Corriere 5.3.15
Un fossile sposta indietro l’origine del genere Homo
di Anna Meldolesi
Nessun nome ufficiale. Soltanto una mandibola con qualche dente. È tutto ciò di cui disponiamo per tracciare il ritratto dei primi ominidi appartenenti al nostro stesso genere, Homo . Eppure è un dono straordinario quello che ci ha fatto, ancora una volta, la terra di Etiopia. Questo fossile rinvenuto nel gennaio del 2013, appena descritto sulla rivista «Science» da un gruppo di studiosi americani, va a riempire un’ampia lacuna temporale nelle testimonianze fossili, anticipando l’alba dell’umanità di circa mezzo milione di anni. Se Brian Villmoare dell’Università del Nevada e i suoi colleghi hanno ragione, da oggi possiamo dire di essere umani da 2,8 milioni di anni.
Il ritrovamento, frutto di costanza e fortuna come quasi sempre accade nel campo della paleoantropologia, è avvenuto in un sito desolato non lontano da altri luoghi già segnalati con evidenza nella mappa geografica dell’evoluzione umana. Ledi-Geraru, infatti, dista solo trenta chilometri da Hadar, una località che ci ha regalato altri importanti fossili: quello che fino a ieri era l’esemplare di Homo più antico, datato 2,3 milioni di anni fa, e un centinaio di individui della specie a cui appartiene la celebre Lucy, Australopithecus afarensis .
Poco più in là, a Gona, erano emersi anche i più vecchi utensili di pietra conosciuti, un armamentario vecchio di 2,6 milioni di anni. Il nuovo arrivato, con il suo record di anzianità, sembra quindi gettare un ponte tra Australopithecus e Homo habilis , rafforzando la posizione di Lucy come antenata carismatica dell’umanità. Ma l’esercizio di genealogia è ancora prematuro, avverte «Science». Altri tipi di australopitecine popolavano infatti la culla africana, e anche la classificazione di Homo habilis e dei tipi umani coevi è un’operazione ancora controversa e in divenire. Proprio ieri «Nature» ha pubblicato una ricostruzione virtuale dell’esemplare noto con la sigla OH7, correggendo le deformazioni post mortem del fossile. Grazie al lavoro del gruppo del Max Planck Institute di Lipsia, Homo habilis ha così trovato un nuovo volto, dalle sembianze piuttosto primitive e un po’ diverse da quelle del fossile di Ledi-Geraru.
Forse il consenso scientifico tenderà a collocare quest’ultimo in una specie a sé, come discendente di Australopithecus e progenitore di Homo habilis , ma è presto per sbilanciarsi. I ricercatori americani sono tornati nuovamente nel sito etiope nel gennaio di quest’anno, ma per il momento non hanno voluto rivelare se con gli ultimi scavi siano venuti alla luce altri elementi utili per completare questo complicato puzzle.
Molte sottigliezze accademiche animeranno il dibattito scientifico nei prossimi mesi e anni, nel tentativo di tracciare i confini tra le specie e indovinare quali abbiano dato un contributo diretto o si siano rivelate piuttosto dei vicoli ciechi dell’evoluzione. Ma la domanda più affascinante riproposta dall’ultima scoperta forse non riguarda tanto il chi, ma il perché.
Quali forze hanno fatto sì che a un certo punto da Australopithecus si sia evoluto Homo ? Una parte della risposta potrebbe essere arrivata dall’esame delle ossa non umane rinvenute nel sito. Tre milioni di anni fa questa parte dell’Etiopia era infatti popolata da animali che prediligevano un ambiente misto, di boscaglia e savana, come scimmie, giraffe ed elefanti. Duecentomila anni dopo il paesaggio doveva assomigliare di più a quello che attualmente ammiriamo nei documentari sul Serengeti, con gazzelle, zebre, suini selvatici. A cambiare drammaticamente è stato il clima, e le distese erbose più aperte potrebbero aver favorito la speciazione e la comparsa dei primi uomini.
La Stampa 5.3.15
Questo è un uomo
di Massimo Gramellini
La cascina Raticosa è un rifugio sui monti sopra Foligno che durante la Resistenza ospitò il comando della quinta brigata Garibaldi. Nei giorni scorsi qualche nostalgico dello sbattimento di tacchi ha rubato la targa commemorativa e disegnato una svastica enorme sul muro. Forse non sapeva che nei pressi della cascina, in una notte di febbraio del 1944, ventiquattro partigiani appena usciti dall’adolescenza erano stati catturati dai nazisti, caricati su vagoni piombati e mandati a morire nei campi di concentramento del Centro Europa. O forse lo sapeva benissimo e la cosa gli avrà procurato ancora più gusto. Però non poteva immaginare che tra quegli adolescenti ce ne fosse uno scampato alla retata. Sopravvissuto fino a oggi per leggere sulle cronache locali il racconto dell’oltraggio.
Mentre tutto intorno le Autorità deprecavano e si indignavano a mani conserte, il signor Enrico Angelini non ha pronunciato una parola. Ha preso lo sverniciatore, il raschietto, le sue ossa acciaccate di novantenne ed è tornato al rifugio della giovinezza per rimettere le cose a posto. Con lo sverniciatore e il raschietto ha cancellato il simbolo nazista. E dove prima c’era la targa ha appoggiato una rosa.
Repubblica 5.3.15
Tagliati i fondi dell’80% alla Biblioteca di Firenze
Decurtato il finanziamento del Mibact alla Nazionale da 1.111.000 euro a 196.397 in un solo anno
di Tomaso Montanari
DA ANNI la più importante biblioteca italiana – la Nazionale Centrale di Firenze, 6 milioni di volumi – è moribonda, per mancanza di fondi. Il personale copre circa il 50% dell’organico, nella Sala di Consultazione si deve studiare col cappotto, piove dai lucernari, i bagni sono spesso inagibili, le finestre non si possono aprire perché pericolanti. E ora sembra arrivato il colpo di grazia: il Ministero per i Beni Culturali ha deciso di tagliare di oltre l’80% il fondo per il funzionamento (quello che permette di aprire le porte ogni mattina, di pagare le bollette: insomma, di sopravvivere malgrado tutto). Invece del 1.111.000 euro arrivato l’anno scorso, quest’anno la dotazione sarà di 196.397 euro: una cifra ridicola, inferiore a quella che lo stesso ministero ha pensato bene di destinare a Non c’è due senza te, l’ultimo film con Belén Rodriguez. O, se vogliamo rimanere ai libri, pari ad un quarto di quella destinata dalla stessa tabella ministeriale al funzionamento del Centro del libro e della Lettura (826.209 euro). Sarebbe poi umiliante constatare quanti soldi pubblici vadano gettati in mostre d’occasione e festival effimeri, mentre si costringe la Biblioteca per eccellenza della nazione ad una indecorosa, e comunque inutile, prostituzione: un anno fa la Sala di Lettura – definita per l’occasione «una location fiorentina ricca di storia e di atmosfera» – fu chiusa per accogliere una sfilata di moda, mentre pochi mesi prima la Biblioteca aveva ospitato alcune partite di golf.
Naturalmente, la Nazionale fiorentina non è un caso isolato: è solo il luogo dove sono più visibili le conseguenze del massiccio disinvestimento pubblico (pari al 50%, dal 2005 ad oggi) in quelle fabbriche di futuro che sono le biblioteche. Il piano della performance del Mibact per il 2013-2015 riconosce che «le biblioteche pubbliche statali attualmente ricevono circa la metà dei fondi di cui necessitano per garantire un adeguato servizio all’utenza e per assicurare la corretta tutela e valorizzazione del patrimonio librario custodito, nonché per garantire il rispetto della normativa sulla sicurezza». E non è l’Europa a chiederci questa sorta di suicidio collettivo, questa scientifica costruzione di un futuro meno civile: se da noi, nel 2013, la somma disponibile per il funzionamento di tutte le cinquanta biblioteche statali era di 11.244.186 euro, nello stesso anno lo Stato francese faceva funzionare la sola Biblioteca Nazionale con 87.314.979.
Di fronte a questo drammatico stato delle cose, il governo Renzi non cambia verso: e a Firenze arrivano, per ora, solo promesse. Il 14 febbraio scorso l’Associazione Lettori della Nazionale ha scritto un’accorata lettera al ministro Franceschini, chiedendo che vengano assegnati «fondi adeguati, e, soprattutto, che vengano indetti concorsi per selezionare con contratti a tempo indeterminato il personale specializzato, il solo in grado di gestire una macchina del sapere complessa e insostituibile. Crediamo che il progetto di rinnovamento della scuola, voluto dal Suo governo, e la volontà di assicurare la “cultura diffusa”, di cui ha parlato il nuovo presidente della Repubblica, non possano fare a meno del buon funzionamento delle strutture portanti». Franceschini non ha trovato ancora il tempo di rispondere: forse perché la differenza tra annunci e realtà è imbarazzante. Trovando, al contrario, il tempo per cantare insieme a Gianni Morandi, il ministro ha dichiarato che la canzone di Lucio Dalla che meglio rappresenta il Governo sarebbe Futura. Ma entrando nella Biblioteca Nazionale di Firenze viene in mente, invece, Attenti al lupo.
il Fatto 5.3.15
Reddito di cittadinanza
Il sociologo Luciano Gallino
“Buona idea, ma serve anche il lavoro”
intervista di S. Can.
Luciano Gallino è forse, a sinistra, l’ideatore di ricette economiche più chiare e nette contro le politiche liberiste e di austerità. Il suo giudizio sul reddito di cittadinanza o, come preferisce chiamarlo, Basic income, è positivo. Anche se non nega di preferire uno Stato che, come al tempo del New Deal, sia creatore di lavoro in ultima istanza.
Cosa pensa dell’idea di un reddito di cittadinanza?
Il reddito di cittadinanza, chiamato anche Basic income o reddito garantito, può essere uno strumento interessante per assicurare reddito a chi non è in grado di lavorare oppure a chi, per condizioni familiari, non ha la possibilità di lavorare. Esistono già molti sostegni al reddito, ma la proposta in discussione sarebbe un modo per raggruppare i vari sostegni distribuiti da Inps e altri istituti.
Lei però ha sempre avuto un’impostazione classicamente keynesiana.
Infatti penso che, in funzione della creazione di posti di lavoro, accanto al reddito ci sia una seconda opzione, la creazione diretta di occupazione, che rappresenta un diritto più soddisfacente che non il diritto a un reddito. Il diritto al lavoro, del resto, è nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo proprio perché non permette solo di sopravvivere. Non avere lavoro significa compromettere i rapporti con la famiglia, con la propria vita, compromettere la propria stessa indipendenza.
Le due opzioni sono contrapposte?
No, sono compatibili. La possibilità di dare un’occupazione a chi è in grado e vuole lavorare mentre il reddito va dato a chi non è in grado di farlo. Dal punto di vista teorico non sono in contrasto.
E quali differenze nell’impatto sull’economia?
Avere un lavoro retribuito significa produrre Pil e ricchezza a condizione di avere un salario ragionevole. L’impatto sull’economia in caso di occupazione offerta dallo Stato è superiore. Però c’è una quota di popolazione a cui può essere utile destinare un Reddito di cittadinanza.
Le proposte in Parlamento, sia quella del M5S che di Sel, prevedono un reddito in cambio della disponibilità a lavorare.
Devo dire che questa impostazione confligge con il concetto di Basic income che, per essere tale, deve essere senza condizioni. La casistica di eventuali condizioni può essere molto complicata e i parametri potrebbero essere infiniti. Molte proposte si sono incagliate proprio sulle condizioni.
Crede ci siano margini con il Pd attuale per arrivare a una legge di questo tipo?
Con questo Pd finora non si è potuto fare nulla. Sarebbe una grande sorpresa.
L’impostazione del ministro Poletti è sembrata rivolta alla soppressione di istituti come la cassa integrazione per fare spazio a forme di reddito.
In realtà si tratta di istituti che funzionano anche se sono mascherati nel bilancio Inps e interpretati come oneri pensionistici. Mentre invece sono stati molto efficaci e sostenuti dai contributi di aziende e lavoratori e spesso hanno permesso di mantenere il lavoro per migliaia di lavoratori.
s. can.
il Fatto 5.3.15
Il blob di Renzi sulla scuola: dodici mesi di slogan e fumo
Tempi sempre certi e mai rispettati
di Marco Palombi
Nel caso di Matteo Renzi quello che segue rischia di essere un esercizio stancante e ripetitivo. Il premier ha infatti il vizio di parlare spesso e farlo per slogan molto netti che poi provvede a smentire con grande serenità: se qualcuno glielo fa notare, però, lui nega di essersi smentito e dice che l’invidia è una brutta cosa. Come litigare con uno al bar, insomma.
Siccome, però, sulla scuola Renzi ha puntato molto (“ci ho messo la faccia”, direbbe lui), un piccolo riassunto di dichiarazioni serve a fare il punto sulla bolla d’aria in cui vive la Repubblica. Conviene, prima di iniziare, tenere a mente un paio di cose: la prossima settimana il governo approverà un ddl delega con la riforma e assumerà – se tutto va bene – qualche decina di migliaia di precari. Tutto comincia il 19 agosto: “Il 29 linee guida sulla scuola perché tra 10 anni l’Italia sarà come la fanno oggi gli insegnanti. Noi lavoriamo su questo in #agosto”, comunicava via Twitter da Forte dei Marmi. Le linee guida, poi, arrivavano il 3 settembre con la pubblicazione del documento La buona scuola. Renzi, stentoreo: “Tutti coloro che stanno dentro alle graduatorie a esaurimento devono essere assunti dalla scuola, perché hanno un diritto nei confronti dello Stato”; “noi diciamo basta ai precari e alla supplentite”. Tempi? “Una consultazione popolare dal 15 settembre al 15 novembre”, poi, nella legge di Stabilità, “le prime risorse e da gennaio gli atti normativi”.
Ma quanti sono i precari da assumere e quando? Renzi risponde da Palermo il 15 settembre: “Nella scuola ci sono 149 mila persone che hanno l’obbligo di essere assunte” (più o meno la cifra indicata da La buona scuola) ; “tutti coloro verso i quali lo Stato ha un’obbligazione saranno assunti a settembre del 2015, col nuovo anno scolastico”.
Finita la consultazione pubblica, Renzi torna a parlare: “È tempo di passare dalle parole ai fatti”. Siamo al 1 dicembre e la Corte Ue ha appena dato ragione ai precari non assunti nonostante avessero oltre 36 mesi di docenza consecutivi: “Dobbiamo recuperare problemi aperti da anni”.
E ancora il 18 dicembre: “Nel 2015 agiremo perché la buona scuola non sia più solo uno slogan ma divenga un dato di fatto”. Intanto nella legge di Stabilità, approvata il 22 dicembre, l’esecutivo da un lato stanziava un miliardo nel 2015 per la scuola e dall’altro cancellava gli esoneri dei vicari dei presidi, le supplenze brevi, 2mila unità di personale Ata, 30 milioni dal Fondo per l’offerta formativa e 100 da quello per le non autosufficienze. Nel frattempo i 3 miliardi e mezzo promessi per l’edilizia scolastica il 12 marzo 2014 sono diventati uno solo: ad oggi ne ha speso circa un terzo.
Il 5 gennaio, comunque, il premier era di nuovo sul pezzo: “Siamo al lavoro sulla riforma più importante per il futuro: da qui al 28 febbraio scriveremo i testi”. Sicuro? Sicuro. Il 23 gennaio: “Da qui a un mese è tutto pronto”. Il 22 febbraio era fatta: “La prossima settimana ci sarà un doppio atto normativo”.
Lunedì 2 marzo i giornali descrivevano il decreto con dovizia di particolari. L’altroieri, 3 marzo, niente decreto, tutto rinviato, ma Renzi è incrollabile nella fede: “Non c’è alcun rischio di slittamento delle assunzioni” (ma esperti e ministero dicono il contrario). Ma quanti sono alla fine? “Per noi è fondamentale assumere oltre 100mila insegnanti”. Non più 149mila allora e neppure per decreto.
