il Fatto 6.3.15
L’Unità, accordo con l’editore ma solo per 25 riassunzioni
L’intesa è stata siglata l’altroieri dal comitato di redazione. E ora è arrivato il via libera dei giornalisti de l’Unità con 44 sì, 6 no e 7 astenuti. Approvato quindi l’accordo con il nuovo editore, il gruppo Veneziani (e la partecipazione della fondazione Eyu del Pd), che “consente la riassunzione di 25 giornalisti oggi in cigs, assicura un reddito minimo, mantiene un radicamento a Roma, garantendo così la vocazione politica del quotidiano, e in prospettiva offre possibilità di occupazione a coloro che resteranno esclusi dalla selezione iniziale”. Soddisfazione, dunque, per “una trattativa che era iniziata tutta in salita” e “che non lasciava sperare in più di qualche unità di nuovi occupati”.
Diversa l’opinione del sindacato nazionale della stampa: l’Fnsi “non può non rilevare che oltre al progetto editoriale, che rimane ancora non chiaro, non convincono le scelte imposte sulla riduzione dell’organico, sulle mansioni, sul taglio delle retribuzioni e sui criteri di selezione dei 25 giornalisti della nuova Unità. Tali criteri, infatti, sono in aperto contrasto con le norme del contratto nazionale di lavoro giornalistico”.
il Fatto 6.3.15
Renzi liquida Boldrini e Landini
La colpa è averlo criticato: “Vogliono guidare l’opposizione”
Anche la terza carica dello Stato ora è avversaria
di Luca De Carolis
Declassata, da terza carica dello Stato ad avversaria. Bollata come aspirante leader della sinistra, proprio come Maurizio Landini. Colpevole di essere “uscita dal perimetro istituzionale”, ma soprattutto del reato di leso rottamatore. Geometra per finta ma permaloso sul serio, in un’intervista a l’Espresso Matteo Renzi sperona la presidente della Camera Laura Boldrini. Sabato 21 febbraio, Boldrini si era permessa di criticare il Jobs Act (“Sarebbe stato opportuno ascoltare i pareri negativi di Camera e Senato”) ammettendo poi a voce alta: “Non mi piace l’uomo solo al comando”. Non paga, davanti alle telecamere a Dimartedì aveva messo un paletto: “Il decreto si deve fare quando c’è materia di urgenza, sulla Rai non c’è una scadenza”. Troppo per Renzi, che ha risposto con puntute sillabe: “Non mi spiego certe posizioni che la Boldrini ha preso negli ultimi giorni, uscendo anche dal suo perimetro di intervento istituzionale con valutazioni di merito se fare o un decreto legge, che non spettano al presidente di un ramo del Parlamento”. Il premier accomuna poi la presidente della Camera al nemico conclamato Maurizio Landini. “Fuori dal Pd esiste un’alternativa a Renzi?” gli chiedono. E lui affonda la lama: “A sinistra c’è già. Vedo che ci pensa Maurizio Landini, non capirei certe contestazioni che ho ricevuto in alcune fabbriche da parte della Fiom se non in base a un disegno politico. Oppure Laura Boldrini”. Renzi aveva già cannoneggiato Landini a In Mezz’ora, dopo che sul Fatto il sindacalista aveva annunciato la sua discesa in politica (“Lo fa perché è stato sconfitto sul piano sindacale”). Era la stessa trasmissione in cui aveva snobbato la Boldrini ostile al Jobs Act: “Problema suo, non nostro”. Ci pensarono le fedelissime, dalla Serracchiani in giù, ad attaccare la presidente. Poi però sono arrivate anche le parole sulla Rai. E il premier sull’Espresso è andato in frontale. Scelta in parte paradossale, perché nella stessa intervista ammette: “Sulla scuola ci siamo impegnati con il presidente della Repubblica e con le opposizioni a presentare meno decreti possibile”. Insomma, la decretazione d’urgenza è davvero un nodo. Ma guai se a dirlo è Boldrini. Attaccata dal Renzi che ha sempre e comunque necessità di nemici a sinistra. Un pilastro della sua “narrazione”, utile anche per coprire in parte le difficoltà del momento (in questo momento sulla giustizia). La grande accusata non replica, nel giorno in cui invia una lettera ai parlamentari in cui invoca il rispetto dalla parità di genere nel linguaggio. Dagli ambienti della presidenza sostengono che Boldrini “ha parlato secondo le sue prerogative, difendendo il Parlamento e la sua centralità”. E fanno notare: “Per protestare contro l’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza aveva anche scritto all’ex premier Enrico Letta”. Tradotto: di questi argomenti parla da sempre, senza sconfinamenti.
A SOSTEGNO si schiera Sel, il suo partito di riferimento, con Nichi Vendola: “Se Boldrini difende prerogative del parlamento per Renzi e i suoi cortigiani fa politica: pare che l’unico titolato a farla in Italia sia lui”. Si aggiunge il dissidente dem Giuseppe Civati: “Che Renzi se la prenda con la presidente della Camera è un fatto inusuale e di una certa gravità”. Non pervenuti i bersaniani, nonostante la milionesima frecciata del premier (“La battaglia di Bersani sui dettagli della legge elettorale è incomprensibile, nel Pd c’è una parte che dice di no a tutto per principio”). Ma la minoranza resta sul sentiero di guerra. L’apertura di Cuperlo a Grillo sul reddito di cittadinanza, con tanto di lettera a Renzi, è anche una contromossa al premier. Condivisa da Sel, che con il capogruppo Arturo Scotto chiede alla Boldrini di calendarizzare prima possibile il suo ddl sul reddito minimo. Il reddito di cittadinanza nelle sue varie declinazioni potrebbe essere il collante per incalzare il rottamato-re. Non a caso, il responsabile Economia dem Filippo Taddei chiude sul tema: “Il reddito di cittadinanza proposto dai 5 Stelle? La politica di governo è una cosa più seria degli annunci”. Una chiusura a doppia mandata, nonostante l’apertura al dialogo di Grillo nell’intervista al Corsera di tre giorni fa. Ma la porta non è sprangata, perché sulla Rai i renziani hanno voglia (e bisogno) di trattare. Dopo una riunione al Nazareno, ieri i dem hanno fatto trapelare di essere pronti al confronto sulla riforma della tv pubblica anche con il M5S. Si parla di possibili incontri con tutti i partiti, a partire dalla prossima settimana. Roberto Fico (5 Stelle), che tesse il filo da giorni in Vigilanza, risponde su Twitter: “Bene disponibilità al dialogo del Pd. Iniziare presto iter nelle commissioni parlamentari”.
il Fatto 6.3.15
La replica da Taranto Il segretario della Fiom
“Matteo ci attacca? Esegue gli ordini di Confindustria”
di Giampiero Calapà
Renzi è agli ordini di Confindustria”. Maurizio Landini è furioso, si trova all’assemblea dei metalmeccanici di Taranto, si sta occupando dell’Ilva, prima della nostra telefonata non si aspetta minimamente di doversi occupare del missile terra-aria lanciato da Palazzo Chigi via Espresso. Ma le parole del premier Matteo Renzi sul settimanale in edicola oggi sono una dichiarazione di guerra al sindacato: “Non capirei certe contestazioni – accusa l’ex boy scout – che ho ricevuto in alcune fabbriche da parte della Fiom se non in base a un disegno politico”.
Segretario Landini, si aspettava questo nuovo attacco?
Ma cosa gli abbiamo fatto? Cosa gli hanno fatto gli operai? Più che non aspettarmelo non comprendo questo accanimento. Debbo dire che si conferma una cosa, però: Renzi non conosce i metalmeccanici. Se nelle aziende lo contestano non credo che sia perché qualcuno ha chiesto agli operai di farlo.
Non sono contestazioni organizzate, quindi?
Organizzate dagli stessi operai, certo, perché percepiscono un attacco sconsiderato ai loro diritti basilari e il peggioramento progressivo delle loro condizioni di vita materiali. Altro che tutele crescenti.
Se di accanimento si tratta, secondo lei c’è un motivo?
L’intenzione è quella di delegittimare il sindacato senza farci i conti, escludendolo dal dibattito. Ma il presidente del Consiglio Renzi se ne deve fare una ragione, c’è la democrazia.
E quindi?
E quindi il premier dovrebbe sapere, anche se non ha frequentato le fabbriche, che la Cgil svolge una funzione politica da cento anni in questo Paese, pur essendo autonoma e indipendente dai partiti. È compito e dovere del sindacato quello di svolgere una funzione politica ed è quello che continueremo a fare.
Con la “coalizione sociale”?
Il primo ad usare una coalizione sociale, badate bene, è stato proprio Renzi, scegliendo la Confindustria. Renzi esegue tutto quello che la Confindustria gli ha chiesto di fare.
La coalizione sociale a cui pensa Landini non è un partito?
Questo l’ho già detto e ribadito anche al vostro giornale. Non è un nuovo partito. Nostro compito è cercare di unire tutto ciò che Renzi sta dividendo, a cominciare dalle profonde fratture sociali che le politiche del lavoro di questo governo provocano.
Quindi, concretamente, quali saranno i compiti che questa coalizione sociale dovrà svolgere?
La prima cosa è la battaglia per un nuovo Statuto dei diritti di tutti i lavoratori.
Chi dovrà far parte della coalizione sociale?
Dobbiamo mettere insieme tutti i soggetti, ad esempio, che si stanno occupando di lotta alla corruzione e all’illegalità.
Ma a chi pensa in particolare? Sigle? Partiti?
Società. Associazioni. Persone. Lavoratori, tutti i lavoratori: non voglio più la contrapposizione tra le partite iva, i precari e gli assunti a tempo indeterminato. Contrapposizione che il governo Renzi crea per risolverla al ribasso.
Cioè?
Semplice: togliendo i diritti acquisiti a tutti e non estendendo proprio niente, altro che tutele crescenti, scusate se insisto. Noi abbiamo un’altra visione e abbiamo bisogno di una coalizione sociale per perseguirla.
Renzi, nella stessa intervista, attacca anche la terza carica dello Stato, Laura Boldrini. Dice che sarebbe “uscita dal suo perimetro di intervento istituzionale”.
Anche questo fa parte del personaggio. Renzi pensa di poter sempre decidere lui chi è il suo nemico per l’occasione e di decidere allo stesso tempo il terreno di scontro. Ma questo è un gioco inaccettabile in democrazia.
Insomma Landini, lei usa gli operai contro Renzi?
Affermare questa fesseria significa non conoscere gli operai.
IL SEGRETARIO della Fiom corre all’aeroporto, pensava di doversi occupare soltanto di Ilva ieri e di cavarsela, forse, con una battuta: “I Riva di disastri ne hanno fatti abbastanza. Quindi, se si dessero una calmata farebbe bene alla loro salute e farebbe bene anche al Paese”. Parole spese per il ricorso dei Riva contro la dichiarazione dello stato di insolvenza dell’Ilva sotto la gestione commissariale. Poi è arrivato il missile del turbo-premier.
La Stampa 6.3.15
Boldrini: “Difendere l’aula è il mio dovere. E’ il cuore della democrazia”
«È il contrario di ciò che dice Renzi. Non facciamo voli pindarici, il Parlamento è il cuore della democrazia»
intervista di Francesco Grignetti
qui
Corriere 6.3.15
E contro l’ingorgo dei decreti attuativi arriva un altro decreto attuativo
di Lorenzo Salvia
ROMA Come togliere di mezzo quella montagna di decreti attuativi che non servono più ma che vanno avanti per inerzia e intasano gli uffici di mezzo governo? Semplice, con un altro decreto attuativo. Sembra uno scioglilingua o un piccolo esercizio da ufficio complicazione cose semplici. E invece è l’emendamento che governo e relatore hanno presentato ieri al Senato per la riforma della Pubblica amministrazione. Il problema è serio.
Da Monti in poi tutti i governi hanno usato la stessa tecnica (anti) parlamentare: un decreto legge sui principi base e poi una sfilza di provvedimenti attuativi per fissare i dettagli. All’inizio ha funzionato ma adesso siamo all’ingorgo: su 1.100 decreti attuativi previsti dalla fine del 2011 ne sono stati emanati poco meno della metà. Gli altri vanno comunque preparati, poi firmati e pure trasmessi alle Camere per il parere. Anche se sono inutili perché superati dagli eventi, anche se su quella materia il governo ha cambiato idea. Lo dice la legge e non si può svicolare. La mossa del governo serve proprio a far piazza pulita di tutte le norme attuative che non servono più. Con un rischio. Dice l’emendamento che «al fine di semplificare il processo normativo (...) il governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi». Uno solo potrebbe non bastare, perché le materie sono tante ed anche diverse fra loro. Non è che si torna alla casella di partenza, tipo gioco dell’oca?
Repubblica 6.3.15
Dai moniti sul Jobs Act al conflitto col premier il nuovo protagonismo della presidente Laura
di Filippo Ceccarelli
FARE il presidente della Camera non è per niente facile, in Italia, perché non si capisce se si tratta ancora di una repubblica parlamentare, o se già divenuta presidenziale, o se magari nel frattempo si è insediato un caotico miscuglio di forme istituzionali, comunque aperto alle meraviglie e alle nequizie del possibile.
In quest’ultimo caso, che poi appare forse come il più plausibile, ampio spazio si conquistano le risorse spettacolari e dell’immaginario. Così se ieri il presidente del Consiglio Renzi ha detto all’ Espresso che Laura Boldrini a suo parere «è uscita dal suo perimetro di intervento istituzionale», e lei non gli ha (ancora) risposto, magari è bene sapere che dopodomani, domenica 8 marzo, festa della donna, nella sala della Regina e nel quadro dell’iniziativa «Montecitorio a porte aperte», insieme alla presidente della Camera dei deputati interverrà l’attrice Gabriella Germani, che della Boldrini è la più nota imitatrice (radiofonica, nel programma di Fiorello).
La performance ha come titolo: «Gabriella e le sue donne». Germani simulerà dinanzi al pubblico altre figure della vita pubblica italiana, Meloni, Santanché, Finocchiaro, Mussolini e così via. Rispetto al severo richiamo del premier può sembrare una questioncina di colore o d’intrattenimento.
Sennonché, come Renzi sa meglio di chiunque altro, al giorno d’oggi la conquista dell’attenzione vale quanto la sostanza politica, anzi a volte fa parte della medesima e non di rado vi si identifica secondo le logiche di una personalizzazione portata alle estreme conseguenze.
In questo senso si può aggiungere che quando l’iniziativa è stata discussa al vertice degli organi di autogoverno della Camera, il vicepresidente Simone Baldelli, di Forza Italia, che a suo tempo più e più volte, anche vestito da donna, pure in pubblico e perfino su YouTube, ha prodotto una discreta imitazione di Boldrini, ecco, si è un po’ dispiaciuto, o ingelosito, e comunque non ha escluso di farsi vedere anche lui nella Sala della Regina.
Quasi infinite sono dunque le vie del protagonismo e ben tre Boldrini, sommate all’avvertimento renziano, qualcosa senza dubbio segnalano.
Con scrupolo forse degno di migliori analisi, gli osservatori della politica si stanno ormai abituando a tenere e a vedere insieme l’alto e il basso, le questioni pesanti e le scorrerie nella leggerezza. I rilievi, per dire, sul Jobs act e l’altolà sulla decretazione d’urgenza in campo Rai e la fotografatissima partecipazione della presidente della Camera alla benedizione degli animali, fra i quali il gatto di casa, a nome Gigibillo (deciso in un referendum su Facebook).
Ora, a parte i felini domestici, è abbastanza chiaro che il governo ha fretta e gli secca parecchio che il Parlamento rivendichi il diritto di legiferare e in vari modi si metta di traverso - sia pure in modo non risolutivo come dimostrano ghigliottine, tagliole e canguri.
Ma l’impressione è che Boldrini, da qualche tempo, non solo sta cambiando suo profilo personale, per così dire. Più loquace, meno ingessata, meno spaventata. Ma in questo processo ha capito che a lei, più che ad altri, spetta il compito di ricordare a chi di dovere che l’Italia, per ora, resta appunto una Repubblica parlamentare; e che tale forma, al di là della necessità di far presto, si rispecchia pur sempre in una quantità di corpi intermedi. I quali ritarderanno pure le grandi riformissime renziane, però, diamine, non è che sia obbligatorio abbandonarsi all’«uomo solo al comando».
