve affrontare alle scoperte della scienza, dalle mutazioni climatiche alle rivoluzioni del mondo del lavoro. La rassegna torinese sarà un laboratorio aperto, in cui trovare risposte e spunti sulle opportunità offerte dal cambiamento.
Saskia Sassen, sociologa della globalizzazione, Colin Crouch, padre del concetto di Postdemocrazia, Benny Tai Yiu Ting, costituzionalista e promotore di Occupy Central, una delle componenti di Umbrella Revolution, il movimento per la democrazia a Hong Kong, saranno alcuni dei protagonisti dei cinque giorni della manifestazione. Un’analisi del contemporaneo che parte necessariamente dal passato ancora recente, con una nuova declinazione del format I Grandi Discorsi della Democrazia, nato nell’edizione 2011: quest’anno il filone sarà dedicato alla celebrazione del settantesimo anniversario della Liberazione, dalle lettere dal carcere di Vittorio Foa, selezionate da Carlo Ginzburg e lette da Giuseppe Cederna, ai discorsi di Winston Churchill, che prenderanno corpo nell’interpretazione di Umberto Orsini, autori e interpreti ricorderanno uno dei passaggi fondamentali della nostra storia. «Cento anni fa – commenta Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia – l’Italia entrava nel Primo conflitto Mondiale. Settanta anni fa si liberava dal fascismo e dall’occupazione nazista. E noi? Quali retaggi rifiutiamo e quali lasciti vogliamo accettare e tramandare? Di fronte alle politiche del rigore e al lievitare dei sentimenti antieuropei, l’Europa politica è ancora una speranza, o è già un’illusione? In un mondo attraversato da flussi finanziari e da scambi commerciali sconfinati, i confini devono valere solo per i popoli? E come sarà la cittadinanza del futuro?». Domande aperte intorno a cui ruotano le sezioni del calendario di appuntamenti: Transiti e Barriere, sulle rotte dell’umanità in transito, delle merci, dei dati e delle informazioni; Eredità e Inizi, sulla memoria pubblica e sulle amnesie collettive, sulle ferite non rimarginate e sugli errori da non ripetere; Velocità e lentezza, sulle continue trasformazioni del mondo del lavoro, sul consumismo culturale e sull’immediatezza della comunicazione che informa tutto fino alle relazioni umane; Possibilità, sulla cittadinanza del futuro, sui possibili approdi degli epocali cambiamenti che stiamo vivendo. A cercare di accendere una luce, alcune grandi lezioni, da quella inaugurale di Claudio Magris sull’Europa delle culture a Carlo Ossola sull’Europa e le crisi delle civiltà, a Conversio et Corruptio di Massimo Cacciari.

Il Sole Domenica 15.3.15
Gaetano Salvemini
La ragioni della libertà
Le lettere dagli Usa del grande politico condensano il suo pensiero di denuncia di ogni illiberalismo
di Gaetano Pecora


È stato scritto (Voltaire l’ha scritto) che il segreto per annoiare è di voler dire tutto. Noi non diremo “tutto” di queste Lettere americane che Renato Camurri ha curato e quasi ha coccolato con calore di sentimento e grande industria di dettagli. E anzi, sorvolandole a quota altissima, punteremo diritti sulla loro prima virtù. La quale si annuncia così, con la fresca confidenza delle cose immediate: nella corrispondenza di Salvemini è tale la varietà degli interlocutori; è tanta l’abbondanza dei temi affrontati; è tale e tanta la curiosità della vita, che anche nei momenti più difficili, anche nelle situazioni più crude, anche allora Salvemini non fu mai così calato nella sua pena da chiudersi in rassegnato isolamento. Sicché basta toccarlo anche solo con mano lieve questo libro, ed ecco che cede di schianto il rugginoso stereotipo dell’esule trasportato dagli eventi in un mondo alieno, che non capisce e dal quale non è capito; duro e refrattario, dunque, a ogni sollecitazione esterna che possa smuoverlo dal blocco dei convincimenti acquisiti nella vita precedente e nei quali lui, l’esule piegato dolorosamente su se stesso, si è come murato dentro, quasi con una certa dispettosa voluttà di sapersi spiacente a Dio e ai contemporanei suoi.