Martedì 10 marzo in Consiglio dei ministri arriverà infine un ddl delega: “Sono basita”, direbbe il ministro Giannini.
La Stampa 5.3.15
Che ne sarà della #buonascuola?
Dopo lo stallo nel Consiglio dei ministri, si riapre il dibattito sui punti contestati delle linee guida
Nell’esecutivo emergono divisioni e dubbi sulla copertura finanziaria. Sindacati pronti alla lotta
di Flavia Amabile
qui
il manifesto 5.3.15
Scuola, Renzi non risolve il rebus dei precari
Niente decreto. E l’annunciato disegno di legge potrebbe arrivare troppo tardi per l'assunzione del primo settembre
Sono almeno 40 mila quelli a rischio nelle graduatorie ad esaurimento
Anni di lavoro per l'immissione in ruolo potrebbero essere spazzati via
di Roberto Ciccarelli
qui
il manifesto 5.3.15
E così le scuole private si accaparrano i soldi pubblici
La riforma. Proteste di M5S, Cgil e associazioni, ma il governo sembra intenzionato a concedere gli sgravi. Il Pd resta spaccato, e i cattolici festeggiano: ma chiedono di approvare in fretta la legge
di Roberto Ciccarelli
qui
il manifesto 5.3.15
Scuola a tempo perso
di Alba Sasso
qui
Corriere 5.3.15
Il fronte dei docenti
Precari, ricomincia l’attesa infinita. Tempi stretti con la legge a giugno
Renzi su Facebook garantisce 100 mila posti
Gli esclusi pronti a presentare ricorsi
Irrisolti gli squilibri tra regioni: molti docenti in zone dove i posti sono già esauriti
di Gianna Fregonara Orsola Riva
qui
Corriere 5.3.15
«Sostegno alle paritarie? Un’idea di Berlinguer»
Il ministro Lupi: nessuno strappo alla Costituzione, vigileremo sui «diplomifici»
di Andrea Garibaldi
ROMA «Punti chiave della riforma della scuola? Una reale autonomia scolastica. La priorità data al merito. Gli stages di lavoro per gli studenti. Poi, il superamento di un grande tabù: lo scontro ideologico fra scuola statale e scuola paritaria».
Maurizio Lupi, Nuovo centro destra, ministro per le Infrastrutture: come si supera questo tabù?
«Statali e paritarie, in base alla legge varata dal ministro Luigi Berlinguer nel 2000, sono scuole pubbliche, con offerte formative diverse. La nostra riforma prevede agevolazioni per chi investe nell’educazione».
In che modo?
«Chiunque sostiene un costo per iscrivere i propri figli a scuola potrà detrarre dalle tasse una quota di quel costo. Il tabù viene superato, e questo non è un caso, da un governo che vede al lavoro assieme forze di centrodestra e di centrosinistra».
Dice la Costituzione che «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole, senza oneri per lo Stato».
«Ha spiegato lo stesso Berlinguer: la Costituzione non vieta le incentivazioni fiscali. Noi aiutiamo le famiglie, non finanziamo le scuole».
Le scuole private sono escluse?
«Le detrazioni riguardano statali e paritarie, cioè le scuole «pubbliche», anche gestite da un soggetto privato, che rispondono a regole precise, sulle quali lo Stato esercita un controllo e dove i titoli di studio hanno lo stesso valore».
Quanti studenti frequentano le paritarie?
«Oltre un milione contro i 9 delle scuole statali. Il 63 per cento sono cattoliche. Il 71 per cento sono asili».
Se si manda un figlio in un «diplomificio», niente detrazioni?
«I controlli previsti lo impediranno».
Quale sarà l’onere per lo Stato della somma delle detrazioni?
«Tutto dipenderà dalla cifra che destineremo a questo capitolo: dovrebbe essere attorno ai 60-70 milioni di euro».
Ci sono anche scuole statali che chiedono contributi alle famiglie.
«Si potranno detrarre anche i costi delle scuole statali. Il nuovo sistema prevede inoltre che si possa destinare il 5 per mille della dichiarazione dei redditi alle scuole statali e anche ottenere un credito di imposta del 65% delle somme offerte alle scuole statali o paritarie».
Renzi era favorevole a questi aspetti della riforma?
«Renzi condivide il principio delle detrazioni fiscali all’interno della riforma complessiva. Martedì in Consiglio dei ministri non ci sono stati contrasti sul testo».
Ncd avrebbe preferito un decreto legge?
«Siamo assolutamente d’accordo sull’utilizzo del disegno di legge. Si tratta di una prova di forza e lungimiranza, che chiede al Parlamento di misurarsi su tempi certi».
Renzi da tempo annunciava un decreto. Cosa è cambiato?
«È la dimostrazione che l’accusa di “dittatore” è ridicola; del resto ha seguito lo stesso schema sulla riforma della Rai».
Il ministro Giannini non si aspettava il cambio di rotta.
«Credo ci sia stato qualche difetto di comunicazione».
Si è rinunciato al decreto anche per problemi tecnici?
«Ci sono aspetti ancora da definire, ad esempio quanti professori assumere: questo dipende dalle esigenze della scuola, dal diritto dei ragazzi di avere un corpo docente stabile e adeguato ad una scuola di qualità».
Quali sono i «tempi certi» entro i quali vorreste che il Parlamento legiferasse?
«Novanta giorni. Altrimenti, c’è l’ipotesi di tornare al decreto. Ma per tutta la riforma. Renzi ha detto che non si farà un decreto solo per le assunzioni».
Il passaggio dal decreto al disegno di legge è dovuto anche alle indicazioni del Quirinale?
«Non lo so. Di certo, è un segnale importante verso il Parlamento. Significa che le grandi riforme si possono fare, ognuno per la sua parte. Un Paese in crisi deve investire nel suo capitale umano».
La Stampa 5.3.15
Trovare un senso nel caos creativo della scuola
Marco Rossi Doria propone una visione del mondo dove ordine e complessità convivono
di Giuseppe Salvaggiulo
In tempi di annunciata e assai propagandata #buonascuola, è opportuno ripartire dai fondamentali. La conversazione tra Giulia Tosoni e Marco Rossi-Doria, pubblicata da Edizioni Gruppo Abele con il titolo La scuola è mondo, restituisce in pieno il senso di vertigine provocato dall’insegnamento nella società del «costante spaesamento»: sociale, lavorativo, ideale, familiare. L’insicurezza diffusa si scarica sulla scuola, la travolge e ne delegittima l’autorità, rompendo un secolare patto di rispetto. È venuta meno quella necessaria asimmetria tra scuola (sia come istituzione generale, sia nelle figure che la compongono) e utenti (studenti e famiglie), plasticamente identificata nella cattedra sopraelevata.
«Sul piano educativo oggi abbiamo meno certezze, è assai più difficile», scrive Rossi-Doria, maestro elementare di strada a Napoli e promotore di progetti educativi d’avanguardia prima e dopo l’esperienza come sottosegretario all’Istruzione nei governi Monti e Letta. L’analisi di questa perdita di punti di riferimento (demografici, affettivi, cognitivi) è abbondante e non banale in questo libro, mai venata di nostalgia. Consigliabile soprattutto ai non addetti ai lavori.
Ma conviene qui soffermarsi più sulla pars construens, sul desiderio di «generare nuove e più solide cornici entro cui l’educare ritrovi un senso, costruire una asimmetria minima».
Cominciando dalle piccole cose, come le assenze. Nell’era del pluralismo familiare (dei genitori separati, che fare se uno giustifica la malattia del figlio e l’altro no?), «forse quella del controllo non è una via proficua. Ci deve essere sì una misura di ordine, una manutenzione di assenze e ritardi, un ripristino dei limiti. Ma il controllo non può sostituire la forza e l’efficacia delle relazioni».
Consideriamo gli oggetti della ritualità scolastica. Una volta la casa era una sola, la mamma o la nonna ne erano responsabili e se perdevi un libro o un quaderno scattava il castigo come punizione automatica, quasi matematica. «Oggi gli oggetti hanno molti custodi e mancati custodi (...) e vi è un intreccio quotidiano, molto complesso, di attese, proiezioni, negoziazioni, parole, paure. Non sono cose astratte, le giornate cominciano spesso intorno a queste cose».
Serve un nuovo patto «ed è una grande questione politica» che né leggi (tantomeno slide o evanescenti linee guida) né accordi sindacali possono disciplinare.
Molti docenti ci provano, altri si rifugiano in una rivendicazione difensiva dell’asimmetria passata. Ma il sistema disincentiva l’assunzione di un «sano rischio di libertà», sia creativa sia artigianale, rafforzando i «fattori inibenti». Eppure sta per schiudersi una grande opportunità: nei prossimi sei-sette anni vanno in pensione i tre quarti dei vecchi maestri e «dobbiamo dare ai giovani che stanno per rimpiazzarli i saperi complessi che servono».
«È finita la zizzanella, come si dice a Napoli». Per tutti, anche per la scuola pubblica che si crogiola nel mito costituzionale. «La scuola che meritiamo» ha un docente in grado di ricondurre a unità l’inevitabile sovrapposizione di voci, senza zittirle nascosto dietro un registro di classe, sia esso enorme e cartaceo o tascabile ed elettronico.
Un senso dentro un grande caos, che grande programma politico.
Repubblica 5.3.15
Scuola, alle Camere 40 giorni per dire sì
Lo scadenzario del governo per non mettere a rischio le 160mila assunzioni promesse: “Il primo settembre tutti in cattedra”
Il sottosegretario Faraone: “Giusto che il Parlamento discuta il piano. Ma se non lo approverà entro il 15 aprile, faremo il decreto”
di Corrado Zunino
ROMA Quaranta giorni per approvare un disegno di legge sulla Buona scuola. Andata e ritorno, Camera e Senato (e ancora Camera, di fronte a cambiamenti nel secondo ramo). Sono questi i tempi — da record — che il governo e il ministero dell’Istruzione si sono dati, e danno al Parlamento, per aprire e chiudere l’iter della riforma sulla scuola senza ricorrere a un decreto d’urgenza. Il premier Matteo Renzi, con lui il sottosegretario Davide Faraone, non vogliono separare i “160mila da assumere” dai restanti 33 articoli di una riforma ampia, organica, ambiziosa. Non vogliono l’assumificio: hanno sempre venduto un programma di lungo periodo a cui affiancare gli insegnanti necessari e la fine della precarietà scolastica. Tutto insieme. Così, ora, hanno messo in cima alle ipotesi di lavoro questa: opposizione e maggioranza (e opposizioni all’interno della maggioranza) possono discutere di scuola e approdare a un voto sui singoli articoli entro il 15 aprile.
Tecnicamente è possibile. La sfida del disegno di legge è sì aperta a tutti, ma chiede a tutti, a Forza Italia, al Movimento 5 Stelle, allo stesso Pd, una rapidità fin qui mai vista. Con un calendario serrato e senza ostruzionismo, in Parlamento — sostiene Renzi — si potrà parlare di governance della scuola, autonomia scolastica e valutazione cambiando magari qualche passaggio, ma chiudendo subito dopo Pasqua. Gli uffici di gabinetto del Miur hanno calcolato che oltre quella data diventerebbe difficile non solo portare i precari in cattedra, ma anche organizzare un organico funzionale funzionante.
Se in aula il viaggio della “Buona scuola” dovesse dimostrarsi periglioso, il governo ritirerebbe il “ddl” per trasformarlo in un decreto legge, immediatamente operativo. «Se il Parlamento dovesse dimostrare di non essere collaborativo e celere», dice il sottosegretario Faraone, «interverremo per garantire legittimi diritti a studenti, docenti e presidi già dal prossimo anno».
Il giorno dopo l’annuncio di rinvio a Palazzo Chigi, questo è il lavoro in corso. È stata accantonata la possibilità di procedere subito con l’assunzione dei primi 36mila docenti necessari per coprire il turnover (19mila in pensione) e i posti liberi oggi coperti da precari (17mila), a cui poi aggiungere 15mila insegnanti di sostegno. L’infornatina d’annata — 51mila in tutto — si potrà fare a luglio: 50 mila subito non è necessario e sarebbe deludente per una platea di supplenti a cui si è sempre raccontato che ne sarebbero stati stabilizzati il triplo. È sempre possibile che alcune questioni specifiche — valutazione, formazione degli insegnanti, asilo unico da 0 a 6 anni — entrino in una legge delega del governo.
Renzi è partito per le missioni all’estero spiegando ai suoi che, in verità, nella bozza ministeriale del decreto “La Buona scuola” alcuni problemi c’erano. Il più serio: aver mischiato urgenze (le assunzioni) con elementi di didattica e carriera che potevano essere più tranquillamente discussi. Nella serata di lunedì, ascoltati i suoi, in pochi minuti — come spesso gli accade — ha deciso di rovesciare il tavolo e togliere di mezzo il decreto. Il giorno dopo il premier è stato duro con la Giannini, piccata per il cambio in corsa: un anno di lavoro poteva produrre qualcosa di più equilibrato, l’ha rimproverata. In conferenza stampa a Palazzo Chigi, poi, ha mostrato la sua irritazione e rimandato ogni scelta al Consiglio dei ministri di martedì prossimo. In Parlamento si troverà una convergenza sullo sgravio fiscale per le paritarie: ieri si è spesa anche la senatrice Rosa Maria De Giorgi, fiorentina, renziana di lungo corso. Susanna Camusso, segretario Cgil, ha avuto parole dure su tutto: «Di nuovo annunci ripetuti e promesse esercitate, ma più in là si va nel tempo e meno credibile è la stabilizzazione dei precari». Tra i 140mila supplenti delle Graduatorie a esaurimento si è diffusa una paura sostanziale. Sul decreto fin qui vivente si parla di soppressione delle Gae «a decorrere da settembre 2015», ma ad oggi non vi è alcuna certezza sul destino dei precari ospitati e, anche di fronte a una regolarizzazione di 90 mila tra loro, per 50 mila resterebbe solo la possibilità del concorso pubblico.
#precariostaisereno...
Repubblica 5.3.15
Francesca Puglisi, responsabile della scuola per il Pd
“È una sfida anche al Pd, ora niente ostruzionismo”
“Tutte le forze collaborino, l’istruzione non è un terreno per guerre di parte”
“I precari delle graduatorie a esaurimento stiano tranquilli: non resteranno fuori”
intervista di C. Z.
ROMA Francesca Puglisi, lei che è responsabile della scuola per il Pd ci dice che cosa è successo in questi tre giorni? Precari e non precari sono frastornati.
«È successo che la più importante riforma del governo Renzi, la Buona scuola, arriverà alle Camere attraverso un disegno di legge e non un decreto. Questo per permettere a tutto il Parlamento di dare il proprio contributo. La scuola non sarà più terreno per le fazioni, ma bene comune».
Era il caso di cancellare un decreto in tre ore, dopo un anno di lavoro?
«L’intervento improvviso del presidente del Consiglio gli è stato sollecitato da continue provocazioni, anche interne: dittatorello, muscolare. Non è così: ora tutto è nelle mani del Parlamento».
E il problema assunzioni?
«Siamo pronti a far partire l’intero disegno di cambiamento il prossimo anno scolastico. È dimostrato: se le Camere vogliono procedere in modo spedito, possono farlo. Tutte le forze possono decidere di collaborare. Senza ostruzionismo bieco si può fare tutto: assunzioni e materie, per tempo. Allo squillare della campanella, tutti saranno in cattedra».
E se, invece, le opposizioni rallenteranno la discussione?