Lei l’ha detto e lui, che è fumantino e non prova alcuna simpatia personale (la notte dell’ostruzionismo, mentre presiedeva, non ha esagerato in saluti) la ha inserita nella lunga lista dei personaggi di cui diffidare e in futuro da sistemare a puntino.
Cosa sia intervenuto, oltre al contesto e alle circostanze, in questo cambiamento è già più difficile da analizzare. Forse il cambio della Segreteria Generale di Montecitorio l’ha resa più sicura; forse l’elezione di Sergio Mattarella, professore di diritto parlamentare, sul Colle le consente di guardare al suo ruolo con maggiore energia e a svolgerlo secondo una logica che in senso lato non può che risultare più politica. Forse ha capito che è arrivato il momento di essere più se stessa. Forse sente di dovere di esserlo. Forse altro.
Certo i precedenti consigliano la massima prudenza. Pivetti, Violante, Casini, Bertinotti e Fini non sono un prezioso esempio, o magari sì. Fare il presidente, nel frattempo, è difficile. Ma non farlo può essere peggio.
Repubblica 6.3.15
Renzi e la fronda di Bersani “Battaglia incomprensibile Berlusconi resta interlocutore”
Mai avuto feeling con Pierluigi, ma lo stimo, però la sua battaglia sull’Italicum è incomprensibile
La Boldrini è uscita dal perimetro istituzionale, lei e Landini si comportano come leader della sinistra
Il premier attacca la Boldrini: sui decreti oltre i suoi limiti
di G. C.
ROMA. Matteo Renzi continuerà a trattare con Berlusconi.
«Nonostante
sia rimasto scottato, è sempre Berlusconi il capo del principale
partito dell’opposizione, dato che Grillo si tiene fuori e si
marginalizza da tutto...». L’offerta del premier ai forzisti quindi non
cambia. Anche se nel passato recente, ammette Renzi, la delusione c’è
stata e c’è: «Io sono stato serio con lui e leale al Patto del Nazareno.
Nessuno di noi ha mai detto che il Nazareno riguardasse il Quirinale,
poi - ironizza c’è una letteratura per cui questo accordo comprendeva
qualunque cosa, anche la campagna acquisti del Milan». E se l’ex
Cavaliere non ha mantenuto il Patto penso sia stato perché costretto da
qualche stratega illuminato, da Brunetta che ha lavorato per fare fuori
le “colombe”». Tra le “colombe” di Forza Italia, Renzi colloca anche
Denis Verdini, che certo, dice, « è una trasformazione ornitologica
sorprendente, lui era il capo dei “falchi”, ma è un pragmatico che
conosce la prima regola della politica: i rapporti di forza».
Considerazioni
politiche del premier a 360 gradi in un’intervista all’ Espresso. Da
Berlusconi a Bersani, che Renzi attacca. «Non abbiamo mai avuto feeling
personale, ma lo rispetto. La sua battaglia sulla legge elettorale è
incomprensibile».
Un’affermazione che conferma lo stop a ipotesi
di modifica come chiede la sinistra dem di cui Bersani è leader. Ascolto
sì, ma poi avanti veloci. Tuttavia ci saranno meno decreti del governo,
a partire dalla riforma della scuola. È un impegno preso con il
presidente Mattarella e con le opposizioni. Ma non manca la “stoccata”
alla presidentessa della Camera, Laura Boldrini che aveva criticato
“l’uomo solo al comando” e l’uso dei decreti. «Così è uscita dal suo
perimetro di intervento istituzionale». Con una ragione precisa, lascia
intendere. Si comportano sia lei che Maurizio Landini, il segretario
Fiom, come leader della sinistra. C’è un disegno politico. Che non
impensierisce il presidente del Consiglio, assorbito da questioni
concrete e da scelte di cambiamento per far ripartire l’Italia. Ecco
perciò l’annuncio della legge sulle unioni civili che andrà in fretta
«come la legge elettorale»; le questioni Raiway e Rai. E altro tema
concreto è la fusione Mondadori-Rizzoli. «Non mi preoccupo di Mondadori,
ma di Rizzoli il cui valore è stato distrutto da scelte discutibile». A
sorpresa, annuncia una riforma del partito in cui contino di più le
tessere e apre all’albo degli elettori.
All’attacco su tutto Brunetta, critiche da Vendola.
Repubblica 6.3.15
La paura di Matteo sull’Italicum
“I voti segreti saranno trappole”
di Goffredo De Marchis
ROMA
Non mollare Berlusconi perché le riforme si fanno insieme alle
opposizioni, ma anche perché la prossima battaglia sulla legge
elettorale sarà piena di trappole. Non a caso il velocista Matteo Renzi
quando parla dell’Italicum dice «senza fretta». L’arrivo del
provvedimento alla Camera non è ancora in calendario. Si dice che
potrebbe arrivare a maggio. Altri pensano addirittura a giugno. Sono
tempi piuttosto lunghi per il passo di marcia di Palazzo Chigi eppure il
premier non sembra preoccuparsene. Il punto è che appare sempre più
necessario ricucire il patto del Nazareno, almeno per il sistema di
voto. Le trappole infatti a Montecitorio si chiamano voti segreti. Per
questo Renzi continua a guardare a Forza Italia. Ha ottenuto, grazie
anche alla moral suasion di Mattarella e al lavoro del capogruppo Pd
Roberto Speranza, che gli azzurri rientrino in aula martedì prossimo al
momento del sì finale all’abolizione del Senato. È un primo passo ma non
decisivo perché ormai Forza Italia ha scelto: voterà contro il
provvedimento sancendo la fine dell’accordo col Pd. Ma c’è anche la
partita dell’Italicum. Ancora più delicata per certi versi.
La
minoranza del Pd ha ormai rotto gli argini annunciando che stavolta non
obbedirà alla disciplina di partito. Una svolta barricadera che
confligge con l’obiettivo di Renzi, obiettivo su cui il premier esclude
un ripensamento: il passaggio a Montecitorio dev’essere l’ultimo, la
legge va approvata in via definitiva. Senza correzioni, dunque. «Quella
uscita dal Senato per noi è una buona legge elettorale che funziona»,
dice il premier ai suoi collaboratori. Ma adesso può attendere i tempi
di una tregua con l’alleato del Nazareno.
Nel colloquio di ieri al
Quirinale, raccontano, Massimo D’Alema avrebbe spiegato a Sergio
Mattarella tutti i punti delle riforme (e non solo) che dividono la
sinistra dem da Matteo Renzi. Il presidente della Repubblica
naturalmente si è limitato ad ascoltare e a prendere nota. Però
l’offensiva è in via di preparazione. L’assemblea del 21 marzo cercherà
di mettere insieme tutti i dissidenti del Pd studiando una piattaforma
comune. Sui cambiamenti costituzionali e su altro. Qualche segnale
arriverà già martedì al momento in cui saranno contate le defezioni
dentro il Pd. Do quello che Pier Luigi Bersani considera il tradimento
del Jobs act, l’ex segretario ha annunciato il suo voto negativo
rispetto al combinato disposto riforma del Senato-legge elettorale che a
suo giudizio rappresenta un potenziale pericolo democratico. Da qualche
giorno, Renzi ripete che i ribelli alla Camera, quando arriverà
l’Italicum, non saranno «più di 40». Un numero che consente comunque
alla maggioranza di procedere tranquillamente visti gli ampi margini di
Montecitorio. Ma i voti segreti sono una lotteria. Sel e 5stelle
aspettano quel momento per “aiutare” i dissensi sparsi nel Pd e in Forza
Italia.
Il partito di Nichi Vendola ha preparato 25 ordini del
giorno da votare prima di martedì, collegati alla riforma
costituzionale. Testi che impegnano il governo sul quorum dei
referendum, sulla composizione del Senato. Ma c’è anche un odg sulla
legge elettorale, che chiede all’esecutivo di rispettare la sentenza
della Consulta contro il Porcellum. In pratica a varare un sistema di
voto proporzionale. «Sì, proponiamo al Parlamento di cambiare
completamente rotta sull’Italicum — spiega il capogruppo di Sinistra e
libertà Arturo Scotto — . E decideremo all’ultimo se partecipare o meno
al voto finale». L’impressione è che alla fine anche Sel resterà in aula
«per rispetto del ruolo della Camera e del presidente della Repubblica -
dice Scotto - non del Pd».
La Stampa 6.3.15
Matteo nella tenaglia tra minoranza Pd e Forza Italia
di Marcello Sorgi
La ripresa parlamentare della prossima settimana, con il voto finale della Camera sulla riforma del Senato, non si annuncia facile per Renzi. In un’intervista con «L’Espresso» il presidente del consiglio se la prende con la minoranza bersaniana del Pd e con il «disegno politico» del segretario della Fiom Landini e della presidente della Camera Boldrini che accusa di essere uscita dal perimetro istituzionale della sua carica. Trattandosi di un voto non definitivo non è in discussione l’esito dello scrutinio, ma la ripresa dei rapporti tra maggioranza e opposizione dopo lo scontro che aveva portato all’Aventino i gruppi contrari alla riforma e al metodo accelerato che Renzi aveva chiesto per tagliare i tempi dell’ostruzionismo.
Forza Italia nella nuova versione post-patto del Nazareno e tutta o parte della minoranza Pd paradossalmente potrebbero trovare punti di incontro, o per spingere il governo a un parziale riesame della riforma, ciò che allungherebbe molto i tempi del già complicato percorso parlamentare, o per preparare una più forte resistenza alla definitiva approvazione della legge elettorale, anche questa in arrivo alla Camera dopo il voto del Senato in cui Berlusconi, a sorpresa, aveva dato il suo appoggio per supplire al venir meno di quello di una parte del Pd. L’evoluzione politica che ha portato alla rottura del patto tra Renzi e l’ex-Cavaliere sulla partita del Quirinale e l’inasprimento dei rapporti tra Palazzo Chigi e la minoranza Pd rappresentano le incognite di questa nuova fase. C’è chi suggerisce al premier di scegliere, recuperando la dissidenza interna del suo partito o cercando di ricostruire un ponte con Berlusconi. Ma Renzi non ha intenzione di farlo, anche perché questo comporterebbe un cedimento sul testo dell’Italicum, che dovrebbe tornare al Senato, dove la maggioranza è più debole, e riaffrontare la parte più onerosa dell’iter alle Camere.
In questo quadro il disgelo con il Movimento 5 stelle, nato dall’intervista di Beppe Grillo di martedì, avrebbe potuto pesare sulle posizioni di entrambi i recalcitranti interlocutori del premier. Ma dopo l’illusione del primo momento, non sembra che il dialogo tra il premier e il leader del M5s stia facendo passi avanti. La frenata che da ieri si coglie nelle parole dei vertici del Pd, da Serracchiani a Taddei, sul reddito di cittadinanza, proposta chiave del programma 5 stelle su cui i grillini spingono per aprirsi la strada, fa trasparire il dubbio dei renziani che la svolta annunciata da Grillo alla fine si riveli come un escamotage elettorale in vista delle regionali.
Corriere 6.3.15
La transizione accentua le lacerazioni nei partiti
di Massimo Franco
Le tentazioni scissionistiche che si avvertono un po’ in tutti i partiti sono sintomi di un sistema in evoluzione. Più si appanna la stella di Silvio Berlusconi, più è evidente la difficoltà di tenere unite forze nate sulla categoria berlusconismo-antiberlusconismo. La prima a risultare piena di crepe è proprio Forza Italia, creatura dell’ex premier: a conferma che la sua leadership si è irrimediabilmente consumata. C’è un gruppo di fedelissimi che gli si stringono intorno, in nome di un’appartenenza quasi in trincea. E c’è un gruppone che guarda altrove e aspetta solo di capire se e quando sarà il momento di staccarsi.
Per quanto premiata nei sondaggi, la Lega vive una crisi simile. Nei tempi d’oro del governo e del federalismo imposto al centrodestra nazionale, le tensioni tra lumbard e Liga veneta passavano in secondo piano. Ora si impongono in prima fila. E la scissione in embrione in un Veneto dove finora il Carroccio ha dominato, dimostra quanto perfino l’identità territoriale sia sottoposta a tensioni e strappi fino a poco fa imprevedibili. La destra cambia pelle e strategia perché si è rotto il blocco elettorale e di interessi che la teneva unita. E l’opposizione la condanna ad una deriva che potrebbe durare anni.
È come se ogni contenitore si rivelasse inadeguato rispetto ad una fase di passaggio che rimescola rapporti di forza, leadership e coordinate culturali. Non a caso anche il più moderno, e il più atipico, come il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, ha subìto in questi due anni un assestamento nel quale ha perso pezzi. Perfino il Pd di Matteo Renzi non riesce a sfuggire ai conati di spaccatura: sebbene non sia chiaro chi vuole andarsene e chi invece spinge perché gli altri se ne vadano. Risulta sempre più evidente, tuttavia, l’esistenza di «due Pd», o forse tre, in apparenza inconciliabili. È una distanza che si misura nel rapporto col sindacato, e non solo.
Coinvolge le relazioni col resto della sinistra, e la scelta dell’elettorato di riferimento. La frattura è di cultura, prima ancora che sulla politica. La volontà di Renzi di sfondare nel mondo moderato, un tempo appannaggio di Berlusconi, deve fare i conti con l’identità storica del suo partito. E i toni dello scontro interno sono tali da far pensare che l’involucro del Pd potrebbe lacerarsi da un momento all’altro: anche se per ora non accadrà, come non accadrà dentro Fi. In questo periodo, prevale la coabitazione forzata tra componenti che ormai non hanno molto in comune; ma debbono aspettare che lo sfondo si chiarisca prima di compiere scelte definitive.
Oggi, dunque, i partiti appaiono gusci, se non vuoti, plasmati con criteri del passato; e dunque condannati ad una metamorfosi radicale. Nella tendenza di Renzi a sfruttare pezzi dell’uno o dell’altro per fare avanzare i suoi obiettivi in Parlamento si intravede, più e oltre che la sua spregiudicatezza, la scarsa tenuta di alcune formazioni ridotte a semplici sigle. Il risultato è un metodo di governo verticale, che si alimenta della confusione e si rafforza grazie alle contraddizioni altrui; ma insieme rischia di rimanerne vittima. Almeno fino a quando la transizione dai vecchi ai nuovi contenitori sarà compiuta, rivelando un sistema così cambiato da essere irriconoscibile.
il Fatto 6.3.15
“Le sanzioni? Un problema” Renzi fa l’amico di Putin
Tre ore di colloqui, dieci minuti di conferenza stampa senza domande
Sintonia di facciata: Mosca promette tanti affari e una mano sulla Libia
di Wanda Marra
Uno accanto all’altro, Vladimir Putin, imperscrutabile come una sfinge, ma incoraggiante nelle parole (“il nostro incontro è stato utile e tempestivo”) e Matteo Renzi, compunto e serio come gli capita di rado, dopo un incontro durato 3 ore, distribuiscono alla stampa la loro lettura della giornata. Una decina di minuti in tutto. Solenni, come gli stucchi e i marmi che li circondano. In piena armonia. Poi via, senza neanche guardare verso le telecamere. Domande vietate, momento pubblico veloce come la luce. Eppur più lento dell’altro, l’omaggio floreale (6 garofani arancioni) deposto da Renzi sul ponte Bolshoi. Arriva alle 9 e 45, si inginocchia per posare i fiori, rimane un minuto o giù di lì in silenzio, poi via. Neanche una parola. A Mosca è presto e c’è neve mista a pioggia. E sul ponte, a parte i giornalisti, non c’è nessuno: il momento simbolico è solo una foto. La twitta lo stesso Renzi alle 9 e 29: “A Mosca, in memoria di Boris Nemtsov”. Sono passate due ore da quando è successo, ma meglio aspettare per diffondere il Tweet un orario consono per i media italiani. Tra queste due immagini, la prima a uso della Russia e della comunità internazionale e la seconda, a uso dell’Italia e della comunità mondiale che s’indigna per i diritti umani, una giornata che vede sul piatto più di un dossier.