Intendiamoci: Salvemini fu personalità intagliata in un legno duro, per cui non bisogna esagerare troppo con i ripensamenti del periodo americano. Alcune idee, quella per esempio sulla necessità delle aristocrazie ­­­­- certo non ereditarie, certo rinnovate dal basso, ma sempre e comunque aristocrazie - alcune idee, dicevamo, gli ricantavano dentro già da tempo, e già da tempo Salvemini era entrato in un’altra aria dove respirava aperto il magistero degli elitisti (che perciò non è conquista dell’esilio). Discorrere di un Salvemini europeo e di un Salvemini americano, dunque, si può. Anzi si deve. A condizione però di precisare che la riga del limite è tenue e che peraltro Salvemini stesso ne disperdeva volentieri la traccia quando, anche a distanza di decenni, gli capitava di rilanciare motivi antichi dai quali, in fondo, non si era mai completamente distratto. Così è per la convinzione - sbagliatissima, un vero e proprio sbrego nella tessitura logica dei suoi ragionamenti - secondo cui la democrazia politica può riuscire compatibile con qualunque organizzazione economica, compresa quella collettivistica: idea, questa, che doveva essersi rappresa a qualche fibra segreta della sua sensibilità e che Salvemini non smise mai di sollecitare, né prima, né durante, né dopo gli anni americani. L’uomo era fatto così: duro, roccioso, difficile a spiantare dagli iniziali acquisti teorici. Ma Salvemini era anche l’uomo dalla conversazione aperta, che non si negava a nessuno, ma proprio a nessuno, convinto come egli era che anche nei pensieri storti, che anche nelle idee confuse, anche lì si potesse sempre setacciare una pagliuzza d’oro. E tutto ciò, chi aveva il fiuto delle cose vive, lo capì subito. Intanto lo capirono gli studenti di Harvard che uscivano deliziati dal brio, e talvolta dal brio indiavolato delle sue lezioni. Lo capirono poi gli esuli che gli si strinsero dintorno come per riflettersi nello specchio limpido della sua coscienza (e proprio ad alcuni di essi saranno dedicati i prossimi volumi di questa serie «Italiani dall’esilio»: La Piana, Chiaromonte, Borgese, Modigliani). E infine, nei circoli americani, la fama di Salvemini volò alta tra storici, politologi, giudici della Corte Suprema, giornalisti... Quali e quanti, dunque. Altro che isolamento e gemiti da sperduto nella notte! Appena accomodato sulla cattedra di “Storia della civiltà italiana” (era il 1934), Harvard - che nelle originarie intenzioni di Salvemini doveva essere il geloso tetto di uno soltanto - diventò così l’aperta casa di tanti, dove si andava e veniva, chi per sollecitare un giudizio, chi per denunciare un’ingiustizia e chi semplicemente per mettere in moto, attraverso la sferzata del contraddittorio con Salvemini, la macchina dei propri pensieri e ritrovare lì, svelte e pulite, tutte le ragioni che militano a favore della libertà. Queste ragioni Salvemini le andava esponendo di continuo, sempre rapide, sempre chiare e dirette. Come quando, per esempio, afferrato che ebbe il flagello della denuncia contro i comunisti (ma il ragionamento tirava dentro i suoi ingranaggi anche clericali e fascisti), egli scrisse così: «Noi non invidiamo ai comunisti una dottrina in forza della quale essi trattano gli altri esseri umani come le società protettrici degli animali trattano i cavalli e i cani. Noi chiamiamo gli uomini ad essere uomini. Non ci attribuiamo il diritto di misurar loro, nella nostra insindacabile saggezza, la loro razione di pane promettendo di renderla più abbondante. Diciamo loro che la loro razione di pane debbono conquistarsela da sé, giorno per giorno, e che tanta ne conquisteranno quanto saranno capaci di conquistarne». Bello, non è vero? Sicuro: è bello. Bello di una bellezza che non cura lenocini di forma e che proprio perciò trova ancora più veloce la via del cuore. E badi, il lettore: ragionamenti così, che restano giovani e verdi anche a distanza di anni, si rincorrono a dieci doppi nelle Lettere americane. E allora: perché non raccomandarle queste lettere proprio come un tesoro di pensiero vivo?