«Il governo dovrà prendere le contromisure. Noi teniamo a un principio: è necessaria la continuità didattica degli studenti. Alla festa per un anno di governo una bambina ha portato a Matteo Renzi una lettera, c’era scritto: “Nel prossimo anno scolastico vorrei avere il mio maestro”. In questi anni ai ragazzi abbiamo fatto un grande danno regalando anche a loro i frutti della precarietà: li abbiamo resi precari come gli insegnanti. Oggi salutano il maestro a giugno e non sanno se a settembre lo rivedranno. Per qualsiasi progetto educativo la continuità didattica è un valore assoluto ».
Lo sa che i supplenti precari iscritti alle Graduatorie a esaurimento sono nel panico? A settembre, testo di legge alla mano, le Gae saranno soppresse. E così anche i suoi ospiti.
«Nessuno vuole togliere alla scuola uomini e donne che hanno vissuto in precarietà. Abbiamo lavorato, anche prima di essere governo, esattamente per il contrario. Li porteremo dentro le loro scuole definitivamente e lì potranno formarsi con continuità. Poi, per evitare il proliferare di sacche di precarietà, chiuderemo le Gae e restituiremo ai concorsi pubblici, tarati sui bisogni della scuola, la necessaria regolarità».
Repubblica 5.3.15
Renzi alla minoranza interna: “Riforme, niente modifiche”
di Giovanna Casadio
ROMA . «Possibile che alla Camera, dove il Pd ha una stragrande maggioranza, il governo si ritrovi lo stesso in difficoltà, ad esempio in commissione Affari costituzionali? ». Matteo Renzi nei giorni scorsi si è sfogato con il capogruppo dem a Montecitorio, Roberto Speranza. È vero che il problema del premier sono i numeri a Palazzo Madama, ma ora che la Camera dei deputati sta per affrontare il “passo doppio” delle riforme istituzionali, cioè il voto martedì sull’abolizione del Senato e poi la discussione sull’Italicum, i deputati del Pd devono sapere che anche per loro vale il “serrate le file”. Che insomma tutti devono mettersi in riga: la sinistra dem è avvertita.
Speranza, che è anche leader della corrente “Area riformista”, ha replicato ribadendo una volta in più: «Matteo, se “apri” su modifiche all’Italicum, si superano tutte le tensioni». Ma il premier da quest’orecchio non vuole sentire. La linea è “no” a modifiche sui collegi, “no” al premio di lista nei ballottaggi. Richieste sulla quali invece la minoranza dem insiste e che ritiene una soluzione per cancellare i capilista bloccati. Richieste insidiose, soprattutto quella relativa al premio di lista perché potrebbero saldare il fronte tra dissidenti del Pd e Forza Italia soprattutto se ci fossero voti segreti. Alfredo D’Attorre, bersaniano, pensa a un appello a Renzi prima del voto di martedì: «Non dica più che le riforme sono intoccabili, non lo sono ora che il Patto del Nazareno non c’è più. La strada dell’intangibilità rischia in realtà di essere un macigno sulla strada delle riforme. Sia la riforma costituzionale che quella della legge elettorale hanno bisogno di modifiche, il premier comprenda che non vogliamo sabotare nulla ma l’unità del partito è indispensabile e la si ottiene non per via disciplinare ma accogliendo alcuni miglioramenti». Finito il Patto del Nazareno, per la minoranza dem è arrivato il momento di aprire a Sel e, se ci stessero, al M5Stelle. Qui però si entra su un terreno minato: ribadiscono al Nazareno, la sede del Pd. Il governo con il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi ha incassato intanto la fine dell’Aventino da parte di Forza Italia. I forzisti attaccano, spiegano che voteranno “no” alla riforma costituzionale, però saranno in aula. Ad annunciare lo stop all’Aventino delle opposizioni è il ministro Boschi: «Credo di sì che saranno in aula, mi auguro di sì. Da quello che capisco mi sembravano orientati così, poi faranno le loro scelte ma dall’ultima capigruppo mi sembravano orientati a esserci. Ci hanno chiesto di posticipare il voto finale per lavorare agli ordini del giorno...». È quindi il capogruppo di FI, Renato Brunetta a confermare, lanciando però subito l’offensiva su un ordine del giorno che vuole introdurre il presidenzialismo: «Non c’è mai stato un Aventino, gli Aventini portano male. C’è stata la protesta di tutte le opposizioni contro la decisione del governo di fare una seduta fiume, con tempi contingentati, su una riforma costituzionale. Questo è un fatto che non si era mai visto nella storia della Repubblica». E aggiunge Brunetta che ci saranno «una ventina di ordini del giorno per spiegare quello che avremmo voluto in questa riforma costituzionale. Diremo soprattutto che questa riforma costituzionale è pericolosa perché non ha i pesi e contrappesi, non è equilibrata, consegnerà alla sinistra, per prossimi duecento anni il potere di governare in Italia... è una riforma che distrugge la democrazia nel nostro paese».
Il Sole 5.3.15
In commissione alla Camera i centristi votano con Fi contro l’allungamento dei termini per la corruzione
Giustizia. Il ministro Orlando: «Con Ncd torneremo a discutere»
La relatrice Pd: «Dai parlamentari di Alfano posizione incomprensibile»
Scontro in maggioranza sulla prescrizione
di Giovanni Negri
Un unico filo a legare la giornata politica tra Camera e Senato, le polemiche nella maggioranza e all’interno delle stesse forze di maggioranza sulla giustizia. Se al Senato si inasprisce sino a sera il conflitto dentro il Pd (si veda l’articolo sotto), alla Camera il dato politico è ancora più significativo ed evidente: i centristi (Udc e Ncd) votano contro, insieme a Forza Italia, l’aumento dei termini per i reati di corruzione previsto da un emendamento del ministero della Giustizia. L’emendamento introduce un innalzamento della metà dei termini adesso previsti per i reati di corruzione propria e impropria e per la corruzione in atti giudiziari. Nulla da fare però, il testo passa, come tutta la riforma che recepisce integralmente le indicazioni del Governo.
Il ministro della Giustizia Andrea Orlando difende la scelta di alzare i termini e non solo di congelarli, come nella regola base fatta approvare dal Governo: «Con Ncd torneremo a discutere, l’esame del provvedimento è solo all’inizio, ma va salvaguardata la specificità dei termini di prescrizione per i reati di corruzione». E il suo vice, Enrico Costa (Ncd), parla subito di possibili correttivi in aula. Per Giovanni Toti (FI) «se si vuole parlare di riformae serie noi ci siamo; no invece a grida manzoniane da dare in pasto all’opinione pubblica».
«Nel metodo - sottolinea la relatrice Sofia Amoddio (Pd) - abbiamo chiesto a tutti i gruppi di contribuire con le loro proposte, nel merito abbiamo tenuto conto delle necessità di incidere sul reato di corruzione, e di corruzione in atti giudiziari, aumentando della metà il termine della prescrizione. Ricordo che la corruzione tra tutti i reati contro la Pubblica Amministrazione è quello più difficile da scoprire perché si fonda su un patto tra corrotto e corruttore. Mi pare in definitiva che la posizione di Area popolare sia completamente incomprensibile».
Certo, il voto di ieri andrà poi verificato in parallelo con quanto sta accadendo al Senato dove, nell’ambito del disegno di legge anticorruzione, è già stato votato un aumento della pena per la corruzione base (10 anni) che ha immediati riflessi sulla durata della prescrizione e altri incrementi sono in vista per la corruzione in atti giudiziari e l’induzione indebita.
Intanto, al di là del dato politico, Orlando incassa il sì alla riforma, che non tocca la ex Cirielli (prescrizione pari al massimo della pena applicabile), esclude un aumento dei termini per la generalità dei reati, per puntare invece su una sospensione di due anni dalla sentenza di condanna a quella di appello e da quella emessa in appello a quella di Cassazione. In caso di assoluzione o di annullamento della parte sull’accertamento di responsabilità i periodi di sospensione torneranno a essere calcolati. Altri casi di sospensione sono poi introdotti nel Codice in caso di rogatorie, perizie complesse e richieste di ricusazione fino al momento della dichiarazione di inammissibilità, ma anche per la richiesta di autorizzazione a procedere sino all’accoglimento e in caso di deferimento della questione ad altro giudizio sino a quando viene definito il giudizio di rinvio.
E tra gli atti che danno luogo all’interruzione della prescrizione viene fatto rientrare oltre che l’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero anche quello davanti alla polizia giudiziaria su delega del Pm.
Del testo fa parte anche la disciplina della fase transitoria, altro tema sul quale nelle settimane passate si erano concentrate le tensioni per l’eventuale impatto che la nuova disciplina della sospensione avrebbe avuto sui giudizi in corso con imputato Silvio Berlusconi, escludendo che le novità si applichino ai processi in corso.
Corriere 5.3.15
«Basta rinvii, la legge è una priorità»
La spinta di Grasso sulla corruzione
L’irritazione per i conflitti che rallentano l’iter: è la riforma più importante
di Monica Guerzoni
ROMA «Basta rinvii, colpire la corruzione è priorità assoluta per il nostro Paese». Pietro Grasso non si arrende e si appella al «senso di responsabilità» dei partiti. Lo stop and go sul disegno di legge che più gli sta a cuore è diventato intollerabile, per il presidente del Senato. I frenatori rischiano di prendere il sopravvento e la seconda carica dello Stato vuole scongiurare altri ritardi. Slittamento dopo slittamento, sono quasi due anni che l’Italia (e l’Europa) aspettano le nuove regole contro la piaga della corruzione, che frena la crescita e allontana gli investitori.
Per Grasso il pacchetto che comprende, tra l’altro, falso in bilancio, riciclaggio e concussione è «la riforma più importante», più urgente ancora della riscrittura della Costituzione: «Il mio disegno di legge? Purtroppo lo aspetto da due anni... Un intervento strutturale che ridefinisce le politiche di prevenzione e contrasto della corruzione non è più procrastinabile». Grasso lo ha detto giorni fa a un convegno davanti a trecento avvocati e lo ha ripetuto ieri ai suoi interlocutori, irritato per un’altra giornata di ostruzionismo e scontro in commissione Giustizia.
Contro la corruzione, incalza la seconda carica dello Stato, non si può perdere altro tempo. Il problema è che in commissione le posizioni si sono radicalizzate, da una parte l’ala più «giustizialista» del Pd, che spinge per l’inasprimento delle pene. Dall’altro Forza Italia e Ncd, che — accusano i democratici — fanno asse per rallentare l’iter delle norme. La giornata di ieri conferma il braccio di ferro. L’Aula ha respinto la richiesta delle opposizioni di anticipare l’esame del ddl, che è slittato al 17 marzo. Forza Italia, che non rinuncia a fare ostruzionismo, aveva chiesto che l’esame in aula iniziasse solo «ove concluso in Commissione», ma il governo ci ha visto l’ennesimo tentativo di mettere i bastoni tra le ruote del provvedimento e la capigruppo ha detto no. «Prima si arriva in Aula e meglio è» ha commentato il ministro Andrea Orlando.
Come ha ricordato il presidente azzurro Nitto Palma, «finora sono stati votati poco più di 12 subemendamenti e gli emendamenti da votare sono ancora circa 250». Lungaggini di cui nessuno si assume la responsabilità. «Non siamo noi che freniamo — spazza via le ombre dall’ncd Nunzia De Girolamo —. Le norme contro la corruzione vogliamo approvarle, tanto che ci siamo appena riuniti». Ma le accuse e i sospetti incrociati dividono la maggioranza e non risparmiano il governo. La sinistra del Pd è furibonda per la «sparizione» dell’emendamento sul falso in bilancio, arrivato ai giornalisti prima che agli addetti ai lavori e fermo nelle stanze del ministro Boschi. «Vorrei che il governo lo tirasse fuori e ci dicesse qual è la linea» incalza Felice Casson. Il vicepresidente del gruppo pd, Giorgio Tonini, invita tutti a mantenere la calma: «Non c’è nessun problema all’interno della maggioranza e del governo. Con il nuovo calendario la commissione ha tutto il tempo di approfondire i nodi». Purché non si arrivi alle calende greche, spera Grasso.
il Fatto 5.3.15
La legge per la responsabilità dei giudici
Ostile, inutile e dannosa Non male per una legge
di Bruno Tinti
LA NUOVA legge sulla responsabilità civile dei magistrati è una legge stupida: perché è inutile, dannosa e ostile.
Inutile. I casi previsti sono gli stessi della legge 117/1988. Le nuove fattispecie (travisamento del fatto e delle prove) sono solo un altro modo di descrivere quelle già esistenti: affermazione di un fatto incontestabilmente escluso dagli atti processuali e negazione di un fatto incontestabilmente risultante dagli atti processuali. Si tratta dell’errore marchiano, del giudice che non ha letto gli atti: condanna l’imputato perché Tizio lo ha visto mentre rapinava la banca; ma non è vero, Tizio non esiste o – se esiste – non ha mai detto di averlo visto; oppure assolve perché nessuno ha visto l’imputato rapinare la banca; ma non è vero, Tizio ha testimoniato di averlo visto. Anche la violazione della legge comunitaria, che non era espressamente prevista nella legge precedente, non è fattispecie nuova: le leggi Ue fanno parte dell’ordinamento giuridico nazionale e devono essere applicate come qualsiasi altra legge; si tratta dunque di una specificazione inutile.
Dannosa. Con la vecchia legge le richieste di risarcimento erano sottoposte a un preventivo giudizio di ammissibilità: il Tribunale sentiva le parti e, se la domanda non rispettava le regole di procedura o era manifestamente infondata, la dichiarava inammissibile. La nuova legge ha eliminato questo filtro: si deve procedere obbligatoriamente al processo. Siccome una domanda infondata o che non rispetta le regole di procedura va comunque respinta, e siccome chi la respinge è lo stesso giudice che l’avrebbe dichiarata inammissibile, l’abolizione del filtro significa solo che a questo risultato si arriverà dopo un certo numero di udienze invece che con una sola udienza. Insomma, più processi. Del che proprio non c’è bisogno, visto che la durata media del processo civile è di 8 anni e che, aumentando i processi e restando invariate le risorse, è destinata a salire.
Ostile. Il ministro Orlando lo ha detto con chiarezza (relazione al Ddl): “Il governo intende intervenire sul tema della responsabilità civile dei magistrati, per riequilibrare le posizioni politico-istituzionali e superare un conflitto ancora in corso”. Dunque non garantire i cittadini ma “riequilibrare” il rapporto tra la politica e la magistratura in “un conflitto ancora in corso” (le indagini e i processi sul malaffare politico?) da “superare definitivamente”. La nuova legge è dunque un’arma contro i giudici.
OVVIAMENTE i giudici sono preoccupati. E molti propongono il ricorso ai consueti mezzi di lotta dei lavoratori: manifestazioni, sciopero, sciopero bianco. Altri frenano: manifestare sì, scioperare no. Probabilmente hanno ragione questi ultimi. Decenni di diffamazione mediatica hanno convinto i cittadini che i giudici sono fannulloni arroganti e politicizzati. A questo si aggiunge lo scontento provocato dalla durata dei processi che è imputata ai giudici e non alle leggi costruite dalla politica. E poi ci sono i condannati e quelli a cui è stato dato torto che ce l’hanno con i giudici a prescindere. Lo sciopero sarebbe interpretato come il rifiuto di assumersi la responsabilità dei propri errori e la magistratura ne uscirebbe definitivamente delegittimata. Un Paese con una classe politica corrotta e una magistratura in cui non si ha fiducia è destinato alla dissoluzione. Qualcuno deve pur farsene carico.
Il Sole 5.3.15
Le regionali e la conflittualità nei partiti
di Lina Palmerini
È la campagna per le regionali che mette in fibrillazione i partiti e costringe a ridisegnare strategie. In questa chiave va letta l’apertura al dialogo di Grillo, il “no” di Ncd sulla prescrizione, lo strappo nella Lega.