SANZIONI La parola chiave è sanzioni. “Tra Italia e Russia c'è uno spazio di collaborazione pur in un contesto di difficoltà legato alle sanzioni europee e alle contro sanzioni russe, che costituiscono naturalmente in entrambe le direzioni un problema”. Politicamente, è la frase del giorno. E la pronuncia Renzi alla fine dell’incontro con Putin. L’altro ci ha tenuto a mettere l'accento sui buoni rapporti economici, nonostante il recente calo dell’interscambio. Perciò Italia e Russia hanno istituito un fondo congiunto di investimenti da un miliardo di dollari. Il premier è reduce da un incontro in mattinata con i maggiori imprenditori italiani (da Eni, Enel e Finmeccanica a Banca Intesa e Unicredit). Il tema delle sanzioni è molto sentito e ieri qualcuno è intervenuto per dirlo, sperando in una presa di posizione netta da parte di Renzi, che in effetti al Cremlino ha definito le sanzioni “un problema”.
UCRAINA Pur ribadendo la necessità del rispetto degli accordi di Minsk, Renzi non ha calcato la mano, nelle dichiarazioni pubbliche, sulla necessità di un disimpegno di Mosca. Non a caso ieri l’ambasciatore d’Ucraina in Italia ha diffuso il documento con i punti toccati mercoledì nel colloquio tra il premier e Poroshenko. Con alcune puntualizzazioni: “Renzi ha confermato che l'Italia vorrebbe riportare la Russia al dialogo sulle questioni di sicurezza globale, tuttavia, Putin dovrebbe lasciare l’Ucraina”. Un modo per inchiodarlo se non proprio alle sue contraddizioni, agli equilibrismi.
LIBIA Putin ha dato a Renzi ciò che voleva, dicendo che “sarà con l’Onu in Libia”. “Decisivo il ruolo della Russia”, ha detto il premier. Lo ‘zar’ ha tutto l’interesse a esser riportato in gioco; Renzi ha bisogno d’un alleato nel caos libico. Tutto ciò si tradurrà in modifiche della politica internazionale? Da vedere.
AMICIZIA Putin ha accolto Renzi con tanto di battute regalate alle telecamere e auguri all’astronauta Samantha Cristoforetti. E ha cercato di tirarlo dalla sua parte, esplicitando subito l’importanza del legame italo-russo. Il premier era teso, nervoso. Le formazioni, peraltro, erano curiose: per l’Italia con il premier c’era il consigliere diplomatico Varricchio, per la Russia il ministro degli Esteri Lavrov. L’incontro è durato 3 ore, pranzo compreso, e ci sono stati anche momenti di tensione: Renzi doveva partire alle 16 e 30, è uscito dal Cremlino che erano quasi le 18. Il clima si era evidentemente sciolto, il rapporto consolidato. Renzi ha tenuto ad annunciare la visita di Putin all’Expo il 10 giugno.
MEDIATICITÀ Niente dichiarazioni ai giornalisti neanche sul ponte. Niente battute. Renzi era deciso a evitare ogni domanda imbarazzante, che lo costringesse a entrare nei dettagli. Nessuno della delegazione italiana, neanche il portavoce Sensi ha scambiato due chiacchiere con la stampa. Grande risalto sui media russi. Che hanno praticamente ignorato il fiore, ma magnificato l’incontro con Putin. “Il premier italiano rompe l’ isolamento internazionale di Vladimir Putin”, scriveva il quotidiano economico Vedomosti.
il Fatto 6.3.15
Renzi chez Putin: la commedia nera
di Daniela Ranieri
La coppia da commedia nera composta da B. e Putin lasciava dietro di sé sempre un alone grottesco e kitsch, a metà tra il Dottor Stranamore e Totò e Peppino divisi a Berlino. Le indimenticabili foto di B. in colbacco accanto all’autocrate domatore di tigri e quelle in cui mimava una scarica di kalashnikov in conferenza stampa gli restituivano una specie di prestigio terrorifico di rimbalzo, che l’immagine del “lettone” di Putin (D’Addario dixit) completava bizzarramente.
Così un po’ di specie la fa, vedere Renzi, abile tessitore di un’inedita narrazione tutta Twitter e rottamazione, tirare fuori dall’armamentario dell’alta diplomazia il cappottone per la campagna di Russia, anzi per “una staffetta diplomatica che si è ritagliato per sua volontà”, secondo il Corriere. Così il tour delle Russie, tutto fatto di photo opportunity, va ad amplificare la cacofonia mediatica che lo riguarda: eccolo a Mosca sotto la neve, mentre, sguardo compìto e posa solenne, depone fiori con coccarda tricolore sul ponte dove è stato ammazzato il leader dell’opposizione Nemtsov; mentre parla con Medvedev e, buttandola lì, lo invita all’Expo; mentre infine, finto-sciolto e assertivo, siede al Cremlino accanto a Putin e ad altri, tutti in circolo tipo alcolisti anonimi, e attacca con l’elogio della collaborazione tra Italia e Russia “dallo spazio”, con la missione della stazione orbitale in cui c’è “una donna italiana”, “alla terra”, cioè “all’agroalimentare”. Putin, con gli zigomi che paiono ricoperti d’albume d’uovo, ascolta, dondola una gamba, si distrae, sposta una penna, sospira, marmoreo, ineffabile.
Renzi tira fuori la carta di quella certa simpatia italiana per la Russia che peraltro in Europa è meglio negare: “Come lei sa, avendo incontrato qui la… ministro Mogherini, che poi è diventata Responsabile della politica estera, il ministro Lavrov l’lha incontrata più volte, beh insomma, adesso ci occupiamo di tutti i dossier”.
PUTIN BYPASSA la Mogherini e torna sull’astronauta Cristoforetti (“Rappresenta degnamente la Repubblica italiana, le donne italiane”), alimentando il mito dei russi fissati con lo spazio e le donne iper-formate che danno lustro alla patria. Poi si ritirano in colloquio privato, fino alla conferenza stampa rigorosamente senza domande, forse un omaggio alla tradizione del Paese ospite.
Ma, in sostanza, che è andato a fare Renzi in Russia? “La visita di Renzi in Russia ha due obiettivi”, ha spiegato il viceministro degli Esteri Lapo Pistelli: “‘responsabilizzare’ Mosca sia sull’Ucraina che sul Medio Oriente”.
Par di vederlo, Renzi, mentre responsabilizza Putin, magari in russo, come Togliatti con Stalin. O forse usando degli hashtag, proprio con l’uomo che ha più volte minacciato di bloccare Internet come ritorsione. Quanto all’uccisione di Nemtsov, è nota la sensibilità di Renzi per la vicenda. Infatti il 28 febbraio, poche ore dopo il delitto, twittava: “Evitato il cucchiaio di legno. Strepitosi gli azzurri del rugby #seinazioni #SCOvITA”, e poi più niente. Certo che iella: uno spera di accreditarsi come alto stratega stringendo la mano a Putin in un momento in cui tutte le diplomazie del mondo lo evitano, e gli trova il morto in casa. Ma un viaggio in Russia mica lo annulli così, solo perché l’ospite è tra i principali sospettati dell’omicidio, almeno a quanto sostengono i pochi oppositori vivi rimasti.
Ma vediamo il secondo obiettivo. Sempre il viceministro: “Acquisire una collaborazione sui delicati dossier mediorientali, dalla Libia alla Siria e altri”. E qui par di vedere il paranoico ex agente del KGB che condivide i “delicati dossier” sull’Is con la squadra di Matteo: Alfano, la Madia, la Boschi, tutti chini a studiare coi gelidi funzionari dell’Intelligence russa gli spinosi casi mediorientali e persino “altri”.
RENZI E PUTIN uniti a Mosca ricompaiono in una conferenza stampa surreale in cui a non poter conferire è proprio la stampa. Non sono ammesse domande, né sull’omicidio di Nemtsov, né sul parere che Putin darà sulla Libia, né sulla sistematica opera di sterilizzazione dei diritti umani. Era facile: invece di fingere di sparargli addosso, ai giornalisti, bastava silenziarli. Roba che B., con tutte le sue gaffe da zio imbarazzante, in confronto era la Politkovskaja. Renzi inanella un luogo-comunismo di prassi: “La lotta contro il terrorismo… la minaccia dell’Is e del fanatismo religioso… fondamentale che in questa partita la Russia giochi un ruolo decisivo”.
Il silenzio che chiude il mini-vertice lascia tutti un po’ agghiacciati; non che si rimpiangano le pagliacciate di B., ma l’anno di Renzi vissuto pericolosamente, dalla bici ai voli di Stato, da La Pira a House of Cards, pare trovare a Mosca il suo punto di svolta estetico. Speriamo non anche politico.
La Stampa 6.3.15
La Russia cancella la memoria
di Cesare Martinetti
qui
Corriere 6.3.15
Renzi-Putin e l’Ucraina
il non detto di un vertice scomodo
I dubbi sull’opportunità di iniziare il viaggio con la tappa iniziale di Kiev e poi smorzare i torni di fronte al presidente russo
di Franco Venturini
qui
Repubblica 6.3.15
Il profilo internazionale che Renzi cerca a Mosca
di Stefano Folli
C’È
un’ambizione evidente e non banale dietro il viaggio di Renzi in
Ucraina e in Russia. Un’ambizione legittima i cui sviluppi sono però
ancora indecifrabili. Il presidente del Consiglio vuole innalzare il suo
profilo internazionale e vuole farlo secondo il suo stile, in forma
appariscente e mediatica. Desidera giocare un ruolo di primo piano,
comunque non subordinato rispetto ad Angela Merkel e Hollande che poco
tempo fa erano insieme a Minsk a negoziare i termini della tregua fra
Mosca e Kiev. In quell’incontro, come è noto, l’Unione europea in quanto
tale non era presente, il che ha autorizzato il premier italiano a
giocare le sue carte per non restare indietro.
La storia parla
quindi di un giovane leader politico che vuole uscire dal recinto
interno e accreditarsi su un palcoscenico più ampio. Per questo sceglie
un tema indiscutibile di politica estera: la crisi in Libia e nel
Mediterraneo. E individua in Putin l’interlocutore privilegiato in grado
di contribuire ad abbassare la tensione in quell’area. Ma tutto si
tiene: il conflitto nel Donbass ucraino; le sanzioni economiche contro
la Russia che l’America di Obama vorrebbe più rigide mentre Renzi, come
la Germania, non è d’accordo; la tregua da consolidare. E poi, venendo
allo scenario che tocca da vicino gli interessi italiani, la guerra in
Libia, le fazioni da riconciliare da Tripoli a Tobruk, la minaccia
incombente dello Stato islamico, il ruolo dell’Egitto che con Mosca ha
in apparenza un ottimo rapporto.
L’agenda è lunga e complessa. Si
vedrà cosa sta ottenendo nel merito il presidente del Consiglio. Ma il
metodo della diplomazia personale, disinvolta e rapida, fondata sul
volontarismo, è molto «renziano». Al di là dei risultati immediati,
l’importante è che non si traduca in una velleitaria mediazione. Se
invece, come sembra, Renzi si è dato una priorità concreta (il
Mediterraneo) e ha deciso di tesservi intorno una rete, non c’è che
attendere. Le prospettive sono incerte e quindi a maggior ragione la
tessitura richiederà sapienza e una capacità non comune di parlare agli
europei e agli americani prima che la crisi precipiti. Ma non c’è dubbio
che si tratta del tavolo giusto, se a Palazzo Chigi intendono
dimostrare che l’Italia è una potenza regionale in grado di assumersi
delle responsabilità ben definite in politica estera.
Per il
momento la svolta internazionale di Renzi serve a marcare la distanza
fra il premier che si occupa di grandi temi, della pace e della guerra, e
la povertà del dibattito interno. Ai fini elettorali questa distinzione
fa tutta la differenza. Il centrodestra è molto lontano dall’esprimere
un leader in grado di competere con l’ex sindaco di Firenze. La paralisi
di Forza Italia e la deriva dell’ultimo Berlusconi sono sotto gli occhi
di tutti e non lasciano immaginare sbocchi a medio termine. La Lega di
Salvini continua a migliorare nei sondaggi, anche se è plausibile che
stia arrivando al suo limite massimo di espansione: almeno sulla base
delle posizioni radicali e perentorie che il suo capo cavalca ogni
giorno. D’altra parte si è dimostrato che la linea moderata del sindaco
Tosi rappresenta un’opzione perdente, per la quale non c’è spazio nel
contesto del nuovo Carroccio.
In altre parole, non ci sono margini
per prevedere la nascita a breve di una verosimile alternativa alla
leadership renziana. Il che mette il premier in una posizione
invidiabile. Si potrebbe dire che a questo punto Renzi deve temere solo
se stesso. Cioè il rischio di un infortunio per eccesso di sicurezza. O
sul piano interno (la legge elettorale? il rapporto sfilacciato con la
minoranza del Pd? Il caso De Luca in Campania?). O soprattutto sul piano
internazionale, considerando l’ambizione svelata da questo inedito
protagonismo. La Libia e il Mediterraneo offrono grandi opportunità, ma
comportano rischi altrettanto alti.
il Fatto 6.3.15
Roma, l’Onu e il segreto di Stato sulle armi a Tripoli
di Andrea Palladino
Una risposta internazionale incisiva”, chiede Matteo Renzi per la Libia. Con la Russia di Putin pronta a giocare un ruolo da protagonista, aggiunge, lanciando un assist al vecchio alleato e amico di Silvio Berlusconi. Su altri tavoli, però, i giochi geopolitici italiani scorrono all’ombra, sotto il sigillo del segreto. Mentre il primo ministro italiano cerca di assicurarsi un posto in prima fila nell’eventuale intervento in nord Africa, il ministro Pinotti nega l’accesso a informazioni preziose proprio agli ispettori delle Nazioni Unite, sbarcati a Roma lo scorso gennaio per un’inchiesta delicata sul traffico di armi verso i miliziani libici.
Missili dismessi dalle industrie sovietiche, probabilmente spediti ai miliziani libici dall’Italia appena tre anni fa. Un dossier finito nell’ultimo rapporto del gruppo di monitoraggio sulle violazioni dell’embargo deciso dall’Onu nel 2011 per la Libia della guerra civile, che all’Italia dedica un’intero capitolo.
TUTTO NASCE DA UNA DENUNCIA di un gruppo di ricercatori dell’istituto Transarm, ripresa da alcune testate sarde e da “l’Altra economia” tre anni fa: nella primavera del 2011 una parte di un carico di armi trovate dalla capitaneria di porto sulla nave Jadran Express, bloccata vicino Otranto nel 1994, avrebbe lasciato il deposito di Santo Stefano in Sardegna, sbarcando poi in Libia. Quell’arsenale era rimasto intatto, conservato con cura dai nostri militari, nonostante l’ordine di distruzione della magistratura.
Gli ispettori dell’Onu spiegano oggi di aver trovato una prima conferma di quella denuncia: “Quattro camion militari - si legge nel rapporto - trasportarono un carico da quella base dell’esercito il 19 maggio del 2011, subito dopo l’inizio della rivoluzione in Libia”. Viaggio che avrebbe comportato anche un notevole rischio mai dichiarato pubblicamente. Dove erano dirette? Quello che sembrava un sospetto trova ora una parziale conferma: “Tre fonti (due in Italia e una in Libia) - si legge nel documento Onu datato 23 febbraio 2015 - hanno dichiarato di aver avuto informazioni interne relativamente a una fornitura italiana di armi ai ribelli libici, all’inizio della rivoluzione del 2011”.