Gaetano Salvemini, Lettere americane. 1933-1948, a cura di Renato Camurri, Donzelli, Roma, pagg. 672, € 35,00

Il Sole Domenica 15.3.15
Storia del giornalismo
C’è Del Duca nell’Unità!
La vicenda dell’imprenditore Cino, da fattorino e venditore di dispense porta a porta a editore di successo: la sua «presse du coeur» è dentro la Guido Veneziani, che sta rilevando il foglio Pd


Ormai è quasi fatta, la Guido Veneziani Editore si è aggiudicata quel che rimane (il marchio e poco più, certamente i debiti) della testata più iconica della sinistra italiana: «l’Unità». Era difficile immaginare che i resti dell’antico polo italiano del giornalismo rosa («Stop», «Intimità», «Vero», «Miracoli»...) potessero, con una offerta spericolata, tentare di rianimare il foglio fondato da Antonio Gramsci il 12 febbraio del 1924 e scomparso la scorsa estate dopo aver compiuto novant’anni.
Solo negli ultimi dieci anni della sua vita di giornale di partito, dal 2003 al 2012 (poi affiancato da «Europa», che diventa organo del Pd nel 2007 fino al 2012), «l’Unità» ha succhiato dalle tasche dei contribuenti circa 54 milioni di euro, per un esborso medio, a copia, di 100 euro (cifre pubbliche). Intanto, nello stesso periodo, cresce e prospera la Guido Veneziani Editore, erede dell’impero di Cino Del Duca (la presse du coeur), venduto nel 1994 a Quadratum e poi passato alla Gve nel 2007.
Dunque, il lungo viaggio iniziato dal garibaldino Giosuè Del Duca in occasione dell’ultima battaglia di Digione del 1871 (combattuta agli ordini dell’ “Eroe dei Due Mondi”) si conclude, quasi 150 anni dopo, col recupero de «l’Unità», vessillo di una rivoluzione solo sognata e mai realizzatasi nel nostro Paese.
Piccolo, anzi piccolissimo commerciante di provincia, Giosuè – nato a Montedinove, in provincia di Ascoli Piceno – pagherà amaramente le sue convinzioni garibaldine con continui rovesci finanziari. Cosicché Pacifico (detto Cino), il maggiore e il più intelligente dei suoi quattro figli, dovrà lasciare gli studi, per cominciare a lavorare a soli 13 anni. Cino, nato nel 1899, è però già uno straordinario imprenditore di se stesso: farà di tutto per mantenersi e aiutare la famiglia, girando le Marche come fattorino, piazzista di libri e soprattutto di romanzi popolari a dispense, fino a quando, compiuti i diciotto anni, non sarà costretto a partire per la Grande Guerra. Tornato decorato e assunto dalle Ferrovie, a causa della sua militanza socialista si guadagnerà un confino ad Agropoli (nel 1921) e un licenziamento – perché sovversivo – già nel 1923.
Si trasferirà quindi prima a Pavia e poi a Milano, dove dal ’24 al ’29 lavorerà per un altro editore, Lotario Vecchi, sempre vendendo dispense porta a porta, fino a quando nel 1929, coinvolgendo tutta la sua famiglia (un comportamento tipicamente marchigiano), creerà “La Moderna” (poi Casa Editrice Universo), con una tipografia di proprietà.
Il rivoluzionario, divenuto imprenditore e padroncino (ben quaranta operai), resterà comunque antifascista. Cino riesce a sfruttare un settore – quello dell’editoria rosa e per ragazzi – in cui è possibile realizzare profitti senza chinarsi platealmente a Mussolini. Del Duca non ha i soldi per pagare giornalisti e scrittori famosi, e quindi se li inventa: «Si offre la pubblicazione a Giovani Abilissimi Scrittori». Grazie a quest’annuncio, ne scoprirà moltissimi: giovani, e non solo scrittori, ma anche disegnatori e dirigenti.