Nessuno sa dire quanto la mossa di Grillo che apre al dialogo abbia consistenza – e le schermaglie di ieri con il Pd lo dimostrano – ma tutti sanno che un’eventuale inversione nella strategia dipende dalle regionali di maggio. Un altro flop alle urne sarebbe ingestibile per Grillo e Casaleggio che sanno bene quanto la carta della piazza non funzioni più come prima. Inoltre, a occupare lo spazio della rabbia, del “vaffa”, ormai è Matteo Salvini che punta non solo ai voti di destra e a una parte di quelli berslusconiani ma anche a quelli che i grillini hanno già perso o potrebbero perdere.
Ecco quindi che nello scacchiere dell’opposizione si vede una prima novità, un tentativo di riposizionamento dei 5 Stelle verso la collaborazione in Parlamento. Non è detto che riesca ma l’apertura – non a caso – è caduta su due temi circoscritti ma assai popolari come la “rifondazione” della Rai e il reddito di cittadinanza. Due jolly utili in campagna elettorale soprattutto dopo la costante discesa nei consensi: dal 2013 quando Grillo arrivò al 25,5%, poi scese al 21% alle europee e a novembre scorso è crollato al 13% in Emilia (nel 2013 in quella regione era arrivato al 24,5%). E chi si sta preparando a raccogliere i delusi grillini – ma anche berlusconiani – è Matteo Salvini che ha già scelto la sua strategia elettorale. Anzi ha usato le regionali per auto-candidarsi come unico leader della destra. Infatti ha gestito la partita sul Veneto dettando una linea politica nuova – tutta a destra – e poi ha dato l’aut aut a Berlusconi, ha usato il pugno duro con Tosi, ha sbarrato la strada all’alleanza con Ncd. Insomma, si è comportato da leader di fatto mostrando on più evidenza il declino di Berlusconi e l’assenza di possibili sostituti.
Se il leader della Lega ha già apparecchiato la sua strategia per le regionali, nel restante campo del centro-destra sono appena cominciate le prove di alleanza. Così va letta la scelta di ieri di Area popolare di schierarsi contro il Governo e con Forza Italia sulla prescrizione: una mossa tutta in chiave elettorale per cominciare a rendere visibile un riavvicinamento tra moderati. Prove di riposizionamento che non è detto riescano ma anche la scelta del partito di Berlusconi di abbandonare l’Aventino e tornare nelle aule parlamentari ha il sapore di una prova per le alleanze regionali, dalla Campania al Veneto. Ed è qui che si aspetta l’arrivo di Flavio Tosi. Se è vero che la rottura con Salvini è ormai vicina, è chiaro che il sindaco di Verona sceglierà il voto regionale veneto come test per il nuovo rassemblement moderato.
Manovre tattiche in funzione delle urne che però hanno i loro effetti collaterali in Parlamento, come si è visto ieri sulla prescrizione e con lo slittamento del provvedimento sulla corruzione. Come si vede sulla scuola e come si vedrà ancora meglio quando cominceranno le votazioni sulla legge elettorale. E la vita parlamentare scoprirà con quale ristrettezza di numeri deve fare i conti Matteo Renzi soprattutto se in questo gioco di riposizionamenti anche la sinistra Pd deciderà di lanciare l’attacco al Governo. I calcoli, però, andranno fatti con prudenza visto che in gran parte delle regioni i candidati-Governatori appartengono più alla minoranza. Dunque, logorare troppo la bandiera del partito in vista delle urne potrebbe essere controproducente. Soprattutto perché l’unica alternativa a Renzi che appare nettamente in ascesa è Salvini. Non una lista Tsipras nostrana.
Corriere 5.3.15
La scommessa difficile di arrivare fino al 2018
di Massimo Franco
Le parole nuove, e meno diffidenti del passato, arrivate al governo dall’Europa cominciano a far pensare a Matteo Renzi di potere arrivare davvero a fine legislatura. Tanto che, nonostante le convulsioni nel Pd in Campania e lo scontento della minoranza, il premier si è dato come traguardo delle elezioni il febbraio del 2018. Nel frattempo, conta di avere fatto approvare sia le riforme istituzionali che la nuova legge elettorale entro l’autunno del 2016; e celebrato il referendum confermativo, che Palazzo Chigi vede come una sorta di plebiscito a suo favore.
Il 2017, invece, dovrebbe essere dedicato prevalentemente a ridisegnare contorni ed equilibri del Pd. Si tratta di una tabella di marcia ambiziosa, e tutta da costruire.
La debolezza delle opposizioni parlamentari e di quella all’interno del suo stesso partito gli danno margini di manovra crescenti. Il fatto che FI abbia annunciato di voler ritornare nell’Aula della Camera, seppure per votare contro le riforme costituzionali, è un buon segno: soprattutto se fosse seguito anche da Lega e Movimento 5 Stelle.
Evidentemente, col passare dei giorni la situazione si è un po’ svelenita. I contatti avuti dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, con gli avversari del governo stanno dando qualche frutto. Dopo essere andato al Quirinale, Beppe Grillo ha usato toni stranamente meno aggressivi. Il capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, ha socchiuso la porta del dialogo, che Grillo però ha già frustrato. Il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, registra tuttavia le apertura berlusconiane.
È presto per dire se sia l’inizio di una fase meno concitata. Tra l’altro, il Nuovo centrodestra avverte con Maurizio Sacconi che se si creassero «maggioranze spurie», il governo cadrebbe. Renzi sa di avere un problema serio di numeri per approvare i provvedimenti al Senato. Gli appelli allarmati del capogruppo Luigi Zanda all’unità del Pd confermano un affanno cronico. Dunque il governo deve sperare nelle divisioni avversarie. La coalizione è stata puntellata dal passaggio nel Pd della pattuglia di Scelta civica, il movimento dell’ex premier Mario Monti. Eppure, Palazzo Chigi si sta rendendo conto della debolezza di alcuni ministeri.
È vero che la compagine è stata plasmata a sua immagine e somiglianza, nel nome di un rinnovamento radicale e con una sorta di virtuosa inesperienza. Un anno fa, però, gli obiettivi del governo non erano di legislatura. E ora che si apre una fase diversa, l’esigenza di rafforzare alcuni dicasteri diventa più vistosa. Eppure, difficilmente Renzi riuscirà a modificare gli equilibri che si sono consolidati in questo primo anno. Anzi, per paradosso deve evitare che gli avversari li rompano. In quel caso, si bloccherebbe un progetto teso alla conquista del centro di un sistema lasciato sguarnito dal tramonto del berlusconismo.
Corriere 5.3.15
I partiti battaglioni personali in un Parlamento che conta poco
Il concetto di democrazia messo in crisi dall’assenza di dialogo
di Corradoi Stajano
Sembra che i tweet, i messaggini, i cinguettii, le battute simili ai bigliettini che i ragazzi di una volta (o ancora oggi) si scambiavano di nascosto sotto il banco di scuola siano diventati la politica che conta, quando scivolano giù dagli alti palazzi. Sono le gazzette ufficiali della nuova era o «terza Repubblica». Problemi gravi, di difficile soluzione — la scuola, la Rai, il lavoro, la giustizia — che possono condizionare la vita di generazioni arrivano alla comunità racchiusi in 140 caratteri. Quel che conta è fare presto, il modello è la velocità futurista o anche uno degli slogan cari al duce, «Chi si ferma è perduto». (Il partito della nazione non suscita amare memorie?).
Si ha purtroppo spesso il sospetto che la politica sia morta sostituita dall’attenzione ai problemi e agli incroci della finanza di cui sono al corrente pochi oligarchi. Uno sceicco del Qatar, una piccola fetta del mondo miliardario prodiga di finanziamenti per i Fratelli Musulmani, ha comprato i grattacieli plurigemellati di Porta Nuova a Milano dimostrando anche come sia priva di iniziative e di coraggio la famosa imprenditoria meneghina. Mediaset vuol comprare invece le Torri di Rai Way, le infrastrutture tv; la Mondadori manifesta interesse (non vincolante) per il 99,99% della Rcs Libri.
Le larghe intese non hanno di certo impoverito Berlusconi risuscitato da Renzi: non gli ha nuociuto per nulla l’affidamento ai servizi sociali (per frode fiscale) all’istituto Sacra famiglia di Cesano Boscone. Il conflitto di interessi è davvero morto e sepolto? Le berlusconiane azioni parallele imprenditoriali non riguardano il delicato e fondamentale settore della comunicazione? Non minacciano mortalmente il pluralismo?
Il discutere un tempo poteva essere noioso, interminabile, persino ossessivo, ma era spesso proficuo, il sale della politica, la pratica della libertà. I partiti hanno cambiato natura, sono diventati battaglioni personali dove le minoranze tremebonde e inascoltate sono soltanto una palla al piede. Il Parlamento conta poco o nulla, i decreti legge, i voti di fiducia pesano come cappe di piombo e «i casi straordinari di necessità e urgenza» sembrano invenzioni linguistiche. Nel Pd guai a disturbare il manovratore e i garzoncelli scherzosi che lo attorniano. Chi ricorda il romanzo di Alfredo Panzini, Il padrone sono me! (1922)? La presidente della Camera Laura Boldrini con quel suo no all’uomo solo al comando ha rappresentato il popolo escluso (tra balcanizzazione e caporalato politico).
Non ci si deve stupire, poi, dell’incolmabile e sempre maggiore lontananza tra politica e società. L’ha fatto ben notare il costituzionalista Michele Ainis ( Corriere , 15 gennaio): «Adesso alla partecipazione è subentrata l’astensione».
Decisioni di importanza gravissima come la cancellazione del Senato elettivo non sono state veramente discusse e l’opinione pubblica non è stata messa in grado di giudicare le ragioni di quel che si cerca di portare a compimento. In quale Paese l’abolizione della Camera alta, la Suprema Corte della politica, viene tolta praticamente di mezzo senza spiegarne ragioni credibili? Quante volte il passaggio delle leggi da una Camera all’altra — il regolamento è sicuramente da riformare — ha rimediato leggi sbagliate, ha messo in luce astrusità, ha corretto errori magari contenuti in un minuscolo codicillo che può segnare però il destino di una società. Non è stata certo la troika a chiedere l’abolizione del Senato, ma semplicemente la volontà di accentrare una ulteriore quantità di potere senza controllo nelle mani dell’Esecutivo.
Della «dittatura della maggioranza» scrisse tra il 1835 e il 1840 Alexis de Tocqueville nel suo La democrazia in America. L’ha ricordato Gustavo Zagrebelsky, giudice costituzionale dal 1995, presidente della Consulta nel 2004, in un recente convegno fiorentino di «Libertà e Giustizia». Ha concluso il suo intervento parlando proprio della Costituzione, la Carta «nemica» dei nuovi governanti ( e, prima, dei «maestri» berlusconiani) che cercano di intaccare i principi costituzionali usando poteri costituenti che non posseggono. Ha detto dunque Zagrebelsky: la Costituzione «delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative, si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo» .
Esattamente il contrario di quel che sta avvenendo. Le riforme, certe riforme, sono naturalmente necessarie. Quella economico-finanziaria, anzitutto, e bisognerebbe fare un monumento a Mario Draghi, allievo di Federico Caffè. Ma la crisi, oltre che politica e culturale, è anche di costume. Per ricominciare è indispensabile creare un clima differente, aprire un dialogo, coi sindacati, per esempio, trasmettere passione, fervore, non ordini da caserma senz’appello.
La vera crisi è nel concetto di democrazia. Che i governanti, tra un tweet e l’altro, leggano almeno il discorso che Pericle fece nel 431 a.C. in onore dei caduti nella guerra del Peloponneso: l’elogio della democrazia e delle sue leggi .
il Fatto 5.3.15
Voli di Stato come taxi, l’ultimo grande segreto
Il regolamento imporrebbe trasparenza e l’uso per chi subisce minaccia
In realtà le informazioni filtrano a fatica. E chi controlla Renzi è lo stesso Renzi
di Emiliano Liuzzi
Un dato sensibile, come se fosse nascosto da segreto di Stato. A poco sono servite le interrogazioni parlamentari, le richieste di chiarimento, gli appelli alla cosiddetta trasparenza: i taxi con le ali restano coperti da un grande segreto. E non si capisce quali siano i motivi di sicurezza, visto che per quello che riguarda alcuni ministri, successivamente, l’ufficio voli provvede a pubblicare l’elenco. Ma solo per alcuni di loro. Poco si può sapere, anche a volo avvenuto, su dove, quando e perché si sia recato il presidente del Consiglio dei ministri o quello della Repubblica. Questione di sicurezza. E di interpretazione del regolamento. Il Fatto Quotidiano, attraverso l’Icsa, fondazione guidata dall’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica, il generale Leonardo Tricarico, è riuscito comunque a ricostruire, dal 2010 a oggi, quante ore hanno volato gli aerei di Stato gestiti dal 31 esimo stormo. Così scopriamo che nel 2010, l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi, ben aiutato da uno staff di ministri, ha volato 10.640 ore.
L’ANNO SUCCESSIVO, in piena decadenza politica e con le foto che fecero il giro d’Europa di lui che arrivava a Olbia con l’Airbus accompagnato da ragazze e cantanti di corte, scese a 8.540. Ma ormai era la fine di quello che è considerato un benefit e, come ha detto Tricarico al Fatto, poco ha a che vedere con la sicurezza. E per volare, nonostante i tagli, le leggi sugli esodati, la spending review, la sobrietà in loden, le 6.069 ore di volo le fece anche il governo guidato dal senatore a vita Mario Monti. Il presidente del Consiglio preferiva il treno, i suoi ministri no. L’unico che ne ha fatto un uso parsimonioso è stato Enrico Letta, nella sua breve parentesi (1.877 ore di volo in un anno). Poi è arrivato Matteo Renzi e le ore di volo sono tornate ai livelli dei governi Berlusconi: il 2014 si è chiuso con 6.141 ore di volo, in questo caso moltissime sue, poco lasciato ai ministri e con un 2015 che è iniziato ben oltre la media. C’è qualche viaggio a lungo raggio del ministro della Sanità Beatrice Lorenzin prima di scoprire di essere in dolce attesa di due gemelli e pochi altri. Vola soprattutto lui, l’ex sindaco di Firenze. E vola ovunque: va in vacanza, si fa accompagnare a casa a Firenze in elicottero, lo vanno a riprendere, va a sciare e, come accaduto per le elezioni europee, anche a fare comizi in giro per l’Italia. Lui non se ne cura. Dice che il protocollo di sicurezza va rispettato. E, in passato, erano avanzate proposte di riduzione della flotta, ma è rimasta una promessa: gli aerei sono tutti negli hangar. E costano milioni di euro. 53 milioni nel 2010, 42 milioni e 700 mila euro l’anno successivo, 31 milioni nel 2012, 19 milioni e 300 mila euro nel 2013 per tornare ai 40 milioni nel corso del 2014.
Anche il protocollo di sicurezza in realtà non esiste. Lo dicono i servizi segreti, ogni sei mesi, cosa è opportuno fare. Mentre Berlusconi volava in Sardegna, il suo rivale storico, Romano Prodi, preferiva spostarsi in treno tra Bologna e Roma. Tutte le settimane. Il treno, spesso e volentieri, lo usava per le sue visite anche il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Cosa che invece non ha fatto il suo successore, Giorgio Napolitano. Eppure, a essere fiscali, il regolamento parla molto chiaro. “Il trasporto aereo di Stato”, si legge nella direttiva del 23 settembre 2011, “concorre alla protezione di soggetti sottoposti a minaccia”. Inoltre è sottolineato come l’uso del volo blu sia alternativo, e soprattutto “non è ammessa la concessione del trasporto aereo di Stato per le tratte sulle quali sia presente il trasporto ferroviario”.