Un’altra fonte ha poi dichiarato alle Nazioni Unite che quel carico proveniva proprio dall’arsenale sequestrato alla Jadran Express e che la parte inviata ai miliziani libici era composta essenzialmente da missili Fagot (denominazione Nato di missili controcarro di costruzione sovietica, ndr). Il gruppo di monitoraggio dell’Onu “ha quindi inviato una seconda richiesta di informazioni ad un alto rappresentante del ministero della difesa italiano nel gennaio del 2015”. Il governo ha risposto di non avere notizie sull’arrivo in Libia delle armi, opponendo, però, il segreto di Stato sull’ultimo viaggio di quell’arsenale sparito. Su certi traffici è meglio tacere.
il Fatto 6.3.15
Dal patto al patto
Renzi rilancia l’amico Verdini e il Nazareno
di Fabrizio d’Esposito
Alcuni
deputati amici di Denis Verdini la mettono così: “Sì, c’è l’ipotesi di
votare a favore della riforma costituzionale. Il ragionamento seguito è
molto semplice: di queste riforme abbiamo condiviso tutto, che senso ha
adesso schierarsi contro? ”. Il sostegno, dunque, alle minacce di
strappo dei verdiniani da Forza Italia è arrivato ieri direttamente dal
premier, in un’intervista all’Espresso: “Dal primo giorno il capogruppo
di Forza Italia alla Camera, a differenza del Senato, ha remato contro
le riforme e il patto del Nazareno. Brunetta ha lavorato per fare fuori
le colombe. Capisco che definire Verdini colomba sia una trasformazione
ornitologica sorprendente: lui era il capo dei falchi quando avevano
loro la maggioranza, ma Verdini è un pragmatico, che conosce la prima
regola della politica: i rapporti di forza. Sa che abbiamo i numeri
anche da soli”.
Un nuovo inizio per l’alleanza istituzionale?
Breve
riassunto delle puntate precedenti della tragica soap berlusconiana. Il
toscano forzista Denis Verdini, banchiere inquisito e sotto processo
nonché grande amico di Matteo Renzi, è il custode della scatola nera del
patto del Nazareno tra l’ex Cavaliere e il premier. Nell’autunno della
decadenza di B. dal Senato, quello del 2013, Verdini era però il capo
dei falchi (tra gli altri, anche la Santanché e Fitto) che volevano
uscire dal governo di Enrico Letta, al contrarie delle colombe poi
scissioniste di Angelino Alfano. Nell’era renziana è cambiato tutto.
Verdini ha inventato il Nazareno e si è trasformato in una colomba e il
ruolo dei falchi, più che a Brunetta, è toccato al cerchio magico del
barboncino Dudù, composto dalla Pascale, dalla Rosi e da Toti. Così
quando Berlusconi si è sentito tradito sul Quirinale per la scelta
unilaterale di Sergio Mattarella, il Nazareno è entrato in sonno (la
metafora massonica è la migliore) in attesa di segnali per un nuovo
inizio.
Le due strade di Forza Italia
E i segnali alla fine
sono arrivati. Lo stesso Renzi ha detto all’Espresso di sentirsi
“scottato” da Berlusconi sul Quirinale ma di considerarlo ancora “il
principale interlocutore”. A questo punto le strade per quel che resta
di Forza Italia (settanta deputati alla Camera) sono due. La prima è
quella cui fanno riferimento i parlamentari verdiniani. Martedì prossimo
c’è il voto finale alle riforme costituzionali della Boschi e un
manipolo di dieci se non quindici deputati fedeli a “Denis” potrebbe
votare sì a prescindere. Uno strappo in piena regola qualora l’ex
Cavaliere dovesse insistere nella linea dura. Chi l’ha sentito ieri,
alla vigilia della fine dei servizi sociali a Cesano Boscone (per la
condanna per la frode fiscale Mediaset), lo ha trovato “furibondo” e
“umorale”. Tra le olgettine pentite (che potrebbero ribaltare
l’assoluzione per Ruby e portarlo a una condanna nel “ter”) e le
intercettazioni di Bari, il Condannato avrebbe avuto uno sfogo violento
ad Arcore: “Di questo passo farò la lista delle vittime della
giustizia”.
Il baratto con l’Italicum e l’ipotesi Forza Silvio
Dentro
Forza Italia c’è però chi scommette sul voto a favore di tutto il
partito. In pratica la ripresa del Nazareno, tenuto conto che Renzi ha
dato pure assicurazioni pubbliche sull’Italicum così come uscito dal
Senato, senza cedere quindi ai bersaniani della Camera. Anzi, i forzisti
sono convinti che alla fine la legge elettorale passerà così com’è
“grazie alla fiducia”. Ragionamenti, certo. Ma che confermano la
sensazione che da qui alla prossima settimana Berlusconi dovrà fare
scelte decisive per non perdere altri pezzi del suo fragile mondo
politico. Anche perché se dovesse fare davvero Forza Silvio al posto di
Forza Italia quanti lo seguirebbero?
il Fatto 6.3.15
Il Nazareno risorge in Borsa: Serra e Doris soci in affari
Mediolanum piazzerà ai clienti il Fondo Algebris del finanziere renziano
di Camilla Conti
Milano
Il nuovo patto del Nazareno? È finanziario. A stringerlo con il giglio
magico renziano non è stavolta Silvio Berlusconi ma il suo amico (nonché
socio in Fininvest) Ennio Doris. Il patron di Mediolanum ha infatti
organizzato la mega convention del suo gruppo all’Adriatic Arena di
Pesaro: in mezzo alla platea di 4.500 family banker provenienti da tutta
Italia sono spuntati anche alcuni prestigiosi ospiti. Come Oscar
Farinetti, mister Eataly assai vicino al premier, e soprattutto il
finanziere Davide Serra arrivato da Londra con tanto di stampelle dopo
un brutto incidente sugli sci che nei giorni scorsi gli ha imposto di
rimandare l’audizione in Consob sulle ipotesi di insider trading legate
alla riforma delle Popolari.
La presenza del fondatore di Algebris
non è però casuale perché Serra e Doris – a quest’ultimo il fisco ha
contestato 500 milioni di euro a fine 2014 tra imposte non versate e
sanzioni – hanno deciso di fare affari insieme. Banca Mediolanum ha
infatti avviato una collaborazione con Algebris per la distribuzione ai
clienti di un fondo che investe in azioni e obbligazioni denominato
“Financial Income Strategy”. L'annuncio è stato dato ieri proprio dal
palco della convention da Massimo Doris, vicepresidente del gruppo e
figlio di Ennio. Una “partnership strategica”, l’ha definita Serra che
non ha voluto far commenti su altri temi come le Popolari e si è
limitato a ricordare che di Mediolanum si era occupato ai tempi della
quotazione in Borsa del gruppo milanese, quando lavorava per Morgan
Stanley.
QUANTO a Doris jr, ha tenuto a precisare che la decisione
di avere Algebris come partner per uno dei nuovi fondi da proporre ai
clienti “è una scelta tecnica, non per la visibilità di Davide Serra”.
Né quindi per i rapporti fra il finanziere e il presidente del
Consiglio. Rapporti che continuano a far discutere. Secondo un articolo
apparso sul Messaggero, Serra ha deciso di rilanciare su Banca Etruria.
Dopo una prima lettera inviata all'istituto aretino all'inizio di
febbraio e dopo il commissariamento della banca deciso da Bankitalia
l’11 febbraio, il patron del fondo Algebris è tornato alla carica con
un’altra lettera, datata 19 febbraio, indirizzata ai due commissari
Riccardo Sora e Antonio Pironti e, per conoscenza a via Nazionale. Nella
missiva – secondo quanto scrive il quotidiano romano – il finanziere ha
formulato “una proposta di cooperazione, risanamento e rilancio di
Banca Etruria”. La proposta avrebbe una portata più ampia di quella
precedente con cui si era fatto avanti per acquisire i cosiddetti non
performing loans (npl), ovvero le sofferenze. Serra è infatti disposto a
farsi carico di 20 dipendenti dell'istituto basandoli ad Arezzo e di 40
di Etruria Informatica. E sarebbe infine pronto a reclutare partner che
possano ricapitalizzare l'Etruria facendola uscire dalle secche. Non
solo. Invece di attendere come accade in questi casi, che i commissari
completino l'indagine prima di farsi avanti con un'offerta, Serra si è
dunque mosso solo otto giorni dopo l'avvio della gestione straordinaria.
La
notizia ha riacceso subito le polemiche sul fronte politico: "Scopriamo
che Serra avrebbe già sottoposto ai commissari di Bankitalia che
governano Popolare dell’Etruria una proposta di cooperazione,
risanamento e rilancio. E questo avviene insolitamente prima ancora che
sia stata completata dai commissari un’indagine sulla reale situazione
della banca e quindi al buio, a meno che non si disponga di altre
informazioni", ha sottolineato il capogruppo di Sel in commissione
Finanze a Montecitorio, Giovanni Paglia. Aggiungendo che “Consob,
Bankitalia e Tesoro non possono restare inerti in un quadro simile, pena
la perdita di credibilità del Paese, e per questo chiederemo - conclude
Paglia - che la commissione Finanze di Montecitorio abbia da loro un
supplemento di informazioni e valutazioni".
INTANTO, sul palco
dell’evento di Mediolanum ieri è salito un altro supporter renziano
della prima ora, Oscar Farinetti, che ha addirittura tenuto una lezione
per motivare la rete di vendita. Dietro il patron di Eataly veniva
proiettato a caratteri cubitali lo slogan della convention, anch’esso
molto renziano: “Io cambio”. Il Nazareno è vivo e lotta insieme a Doris.
il Fatto 6.3.15
Mercato: la mano visibile
risponde Furio Colombo
CARO
COLOMBO, si nota qualche flebile traccia di assunzioni qua e là, e si
sta già gridando: “Vedete? Il Jobs Act funziona!”. L’esperienza della
vita va in un’altra direzione. Non esiste una legge che crea assunzioni,
ma esistono assunzioni create dal mettersi in moto delle imprese.
Perché ci chiedono di credere il contrario?
Attilio
CI
SONO STATE, proprio in questi giorni e su questa materia, una frase
esemplare e una lezione importante. La frase è di Papa Francesco, quando
ha detto: “Noi ci stiamo abbandonando a un errore: Gli uomini non sono
al servizio del capitale. È il capitale che è al servizio degli uomini”.
La frase sembra rozza o socialista (nel senso spregiativo e molto di
moda della parola) ed ecco che interviene a spiegarla il premio Nobel
per l'Economia Paul Krugman (New York Times 4 marzo): “Qualche giorno fa
Walmart, il più grande datore di lavoro in America (una grande catena
di supermercati, ndr) ha annunciato che avrebbe aumentato la paga a
mezzo milione di lavoratori. L’aumento annunciato è piccolo, ma l’evento
è grande. Primo perché fatalmente la tendenza all’aumento del salario
si spargerà nell’immenso indotto di Walmart, coinvolgendo milioni di
dipendenti a tutti i livelli. Secondo perché rivela che non è il mercato
a dettare i salari, ma una scelta politica. La legge del mercato
riguarda le cose. Ma il lavoro sono persone. E ciò che accade alle
persone dipende dalle forze sociali e dalla politica”. Il punto che – da
solo e contro una feroce ostinazione politica – il Nobel Krugman torna a
proporre è che la componente umana della complessa struttura chiamata
“società democratica” non può e non deve regolare le persone come se non
avessero parte attiva, volontà, capacità organizzativa e capacità di
opposizione e consenso. Niente, sostiene Krugman, è più stupido e
pericoloso che combattere e tentare di sciogliere i sindacati.
L’economista è in grado di dimostrare che i grandi periodi di benessere
(dunque molta domanda, molta produzione , molto impiego, salari che
legano con forza i lavoratori alla loro fabbrica e paghe minime mai
sotto la dignità della persona) sono quelli in cui il lavoro è forte e
si sente riconosciuto e libero e non quelli in cui è spinto indietro, e
costringe a vivere fra disoccupazione e umiliazione. Noi, spiega
Krugman, ci siamo costruiti un mondo triste perché è triste e precario
il lavoro. E tutto ciò che noi consideriamo “la vita sociale” compresa
la vita di chi sta dalla parte del capitale, non dipende da ricchezze
verticali come quelle degli Emirati arabi, che scelgono e decidono con
arbitrio e per pochi, ma da una robusta e orgogliosa classe media dove
il lavoro è forte e l’ascensore sociale è continuamente in funzione. “Il
mio punto è – conclude lo studioso della Princeton University – che
l’estrema ineguaglianza e il progressivo indebolimento del lavoro sono
una scelta politica e non un destino imposto dagli dei e, meno che mai,
dal mercato, che in queste condizioni langue”. Perché Krugman dice
queste cose mentre l’America del “socialista” Obama ha ritrovato molta
della sua agiatezza perduta? Perché sa che i Repubblicani conservatori
premono alle porte, sperano di vincere dopo Obama, dominano già la
Camera e il Senato, conquistati con l’immensa forza del danaro, e sono
pronti a riproporre la politica del lavoro umiliato e marginalizzato e
della ricchezza di pochi che sale e domina, lacerando, nella
disuguaglianza più aspra, la struttura sociale, per poi dire di nuovo
che “è colpa delle pretese del lavoro”, a cui vanno tagliate le unghie
come a un misterioso animale. Sta dicendo ai suoi concittadini che
appena fiatano che “tra poco ricomincia la finta pretesa del dio
mercato”. Da noi non è mai finita. Da noi tutte le versioni possibili di
mercato flessibile trasformano una parte dei giovani in un circo Momix.
Tutti gli altri (come ci hanno detto adesso dei precari della scuola)
continueranno a fare il pubblico.
Corriere 6.3.15
Due pesi e due misure in casa democratica sull’applicazione della legge Severino
di Marco Demarco
Esistono leggi ad personam e leggi a discredito crescente o a efficacia variabile: leggi usa e getta, insomma. Le prime erano attribuite a Berlusconi. Le seconde lo saranno al Pd. Prendiamo la Severino, che disciplina ineleggibilità e decadenze. All’inizio, nessun dubbio del Pd: legge buona e giusta. Poi, decaduto Berlusconi, i ripensamenti: su retroattività, reati elencati, esclusa punibilità dei parlamentari. In questa fase «garantista» (che poi è quella del patto del Nazareno) anche Renzi molla la presa: bisogna rimetterci le mani, dichiara. Sopraggiunge, però, la vicenda de Magistris: condannato in primo grado, sospeso e poi rimesso al suo posto dal Tar. Nella fase della sospensione, il Pd torna implacabile. «Credo debba valutare le dimissioni», dice severo Matteo Orfini. «Napoli non merita soluzioni pasticciate, le sentenze vanno rispettate sempre» insiste Assunta Tartaglione, segretaria del Pd campano. «Spero ritrovi il senso delle istituzioni», tuona Pina Picierno. Per ironia della sorte, dopo de Magistris tocca a Vincenzo De Luca, incoronato alle primarie, anche lui condannato in primo grado, eleggibile a governatore ma, per effetto della Severino, da sospendere un minuto dopo. La situazione non è meno pasticciata di prima, eppure ora Tartaglione tace. Parla invece la Serracchiani per dire che la Severino va modificata. Tu guarda! Più prudente, il ministro Boschi si rimette alla bontà del Parlamento. Picierno addirittura brinda a De Luca. Nessuno che gli dica quello che fu detto a de Magistris, nota solitario Pippo Civati. E il suo post è uno schiaffone a tutti i doppiopesisti di turno. De Luca ha così buon gioco. La Severino? «Impacchettatela col fiocco e mettetela nel frigo» (il copyright è di de Magistris: «Salutatemela», disse). Con chi ce l’ha? Basti questo: semmai dovesse diventare governatore, dovrà essere proprio Renzi, in quanto premier, a decretarne l’immediata sospensione.
il manifesto 6.5.15
Riforma della pubblica istruzione
Gli annunci del governo non fanno scuola
La riforma nel caos. Ultimatum "impossibile" al parlamento: 40 giorni per approvare un disegno di legge che ancora non c’è
Ancora indiscrezioni: A settembre sarebbero assunti 40 mila precari, non i 148 mila promessi
di Roberto Ciccarelli
qui
Repubblica 6.3.15
Ritratto della Roma mafiosa che fingiamo di non vedere
di Attilio Bolzoni
QUESTO libro è dedicato a chi ha fatto finta di niente e ha preferito voltarsi dall’altra parte. Leggetelo, almeno sfogliate qualche pagina, cercate un nome, controllate se — per caso — sotto casa vostra o dentro al ristorante dove di solito andate a mangiare con i vostri amici c’è puzza. Puzza di mafia. Potete mostrare meraviglia, restare a bocca aperta, balbettare qualche scusa, ma d’ora in poi nessuno vi crederà più. Nella migliore delle ipotesi qualcuno vi dirà che siete dei fessi, che avete frequentazioni poco raccomandabili, che pur mostrandovi sempre e ovunque molto politicamente corretti siete stati trascinati in una zona di confine molto scivolosa, «terra di mezzo» la chiama un fascio- boss che tutti conoscono come “Er Cecato”. Non ve n’eravate accorti? La mafia c’è davvero anche a Roma?