La prima a rispondere all’appello è una donna, Luciana Peverelli, che lo accompagnerà per mezzo secolo in questa avventura, dirigendo le sue creature più importanti: «il Monello», rivista destinata ai ragazzi (titolo ispirato da Chaplin), «l’Intrepido» (prodotto per i più grandicelli) e, nel Secondo Dopoguerra, «Stop»,il vero padre del giornalismo gossip italiano.
All’inizio, però, la Peverelli esordisce con un libro a dispense, «Cuore Garibaldino», un romanzone chiaramente ispirato all’epopea di Giosuè Del Duca. Poi i veri colpi di genio, i primi giornali per ragazzi, non “confessionali” (giacché allora esistevano già il governativo «Corrierino», figlio del «Corriere della Sera», il cattolico «Giornalino», nonché il fascistissimo «Giornalino dei Balilla», mentre stava per arrivare, nel ’37, il cattolicissimo «Vittorioso»).
«Il Monello» nasce nel ’33, «l’Intrepido» nel ’35; vivranno fino agli anni Novanta, formando generazioni di ragazzi (compresa chi scrive), mentre la presse du coeur , attraverso il fotoromanzo, assolverà a un compito educativo importantissimo: non solo divertendo, ma insegnando addirittura a «vivere la modernità» a milioni di donne, dall’educazione sentimentale all’igiene personale.
Nel ’38, dopo il fallimento della sua casa editrice italiana, Cino Del Duca si trasferisce in Francia, dove riesce a stampare e a diffondere i suoi giornali anche sotto il regime di Vichy, conducendo un doppio gioco pericolosissimo che gli varrà, a guerra finita, la Legion d’Onore, la Croce di Guerra e la Medaille de la Reconnaissance Française. La sua nuova impresa era stata battezzata «Les Editions Mondiales», e mondiale lo sarebbe diventata davvero: nel Dopoguerra, «Nous Deux» in Francia, come «Grand Hotel» in Italia, tireranno un milione e duecentomila copie ciascuna.
Nel 1956 il cuore socialista di Del Duca si getta in una nuova avventura, stavolta italiana: la creazione di un quotidiano di centro-sinistra. Nasce «il Giorno» – diretto da Gaetano Baldacci –, promosso con un altro marchigiano, Enrico Mattei. Ma la loro alleanza si romperà presto.
Il 19 settembre 1957, Del Duca – sganciatosi da «il Giorno» – acquista «Franc-Tireur», ex giornale clandestino nato nel ’41, e lo trasforma in «Paris-Journal», con un lancio in grande stile. Un “rital”, come vengono chiamati con disprezzo gli italiani in Francia, che penetra e sconvolge il mondo dell’informazione quotidiana. «Il miliardario con il cuore a sinistra, il Re della stampa rosa», s’impadronisce di una grande fetta della stampa quotidiana. È il salto di qualità mai riuscito in Italia. Subito dopo, Del Duca diviene produttore cinematografico, lasciandoci alcuni tra i film più significativi della storia del cinema: L’Avventura di Antonioni, Il Bell’Antonio di Bolognini e Accattone di Pasolini.
Cino del Duca muore alla vigilia del ’68. Forse sorriderebbe (nella scheda segnaletica della polizia fascista era scritto proprio così: «espressione sorridente, segno della sua sicurezza»), pensando alla paradossale conclusione della nostra storia: «l’Unità» inghiottita dal polo rosa dell’editoria, erede della presse du coeur dello spericolato Del Duca, che nel suo campo fu un eccellente imprenditore, a differenza degli ultimi amministratori del giornale che ora verrà finalmente rilanciato da un imprenditore che ha dimostrato di essere altrettanto coraggioso e capace.
(Si ringraziano Anna e Italo Benvenga e Isabelle Antonutti per le preziose notizie)