MA CHI CONTROLLA sull’applicazione della direttiva? La presidenza del consiglio. Dunque è Renzi che controlla se stesso. Deve chiedersi l’autorizzazione. È un paradosso, ma funziona così. Così sale chiunque abbia un incarico di governo, anche l’ultimo dei sottosegretari. Quando nel 1984 a Padova morì Enrico Berlinguer, l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini volle riportare a casa la bara con l'aereo di Stato. Ma nel Pci ci fu un ampio dibattito, la segreteria era contraria. Pertini la spuntò quando disse “lo riporto a casa come un amico fraterno, come un figlio”. Altri tempi. Diverse epoche.
il Fatto 5.3.15
Dai New Romantic ai Nudisti, tutti i raggruppamenti del Pd
di Alessandro Robecchi
Comprereste un’auto che per legge non potrete immatricolare? Probabilmente no, e vi capisco. E dunque stento a capire l’elezione di Vincenzo De Luca alle primarie del Pd in Campania, un candidato governatore che rischia di restare molto candidato e poco governatore, a meno che non si cambi una legge dello Stato, e la Severino diventi una legge ad Delucam. Dicono gli osservatori che ora si aprirà la battaglia e qualcuno si interroga su come reagirà il grande partito di Renzi alla nuova complicazione politica interna (traduco: una bella rogna). Naturalmente ci sono argomenti più interessanti delle dinamiche, alleanze, smottamenti e assestamenti tettonici all’interno del Pd, tipo l’avventurosa vita dei lamellibranchi o le corse dei cani, ma siccome ci sono movimenti in atto, conviene darne conto. Ecco una piccola summa. Pronti? Allacciate le cinture.
Civati. Battagliera corrente composta da Civati.
Bersaniani. Nobile pattuglia che un tempo gestì la Ditta prima dell’arrivo del nuovo CdA. Si dividono in duri e puri, dialoganti, vegani, animisti voodoo e post-prodiani (ma sono di più gli animisti voodoo, eh!). Dalemiani. Pare ne siano stati trovati due nascosti alla Camera, ma si sono arresi quasi subito e nessuno si è fatto male. Si cerca attivamente un terzo disperso.
Giglio magico. È il privé del Pd, il cuore del potere renziano. Ci stanno Renzi, Boschi e pochi altri, più un addetto che va ad accendere le luci a Palazzo Chigi alle sei del mattino.
Renziani ortodossi. Quelli che hanno fatto richiesta per il Giglio magico e aspettano in
corridoio cercando di farsi notare dai talent scout del capo.
Catto-Renziani. Corrente nata da pochi giorni, capitanata da Graziano Delrio e Matteo Richetti, con aderenti devoti in egual misura al premier e alle sfere più alte dei corpi celesti. Una specie di baluardo di protezione del renzismo, organizzato per fronteggiare l’assalto dei nuovi arrivati, profughi di Scelta Civica, Cinque Stelle delusi, varie ed eventuali. Hanno scelto il nome di Spazio Democratico, evidente omaggio al Signor Spock di Star Trek recentemente scomparso. Parola d’ordine: “Non siamo una corrente”.
Renziani di sinistra. A cavallo tra i renziani ortodossi e i catto-renziani, devono ancora trovare un nome alla corrente, e si tratta di una cosa urgente, perché renziani-di-sinistra farà ridere anche loro che, essendosi scelti quel nome, devono essere assai spiritosi.
Renziani paritari. Si tratta di 44 deputati (tre quarti del Pd) che chiedono insistentemente più soldi pubblici per la scuola privata. Lo fanno firmando appelli, scrivendo articoli, esercitando pressioni e sono trasversali alle molte correnti. Sono laici e a-confessionali, se si esclude un dogma della loro religione: non leggere mai l’articolo 33 della Costituzione, specie nella riga che dice: “Senza oneri per lo Stato”.
Naturalmente mi scuso per la semplificazione. La situazione è in frenetico movimento, in ogni momento, forse addirittura mentre leggete queste righe, può nascere una nuova corrente, come i Renziani-new romantic (giacche con le spalline), i Renziani-nudisti (niente giacche) e i più impegnati Renziani per il liberismo corretto (Fernet). Resteremo sintonizzati e in attenta osservazione. Nel frattempo, ci piace salutare con una frase dell’amato leader: “Se vinco, il segretario del partito lo faccio io. Non soltanto le correnti spariscono, ma la prima corrente che sparisce è quella dei renziani”. Era il novembre 2013.
La Stampa 5.3.15
Aborto, riprende il duello a Strasburgo
Parlamento e gruppi divisi sui contenuti di una relazione sulle pari opportunità che parla di "agevole accesso alla contraccezione e all'interruzione delle gravidanza". Dibattito acceso in casa Pd e emendamenti in arrivo a pioggia dai popolari
di Marco Zatterin
qui
Repubblica 5.3.15
Il populismo di Salvini
di Nadia Urbinati
IL DECLINO delle ideologie politiche e dell’identificazione dei cittadini con i partiti parlamentari ha, tra le altre, una conseguenza evidente: la legittimazione del populismo come fenomeno capace di esprimere le frustrazioni dei cittadini nelle democrazie avanzate. Il populismo come “grido di dolore”. Discreditato sul suolo europeo per il passato fascista, il populismo sta così riconquistando terreno anche tra i teorici radicali e di sinistra, desiderosi di dare della democrazia un significato più carico di implicazioni di quel che può fare la classica teoria delle regole del gioco. I partiti esistenti facilitano questo revisionismo, perché non hanno programmi che li distinguono e sono niente altro che macchine per vincere — winnability invece di “progettualità” è il loro paradigma. E in questo scenario senza idealità, molti cittadini e movimenti si immettono nel fiume populista.
Populismo è un termine impreciso, la cui valutazione è legata al contesto storico-politico. Negli Stati Uniti (dove il People’s Party nato a fine Ottocento ha di fatto segnato l’inizio del populismo come fenomeno democratico) questo termine ha un significato positivo che risulta ostico per un europeo. In America Latina, invece, il populismo ha avuto anche valenza militarista (sorto sull’esperienza del caudillismo) ed è sfociato nel fascismo peronista. Tuttavia i sommovimenti di popolo hanno avuto anche impatti di democratizzazione, come nel caso della prima stagione di Chávez in Venezuela, del movimento del Chiapas in Messico o dell’attuale Nicaragua di Ortega.
Sarebbe sbagliato affastellare tutte le esperienze, quelle dei Paesi post-coloniali con quelle dei Paesi europei. Nel vecchio continente, da dove le colonizzazioni sono partite, il populismo ha preso una valenza sempre nazionalista senza tuttavia avere quell’impatto emancipatore che è riuscito a volte ad avere negli Stati post-coloniali. Nei nostri Paesi il populismo mobilita la nazione come forza identitaria e si fa nemico del pluralismo, come dimostra l’Ungheria di Orbán. Nato una volta che il popolo ha ottenuto l’inclusione politica, il populismo costituisce il tentativo di catturare il popolo, unificandolo mediante l’uso astuto da parte di capi-popolo di alcune parole d’ordine o supposti valori atavici.
Nell’Italia democratica il movimento che più espressamente ha incorporato queste caratteristiche è stata la Lega Nord, sia nella fase costitutiva con Umberto Bossi sia in questa fase rifondatrice con Matteo Salvini. E il declino e la scomparsa della Lega di Bossi mostrano come il populismo può crescere fino a quando resta un movimento e non entra nel palazzo. Se e quando conquista il governo esso o declina, oppure, per non declinare, si deve fare sovversivo nei confronti delle istituzioni. Non c’è dunque terza via: il populismo, quando e se va al potere per vie democratiche, deve sfidare la stabilità costituzionale per non perdere consenso. La Lega di Bossi ha perso perché non è stata coerentemente populista e si è adattata alle regole del gioco democratico. La Lega di Salvini a giudicare dagli amici di strada e di lotta che ha scelto — i nazifascisti di CasaPound — sembra aver capito questa lezione ed è per questo estremamente pericolosa. Del resto punta verso Roma, ha un progetto eversivo delle istituzioni democratiche.
Gli entusiasti del populismo come mobilitazione contro le élite e le nuove oligarchie farebbero bene a comprendere che le masse non fungono da protagoniste nella strategia populista, ma sono strumenti per consentire un ricambio veloce e dirompente delle élite, o in un partito o nel governo del Paese. Gli scossoni al sistema non intendono rendere più democratica la democrazia; sono gli scossoni di un’élite contro un’altra con il popolo che fa da detonatore. Le strategie dell’audience che i nuovi media e Internet mettono a disposizione rendono questo gioco più facile e veloce. I populismi sono nemici della democrazia che subdolamente usano il popolo come mezzo. E la nuova Lega ne è una prova. Tutto viene affastellato nel cesto delle parole d’ordine di Salvini, anche la svastica se ciò serve a portare acqua al suo mulino. Il puro strumentalismo è politica senza valori, winnability della più bell’acqua. Questa è la strategia di un populismo che vuole essere un regime più che un movimento.
Corriere 5.3.15
Cina, corsa al riarmo
La spesa militare cresce del 10 per cento
Il presidente Xi si garantisce anche la lealtà dell’esercito
di Guido Santevecchi
PECHINO L’economia della Cina sta rallentando, ma la spesa militare continua a crescere: quest’anno «intorno al 10%», ha annunciato ieri la signora Fu Ying, portavoce del Congresso nazionale del popolo, la versione pechinese di Parlamento che si riunisce per la sessione del 2015 a Pechino. «Siccome è un grande Paese, la Cina ha bisogno di una forza militare capace di proteggere la sua sicurezza nazionale e il suo popolo; la storia ci ha insegnato che quando siamo rimasti indietro siamo stati attaccati, non lo dimenticheremo», ha spiegato la signora.
Secondo i dati pubblicati a Pechino, l’anno scorso per la macchina militare sono stati spesi 132 miliardi di dollari, con un incremento del 12,2% rispetto al 2013. L’aumento del 10% porterà il bilancio delle forze armate a 148 miliardi di dollari. Molti analisti occidentali sostengono che in realtà la Cina spende circa il doppio rispetto al dato ufficiale, ma anche se il sospetto è fondato, si tratterebbe sempre di una cifra decisamente inferiore rispetto ai 585 miliardi di dollari stanziati da Barack Obama per la difesa degli Stati Uniti.
L’Esercito popolare di liberazione conta 2,3 milioni di uomini e donne e un terzo della spesa serve a pagare i loro stipendi: per addestramento, vestiario, armamento, paghe, ogni soldato cinese costa 57 mila dollari, una frazione di quello che ricevono i colleghi-avversari americani.
Resta il fatto che Pechino continua a far lievitare la spesa militare a un passo superiore alla crescita della sua economia. Il Prodotto interno lordo l’anno scorso è salito del 7,4% e il budget della Difesa del 12,2. Nel 2015 il Pil potrebbe rallentare ancora, attestandosi al +7% e i generali potrebbero contare invece su uno stanziamento di tre punti superiore.
Qualcuno sospetta che dietro questi numeri si celi la necessità del presidente Xi Jinping di garantirsi la lealtà dell’Esercito popolare proprio mentre decine di ufficiali cadono sotto i colpi della campagna anti-corruzione. In carcere sono già finiti il vicepresidente della Commissione militare (equiparabile al capo di stato maggiore della Difesa) e il numero due della logistica. La settimana scorsa una nuova decimazione: la Commissione di disciplina del partito ha arrestato 14 generali. Xi, che presiede la Commissione militare, ordinando di accrescere la spesa per l’ammodernamento delle forze armate, dice alla «parte sana» dei suoi generali che il Paese ha bisogno di loro.
L’ammodernamento dell’arsenale cinese è modellato soprattutto sulla proiezione di forza ad alta tecnologia al di là dei confini. Sono la flotta sottomarina e gli aerei stealth a beneficiare dell’impegno economico ingente. E l’ascesa della flotta cinese ha provocato una reazione a catena nella regione. Il Vietnam ha acquistato dalla Russia 6 sottomarini, 6 fregate e 36 caccia Sukhoi; le Filippine si sono rivolte agli Usa per 12 jet e due pattugliatori navali. I governi di Hanoi e Manila hanno con Pechino un contenzioso sulle isole del Mar cinese meridionale e vogliono mostrare al grande avversario di non essere disposti a cedere senza battersi. India e Giappone vogliono tenere il passo e così New Delhi ha ordinato alla Francia 136 caccia Rafale e agli Usa 22 elicotteri Apache e 8 aerei P-8I Poseidon da sorveglianza marina. Tokyo ha in cantiere 4 portaelicotteri e ha comperato dagli alleati americani 42 caccia F-35 e 17 aerei a decollo verticale V-22 Osprey. Spese multimiliardarie. Per i mercanti d’armi il business è infinito.
Il Sole 5.3.15
Cina già in fase di allentamento monetario: non gradisce l’afflusso di «hot money»
Pechino teme la speculazione
di Rita Fatiguso
Pechino Proprio adesso che il Governatore della Banca Centrale, dopo un biennio di letargo ha spiazzato tutti con un secondo, generoso, taglio dei tassi di depositi e prestiti in soli tre mesi, la Cina ripiomba nella sindrome da Qe.
Il ricordo del fiume di hot money della Federal Reserve che nel 2009 si riversò in un Paese che cresceva a doppia cifra è ancora vivo, la Cina calamitò manovre speculative sui tassi e fu inondata da una liquidità anomala che cercava sfogo da qualche parte e trovò la sua strada, a Pechino, nei meandri del “capitalismo con caratteristiche cinesi”.
Quella che, all’indomani del quantitative easing della Bce circolava come una battuta di spirito, per la Cina, a questo punto, rischia di diventare una vera sciagura perché proprio in questi giorni dominati dalla terza Plenaria del 12esimo Congresso nazionale del Popolo che si apre oggi, si stanno prendendo decisioni altrettanto importanti di quella del Governatore Zhou Xiaochuan.
Si tratta di riforme orientate ad aprire e modernizzare la Cina ai mercati stranieri incidendo sulla struttura economica e sulla politica monetaria. Da quella degli investimenti cross border alla centralizzazione dei tax rebate all’export, ovvero due fattori accusati di alternare i flussi, e quantomeno traffico crossborder ed export “drogato” hanno giocato la loro parte nella creazione di hot money.
Oggi la Cina ha bisogno di orientare nella giusta direzione la crescita reale, la liquidità sviluppata dal fresco taglio dei tassi prodotta in alternativa alle solite manovre della Banca Centrale sui repo del circuito interbancario per iniettare denaro in un sistema soggetto ad attacchi di asma. L’eventualità che il Qe europeo aggiunga ulteriore liquidità, per giunta frutto di decisioni di investimento a breve, sembra la brutta replica del copione di sei anni fa. E c’è chi mette in guardia perfino sugli effetti dei tassi negativi svizzeri, perché chi prende i soldi a prestito deve pur sempre investirli da qualche parte.
Davanti ai potenziali effetti perversi di una nuova valanga di hot money – circa 1,1 trilioni di euro saranno immessi da Francoforte nell’eurozona per fronteggiare lo spettro della deflazione – la Cina si presenta con tutta un’altra situazione. E mentre il Governatore ha mollato i freni sulla sua proverbiale prudenza monetaria, la tentazione di un dietrofront sui tassi di cambio delle monete, stabilizzandoli d’imperio e ingessando il sistema, potrebbe essere forte. Con buona pace dell’internazionalizzazione del renminbi, della politica di apertura degli ultimi 18 mesi, della promozione di riforme orientate al mercato e dulcis in fundo della costruzione di un moderno sistema di formazione dei tassi di interesse ai quali la stessa Banca Centrale fa espresso riferimento.
In apertura della Plenaria il premier Li Keqiang nel discorso di apertura indicherà probabilmente in “appena” il 7% la crescita 2015 per cento, e l’hot money fortemente contrastata in questi ultimi tempi è l’ultima cosa che i vertici di Pechino possono augurare al Paese.