Il libro di Lirio Abbate e Marco Lillo, reporter allenati a inseguire indizi e a metterli sapientemente uno dietro l’altro, è una spietata fotografia della capitale e insieme un resoconto da brivido sulle complicità che un monmese do — politica di destra e di sinistra, soubrette, calciatori famosi, attori, cantanti, ultras, “padroni” di cooperative rosse e rispettabilissimi professionisti al di sotto di ogni sospetto — ha scelto di avere con un sistema criminale che per troppo tempo è stato protetto dal silenzio.
Prima di anticipare cosa concedono i capitoli di I Re di Roma ( Chiarelettere, in libreria da oggi), riportiamo subito uno dei tanti dettagli inediti contenuti in quest’indagine giornalistica, che comprende sì una ricostruzione giudiziaria, ma che ha la sua origine sul campo, dal mestiere di chi racconta la realtà che ha intorno.
Il dettaglio da segnalare riguarda un’elargizione di 5 milioni di euro spalmata in sei anni in favore dell’Immobiliare Ten, ammini- strata dal 2009 da Riccardo Totti, fratello di Francesco, il capitano della Roma che di quell’immobiliare controlla l’83 per cento. Nulla di illecito, niente di penalmente rilevante — e infatti i personaggi di questa vicenda affiorano appena fra le pieghe dell’inchiesta — ma molto significativa per capire Roma e i suoi gironi con protagonisti e comparse tutti allacciati fra loro in affettuosa confidenza. È l’affare dei Caat (Centri di assistenza abitativa temporanea), 43 milioni all’anno da spendere e quel Luca Odevaine che è stato vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni prima e a capo della polizia municipale con Zingaretti poi, che “segue” la pratica per l’affitto di 35 appartamenti arredati a Tor Tre Teste intestati all’Immobiliare Ten. Quasi tremila euro al per ogni appartamento nell’estrema periferia romana, «una beneficenza al calciatore più ricco di Roma».
Il libro di Abbate e di Lillo sulla mafia che sporca la capitale d’Italia, oltre alla mole di informazioni che ci offre e alla chiarezza dell’esposizione, ha un pregio particolare: parla di un crimine “attuale”. È cronaca in diretta, accade tutto sotto il nostro naso. Merito anche dei magistrati che quest’inchiesta hanno sviluppato (da Pignatone a Prestipino, da Ielo a Tescaroli a Cascini) insieme ai carabinieri del Ros, un’inchiesta che può considerarsi a pieno titolo “apripista”. Questo libro, ecco il valore, guarda dentro un “laboratorio” criminale.
Si comincia dal racconto di come è nata una copertina dell’ Espresso e si arriva “al Comune agli ordini di Massimo Carminati”, si passa dall’esercito degli “impresentabili” dell’ex sindaco Alemanno e dalla “santa alleanza” fra i rossi e i neri. All’ultima pagina manca il respiro. Però, d’ora in poi, sarà più difficile dire: io non ne sapevo nulla.
IL SAGGIO I re di Roma di Lirio Abbate e Marco Lillo (Chiarelettere pagg. 272 euro 14,90)
Corriere 6.3.15
Roma, la Città dello sport di Calatrava già costata 200 milioni e che forse non sarà mai terminata
Per completare l’opera avveniristica, che si trova a Tor Vergata, servirebbero altri 426 milioni. Sei volte la stima fatta quando venne ideata
di Sergio Rizzo
con un video, qui
Corriere 6.3.15
«Quality of Living»
Le 42 città del mondo dove si vive meglio. E la prima italiana al 41esimo posto
Vienna è la città con la migliore qualità della vita, secondo Mercer.
di Silvia Morosi
qui
il Fatto 6.3.15
Parigi
Le Pen contestata per la piazza fascista
di Luana De Micco
Parigi “Ho dato il mio sostegno alla Lega Nord, non c’era nessun accordo né con Pegida né con i buffoni di Alba dorata. In una manifestazione con migliaia di persone, se sono presenti alcuni elementi folcloristici non è responsabilità degli organizzatori”. Marine Le Pen è stata chiamata a rendere conto per quel video messaggio di sostegno alla Lega Nord andato in onda sabato scorso nella piazza di Roma convocata per mandare “Renzi a casa”. A sollevare la polemica è stato il giornale on line Mediapart. Il punto non è tanto il sostegno all’ “amico” Matteo Salvini, ma la presenza nelle piazze romane di esponenti di CasaPound, di simpatizzanti neo nazisti del partito greco Alba dorata e di militanti anti-Islam del tedesco Pegida. E che, mentre la leader del Front National compariva sul grande schermo con un sorriso e un caloroso “Ciao a tutti”, sventolavano tra la gente croci celtiche e striscioni con il volto di Mussolini. “Se Marine Le Pen fa attenzione a non mostrarsi con gruppetti neo fascisti in Francia, sembra prendere meno precauzioni all’estero”, ha scritto Mediapart. La Le Pen, che sta tentando di ripulire l’immagine del suo partito in patria, ha assicurato di non conoscere il movimento CasaPound e ha preso le distanze da Pegida. Peccato però che entrambi erano stati invitati dalla Lega. La gaffe della leader frontista arriva a poco più di due settimane dal primo turno delle elezioni dipartimentali (22 marzo) dove il FN spera di fare incetta di voti. I sondaggi gli promettono un 30-33% che può aprire la strada al ballottaggio.
Il Sole 6.3.15
La ripresa dell’Europa
Grexit? Il prezzo è troppo alto
Teoria del domino e natura dell’euro consigliano di non perdere Atene
di Jean Pisani-Ferry
All’inizio della settimana, dopo giorni di discussioni tese, il nuovo governo di Atene ha raggiunto un accordo con i Paesi creditori dell’Eurozona che comprende un pacchetto di riforme immediate ed un’estensione di quattro mesi del programma di assistenza finanziaria. Ma nonostante il sospiro di sollievo collettivo dell’Europa, il compromesso non esclude la necessità di nuove negoziazioni più complesse su un nuovo programma di assistenza finanziaria che dovrebbe essere introdotto entro fine giugno.
In qualsiasi negoziazione una variabile essenziale che influenza il comportamento dei protagonisti, e quindi il risultato, è il costo che un’eventuale fallimento di un accordo comporterebbe per i protagonisti stessi. In questo caso, la questione è il costo dell’uscita della Grecia (nota come “Grexit”) dall’Eurozona.
Ma quali sarebbero i costi di un’eventuale uscita della Grecia per il resto dell’Eurozona? Sin da quando è sorta la domanda nel 2011-2012 ci sono state due visioni opposte. Una delle due visioni, nota come la “teoria del domino”, sostiene che un’eventuale uscita della Grecia porterebbe i mercati a domandarsi quale Paese potrebbe essere il prossimo ad uscire dall’Eurozona. Il destino degli altri Paesi verrebbe quindi messo in discussione come avvenne durante la crisi valutaria asiatica del 1997-98 o nel corso della crisi del debito sovrano dell’Europa nel 2010-2012. La conseguenza potrebbe essere una disintegrazione dell’Eurozona.
L’altra visione, nota come la “teoria della zavorra”, sostiene che l’Eurozona verrebbe in realtà rafforzata da un’eventuale uscita della Grecia. L’unione monetaria eliminerebbe infatti un problema ricorrente, mentre una decisione da parte dell’Eurozona di lasciare che la Grecia abbandoni l’Eurozona (o di spingerla a farlo) aumenterebbe la credibilità delle sue norme. Nessun Paese, secondo questa teoria, potrebbe poi permettersi di ricattare ancora i propri partner.
Nel 2012 la teoria del domino sembrava sufficientemente realistica da spingere i Paesi creditori ad abbandonare l’opzione dell’uscita della Grecia. Dopo una lunga riflessione nel corso dell’estate, il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, è finita per andare ad Atene per esprimere la sua “speranza e desiderio” che la Grecia rimanesse nell’Eurozona. Ma oggi la situazione è ben diversa. La tensione dei mercati si è allentata in modo considerevole, l’Irlanda ed il Portogallo non sono più sostenuti dai programmi di aiuto, il sistema finanziario dell’Eurozona è stato rafforzato dalla decisione di andare verso un’unione bancaria ed infine sono stati adottati degli strumenti di gestione della crisi. Pertanto, una reazione a catena indotta da un’eventuale uscita dalla Grecia sarebbe molto meno probabile.
Ma ciò non significa che l’abbandono della Grecia non causerebbe dei danni. Ci sono tre ragioni per cui l’uscita della Grecia potrebbe seriamente indebolire l’unione monetaria. Innanzitutto, un’eventuale uscita della Grecia contraddirebbe il presupposto tacito che la partecipazione dell’euro è irrevocabile (anche se la storia ci insegna che nessun impegno è irrevocabile: secondo Jens Nordvig della Nomura Securities ci sono state 67 rotture di unioni monetarie dall’inizio del XIX secolo). L’eventuale uscita di un Paese dall’Eurozona aumenterebbe la probabilità, già percepita, che altri Paesi potrebbero, prima o poi, seguire la stessa strada.
In secondo luogo, un’eventuale uscita darebbe ragione a coloro che considerano l’euro solo come un tasso di cambio rafforzato, e non una vera e propria valuta. La fiducia nel dollaro statunitense si basa infatti sul fatto che non c’è alcuna differenza tra gli interessi dei dollari depositati in una banca di Boston e quelli depositati a San Francisco.
Infine un’eventuale uscita obbligherebbe i policymaker europei a formalizzare le norme di divorzio, finora non scritte e non definite. Oltre agli ampi principi della legge internazionale, secondo i quali, ad esempio, ciò che conta per definire la denominazione di un bene dopo il divorzio della moneta è la legge che governa il contratto di fondo e la corrispettiva girusidizione, non ci sono regole concordate per decidere come si verificherebbe la conversione in una nuova valuta. L’uscita della Grecia forzerebbe l’Europa a definire delle norme rendendo chiaro il valore dell’euro a seconda di dove è depositato, da chi e in quale forma. Ovviamente ciò renderebbe il rischio di rottura non solo più immaginabile, ma anche più concreto.
Niente di tutto questo implica che i membri dell’Eurozona dovrebbero essere pronti a pagare qualsiasi costo per tenere la Grecia all’interno dell’Eurozona, in quanto si tratterebbe più che altro di una resa. D’altra parte non ci si dovrebbero neppure illudere che esista un’uscita felice della Grecia dall’Eurozona.
(Traduzione di Marzia Pecorari)
La Stampa 6.3.15
New York, scuole chiuse per le feste musulmane
Svolta storica del sindaco de Blasio: è solo un fatto di eguaglianza
di Paolo Mastrolilli
Domanda del padre al figlio: «Ma come mai domani non c’è scuola?». Risposta del figlio: «Perché celebriamo la fine del Ramadan».
Dal prossimo anno conversazioni come questa diventeranno normali a New York, fino a quando i genitori si abitueranno all’idea che le scuole della città chiudono anche per la feste musulmane, e smetteranno persino di porre la domanda.
A casa per il Ramadan
Il sindaco de Blasio lo aveva promesso durante la campagna elettorale, e ora lo ha fatto. Nelle scuole si celebrano già le feste cristiane come il Natale, il Venerdì Santo o la Pasqua, e quelle ebraiche tipo Rosh Hashanah e Yom Kippur. Per una questione di equità e rispetto, era necessario aggiungere anche quelle islamiche. Dal prossimo anno, quindi, le aule resteranno chiuse anche in occasione di Eid al-Adha, che ricorda la fede e l’obbedienza di Ibrahim, spinte fino alla disponibilità a sacrificare suo figlio a Dio, e di Eid al-Fitr, che invece segna la fine del mese sacro del Ramadan. Il sindaco ha ufficializzato la sua decisione, aggiungendo che sta lavorando anche per inserire nel calendario della feste scolastiche il Capodanno lunare, per rispondere alle sollecitazioni venute dalla comunità cinese e asiatica in generale.
A New York vivono circa 8 milioni di abitanti, e un milione di essi pratica l’islam. Gli studenti nelle scuole pubbliche sono 1,1 milioni, e si calcola che il 10% sono musulmani. Il provvedimento quindi riguarda oltre centomila famiglie, e soddisfa le richieste avanzate da oltre dieci anni da una comunità di elettori che sta crescendo, e rappresenta già oltre un decimo del totale.
«Concessioni unilaterali»
I critici conservatori del sindaco già alzano la voce, perché vedono nella sua mossa una concessione che non ha alcuna speranza di essere reciprocata. Da una parte, infatti, i terroristi dell’Isis tagliano la gola ai cristiani, e dall’altra New York riconosce le feste islamiche. Il punto di de Blasio, però, è proprio questo: dimostrare che esiste una maniera diversa di concepire i rapporti tra gli esseri umani. Il sindaco sa bene cosa sta accadendo nel mondo, e sa anche che negli Stati Uniti sta crescendo il risentimento verso i musulmani. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, e più di recente dopo le violenze barbariche commesse dai terroristi dell’Isis, la comunità islamica si è sentita presa di mira. L’omicidio di tre studenti avvenuto nelle settimane scorse in North Carolina è ancora sotto inchiesta, ma molti sospettano che sia stata una prima manifestazione dell’intolleranza violenta che comincia a ribollire anche in America. Proprio per rispondere a queste paure, però, de Blasio ha voluto dare la prova che esiste una strada diversa da seguire verso la convivenza pacifica.
Educazione alla tolleranza
L’ex governatore Mario Cuomo si vantava del fatto che ogni giorno a New York si parlano 144 lingue diverse, e probabilmente nel frattempo sono aumentate. Qui sono rappresentate tutte le etnie, e quindi anche potenzialmente tutti gli odi atavici del mondo. Ci sono gli inglesi e gli irlandesi, i baschi e gli spagnoli, gli ebrei e i palestinesi, i pachistani e gli indiani del Kashmir, i serbi, i croati, gli albanesi, e così via. Se ognuno fosse libero di sfogare i suoi risentimenti storici, la Beirut della guerra civile sembrerebbe al confronto un parco giochi.
Invece a New York ci sono le leggi uguali per tutti, il culto della tolleranza, e anche un po’ di sana correttezza politica, che magari sembrerà ipocrita e ridicola ai suoi critici, ma se inculca fin da bambini che il rispetto è meglio dell’insulto, aiuta a prevenire tanta violenza. Perciò, oltre che per guadagnare voti, de Blasio ha aggiunto le feste islamiche al calendario scolastico, nella speranza poi di educare ragazzi che non abbiano come modello il londinese Jihadi John.
Corriere 6.3.15
Gli abusi e le persecuzioni contro i neri
Ferguson «capitale» del razzismo Usa
di Guido Olimpio
Le accuse del dipartimento di Giustizia. Ma l’agente che uccise Michael Brown è assolto
WASHINGTON La polizia di Ferguson, Missouri, ha creato con il suo comportamento razzista un ambiente tossico, «velenoso». Una condotta spregevole in un microcosmo che rappresenta altre realtà americane.
Le accuse contro gli agenti sono descritte in un rapporto del dipartimento della Giustizia Usa. Gli ispettori hanno indagato nella cittadina alle porte di St Louis dopo l’uccisione dell’afroamericano Michael Brown da parte dell’agente Darren Wilson. Il ministero si è pronunciato, di nuovo, con un parere separato confermando che il poliziotto ha agito secondo le regole. Dunque nessuna violazione in un caso che ha provocato una rivolta che non si è ancora sopita del tutto. Anche perché a Ferguson le tossine sono ancora presenti.
Nel dossier raccolto dal dipartimento di Giustizia emerge come la polizia abbia perseguitato, nel corso degli anni, la popolazione di colore della cittadina. Abusi continui, ingiustizie, uso della forza quando non era necessario, persecuzione. L’85% delle auto fermate, il 90% delle multe e il 93% degli arresti hanno coinvolto afroamericani. La polizia ha tratto in arresto cittadini senza alcuna giustificazione, ha fatto ricorso al taser — pistola elettrica — anche quando non vi era alcuna resistenza, ha inventato pretesti per punire o multare. E tutto questo con la complicità della giustizia locale che, a volte per errore e in altre deliberatamente, ha danneggiato gli imputati. Il mancato pagamento di una sanzione è stato spesso punito con la detenzione: circa 9 mila casi di persone finite in cella per infrazioni minori.
Gli investigatori hanno poi scovato nella posta elettronica degli agenti insulti razzisti contro il presidente Obama — paragonato ad una scimmia — e la first lady Michelle. Epiteti che uniti all’atteggiamento delle pattuglie hanno rafforzato l’immagine di un apparato senza alcun controllo, libero di colpire impunemente. Del resto su un territorio dove il 63% degli abitanti è afroamericano agiscono 53 agenti, tutti bianchi con l’eccezione di tre.
Dopo la diffusione del rapporto il sindaco di Ferguson, James Knowles ha annunciato il licenziamento immediato di uno dei poliziotti autori delle email mentre altri due sono stati sospesi. Poi ha cercato di scaricare parte delle responsabilità affermando che «i problemi riguardano l’intera regione di St. Louis». Per molti è incredibile che il capo della polizia della cittadina, Tom Jackson, sia rimasto al suo posto.
«Molto amareggiati» i genitori di Michael Brown che speravano in un verdetto diverso sulla fine del figlio. Una battaglia legale non chiusa, visto che la coppia ha deciso di lanciare una causa contro Darren Wilson. Poi commentando il report del ministero della Giustizia hanno espresso «la speranza che attraverso l’iniziativa federale si possa arrivare ad un cambiamento che investa la nazione. Solo così la morte di Michael non sarà stata vana» .
La Stampa 6.3.15
Elezioni in Israele, sarà una sfida all’ultimo voto
Alle urne il 17 marzo. Netanyahu in recupero, ma rimane in vantaggio il centrosinistra di Yizhak Herzog e Tzipi Livni
La lista comune dei partiti arabi è la terza forza politica
di Maurizio Molinari
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Corriere 6.3.15
Bonino e il sì all’Iran: «È un alleato per evitare la guerra di religione»
intervista di Paolo Valentino
ROMA Onorevole Bonino, perché lei da ministro degli Esteri, ma anche dopo, ha insistito tanto sulla necessità di un accordo nucleare con Teheran?
«Ho sempre avuto una posizione di apertura “prudente” e verificabile, non di apertura “in bianco”. E non l’ho cambiata. L’Iran è importante, economicamente e strategicamente. È anche leader riconosciuto del mondo sciita, che è componente decisiva di tanti Paesi in conflitto: Afghanistan, Iraq, Siria, Libano, Yemen. Un mondo tuttavia meno problematico di quello sunnita, lacerato da tensioni intestine con forte tendenza alla radicalizzazione jihadista. L’Isis (come i Talebani, Boko Haram, Al-Shabaab) è un movimento estremista sunnita di ispirazione ideologica wahabita e salafita. E Teheran può esserci alleato nella lotta a questi fenomeni che generano terrorismo internazionale».
Emma Bonino segue con grande attenzione la trattativa sulla limitazione del programma nucleare persiano, entrata nella stretta finale con i colloqui preliminari a due tra Iran e Stati Uniti, di lunedì scorso a Montreux, in Svizzera.
«C’è l’impegno politico a raggiungere un accordo quadro entro la fine del mese — spiega l’ex ministro degli Esteri —. Poi c’è tempo fino a luglio per definire le questioni tecniche e le modalità di monitoraggio dell’Aiea. È quindi una fase cruciale, quella che riprende il 15 marzo a Ginevra, questa volta con la partecipazione di tutti i Paesi 5+1 (Usa, Russia, Cina, Regno Unito, Francia più Germania, ndr ) e di Lady Ashton per conto dell’Ue. Ma nulla è scontato».
L’impressione è che il vero ostacolo sia il calendario di smantellamento delle sanzioni, che l’Iran vorrebbe molto rapido. Pensa che gli Usa possano concedere qualcosa su questo?
«È un tema difficoltoso per Washington. Gran parte del discorso del premier israeliano Netanyahu al Congresso verteva sulla timeline di 10 anni per la riduzione delle attività nucleari di Teheran, giudicata troppo breve. Visto dall’Iran, l’idea che lo smantellamento delle sanzioni debba attendere anni appare a dir poco problematica. Difficile anticipare il punto di equilibrio».
L’Italia, come hanno riconosciuto gli iraniani, ha giocato un ruolo di apripista nella ripresa del dialogo occidentale con Teheran. Non fu un errore strategico scegliere di star fuori dal formato 5+1?
«Errore è riduttivo. Fu una scelta inspiegabile, che non solo ha elevato la Germania a partner strategico, ma ci ha del tutto marginalizzati».
Lei ha citato il discorso di Netanyahu al Congresso. Cosa pensa delle obiezioni di Israele?
«Non mi ha mai convinto l’idea di far campagna elettorale all’estero, specie quando il risultato è in bilico. Non è un grande esempio di leadership estorcere ai leader repubblicani del Congresso un invito sgradito alla Casa Bianca. Temo anche sia un errore per Israele affidare la relazione strategica con gli Usa a un rapporto partisan e conflittuale. Non mi convincono i toni apocalittici di Netanyahu. Abbiamo tutti bisogno di recuperare una relazione con l’Iran, da un lato per allontanare la minaccia nucleare, dall’altro perché Teheran ci aiuti a uscire dall’incubo delle guerre di religione. Per questo sono convinta sostenitrice del negoziato, e non solo per gli effetti dissuasivi che avrà sulla capacità di proliferazione iraniana. Per convinzione e lunga storia radicale, sono amica del popolo ebraico. Da sempre Marco Pannella ha sostenuto non la strategia “land for peace” o quella “due popoli, due Stati”, ma quella dei “due popoli, due democrazie” e la prospettiva dell’ingresso nella Ue, che i leader israeliani non hanno mai considerato, pur essendo sostenuta dalla maggioranza dell’opinione pubblica. Credo che Netanyahu non abbia fatto avanzare per nulla la questione fondamentale della sicurezza d’Israele».
Un’ultima domanda sulla Libia, dove l’Isis ci minaccia da vicino. È una crisi risolvibile?
«C’è qualche speranza legata all’incontro tra le fazioni in Marocco, con la mediazione dell’Onu. L’ipotesi di un governo inclusivo è l’unica percorribile. Alla fine, il governo di Tobruk, sostenuto da Egitto ed Emirati, e il gruppo di Tripoli-Misurata, sostenuto da Fratelli Musulmani e Qatar, si stanno convincendo che una vittoria militare sia impossibile. In più, so per certo che gli egiziani hanno fatto sapere che a loro interessa solo la Cirenaica, come zona cuscinetto. C’è da augurarsi che il processo vada a buon fine, altrimenti si va alla guerra civile totale. Ma rimango cauta».
Repubblica 6.3.15
Iran
Tra la gente di Teheran che sogna l’intesa nucleare “Vogliamo finalmente essere un paese normale”
“È l’occasione per ripartire da zero”, dicono gli studenti. Ma c’è anche chi vuole il fallimento del negoziato: gli ultraconservatori, i pasdaran, chi ha lucrato sulle sanzioni
E quelli che temono che un’intesa cambi i giochi in vista della scelta del successore di Khamenei
di Vanna Vannuccini
TEHERAN «ANCHE noi dobbiamo ripartire da zero», dice uno studente che tiene per mano la fidanzata. È venuto a visitare una mostra speciale, che pochi si aspetterebbero di vedere al Museo di arte contemporanea di Teheran, inaugurata dallo stesso ministro della Cultura Ali Jannati (figlio di un ayatollah ultraconservatore, lui invece un liberale). Una personale di Otto Piene, che era passata anche dal Guggenheim. Già sulle scale siamo accolti da una spettacolare corona di inflatables, sculture d’aria colorate che assomigliano a tronchi d’albero sormontati da immensi fiori a stella. Piene è un pittore tedesco del famoso Gruppo Zero. Negli anni del dopoguerra in Germania, come in altri paesi d’Europa, gli artisti sentivano un’urgenza di rinnovamento, volevano ripartire da zero, ma avevano anche fiducia nel futuro. Sentimenti che oggi toccano un nervo sensibile dei giovani iraniani che aspettano col fiato sospeso la conclusione dei negoziati sul nucleare a Ginevra.
“Arcobaleno” è intitolata la mostra, perché Piene dipingeva arcobaleni in serie. E chi visita la mostra li vede come un simbolo di riconciliazione. «Sogno un mondo più largo — dovrei forse desiderarne uno più stretto?», è una citazione di Otto Piene nella prima pagina del catalogo. “Conto alla rovescia per il domani”, è un altro titolo. Ginevra, dicono tutti, segnerà la svolta decisiva per il futuro del paese: «O diventiamo un paese normale, di cui il resto del mondo ha rispetto e fiducia oppure che cosa?», si chiede lo studente. Nessuno riesce a figurarsi quale sarebbe l’alternativa.
«Dopo trentacinque anni di chiusura, tre decenni e mezzo in cui il mondo ci ha considerati un popolo di second’ordine, vogliamo tutti che l’isolamento abbia fine», mi dice un funzionario del ministero degli Esteri. Anche la pressione economica ha fatto la sua parte: il crollo dei prezzi del petrolio, che è calcolato a 130 dollari nella legge di bilancio ed è sceso a 60, è stato l’ultimo colpo. Poi ci sono i cento miliardi di dollari congelati all’estero per via delle sanzioni sulle transazioni finanziarie, mentre i guadagni fatti quando il petrolio era a 150 dollari sono spariti (si parla di un buco di 6 miliardi di dollari negli ultimi anni di Ahmadinejad e ieri il ministro dell’Interno Rahmani Fazli ha detto che «denaro sporco» sta entrando nella politica per manovrarla). «Nessun paese può crescere economicamente quando è isolato», ha ammonito il presidente Rouhani.
Ma c’è anche chi vuole il fallimento del negoziato: non solo Netanyahu e pezzi del Congresso a Washington, sono in tanti anche qui. «In questo momento tacciono, nessuno vuol prendersi la responsabilità di un fallimento dopo che il Leader Supremo Khamenei ha dato esplicito sostegno al negoziato: semplicemente aspettano il momento opportuno per alzare la voce», avverte un analista che preferisce rimanere anonimo. Sono gli ultraconservatori, sono i pasdaran (almeno in parte), sono tutti coloro che non solo perderanno i benefici portati dalle sanzioni, che hanno consentito di accumulare enormi ricchezze. E per molti è in gioco anche la sopravvivenza politica. «Se si farà l’accordo — dice un professore universitario — i conservatori scompariranno nelle due elezioni importanti che ci saranno a primavera: non saranno rieletti al Majlis, il Parlamento dove oggi hanno la maggioranza, e, cosa forse ancora più pericolosa per loro, all’Assemblea degli esperti, gli 86 eletti che stanno in carica otto anni e hanno il compito di nominare il Leader Supremo». Va detto che Khamenei è più in salute di quanto sia stato detto, anche se in questi giorni è di nuovo sotto osservazione in ospedale dopo un’operazione alla prostata, ma comunque si avvicina agli 80 anni.
Al discorso di Netanyahu il governo ha reagito con ostentata pacatezza: «Il mondo vede con soddisfazione i progressi fatti nel negoziato e solo un governo che aggredisce e occupa non è contento», ha detto il presidente Rouhani. «Il negoziato prosegue, e che Obama avesse difficoltà col Congresso si sapeva. Il governo sottolinea lo sforzo enorme fatto dall’Iran. È vero che i 5+1 riconosceranno il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, il programma nucleare è considerato da sempre lo strumento per entrare nella modernità, ed essere privati di un diritto garantito a tutti i firmatari del Trattato di Non Proliferazione sarebbe stato un affronto inaccettabile. Ma le condizioni saranno durissime: riduzioni drastiche, chiusure o trasformazioni di impianti, ispezioni ad libitum non annunciate dell’Aiea. Il tutto almeno per dieci anni — un numero «a due cifre», come ha detto Obama. Tra dieci anni la leadership presumibilmente sarà cambiata — sono tutti piuttosto anziani — e il nucleare non sarà più al centro dell’orgoglio nazionale iraniano. «Abbiamo dato prova di tanta buona volontà. Se non avessimo fatto uno sforzo così grande non saremmo arrivati dove siamo», ha spiegato il consigliere diplomatico del Leader Ali Velayati al ministro Gentiloni.
Ma se l’accordo si riuscirà a fare o no, è ancora scritto nelle stelle. «Siamo vicini», ha detto Zarif dalla Svizzera, ma è come il cubo di Rubik: nulla è a posto finché tutto non è a posto. Si prevede la firma di un accordo politico entro marzo, poi seguirà un piano d’azione tecnico da firmare entro il 30 giugno. Il 9 arrivano di nuovo gli ispettori dell’Aiea, che vogliono soprattutto indagare sul passato, ma Teheran dice che la documentazione nelle loro mani è un falso.
Per chi si oppone all’accordo, qui come a Washington, è facile far leva su 35 anni di alienazione traumatica tra Iran e Stati Uniti. Riabilitare l’Iran, consentire alla sua reintegrazione nella comunità internazionale è un passo enorme per Obama e per Kerry. Da due decenni i due paesi si considerano rispettivamente il Grande Satana e l’Asse del Male. Non c’è film americano che non lo provi, non c’è manifestazione a Teheran senza gli slogan “morte all’America”. Ma tutti oggi sanno anche che in gioco c’è molto di più, per l’Iran e per il resto del mondo.
La Stampa 6.3.15
Iran, la rivincita delle donne giornaliste
Nel 1992 erano il 13% del numero totale di reporter, oggi sono quasi la metà
di Maurizio Molinari
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La Stampa 6.3.15
Iraq, l’Isis rade al suolo sito archeologico di Nimrud
I jihadisti con i bulldozer nella città fondata nel 13° secolo a.C., gioiello dell’era assira
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Il Sole 6.3.15
I timori. Preoccupano le politiche monetarie in ordine sparso
La transizione di Pechino e il rischio di shock esterni
di Rita Fatiguso
I bocconi amari che la Cina dovrà ingoiare, pur di cambiar pelle al vecchio modello economico, saranno tanti e non tutti dipenderanno da cause interne.
La globalizzazione, in definitiva, aumenterà le pressioni e il sovrapprezzo da pagare per la società cinese: tutti costi difficilmente quantificabili in cifre e preventivi, ma non per questo meno pesanti da affrontare. Ma rallentare il passo sarà doloroso.
Chi meglio di Xu Shaoshi, chairman della National development and reform commission (NDRC), il braccio del partito per le riforme («soprattutto interne a noi stessi», come ha ricordato ieri in conferenza stampa) può interpretare le tante preoccupazioni che serpeggiano nel discorso del premier Li Keqiang?
Xu, che per la carica ricoperta è ben più di un ministro, considera le ricorrenti turbolenze esterne un elemento da tenere ben in conto per affrontare il 2015. Lo dice senza mezzi termini, proprio mentre passa in rassegna il bilancio delle riforme fatte e di quelle da fare nel nuovo anno in carico al suo ufficio: «Le economie mondiali – a suo parere - si stanno muovendo in ordine sparso, specie sul fronte della politica monetaria, tempo fa gli Stati Uniti stavano prendendo in considerazione il problema di aumentare i tassi di interesse. Eurozona e Giappone hanno in cantiere o stanno per lanciare politiche in vasta quantità per stimolare l’economia stagnante. Se le politiche sono un fatto nazionale, nella formulazione finale le politiche, specie quelle monetarie, devono considerare gli effetti delle possibili ricadute. Per quanto riguarda l’impatto sulla Cina, ci sarà molta attenzione da fare, ma non siamo preoccupati, perché la Cina è di per sé un mercato enorme, i margini di manovra sono molto grandi».