Dal 1° giugno, poi, la Cina cambierà marcia anche nei confronti della registrazione degli investimenti crossborder, gli investitori potranno aprire conti senza l’approvazione governativa. Già la Safe, la temutissima autorità che vigila sulla valuta estera è in allerta per far rispettare le nuove norme ed evitare la trappola dell’hot money: Safe ha deciso che farà controlli sulla registrazione degli investitori presso le banche qualificate.
Insomma, di riserve in valuta estera la Cina ne ha abbastanza, con questa mossa, anche se con diversa capacità di reazione, gli investimenti in e out saranno incentivati.
Retroattivamente dal 1° gennaio l’autorità di Governo centrale si assume l’onere della restituzione a livello locale delle tasse all’export lasciando al territorio appena il 7,5. Anche questa sul tax rebate è una mossa preventiva per evitare trucchi e trucchetti sui giri di soldi e carte di cui Pechino non ha bisogno.
Corriere 5.3.15
Sanità, la riforma di Obama in mano ai giudici
di Massimo Gaggi
La prima volta in cui finì nel mirino della Corte Suprema, la riforma sanitaria di Obama fu salvata da un voto a sorpresa del suo presidente, il conservatore John Roberts. La seconda volta la magistratura costituzionale si limitò a «depotenziare» un solo aspetto, autorizzando l’obiezione per motivi religiosi di chi non accetta polizze assicurative mediche comprendenti anche gli anticoncezionali. Da ieri «Obamacare» è per la terza volta sul banco degli imputati. Questo giudizio della Corte Suprema è quello politicamente più importante, ma anche il più potenzialmente distruttivo: quasi dieci milioni di americani rischiano di restare senza copertura sanitaria se il ricorso dei conservatori verrà accettato. E’ anche la battaglia legale più incerta: i 9 magistrati decideranno a fine di giugno. Ma già ieri, all’apertura del dibattito, è emerso che spuntarla sarà molto difficile per l’Amministrazione democratica. Dalle prime valutazioni espresse dai magistrati sembra che la Corte Suprema, più che mai, sia divisa lungo uno spartiacque ideologico. E 5 dei 9 giudici supremi sono conservatori. Le speranze di Obama risiedono soprattutto su Anthony Kennedy che è sì, di destra, ma si è detto preoccupato per le gravi conseguenze sociali che potrebbero derivare dalla bocciatura di una riforma sanitaria varata cinque anni fa e ormai attuata. Ma le quattro parole scovate dagli esperti repubblicani nel testo sembrano lasciare poco scampo al governo: la legge dice che gli «exchange», cioè i mercati assicurativi dove i nuovi iscritti hanno comprato le loro polizze sanitarie, devono essere creati dai singoli Stati dell’Unione. Ma solo 13 lo hanno fatto. In 37 casi è stato il governo federale a supplire all’inerzia (o all’ostilità) locali. Altri 3 Stati hanno creato l’«exchange», ma poi ne hanno girato la gestione ai federali. Se la Corte accoglierà il ricorso, almeno 7,5 milioni di americani perderanno la mutua, ma secondo uno studio della Rand Corporation la ricaduta toccherebbe 9,7 milioni di iscritti.
Corriere 5.3.15
L’India proibisce il documentario sulla ragazza stuprata e uccisa
Il divieto per ragioni di ordine pubblico
Inghilterra e Hollywood promuovono il film
di Matteo Persivale
Domenica scorsa a Milano, Freida Pinto — attrice indiana di The Millionaire — parlava con orgoglio del suo coinvolgimento nella campagna per promuovere il documentario India’s Daughter che racconta la breve vita e la morte terribile di una ragazza indiana di 23 anni, aggredita nel 2012 da sei uomini su un autobus, ripetutamente violentata, che morì per le ferite dopo tredici giorni di agonia. Il film doveva andare in onda l’8 marzo in India e nel Regno Unito. Pinto — che con le colleghe americane Anne Hathaway e Meryl Streep ha preso a cuore la causa del film, promuovendolo negli Usa e in Europa — prevedeva che in India il documentario avrebbe suscitato polemiche.
Quello che Pinto non poteva prevedere è quello che è successo ieri: una corte indiana ha proibito la trasmissione tv e la diffusione su Internet del documentario per ragioni di ordine pubblico. India’s daughter viene così di fatto bandito dallo Stato indiano: la reazione inglese, immediata, è stata quella di anticiparne la «prima», mandata in onda straordinariamente ieri sera, una lodevole dimostrazione d’indipendenza (il documentario, distribuito in Italia da Berta Film, verrà trasmesso dalla Rai a luglio).
La questione, tutta politica, è assai delicata: la regista Leslee Udwin (che a sua volta è stata vittima di una violenza: ieri ha lasciato l’India perché rischia l’arresto) ha intervistato in carcere uno dei condannati per lo stupro-omicidio, reo confesso. Le parole dell’uomo — che ha cercato di giustificarsi incolpando la vittima «che era uscita tardi la sera» e che «se non si fosse ribellata sarebbe ancora viva» — riportano l’attenzione del mondo sul caso che ha scatenato manifestazione di piazza in tutta l’India, e la richiesta di leggi ad hoc , più severe, e procedure meno bizantine, nei casi di stupro.
La regista viene attaccata dai conservatori ma a sorpresa anche da parte del fronte progressista che non vede di buon occhio la piattaforma mediatica concessa a un brutale stupratore e assassino (le modalità dell’aggressione, nella quale fu usato anche un cric, furono di sconvolgente violenza).
Il caso «Nirbhaya» — il nome della giovane non è mai stato reso pubblico: Nirbhaya significa «senza paura» ed è uno pseudonimo — è una bomba politica a orologeria perché ben al di là delle manifestazioni di piazza mette sotto accusa quella che molte donne indiane definiscono la «cultura dello stupro» che affligge il Paese democratico più grande del mondo. Il film riapre la discussione sulle pene previste per i colpevoli: quattro di loro sono stati condannati a morte; uno si è apparentemente suicidato in carcere, anche se la famiglia continua a parlare di omicidio; il sesto era minorenne e ha avuto il massimo della pena, cioè tre anni di riformatorio.
Ora il film è bandito per motivi di ordine pubblico, con il risultato che il mondo — anche attraverso i social media — ha ricominciato a parlarne. Finirà su Internet, inevitabilmente: come si bandisce Internet? E poi ne parlano, e ne parleranno ancora, le attrici di Hollywood. Ne parla, e ne parlerà ancora, la diva indiana di maggior successo all’estero che è anche una giovane di grande e misurata eloquenza (ha studiato dai gesuiti in uno dei migliori college indiani, St. Xavier). Continueranno tutte a parlarne: senza paura.
Repubblica 5.3.15
Suketu Mehta
Lo scrittore non si meraviglia del divieto “Parole agghiaccianti ma permettono di capire la brutalità della nostra società”
“Così il potere difende i violenti ma oggi le donne sono coraggiose”
intervista di Valeria Fraschetti
Credo che questo bando nasconda l’ipersensibilità di un governo attento all’immagine che si dà all’estero
È solo conoscendo nel profondo la mentalità di questi uomini che la società potrà combatterla
«NON c’è niente di straordinario in questo divieto: l’India mette continuamente al bando film, opere d’arte, libri. È così da sempre». Non si meraviglia neanche un po’ lo scrittore indiano Suketu Mehta di fronte all’ordine di vietare la messa in onda del documentario dell’israeliana Leslee Udwin, che include anche un’intervista a uno dei quattro condannati a morte per lo stupro di gruppo che a fine 2012 infiammò per settimane il subcontinente.
L’India sarà pure un Paese dalla censura disinvolta, ma bandire un film sullo stupro non dimostra che le proteste di due anni fa sono servite a poco?
«Quelle manifestazioni sono servite, eccome. Da allora è stata approvata una legge che prevede pene più dure per gli stupratori, molti più stupri vengono denunciati rispetto al passato. E non perché siano aumentati, ma perché le donne hanno più coraggio nel denunciarli».
Non le sembra che questo bando dimostri che il governo, invece di favorire il dibattito sulla questione, preferisca nasconderla?
«In India la libertà di espresmagine sione non gode di buona salute. Il suo ordinamento non prevede niente di simile al Primo emendamento americano e concede ampia discrezionalità al potere censorio. E credo che dietro questo bando si nasconda l’ipersensibilità del governo nazionalista di Modi. Un governo quanto mai attento all’imc’è che l’India proietta di sé all’estero. Gli indiani critici del proprio Paese sono ormai visti come traditori: persino io, che vivo da anni all’estero, ho subito quest’accusa. E la suscettibilità governativa sul tema degli stupri è aggravata dal fatto che il turismo femminile nel Paese è ai minimi storici».
Il divieto della messa in onda del film, con il clamore mediatico che sta generando, si rivelerà un boomerang per il governo?
«Ai tempi di internet ogni azione di censura risulta stupida: vietare un film in tv oggi significa solo regalargli più spettatori domani sul web».
Nell’intervista lo stupratore dice: «Una donna è più responsabile di uno stupro di un uomo». Quant’è diffusa ancora questa mentalità in India?
«È pervasiva. Persino i politici pronunciano pubblicamente frasi simili. Non ho visto il documentario, ma ho letto le trascrizioni di quell’intervista. Agghiacciante e affascinante allo stesso tempo: permette di entrare davvero nella testa di quell’uomo. E rappresenta in maniera vivida quel che io stesso ho notato ascoltando indiani che avevano commesso abusi: una rabbia profonda in queste persone, rabbia mista a invidia verso un universo femminile che va emancipandosi, mettendo in discussione la supremazia maschile nella società, i ruoli prestabiliti dalla tradizione. E lo stupro rappresenta il loro modo di vendicarsi, di riaffermare il proprio status ».
Molti in India stanno sostenendo che a un criminale, condannato e in carcere, non dovrebbe venire offerta una piattaforma per esprimere le sue idee. Che ne pensa?
«È una visione che non mi trova d’accordo. Non solo perché sono a favore della libertà di parola, ma perché ascoltare un individuo simile permette di entrare nel suo mondo. E solo conoscendo nel profondo la mentalità di questi uomini la società potrà combatterla».
Repubblica 5.3.15
David Grossman.
Lo scrittore israeliano, simbolo di una generazione che crede fortemente nella pace, è sempre stato molto critico verso il premier: “Spero che non vinca le elezioni, ma sul nucleare va ascoltato. Dagli Usa un’ingenuità delittuosa”
“L’Iran minaccia il mondo intero stavolta Netanyahu ha ragione”
di Fabio Scuto
GERUSALEMME È IL David Grossman che non ti aspetti quello che, davanti una bevanda al limone, in qualche modo alla fine finisce per dare ragione al premier Benjamin Netanyahu. All’avversario politico di sempre, quello che ha tramato oltre ogni limite per evitare che quest’anno allo scrittore - simbolo di una generazione che alla pace non ha smesso di credere venisse conferito l’Israel Prize, la più alta onorificenza di questo paese, che per molti autori ha rappresentato l’anticamera del Nobel per la Letteratura. Netanyahu, dice con franchezza Grossman, «ha sbagliato nei toni e nei modi con l’Amministrazione americana, ma la sostanza della “trappola iraniana” resta». «È un pericolo vero che si sta espandendo nella regione e che presto potrebbe rappresentare non solo una minaccia per Israele, ma per l’intero mondo libero. Bisogna ascoltare Netanyahu», dice l’autore di “Applausi a scena vuota”. Ma in ogni caso si augura che il prossimo governo di Israele, quello che uscirà dal voto del 17 marzo, sia guidato da qualcun altro: «Spero davvero che Netanyahu non vinca le elezioni».
Alla fine Netanyahu ha avuto ragione nelle parole che ha usato a Washington...
«Le mie impressioni sul suo discorso sono da dividere in due parti: la prima riguarda senz’altro il danno che ha provocato ai rapporti fra Israele e Stati Uniti, con i democratici e soprattutto con il presidente Obama. Di questo hanno già parlato in tanti e non credo di avere molto da aggiungere. Ma c’è anche una seconda parte, che riguarda i punti in discussione che Netanyahu ha sollevato nel suo discorso, ritengo che siano importanti e debbano essere ascoltati. A questi punti gli Stati Uniti e il presidente Obama devono dare risposte pertinenti, a prescindere dai sentimenti che si possono provare nei suoi confronti. Purtroppo Netanyahu ha un grosso problema nel distinguere fra le cose principali e quelle secondarie: a causa della sua tendenza alle manipolazioni, a mescolare insieme la più alta diplomazia con la politica più meschina, si tende molto spesso a non ascoltare ciò che dice, anche quando dice cose giuste. E quello che ha detto a proposito dell’Iran e del suo ruolo distruttivo in Medio Oriente non si può e non si deve ignorare ».
La percezione della minaccia iraniana è universale. Gli Usa stanno trattando ma i termini di un possibile accordo sono ancora vaghi, non
crede?
«Penso che Netanyahu abbia individuato correttamente il modo maldestro e direi persino ingenuo con cui gli Stati Uniti conducono le trattative. Dimostrando un’ingenuità addirittura delittuosa nel tentare di capire la complicazione medio-orientale: hanno fallito gravemente in Egitto, in Siria, in Iraq. Hanno fallito e continuano a fallire di fronte all’Iran. Netanyahu ha ragione quando sostiene che dopo dieci anni in cui gli Usa hanno preteso di mettere alla prova l’Iran, non esiste nessuna sanzione che impedisca a quel paese di diventare una potenza nucleare. E su questo in Israele non ci sono differenze fra destra e sinistra, non ci può essere tolleranza».
La sua sembra una condanna senza appello.
«L’Iran è un paese che da mattina a sera proclama di aspirare ad annientare Israele, in cui ancora ieri il Parlamento si è levato in piedi per gridare “Morte ad Israele”, un paese che lentamente ma sicuramente si impadronisce di altri paesi del Medio Oriente, a partire da Libano per mezzo di Hezbollah, passando per la Siria e che ha rapporti persino con i sunniti di Hamas a Gaza, per non parlare poi dello Yemen. Sta cercando di allargare il suo ambito di influenza, alleandosi e sfruttando gli elementi più militanti e fondamentalisti di quei paesi. E quando un paese del genere sarà in possesso di armi atomiche, cambierà completamente anche il modo di comportarsi. Ciò deve preoccupare non solo Israele, non solo l’Arabia Saudita o l’Egitto, che saranno costretti ad entrare in una corsa agli armamenti atomici, ma anche il mondo intero ».
Le parole di Netanyahu cambieranno lo stato delle cose?
«Non lo so e nessuno può sapere quali influenze avrà quel discorso. Può darsi che non avrà alcuna influenza e può darsi che Netanyahu abbia fatto un errore tragico: per il modo manipolatore e conflittuale con cui ha agito, può darsi che abbia perduto l’occasione di influenzare l’andamento delle cose nella maniera in cui avrebbe potuto e dovuto. Devo tuttavia ripetere che le critiche che io ed altri abbiamo nei confronti di Netanyahu le abbiamo già espresse, e quello che ora è sul piatto della bilancia è molto più fatale dell’errore che ha commesso e su questo io vorrei attirare l’attenzione. È molto facile cadere nella trappola di interessarsi solo del “come”, senza prendere in considerazione i contenuti: credo che nessuno abbia il diritto di trascurare i contenuti. Se servirà a qualcosa non lo so, ma è un bene che queste cose siano state dette».
Pensa che sarà possibile migliorare i rapporti con gli Stati Uniti, anche se Netanyahu dovesse ancora guidare il nuovo governo?
«La mia impressione è che finché Netanyahu e Obama rimarranno ai loro posti, non sarà possibile ritornare ai vecchi rapporti. Ma Israele gli Stati Uniti hanno moltissimi interessi in comune. Hanno strutture molto simili e condividono, almeno dichiaratamente, molti valori. Per quanto, osservando ciò che accade in Israele negli ultimi anni, non posso affermare che i valori eccelsi di uguaglianza e libertà di cui ci facciamo vanto siano veramente applicati. Ciononostante, c’è ancora molta simpatia per Israele negli Stati Uniti e Israele dipende ancora in modo totale dagli Stati Uniti».