«Il tempo è dalla nostra parte», sentenzia il guru delle riforme di Pechino, quasi a scacciare col pensiero le grane che sono già dietro l’angolo.
Qualche esempio. Le banche dovranno rinunciare ad altri balzelli oltre ai 40 miliardi di yuan recuperati dallo Stato nel 2015, molti altri elementi della catena decisionale amministrativa dovranno perdere potere per tagliare i posti della burocrazia partendo dalla stessa NDRC che ora avoca a sé l’ultima parola soltanto dei progetti davvero strategici, il 76% per cento è stato sottratto al livello ministeriale che si è ridotto a dire la sua soltanto sul 2% dei casi.
Anche le aziende statali che hanno investito all’estero, finora assolutamente libere da ogni tipo di supervisione, man mano che la Cina attua il Go Global, dovranno sottoporsi all’audit che sta attanagliando i colossi in Patria.
La Cina tutta dovrà prepararsi ad accusare il colpo di novità impreviste, come l’impatto del crollo dei prezzi delle commodities che l’anno scorso ha falcidiato l’import-export denominato in dollari. Imprese in overcapacity e, magari, fortemente inquinanti, dovranno fallire per il bene del mercato che, specie sul versante interno, anela invece a beni che non ci sono o scarseggiano oppure sono irreperibili. I rischi di un simile nuovo corso sono enormi per una società dedita a un capitalismo con caratteristiche cinesi. Il numero di cinesi che dovranno ricollocarsi non e' quantificabile.
Molti posti di lavoro andranno in fumo e anche se ne nasceranno altri in settori innovativi come i servizi che continuano a crescere nella loro formazione del Pil la ristrutturazione farà comunque molte, forse troppe vittime.
Molte certezze dovranno cadere. Le resistenze più forti nascono proprio all’interno del sistema, fa capire Xu Shaoshi in una riga del rapporto al Congresso del Popolo. Che lo ammetta, nero su bianco, lo stesso ente incaricato di riformare il sistema è, di per sé, già una rivoluzione.
Il Sole 6.3.15
Il discorso del premier Li. Definite le linee guida dell’economia per il 2015
La Cina «rallenta» al 7% Meno crescita, più riforme
Lotta a corruzione e inquinamento Aumentano del 10% le spese per la Difesa
di R. Fa.
Pechino La Cina segna il passo e lo fa a malincuore. Il premier Li Keqiang nel discorso di apertura della terza sessione plenaria del 12esimo Congresso del Popolo, il parlamento cinese, fissa nel 7% la crescita economica attesa nel 2015, l’inflazione al 3%, i nuovi posti di lavoro in dieci milioni.
E così via, con un tono che non lascia trapelare ottimismo, ma che si assicura, nella prima parte delle 38 pagine lette davanti ai delegati accorsi nella capitale, di tranquillizzare la Cina sui tanti progressi fatti l'anno scorso. Le fanfare della banda non bastano a coprire i malumori. Tra i delegati alcuni sono molto agguerriti nel rpedisporre emendamenti e correttivi allo staus quo.
Numeri scarni, in ogni caso, pallido riflesso del decennio roboante dei predecessori Hu Jintao e Wen Jabao, ormai in pensione e sempre piu' avvolti nella damnatio memoriae. Scomparsi, archiviati.
Al ticket Xi Jinping-Li Keqiang tocca invece di riparare in fretta i costi di decisioni a lungo procrastinate e in certi casi ormai non più recuperabili. Come nel caso dell’ambiente, bastava dare un occhio alla piazza Tiananmen per rendersi conto che ieri lo smog, in assenza di vento, aveva avuto ancora una volta la meglio. Nel 2015 è successo almeno per un terzo dell’anno.
Nei fatti il nuovo mantra della sessione annuale del Congresso del popolo è cambiato. Il premier parla di economia “new normal”, con una crescita più bassa, stimabile al di sotto di 5 punti del goal tracciato ma non rispettato, a consuntivo, appena un anno fa.
I tempi d’oro sono definitivamente archiviati e il gruppo dirigente deve convincere il Paese che la musica è cambiata, il Sogno cinese c’è ma non è così a portata di mano, bisogna conquistarselo.
Un obiettivo deludente, il 7%, già il 7,4% a chiusura del 2014 è stato il peggior dato in 24 anni. Ma la Cina, «deve mantenere un giusto equilibrio tra garantire una crescita costante e aggiustamenti strutturali», ha detto Li Keqiang.
Tutti devono concorrere a questo obiettivo. Un vero e proprio cambio di passo, dal modello orientato su export e produzione labour intensive a quello basato sui consumi interni e sulla produzione di qualità.
«I profondi problemi nello sviluppo economico del Paese sono sempre più evidenti», rimarca il premier descrivendo l’inquinamento come una “piaga” sulla qualità della vita», auspicando che «le leggi ambientali vengano applicate rigorosamente».
Gli interessi economici particolari di chi inquina continuano a cozzare con l’esigenza di preservare salute delle persone e dell’ambiente, nonostante gli sforzi e persino una nuova legge che dovrà essere definitivamente approvata da questo Congresso comminare le sanzioni, sempre più pesanti, è molto difficile.
E non è finita. «Le difficoltà che stiamo affrontando quest’anno potrebbero essere più grandi rispetto allo scorso anno. Il nuovo anno è un anno cruciale per l’approfondimento a tutto tondo le riforme. «Proprio mentre conferma che il bilancio militare aumenterà del 10,1% nel 2015, Li ammette che il rapido sviluppo ha portato a grandi problemi di inquinamento ambientale in tutta la Cina e promette di combattere l’inquinamento «con tutte le nostre forze: dobbiamo rispettare rigorosamente le leggi e i regolamenti ambientali; reprimere chi crea emissioni illegali e garantire che paghino un prezzo pesante per questi reati».
Ai tremila delegati del Parlamento che lavoreranno fino a domenica 15 marzo si prospettano grandi cambiamenti, ma l’attenzione è tutta per l’ambiente, il tema più sentito, perfino Li Keqiang lo considera «una sventura per la qualità della vita delle persone, un problema che pesa sul loro cuore».
Se nel lungo elenco delle cose da fare l’ambiente occupa lo spazio più ampio, in rete, dal 28 febbraio, con sapiente coincidenza, ha cominciato a girare il video “Sotto la cupola”, ormai virale, realizzato da Chai Jing, ex giornalista televisiva http://www.iqiyi.com/v_19rro0o4kc.html)che prende spunto da una vicenda personale per approfondire il tema dell’inquinamento con toni capaci di toccare ad arte le corde dei cinesi. La Cina si trova ad affrontare gravi problemi di inquinamento causati dall’industrializzazione ultraveloce. Un quinto del Paese ha il suolo contaminato, l’aria è irrespirabile, l’acqua non potabile. Vivere in salute, in certi casi, basta e avanza per realizzare il Sogno cinese.
Il Sole 6.3.15
Cina
New normal vuol dire anche qualità della vita
L’annuncio fatto da Li Keqiang, nell’arena dell’ Assemblea consultiva del Popolo, in cui Pechino situa gli obiettivi di crescita dell’economia cinese intorno al 7%, non deve ingannare. Anche se c’è chi ha osservato come la crescita ad una cifra di fatto confermi già, sostanzialmente, quel 7,4% con cui la Cina aveva toccato lo scorso anno il punto più basso da venticinque anni a questa parte. Mentre per Li il tema della crescita è un non-problema se è vero, come è vero, che quel 7,4%, targato 2014, ha finito per creare - grazie alla base più larga e consistente dell’economia cinese, oggi - migliori risultati, più occupazione e più domanda interna di quanto non si fosse realizzato nel 2007 con l’impennata del 12%. E dunque crescita equilibrata e aggiustamenti strutturali rappresentano il nuovo binomio con cui Li ha ormai archiviato il modello costruito sull’export e su di una produzione labour intensive. Puntando non da oggi su consumi interni e produzione di qualità.Gli stessi investimenti infrastrutturali dichiarati - Li Keqiang ha annunciato, per il 2015, investimenti per 1.600 miliardi di yuan (231 miliardi di euro) in infrastrutture ferroviarie e idriche - rappresentano a mio parere una modalità tattica (sembra paradossale ma hanno talmente tanti soldi: circa 1445 miliardi di Eu saranno investiti in circa 400 progetti tra 2014 e 2016 ) per gestire il tormentone delle “aspettative sulla crescita”. Che cosa nasconde ( o non nasconde) il piatto obiettivo da economia “new normal” che ispira all’Occidente quasi un sospiro di sollievo per i ritmi finalmente “più umani” dell’economia del dragone? Facciamocene una ragione. I veri temi della Cina sono altri: il costo del lavoro è cresciuto, dal 2001 a oggi, di quasi il 12% all’anno. L’automazione e l’innovazione non sono più priorità rimandabili, ma per attivare questo processo occorre liberalizzare il sistema finanziario, così come occorre procedere in modo ancora più spedito sulla tutela dei diritti di proprietà intellettuale. Non solo: bisogna lavorare sul fronte educativo per innestare nel DNA dei cinesi un atteggiamento culturale diverso rispetto all’innovazione/cambiamento (che tradotto in termini schumpeteriani significa una maggiore propensione al rischio). Nè possiamo dimenticare il tema delicato della gestione della bolla immobiliare (interi pezzi di città vuoti di case disabitate) che secondo la dirigenza cinese deve essere trasformato, paradossalmente, in opportunità in favore di quel necessario processo di ulteriore urbanizzazione della popolazione cinese. Una sfida non da poco perché per portare a compimento il percorso del cinese metropolitano occorre anche lavorare secondo logiche sostenibili di sviluppo urbanistico (capace di incrementare la qualità della vita di quelle che sono obbligate a farsi smart city). Ed entra allora in campo la sfida ambientale che è anche sociale. E si apre qui una problematica di cui Li è ben consapevole: quella che lega sviluppo economico e qualità di una vita “piagata” dall’inquinamento. Non a caso il premier è apparso assai determinato nell’auspicare che le leggi ambientali vengano applicate rigorosamente per uscire da questa «sventura per la qualità della vita delle persone e da un problema che pesa sul loro cuore». Né ha voluto nascondersi e nascondere al partito ed al Paese che le difficoltà potranno aumentare parlando infine del nuovo anno come di un anno cruciale sulla strada del compimento delle riforme». Se scorriamo attentamente l’elenco di temi che contraddistinguono gli assi di una nuova qualità della vita su cui la dirigenza cinese gioca la sua partita di governo, l’Italia può essere messa assai bene in campo. Agro-alimentare; sfida ambientale (si veda l’esempio di Hera); sviluppo urbanistico ma anche tecnologie per l’automazione: sono tutti capitoli di un libro dell’eccellenza italiana che può aprire in Cina un nuovo ciclo virtuoso. Le delegazioni cinesi arriveranno in massa per Expo Milano 2015; approfittiamone.
Corriere 6.3.15
La «cautela» della Cina. Il Pil sale del 7%
di Guido Santevecchi
I tre decenni di crescita a doppia cifra per la Cina sono un ricordo. Il picco del 14,2% nel 2007 fa parte della storia dell’economia, il presente, la «nuova normalità» come la chiama il governo di Pechino, non permette un obiettivo superiore al 7% per il 2015. Il premier Li Keqiang, dopo che nel 2014 la previsione di crescita al 7,5% non era stata raggiunta (anche se sfiorata con il 7,4 per cento) ieri ha annunciato che lo sforzo quest’anno è di attestarsi «intorno al 7%» di espansione. Nel discorso di 38 pagine letto ieri ai 2.964 deputati del Congresso nazionale del popolo (ne mancavano 39 arrestati per corruzione), il premier ha sostenuto che il governo gestisce il rallentamento per creare una «società moderatamente prospera». Dietro gli slogan, Li Keqiang ha ammesso che ci sono problemi sistemici, strutturali, istituzionali e li ha paragonati a «tigri nelle nostre strade, capaci di sbarrare la strada allo sviluppo». Per questo servono le riforme. La crescita accelerata spinta da investimenti, debito, industria pesante ed esportazioni non regge più. La Cina cerca di creare un vero mercato interno di consumatori e di sostituire le catene di montaggio a basso costo con società di servizi. Abbassare l’obiettivo della crescita in questo senso è confortante, perché significa che la Cina non vuole ricorrere a un nuovo pacchetto di stimolo per gonfiare il Pil: il deficit di bilancio è fissato al 2,3%.
Governare il rallentamento della seconda economia del mondo, in un Paese autoritario come la Cina, presenta rischi ulteriori. Il partito comunista ha stretto una sorta di patto non scritto con i cinesi: aumento del benessere, lavoro per tutti i cittadini in cambio di un potere senza controllo per il gruppo dirigente. Un punto in meno di Pil può costare un milione di posti di lavoro in Cina. Li Keqiang ha promesso che la nuova normalità del 7% consentirà di creare anche quest’anno 10 milioni di posti nelle città, tenendo la disoccupazione al 4,5% e garantendo la stabilità .
il manifesto 6.3.15
Xi Jinping senza pietà: al gabbio anche l’ex capo dell’intelligence
Cina. Il team anti corruzione sta indagando i papaveri dell'esercito, senza alcuna pietà
di Simone Pieranni
qui
Repubblica 6.3.15
Il caso Pablo e Tania la sinistra spagnola divisa da una love story
Lui è il capo di Podemos, lei la stella in ascesa di Izquierda Unida “Corri con noi”
“No, ho idee diverse”. Ma c’è chi sospetta: “È tattica”
di Alessandro Oppes
MADRID «Tania, ripensaci», supplica Pablo, pragmatico e affettuoso. Lei resiste, in apparenza inflessibile («abbiamo idee diverse»), anzi replica chiedendo a lui più «generosità». Sembra la cronaca di una crisi di coppia e invece è solo un episodio di una convulsa trattativa politica. Ma forse no: potrebbero essere le due cose insieme. Si presenterà Tania Sánchez alle primarie di Podemos per concorrere alla presidenza della Regione di Madrid come le propone il segretario generale (e suo fidanzato) Pablo Iglesias con il decisivo argomento secondo cui «abbiamo bisogno delle forze migliori»? O invece andrà avanti, imperterrita, verso una fantomatica “candidatura di unità popolare” dai contorni incerti e dagli esiti imprevedibili?
A Tania dà un enorme fastidio essere definita come la novia de, la fidanzata di Pablo. Però è così. Difficile attribuire al caso il fatto che, proprio mentre Podemos faceva irruzione sulla scena politica nazionale con il primo, clamoroso successo alle Europee del maggio scorso, questa giovane e fino ad allora sconosciuta consigliera regionale madrilena entrava stabilmente a far parte della ristretta cerchia di ospiti fissi dei talk show televisivi. Proprio come Pablo, altro animale di razza dei dibattiti tv, vero trampolino di lancio per il suo successo in politica.
L’ascesa di Tania è rapida e sorprendente. Vince le primarie del suo partito, Izquierda Unida, per la candidatura alla presidenza regionale in vista delle elezioni del prossimo 24 maggio. Neanche il tempo di festeggiare e la stampa (forse alimentata dai nemici interni alla sua formazione), scopre uno scandalo capace di mettere in dubbio la genuinità dei suoi progetti di «rinnovamento» e dei suoi appelli alla «politica pulita»: quand’era consigliera comunale di Rivas Vaciamadrid, feudo della sinistra alla periferia della capitale, contribuì insieme al padre (anche lui consigliere di Iu) ad assegnare a suo fratello Héctor contratti pubblici per un milione e 300 mila euro per il finanziamento di una cooperativa.