La febbre elettorale cresce in Israele, per la prima volta da anni c’è una alternativa credibile a sinistra al governo del Likud...
«Spero davvero molto che Netanyahu non vinca le elezioni e spero anche che colui che avrà la responsabilità dei rapporti con gli Stati Uniti sia una persona molto più moderata, pertinente ed equilibrata ».
Repubblica 5.3.15
Quello che Netanyahu non ha detto
Gli interessi di Usa e Israele non sono in linea
Bibi è Churchill nell’isolare l’Iran ma è “assente ingiustificato” se si tratta di rischiare per riuscirci
di Thomas L. Friedman
ORA che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha esposto al Congresso americano le sue argomentazioni sull’Iran, con l’atmosfera da circo annessa e connessa, andiamo al sodo: che interesse ha l’America a raggiungere un accordo con l’Iran? I nostri interessi e quelli di Israele, infatti, non sono del tutto in linea. Qual è il minimo necessario a soddisfare i nostri interessi? E come dovremmo bilanciare le critiche alla nostra politica provenienti da un Bibi in versione seria rispetto a quelle di un Bibi in versione cinica?
Stati Uniti e Israele concordano, e così pure il sottoscritto, sulla necessità di impedire che l’Iran metta a punto un ordigno nucleare, perché potrebbe essere utilizzato per minacciare lo Stato di Israele e anche l’Europa e gli Stati arabi. Oltretutto, qualora l’Iran si dotasse dell’atomica, anche Arabia Saudita, Turchia ed Egitto avrebbero la tentazione di agire nello stesso modo. Tutt’a un tratto ci troveremmo alle prese con un Medio Oriente non solo già pieno di suo di guerre settarie per procura, ma pieno anche di armi nucleari. In Medio Oriente ci sono entità per le quali la “distruzione reciproca assicurata” sarebbe un invito a nozze, non un sistema di mutua deterrenza. Inoltre, qualora Teheran entrasse in possesso dell’atomica ci sono buone possibilità che l’intero regime globale di non proliferazione nucleare, già deteriorato, finisca con l’andare del tutto in pezzi. E ciò sarebbe alquanto destabilizzante.
A questo proposito, il presidente Barack Obama e Netanyahu condividono le medesime preoccupazioni. E, in tutta onestà, dubito che ci sarebbero state le sanzioni e i negoziati in corso oggi con l’Iran se Bibi non avesse minacciato di agire contro Teheran come il dottor Stranamore. Tuttavia, Bibi sostiene che un accordo dovrebbe prevedere di fare piazza pulita delle centrifughe iraniane insieme ai relativi componenti in grado di arricchire l’uranio per confezionare un’atomica. Non biasimo questo suo desiderio, condiviso dalla maggior parte dei miei amici israeliani. Ma, come ha fatto notare in un articolo pubblicato dal New York Times Robert Einhorn, parte in passato del gruppo di negoziatori statunitensi in contatto con gli iraniani, quella condizione non è «né raggiungibile né indispensabile» per garantire la nostra sicurezza o quella dei nostri alleati mediorientali.
Netanyahu non ha mai addotto una motivazione convincente per spiegare perché prendere le distanze dalla bozza di Obama di accordo con l’Iran potrebbe portare a un accordo migliore, a più sanzioni o alla capitolazione di Teheran, invece che a una situazione in cui l’Iran continuerebbe a fare di tutto per entrare in possesso dell’atomica e a noi non resterebbe altro che convivere con questo dato di fatto o con la necessità di bombardarlo. Con il finimondo che potrebbe scaturirne. Da questo punto di vista, il discorso di Bibi è stato perfetto per il Congresso: ho in mente un piano migliore. Non vi costerà nulla. Non implicherà sacrifici per gli americani. Sì, a ben vedere Bibi potrebbe essere un membro del Congresso.
La posizione degli Stati Uniti — condivisa da Cina, Russia, Germania, Gran Bretagna e Francia — è la seguente: tenuto conto che Teheran ha già piena padronanza delle tecniche necessarie a costruire una bomba e, malgrado le sanzioni, è riuscita a importare i componenti necessari, è impossibile rimuovere le capacità dell’Iran di dotarsi dell’atomica. Ciò che è possibile esigere è che l’Iran riduca e rallenti il processo di arricchimento dell’uranio e le altre tecnologie, in modo tale che qualora un giorno decidesse di costruirla davvero avrebbe bisogno di un anno intero, tempo sufficiente per gli Stati Uniti e i loro alleati per intervenire e distruggerlo.
Penso che un accordo di questo tipo sarebbe nell’interesse dell’America se — e sottolineo “se” — prevedesse che Teheran accetti ispezioni assidue e senza preavviso sulle sue capacità di costruire l’atomica e se, dopo i dieci anni previsti, le ispezioni proseguissero in numero superiore a quello consueto. Non mi dispiacerebbe, inoltre, se il Congresso prevedesse di abbinare alla firma di questo patto un’autorizzazione formale affinché il presidente — già adesso — possa ricorrere a “qualsiasi mezzo necessario” per reagire nel caso in cui l’Iran cercasse di infrangere gli accordi. Tali clausole appagherebbero le preoccupazioni strategiche degli Stati Uniti offrendo all’Iran la possibilità — niente di più — di integrarsi nel sistema globale. In definitiva, l’unica garanzia contro le ambizioni nucleari iraniane è la spinta interna al cambiamento della natura del regime iraniano stesso.
Il mio problema nei confronti di Netanyahu è che egli aveva ammonito che l’accordo a interim negoziato da Obama con Teheran — che ha congelato e riportato indietro parti del programma nucleare iraniano, dando vita a nuovi negoziati — sarebbe sfociato inevitabilmente in un fallimento delle sanzioni e sarebbe stato violato dall’Iran. Nulla di tutto ciò è accaduto. Per di più, il messaggio di Bibi è che non c’è niente di più importante che esercitare la deterrenza nei confronti dell’Iran. Va bene. Tuttavia, se questa fosse la mia priorità assoluta, mi darei da fare per ottenere un invito a parlare al Congresso facendo leva sul solo partito repubblicano, senza nep- pure informarne il presidente, che di fatto dirige i colloqui con l’Iran? E lo farei ad appena due settimane dalle elezioni in Israele, quando sembra che stia sfruttando il Congresso americano come scenario di una campagna elettorale? Se avessi bisogno che gli europei si schierassero al mio fianco per rendere le sanzioni più severe, non annuncerei forse che non si costruiranno nuovi insediamenti in Cisgiordania nelle aree che tutti sanno destinate a entrare a far parte dello Stato palestinese, così come è previsto dai negoziati? Una simile mossa potrebbe costare a Bibi la sua base, dal punto di vista politico, ma aumenterebbe il sostegno dell’Europa a Israele. Ahimè, Bibi è Churchill quando si tratta di isolare l’Iran, ma è un “assente ingiustificato” quando si tratta di rischiare il proprio futuro politico per riuscirci. E mi disturba. Non so ancora se sosterrò questo accordo iraniano, ma mi disturba anche il modo col quale il Congresso sbraita a sostegno di un leader straniero che cerca di mandare deliberatamente in fumo i negoziati nei quali è impegnato il governo prima ancora che questi abbia concluso ciò che sta facendo. Mi indispone davvero. © 2-015, The New York Times Traduzione di Anna Bissanti
b>Repubblica 5.3.15
L’assedio di Sirte
Sulla facciata di un palazzo sventola la bandiera nera dell’Is. I cecchini sono pronti a sparare ma l’esercito di Misurata è deciso a sferrare l’attacco
Nella città simbolo si combatte la partita decisiva della guerra in Libia. E da oggi a Rabat ripartono i negoziati
di Vincenzo Nigro
SIRTE LA BANDIERA dello Stato islamico, nera, enorme, sventola frenetica come l’ala di un pipistrello catturato da una rete, trattenuto dai quattro tiranti allungati sulla facciata dello Ouagadougou Center. Sembra una di quelle enormi pubblicità esposte nei palazzi delle nostre città. Il messaggio è chiaro: siamo vincenti, qui comandiamo noi.
In basso c’è l’ingresso dell’auditorium, nel complesso più importante di Sirte, il centro congressi che Gheddafi fece costruire alla fine degli anni Novanta per ospitare nella sua città natale un vertice dell’Unione africana. Adesso sul tetto del salone ci sono i cecchini del Califfato, e tutto intorno le palazzine in cui si sono appostati. Attraversiamo il centro di Sirte veloci come missili sulle Toyota 4x4 che i nemici del Califfato in Libia, i soldati della città di Misurata, hanno messo in colonna per farci fare un giro della città. «Ve li facciamo vedere da lontano, quando soltanto vedranno le nostre macchine capiranno chi siamo, non spareranno perché sanno che noi reagiamo, ma non vogliamo provocarli ». Il maggiore Mohammed Zadma assieme al colonnello Suleiman Saltarghi è uno degli ufficiali che Misurata ha spinto fino a Sirte per stringere l’assedio all’Is. Con questi ufficiali, con i loro soldati e con gli uomini dell’intelligence che da Misurata ci hanno accompagnato per 250 chilometri fino a Sirte poco alla volta ricostruiamo non solo l’arrivo degli uomini del Califfo in questa città sul mare, ma anche le condizioni che hanno permesso all’Is di avanzare in questa zona della Libia.
Lasciamo la strada che riporta verso Misurata, prendiamo una sterrata ed entriamo nel campo militare installato ben lontano dalla città per coordinare l’assedio dell’Is. «Innanzitutto dovete conoscere la storia di questa città: qui è nato Gheddafi, qui c’era la sua tribù, che sempre lo ha difeso e che sempre lui ha privilegiato», dice il comandante Mohammed Omar: «Qui Gheddafi ha scelto di venire a morire, quando sapeva che stavamo avvicinandoci a lui. Si è rifugiato a Sirte e a Sirte è stato ucciso». Il maggiore Zadma srotola una foto satellitare della città, è grande quanto tutto il tavolo, è chiaramente scaricata da un satellite civile ma con un lavoro da topografi militari. La foto è nitida come l’acqua del Mediterraneo qui di fronte, con una lente si possono quasi vedere le persone appostate sui tetti. «Avremmo bisogno di droni, di intelligence, ma intanto andiamo avanti così…». Quando li attaccherete? Quando li costringerete a ritirarsi? «Stiamo serrando la rete poco alla volta, non vogliamo distruggere la città e non vogliamo uccidere altri civili. Vede questo quartiere limitrofo allo Ouagadougou Center? E’ una specie di serraglio in cui Gheddafi fece trasferire decine di mauritani con le loro famiglie ». Era una delle transumanze etniche che il Colonnello ordinava per importare popoli e tribù che fossero fedeli a lui e per deportare e indebolire le tribù ostili».
I mauritani sono rimasti anni, e sono stati foraggiati dal regime. Così come le due principali tribù dell’area, i warfalla e i gheddafia: «Il risultato è che anche dopo la rivoluzione questa è rimasta una zona ostile, una zona che le città della rivoluzione, Misurata o Bengasi, non hanno mai controllato». Sirte è rimasta per mesi ad autogovernarsi con quel poco che il governo centrale dei rivoluzionari di Tripoli faceva arrivare. «Qui si sono insediati quelli di Ansar Al Sharia, sono arrivati in forze e per alcuni mesi hanno garantito la pace e l’ordine », dice il maggiore. «Ansar è stata a lungo nostra alleata perché come loro tanti gruppi islamici hanno combattuto nella rivoluzione contro Gheddafi. Al tempo della rivoluzione erano alleati degli americani e degli inglesi, sono stati armati dall’Occidente per sconfiggere il regime, fino a quello che è successo a Bengasi con l’assalto al consolato americano».
Due mesi fa qualcosa è cambiato. L’Is, il “Daesh” come lo chiamano qui storpiando la parola con un soffio di disprezzo, si è collegato ad ex militari gheddafiani. Un fratello di un torturatore gheddafiano che è in carcere a Misurata, Hussein Karame, è diventato uno degli emiri nella zona fra Derna e Sirte. Sostenuti dai post-gheddafiani, gli uomini del Califfo sono andati nelle basi di Ansar Al Sharia, hanno chiesto prima di convivere, poi hanno chiesto ai giovani militanti di passare dalla loro parte. «Prima ancora che ci fosse l’allarme scattato con i 21 egiziani uccisi abbiamo capito che c’era qualcosa che non andava», dice il colonnello Suleiman: parla italiano, è stato addetto militare gheddafiano a Roma per otto anni, ma dall’inizio della rivoluzione si è schierato con i suoi concittadini di Misurata. «Abbiamo avuto dei ragazzi rapiti perché fermati a posti di blocco volanti creati dal Califfato, poi hanno iniziato a far sparare i loro i cecchini. Noi allora abbiamo raddoppiato i posti di blocco lungo la litoranea, e abbiamo iniziato a concentrare attorno a Sirte dei blindati per contenerli, per limitargli lo spazio».
Tre settimane fa l’evento mediatico, l’Is occupa la sede di Radio Sirte, manda comunicati e diffonde fotografie, attacca il ministro italiano Gentiloni e minaccia di espandersi ancora in tutta la Libia. Da allora Misurata li assedia. Molti si chiedono perché non hanno ancora attaccato, chiedono se ci siano trattative sotterranee. «No, trattative dirette con quelli non è possibile farle, ma parliamo con difficoltà con la città, con gli anziani che sono i leader di una popolazione a noi ostile».
Il maggiore rimette mano alla carta militare: «Si sono appostati anche qui, sui silos dei cereali, il posto più alto di Sirte e da lì fino all’auditorium sono capaci di muoversi in questo quartiere. Se non prosciughiamo l’acqua in cui si muovono la battaglia sarebbe un massacro».
Mohsen, un amico che incontriamo la sera a Misurata, aggiunge un dettaglio in più: «Misurata a Sirte controlla l’Is ma non combatte ancora massicciamente per due buone ragioni: innanzitutto dovremmo schierare artiglieria pesante e carri armati. E poi, visto che la guerra civile continua, in futuro potremmo sempre essere attaccati: abbiamo i depositi ancora pieni, ma non possiamo sprecare munizioni in giro per la Libia, con il generale Haftar che da Tobruk prova a colpirci dall’aria ogni giorno ».
Ecco, la conferma sul campo di quello che l’Onu e i governi più responsabili dicono da mesi: oggi a Rabat ripartono i negoziati politici. Se presto non ci saranno accordo e pace fra le fazioni libiche, se continueranno per mesi a farsi la guerra fra di loro, l’Is avrà altri cento striscioni da far scivolare lungo i palazzi delle città di Libia.
Repubblica 5.3.15
All’ombra del conflitto la battaglia sotterranea per il tesoro di Gheddafi
di Federico Fubini
QUALCHE mese fa si è presentato alla Corte di Appello di Roma il delegato di uno studio legale a nome di un cliente che proprio non riusciva a venire di persona: l’avvocato generale dello Stato libico, almeno a credere alla versione del suo rappresentante. In quell’incontro, e altri successivi, il legale italiano non è mai riuscito a dimostrare veramente che dietro di sé c’era un’istituzione sovrana libica, ammesso che qualcosa del genere oggi esista davvero. Ma chi lo ha incaricato conosceva bene il Paese, perché aveva richieste precise. Voleva entrare in possesso di una villa di Roma e di un conto bancario appartenuti a Muammar Gheddafi, perché ora sarebbero proprietà della Libia.