La vicenda è tutt’altro che chiarita ma lei, prima ancora di essere messa davanti al fatto compiuto (in caso di imputazione Izquierda Unida l’avrebbe costretta alle dimissioni) abbandona il partito nel quale ave- va militato fin da giovanissima. La scusa è che la vecchia guardia si oppone al cambiamento. Il sospetto, di molti, è che dietro ci sia una strategia ben precisa: far saltare in aria la formazione tradizionale dell’estrema sinistra per favorire la sigla emergente di Iglesias. Quando glielo chiedono, lei sembra molto determinata: «Non passerò a Po- demos. Punto».
Ma poi mette in piedi una fragile coalizione dal nome provvisorio “Convocatoria por Madrid”. E si siede a negoziare con Podemos. Rifiutando, per il momento, la mano tesa di Pablo. A nessuno è chiaro se si tratti di un gioco delle parti, di una strategia politica elaborata tra le mura domestiche. Nella casa che il leader di Podemos ha ereditato nel quartiere popolare di Vallecas. O nell’altra piccola residenza di campagna sulla Sierra de Gredos, in provincia di Ávila. Magari mentre assistono alle loro serie tv preferite, House of Cards e Trono di Spade, storie che si sviluppano sullo sfondo di intrighi di potere. Tra le tante cose in comune, Tania e Pablo hanno un’ambizione smisurata. Lei lo dice chiaro: si vede più come «presidenta» che come «primera dama». Quanto a Iglesias, in un celebre discorso di fronte a un’affollata platea, ha assicurato di «non essere un maschio alfa». Però, tra i due, è lui che punta dritto verso la Moncloa.
La Stampa Vatican insider 6.3.15
Pedofilia, ecco l’«hit parade della vergogna»
di Domenico Agasso jr
qui
La Stampa 6.3.15
Dacci la nostra precarietà quotidiana
Le origini del vangelo neocapitalista
Tradotto in Italia il saggio del 1999 di Boltanski e Chiapello
La contestazione del ’68 come apripista della società neoliberale
di Massimiliano Panarari
Mancava ancora, nel nostro Paese (dove, peraltro, si traduce di tutto), un volume pubblicato in Francia nel 1999 con un certo successo di vendite. Un piccolo best-seller decisamente particolare, perché rappresenta una monumentale genealogia culturale dei mutamenti di quell’araba fenice che risponde al nome di capitalismo.
Stiamo parlando de Il nuovo spirito del capitalismo dei sociologi Luc Boltanski ed Eve Chiapello, arrivato soltanto adesso nelle librerie italiane (per i tipi di Mimesis, pp. 728, euro 38). Albert Hirschman, Karl Polanyi ed Emile Durkheim quali numi tutelari, una tutt’altro che sottaciuta vis polemica nei confronti di Pierre Bourdieu (di cui Boltanski, direttore di ricerca onorario della parigina École des Hautes Études en Sciences Sociales, fu allievo), questa ponderosa decostruzione intellettuale del neoliberismo proponeva un esame lungimirante dell’evoluzione tardo-novecentesca dei paradigmi della cultura del business (presa molto sul serio, come andrebbe appunto fatto, e come ai francesi, quando ci si mettono di esprit de géometrie, riesce alla perfezione...). Dunque, altro connotato originale del libro, sguardo radicale sì, ma niente aura radical, nel nome di una terza via tra Marx (del quale si intende perpetuare la critica a quella che gli studiosi considerano l’ideologia capitalistica) e Weber (all’insegna dell’avalutatività dell’indagine come requisito essenziale per uno scienziato sociale).
Punto di partenza di questo recente classico della teoria sociologica è l’osservazione di come il capitalismo, regime dell’accumulazione illimitata, porti sempre con sé una serie di quadri valoriali e cornici normative: in termini weberiani, il suo «spirito» (o, come potremmo dire ora, il suo immaginario). Valeva, alle origini, nel clima religioso instaurato dal protestantesimo ascetico di calvinisti, anabattisti e puritani, che agevolò la sua nascita, come nei tempi attuali pullulanti di analisti simbolici e informatici al servizio di Apple o Facebook. Dopo il primo spirito del capitalismo familiare ottocentesco, è stata la volta del secondo (quello del fordismo e della grande impresa), fino alla formazione, nel trentennio 1970-1990, del terzo, capace per la prima volta di introiettare buona parte delle contestazioni che gli erano state mosse nel passato, convertendole in punti di forza.
Il ’68 mosca cocchiera
Proprio nel volume di Boltanski e Chiapello si ritrova infatti l’intuizione originaria – largamente argomentata sotto il profilo teorico e puntellata per via empirica (dall’analisi comparata dei manuali di neomanagement degli Anni Novanta allo studio di varie fattispecie di degrado della condizione lavorativa dei ceti operai e delle classi medie) – di come il Sessantotto abbia generato la logica che innerverà il neocapitalismo (e, quindi, anche l’economia digitale e delle multinazionali dell’high tech). Il rigetto dell’autorità e della gerarchia sviluppato dai movimenti di quell’epoca – autentico punto di svolta per le società occidentali, e motore «spirituale» della fuoriuscita dal sistema produttivo fordistico – costituisce la premessa di quelle innovazioni organizzative che hanno cambiato il mercato del lavoro e radicato il modello dell’impresa flessibile e a rete. Novità diventate il pilastro di un capitalismo cognitivo fondato sulla Rete per antonomasia, e certificate da una letteratura di organizzazione aziendale che, avvertivano già parecchi anni fa Boltanski e Chiapello, andava considerata, per molti versi, alla stregua di una trattatistica e precettistica morale.
Contro la gerarchia
Dove si predica e raccomanda il coinvolgimento dei dipendenti (trasformati in collaboratori) all’interno di dinamiche «orizzontalizzate» e friendly, come pure la loro autonomia e intraprendenza, perché dalla creatività dipende sempre maggiormente il profitto, a partire dalla new economy tecnologica; come avviene nelle imprese della Silicon Valley che mettono a disposizione dei propri lavoratori una nutrita lista di utilità (dalle palestre alle sale di relax e meditazione, fino ai Google bus), mediante le quali stimolare la talentocrazia e le idee da mettere «in produzione».
Non per niente il neocapitalismo ha saputo incorporare le rivendicazioni libertarie e le istanze anticonformistiche e di autenticità brandite dalla critica artistica esplosa negli Anni Sessanta e Settanta, a cui ha risposto tanto sul piano delle metodologie organizzative del lavoro che mediante la moltiplicazione dell’offerta di merci e la produzione di beni sempre più identitari e «personalizzati».
Nel mondo fluido
Precisamente il mondo fluido in cui viviamo, dove il neoliberismo si è fatto così avvolgente da generare la crisi della stessa critica politica. Mentre aumentano le forme di sfruttamento del lavoro e si precarizzano fortemente le esistenze, come sottolineano i due sociologi, auspicando una rinascita della critica sociale in chiave appunto artistica e creativa, e il passaggio a uno stadio nel quale le persone non vengano più messe incessantemente alla prova, né costrette a «vite a progetto».
Corriere 6.3.15
Quando l’Occidente venne incontro ai Soviet
risponde Sergio Romano
Le voglio fare una domanda che presuppone sicuramente una difficile risposta, al meno che non si voglia scendere, come spesso accade, nel banale anticomunismo. Se dopo la Rivoluzione di ottobre l’Occidente avesse cercato di aiutare l’Urss a risolvere i grandi problemi che aveva davanti e le tante sue contraddizioni, invece di assediarla militarmente, politicamente e culturalmente, il mondo, oggi, sarebbe diverso? E questo fatto, facendo le dovute proporzioni non le ricorda, magari vagamente, la Grecia di oggi?
Silvio Giovannetti
Caro Giovannetti,
Credo che la teoria dell’assedio meriti qualche precisazione. Quando il governo di Lenin concluse una pace separata con gli Imperi centrali a Brest Litovsk nel marzo del 1918, la Russia bolscevica divenne per l’Occidente doppiamente nemica. In primo luogo perché non nascondeva la sua intenzione di esportare la rivoluzione nell’intera Europa e nei suoi imperi coloniali. In secondo luogo perché gli accordi pattuiti con la Germania a Brest avevano fatto della nuova Russia, a tutti gli effetti, un satellite economico dei Reich guglielmino.
È certamente vero che i vincitori, dopo la fine del conflitto, mandarono unità militari in Russia nella speranza di aiutare le formazioni zariste a riconquistare il potere. Ma non sarebbe giusto dimenticare che, quasi contemporaneamente, una grande organizzazione americana (l’American Relief Administration), creata nel 1919 dal Congresso degli Stati Uniti per assistere le popolazioni europee maggiormente provate dalla guerra, non voltò le spalle alla Russia. Diretta da un futuro presidente degli Stati Uniti (Herbert Hoover), l’A.r.a. intervenne soprattutto durante la grande carestia russa del 1921. Per due anni gli uomini e le donne dell’organizzazione americana combatterono la fame e il tifo, assistettero e sfamarono milioni di persone, dovettero affrontare terribili problemi sociali come il cannibalismo e le bande di adolescenti che scorrazzavano nelle città rubando e uccidendo.
Nei rapporti dell’Unione Sovietica con le democrazie occidentali vi furono momenti di grande tensione. Ma ve ne furono altri in cui le reciproche convenienze prevalsero sulle divergenze ideologiche. Il primo piano quinquennale, lanciato da Stalin nel 1929, non sarebbe stato un considerevole successo se i pianificatori sovietici non avessero potuto contare sulla collaborazione delle industrie europee, soprattutto tedesche e italiane. E le grandi vittorie sovietiche durante la Seconda guerra mondiale sarebbero state molto più ardue, soprattutto nella fase iniziale, se l’Armata Rossa non avesse potuto contare sugli aiuti provenienti soprattutto dagli Stati Uniti.
Il confronto con la Grecia non mi sembra calzante. La Grecia è stata aiutata piuttosto generosamente anche da Paesi, come Italia e Spagna, che non erano nelle migliori condizioni. Ma lo scopo degli aiuti era quello di risanare le sue finanze eliminando con le riforme le cause del suo cronico indebitamento. Il fatto che Syriza abbia vinto le elezioni non significa che la politica del governo precedente fosse sbagliata.
il manifesto 6.3.15
Renato Cacciopoli, un flâneur ribelle a ogni ortodossia
La vita del matematico napoletano Renato Caccioppoli in un libro di Roberto Gramiccia
di Giuseppe Allegri
qui
Corriere 6.3.15
La Biennale contro
Voci ribelli, da Marx fino a oggi: ecco il «Parlamento delle forme»
di Pierluigi Panza
VENEZIA La troika vi respinge? Il vostro Parlamento è esautorato? La finanza mondiale schiaccia ogni vostra aspirazione di libertà? Nessun problema, l’arte vi viene incontro e la vostra casa, dal 9 maggio al 22 novembre, sarà la Biennale d’arte di Venezia. Se non sapessimo che il curatore della 56ª edizione è il 52enne nigeriano Okwui Enwezor (balzato alla ribalta nel 2002 per aver curato una delle più politicizzate edizioni della politicizzata Documenta di Kassel) penseremmo che Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis ci abbiano messo lo zampino. L’evento, che cade a 120 anni dalla nascita della Biennale, appare infatti come un «Parlamento delle forme», un collettivo aperto, assembleare, ex terzomondista, ex periferico dove artisti diversissimi sembrano chiamati a rispondere alle nuove forme di dominio mondiale, «dall’atteggiamento antiliberale di alcune nazioni alla controrivoluzione del capitalismo finanziario in Occidente» confessa Enwezor. «Le fratture che ci circondano abbondano in ogni angolo del pianeta e la risposta per gli artisti è tornare nell’Arena».
Già, l’Arena sarà il cuore di questa Biennale, l’area pulsante del Padiglione centrale ai Giardini dove ogni giorno, per sette mesi, verrà letto, ininterrottamente, Il Capitale di Marx accompagnando la lettura con «recital, canti di lavoro, discussioni, assemblee plenarie e proiezioni di film dedicati a esplorazioni dell’opera di Marx». Sarà come «un oratorio» popolare, l’ha definito il curatore, come ipnotici canti religiosi, che coinvolgerà il pensiero di Engels, Lenin, Rosa Luxemburg, Trotsky, Stalin, Gramsci fino a Pier Paolo Pasolini, con la sua poesia La Guinea declamata in un recital che sarà sempre ripetuto. A corredo di queste letture, opere d’arte appese alle pareti, installazioni, proiezioni di film di Eisenstein, la musica di Luigi Nono ( Non consumiamo Marx ), i tam-tam di Janson Moran e altro di contorno.
«Espropriare gli espropriatori», insomma, come dal Libro I del Capitale , sembra un po’ il messaggio collettivo che dovrebbe uscire, se non dall’intera Biennale, certamente dalla mostra principale, All the World’s Futures curata appunto da Enwezor, che qui tutti chiamano amichevolmente con il nome proprio Okwui. Okwui ha radunato 136 artisti, dei quali 89 presenti per la prima volta, da 53 Paesi (molti africani) in una mostra con tante opere, sia filmiche che grafiche, di cui ben 159 nuove produzioni. Artisti che avranno anche modo di presentarsi, confrontarsi e, alla fine, dar vita a un progetto speciale: la raccolta dei curriculum di tutti gli artisti operanti nel mondo, da consegnarsi agli archivi della Biennale.
Per Enwezor, che tende a saldare storia e proiezione contemporanea, si è arrivati a questa mostra globale perché la Biennale deve riscoprire quella vocazione espressa nel 1974: «L’anno successivo al golpe di Pinochet, la Biennale sostenne il Cile e si impegnò con una serie di programmi con attivisti, sindacati e studenti dimostrando che l’arte può servire alla trasformazione sociale». Anche se nella rassegna odierna il riferimento è più simbolico che di impegno militante (ma ci sarà anche una mappa dei conflitti in corso in Siria), a questa prospettiva si ispira la selezione delle opere dei vari Christian Boltansky, Robert Smithson, Chris Marker, Abdel Abdessemed, Allora & Calzadilla, Philippe Parreno e moltissimi nomi poco noti con lavori che mitizzano quasi un’intera storia del mondo come sforzo di libertà. Le loro opere saranno accompagnate da lavori più engagé come quelli di Inji Aflatoun (attivista egiziano incarcerato) o quelli sulla Borsa valori e sulle fabbriche di Andreas Gursky. Gli italiani sono quattro: Fabio Mauri, Pino Pascali e, viventi, Monica Bonvicini e Rosa Barba, più uno spazio per la rivista «the Tomorrow» con sede a Milano. Il tutto esposto in quelli che Enwezor chiama i tre filtri della rassegna: il primo dedicato ai residui ( Giardino del disordine ai Giardini), il secondo al Capitale ( Arena nel Padiglione principale), il terzo alla Vitalità (diverse sedi).
Accanto alla mostra principale, ci saranno gli 89 padiglioni delle diverse nazioni tra le quali, new entry, Grenada, Mauritius, Mongolia, Mozambico, Seychelles. Il Padiglione Italia sarà curato da Vincenzo Trione; presente, per la seconda volta, il Vaticano. Più progetti speciali e 44 eventi collaterali.
Le esposizioni nazionali consentono al presidente della Biennale, Paolo Baratta, di rafforzare il senso della rassegna che si presenta: «A chi, nel 1998, chiedeva la chiusura dei padiglioni nazionali perché obsoleti, oggi possiamo dire che il loro mantenimento ha consentito di non dare ospitalità alla dittatura del mercato. Nonostante i progressi delle scienze, la nostra è una sorta di age of anxiety e per questo la Biennale torna a osservare il rapporto tra l’arte e lo sviluppo della realtà umana. E lo fa coinvolgendo artisti e discipline diverse in una sorta di Parlamento delle forme. Siamo come l’ Angelus novus del quadro di Klee descritto da Benjamin: guardiamo le rovine della nostra storia consapevoli che dobbiamo andare avanti». Avanti verso una terra promessa, con Il Capitale ma senza il capitalismo andando oltre «l’arte non arte» degli ultimi decenni. Sebbene — o forse proprio per questo — gran parte dell’arte contemporanea sia proprio una specie di future , di edge-fund nelle mani del capitalismo finanziario internazionale.
Corriere 6.3.15
Netflix, Infinity e iTunes: l’offerta streaming in Italia
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qui