Quei beni non sono particolarmente preziosi, almeno rispetto al resto. Il conto di Gheddafi in una banca romana vale circa 290 mila euro, ma ne ha discusso comunque il Comitato di sicurezza finanziaria: la Farnesina, il ministero dell’Economia, la Banca d’Italia, la Guardia di Finanza, i Carabinieri, l’Agenzia delle Dogane. La decisione alla fine è stata negativa: resta tutto sotto sequestro dei tribunali italiani, su mandato della Corte penale internazionale dell’Aja.
Quell’episodio non ha lasciato traccia. Tutti però sono consapevoli che anch’esso è la spia di una realtà più vasta e complessa, attorno alla quale si combatte una parte fondamentale della battaglia per la Libia. Si tratta di una partita sotterranea, visibile solo a pochi, ma capace di produrre ripercussioni ogni giorno sulla sponda Sud del Mediterraneo.
È inevitabile che sia così, perché la villa e il conto di Gheddafi a Roma sono una goccia nell’oceano del patrimonio della Libia. Quelle risorse sono l’oggetto di una sorda battaglia fra chi vorrebbe usarle per alimentare la guerra civile e chi cerca di proteggerle per la futura ricostruzione del Paese, aiutato dai cinque Paesi più coinvolti: Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Stati Uniti.
Le partecipazioni del fondo sovrano Libyan Investment Authority (Lia) oggi valgono almeno 50 miliardi di dollari, anche se da anni manca una contabilità ufficiale. La lista dei titoli nel portafoglio della Lia fu resa nota nel 2011 dal miliardario franco-tunisino Tarak Ben Ammar, quando durante la rivoluzione emerse che una sua società maltese era in affari con la Lia di Gheddafi e con Trefinance, una controllata lussemburghese della Fininvest. E quell’elenco è lun- ghissimo, perché il regime di Gheddafi è crollato prima di riuscire a smobilizzare le sue partecipazioni e da allora nessuno sembra averne il controllo: quel portafoglio fu prima congelato su mandato internazionale, poi scongelato nel 2012 e da allora nessuno sembra davvero disporne.
Il fondo sovrano libico ha il 3,2% di Pearson, il gruppo proprietario del Financial Times e co-proprietario dell’ Economist, ha quote in società americane della difesa come Halliburton o del petrolio come Chevron e Exxon Mobil. In Francia è presente in un altro gruppo della difesa-aerospazio come Lagardère. E in Italia ha quote in alcuni dei gruppi maggiori. Dell’Eni la Lia ha probabilmente ancora l’1%; di Unicredit la banca centrale libica ha il 2,92 ed è il quinto socio; di Finmeccanica, il gruppo della difesa controllato dal Tesoro di Roma, la Lia ha il 2,01%. Ci sono poi ovviamente società minori come il gruppo milanese di tecnologie delle telecomunicazioni Retelit, del quale la Società libica di Poste e Telecomunicazioni ha il 14,8% ed è il primo azionista. Della Juventus invece la quota libica è ormai diluita sotto al 2%. Poi c’è la Banca centrale libica, molto più ricca e liquida del fondo sovrano: dispone di conti per circa 100 miliardi di dollari, frutto di decenni di surplus petroliferi, e quel tesoro giace in decine di depositi bancari Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Secondo osservatori vicini a questo dossier, la banca centrale di Tripoli ha conti aperti a Unicredit, Intesa Sanpaolo, Bnp Paribas, Société Générale, Credit Agricole, e poi a Londra alla Hsbc, a Barclays e al Lloyd; a Wall Street, resta un conto alla Bank of New York Mellon.
Su tutte queste risorse la tensione è massima. Molte restano dormienti, al punto che a volte le imprese coinvolte non sanno a chi pagare i dividendi. Sparsi per tutto il Medio Oriente, un gruppo di economisti e uomini di affari libici compone il “consiglio” della banca centrale di Tripoli e amministra le riserve. Secondo negoziatori occidentali esse sono in gran parte congelate. Secondo fonti libiche la banca centrale ne usa però i proventi per permettere al Paese di importare cibo e medicine. Non ci sono prove che quei fondi vengano usati anche per l’acquisto di armi. Ma se per ipotesi a prendere controllo della Libia alla fine fossero davvero le forze della jihad, arriverà il momento in cui anch’esse reclameranno i propri averi alle banche di Wall Street, della City, di Parigi, o di Milano.
Repubblica 5.3.15
Il caso editoriale
Il Manifesto di Marx riesce in tascabile e in Gran Bretagna è subito bestseller
LONDRA Boom editoriale per il Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels che fa parte di una collezione di classici (Little Black Classic, 80 pences , 64 pagine) ripubblicati dalle edizioni Penguin: mille e settecento copie in una settimana. Un vero record per il libro che uscì proprio a Londra il 21 febbraio del 1848. Il Manifesto è soltanto uno degli ottanta titoli che la casa editrice britannica ha presentato in una collana per ricordare gli ottant’anni del primo tascabile Penguin che costava appena sei pence, in pratica quanto un pacchetto di sigarette. E se il Manifesto guida la classifica dei più venduti, a seguire, tra i primi dieci, ci sono La bella Cassandra di Jane Austen, una collezione di racconti giovanili di Edgar Allan Poe, gli aforismi sull’amore e l’odio di Friedrich Nietzsche, ancora Lev Tolstoj, perfino un “capitolo” della Commedia di Dante (l’ Inferno). E, ancora, il Delitto di Lord Arthur Savile di Oscar Wilde, una selezione di poesie di Emily Brontë, Si fa tenebra intorno a me. Al sesto posto del singolare elenco di bestseller c’è il Diario sul Grande Incendio di Londra del 1666, di Samuel Pepys, scrittore e membro influente dell’allora Ministero della Marina.
La Stampa 5.3.15
Le donne, i cavallier, l’arme d’Aspromonte
Un’antica cantata grecanica, declamata in Calabria per i crociati di Riccardo Cuor di Leone, alle origini delle chanson de geste carolingie e dell’Orlando furioso
di Mimmo Gangemi
Don Peppe aveva coronato il sogno tardivo della sua vecchiaia: ci era giunto a respirare l’aria di tre secoli. Era stato uno dei ragazzi del ’99, carne da macello nella Grande guerra e soccorso all’animo fiaccato dei combattenti dopo la disfatta di Caporetto. Pur centenario, si tratteneva su una panchina della piazza a chiacchierare con altri vecchi, scandendo un lento scorrere di tempo, di sicuro altrove più veloce. Erano in un paesino della Bovasia, nell’area grecanica, Reggino ionico, lì dove l’Aspromonte - la propaggine delle Alpi (sì, le Alpi!) situata più a Sud, tiratasi su 200 milioni di anni fa, per la spinta della crosta africana sulla zolla europea - offre al mare i calanchi, solchi bianchi e ramificati che discendono i crinali, dal colore aspros, bianco in greco. Parlavano nell’unica lingua che conoscevano, già in bocca ai loro antenati da due millenni e mezzo, il greco antico, insaponato di dialetto per colpa delle storpiature incrostate nel lungo cammino e dei popoli giunti da conquistatori.
Galiziella e Ruggieri
Mugugnava a mezze labbra e a mo’ di cantilena ricordi sprofondati nelle viscere del secolo appena svoltato, ascoltate dal nonno attorno alla ruota del braciere nelle serate di levantina. Erano versi in ottave. Vi comparivano un imperatore, la donna guerriera Galiziella, Ruggieri di Risa, con Risa che è l’antica Reggio, guerrieri della montagna, e le loro gesta epiche, anche con armi fiammeggianti - il fuoco greco. «Una volta li sapevo meglio» si giustificò quando gli si incepparono i ricordi. Non era a conoscenza di stare recitando brani di una cantata in grecanico che in seguito, in normanno, divenne la Chanson d’Aspremont, una delle prime chanson de geste, del ciclo carolingio, partorita poco dopo la Chanson de Roland e su cui Ariosto mise gli occhi e attinse per l’Orlando furioso.
La tradizione orale
Le prime notizie sulla Chanson d’Aspremont risalgono all’inverno 1190-1, declamata in Aspromonte per le truppe crociate di Riccardo Cuor di Leone e di Filippo Augusto di Francia in procinto d’imbarcarsi per la terza crociata contro Saladino, lui intenzionato a invadere il Meridione d’Italia e ad avanzare da lì alla conquista dell’Europa. Nella chanson i saraceni combattono contro Carlo Magno - la storia ci dice che invece si scontrarono con i Bizantini e che Carlo Magno mai scese tanto a Sud, e infatti nella ballata don Peppe non dà un nome all’imperatore. Era propaganda in favore della crociata, e un modo per intrattenere e allietare i soldati.
Esistono parecchie versioni. Le più antiche sono quella anglo-normanna della fine del secolo XII e quella franco-normanna del XIII. Ce ne sono anche in italiano, una in forma manoscritta del XIV, un’altra della prima metà del XV, una terza, in stampa, del XVI – edizioni Bindoni di Venezia. Nessuna nel grecanico di don Peppe. Eppure a lui era giunta così, tramandata di generazione in generazione. Significa che, ancor prima dei Normanni, esisteva la tradizione orale, nel grecanico parlato nei luoghi delle vicende. Vi si esibivano i contastorie e i giullari - le stesse descrizioni geografiche sono talmente aderenti alla realtà da palesare che, comunque, la stesura avvenne in Aspromonte, e la presenza, nella prima versione manoscritta, dei dromoni, navi bizantine che già non ci sono dopo l’arrivo dei Normanni, indica che l’autore ha attinto dai cantastorie e che nella traduzione gli è sfuggito di eliminare particolari che tradiscono l’«appropriazione indebita». Quindi, gli stranieri in armi di fede se ne impadroniscono, la modellano a loro utile e ne fanno una sorta di propaganda politica, filo inglese la prima e filo francese la seconda, con piccole differenze - il franco-normanno ha sostituito le ottave che acclamavano l’Inghilterra con altre pro Francia.
Una luce fiammeggiante
Peccato che non sia stata manoscritta nella lingua madre. O, meglio, peccato che a oggi non se ne sia trovata traccia su pergamena. Ma non si dispera, finalmente studiosi di rilievo - la professoressa Sicari di Reggio, il professor Gangemi dell’Università di Padova, il professor Castrizio dell’Università di Messina, tutti d’accordo con il nostro don Peppe - si attivano su un patrimonio letterario, tra gli 11 e i 13 mila versi, a seconda della stesura, che appartiene specialmente all’Aspromonte, di grande valore poetico e sociale. E anche fondamentale sul tema dell’evoluzione della lingua, se si pensa che, dopo la morte di Petrarca e Boccaccio, quando ci fu una levata di scudi delle università italiane contro la «lingua da ciabattini», i Toscani, per stabilizzare il loro volgare, tradussero e diffusero molte opere, compresa la Chanson d’Aspremont, che intitolarono Cantari d’Aspromonte, e in essa compare la donna guerriero Galiziella, assente nella versione normanna, un’ulteriore prova, questa, che attinsero, traducendoli, direttamente ai versi originali dei cantastorie, in grecanico.
Nella Chanson d’Aspremont compare la Santa Croce: viene portata sul campo di battaglia e lì sprigiona una luce fiammeggiante, alta fino in cima al cielo, che disorienta i nemici e li scompagina. Si fa anche menzione di un’abbazia realizzata dal duca Girart per seppellire i morti - in realtà edificata dai monaci basiliani. Non può trattarsi che dell’abbazia di Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, dove, al tempo, era in uso il rito della Santa Croce e non ancora quello mariano, della Madonna della Montagna. Polsi, simbolo quindi della cristianità e rifugio dell’anima per i soldati diretti alle guerre sante, quella stessa Polsi che oggi, ingiustamente, spogliano del culto e della fede, sprezzandola come luogo di ’ndrangheta e di perdizione.
L’ultimo cantastorie
Storie di quaggiù, che finiscono nel dimenticatoio. Storie di un profondo Meridione che non interessano all’Italia schizzinosa. Storie che è giusto risuscitare, perché patrimonio dell’umanità. Storie su cui le grandi università europee - naturalmente tutte d’accordo con i Normanni - hanno sviluppato e continuano a sviluppare studi importanti e a stanziare fondi per la ricerca. Storie che sono nostre e che però da noi si tacciono.
Don Peppe non lo si vede più seduto sulla panchina della piazza al tiepido sole di primavera o all’ombra dei tigli nei tardi pomeriggi d’estate, con la voce raschiosa di gola in una lingua dal sapore della civiltà e con il vezzo di muovere rumorose, sciacquettanti e rapide le labbra come quando rinvigoriva la brace del sigaro, che l’età non gli consentiva più. Ha consumato i fiati mentre si accendevano i vividi colori delle foglie morte, nel primo autunno del nuovo millennio. Con lui se n’è andato l’ultimo cantastorie.
Repubblica 5.3.15
La prova di maturità sulle lingue classiche va rivoluzionata Guardando all’inglese
Quelle inutili anzi dannose traduzioni greche e latine
di Maurizio Bettini
DE MINIMIS non curat praetor, dicevano i Romani: il pretore non si occupa delle minuzie, è un magistrato troppo importante. Sarà per questo che, quando si discute della crisi del liceo classico, gli esperti raramente si interessano al problema della traduzione (dal latino o dal greco) che viene assegnata ogni anno ai maturandi? Evidentemente la natura di questa prova viene considerata una questione marginale rispetto al valore fondativo degli studi classici, per chi li difende, o alla loro irrilevanza, per chi li attacca. La realtà vuole, però, che al termine del liceo lo studente del classico debba affrontare una prova di traduzione, non di superiore umanesimo.
E che, se questa prova fosse diversa, i suoi studi risulterebbero subito assai meno “inattuali”.
Al presente le cose stanno così: il maturando è messo di fronte a un testo, latino o greco a seconda degli anni, senza che gli sia consentito scegliere fra più opzioni; di esso gli viene indicato l’autore, ma non l’opera da cui è tratto, né vi è altra forma di contestualizzazione. Dopo di che, con l’aiuto del vocabolario, deve mettersi a tradurlo, ovvero ingegnarsi a copiarne la versione da internet, come oggi largamente avviene. Qual è la ratio presupposta da questa prova? Manifestamente, che cinque anni di liceo siano serviti ad apprendere la “lingua” latina o greca, visto che la valutazione verte su una nuda prova di traduzione. Tant’è vero che il testo assegnato può essere tratto anche da un autore mai tradotto in classe, come Celso o l’Aristotele delle opere scientifiche. Che problema c’è? Il latino è latino, il greco è greco: o lo si sa o non lo si sa.
Se la ratio di questa prova è chiara, è altrettanto chiaro che tutto ciò non ha senso. Cinque anni di liceo classico si fanno per conoscere non solo la lingua, ma la cultura greca e latina, in tutte le sue accezioni. E la prova di maturità dovrebbe esser concepita in modo tale da poterlo esprimere. L’assoluta incongruità di quanto accade al classico emerge chiaramente dal confronto con le prove finali del liceo linguistico, ossia un corso di studio che, questo sì, è centrato sull’apprendimento di “lingue”. Qui allo studente, messo di fron- te a più testi fra cui sceglierne uno, viene richiesto di «comprendere e interpretare» tale testo rispondendo «a domande aperte e/o chiuse ad esso relative » e redigendo «un testo in forma di narrazione o descrizione o argomentazione afferente alla tematica del testo scelto». Chi ha concepito questa prova, evidentemente, sa che conoscere una lingua straniera non significa banalmente riuscire a travasare un enunciato inglese in uno italiano: ma saper riarticolare una lingua e una cultura altre’ nelle forme linguistiche e culturali che ci sono proprie. Tutto al contrario, la seconda prova della maturità classica continua a presupporre che “sapere” il latino o il greco significhi solo non fare troppi errori, di sintassi o di grammatica, quando si mette in italiano un brano di Seneca o di Senofonte. E tutto ciò avviene al termine di un corso di studi che non è concepito per insegnare lingue, ma per aprire più vasti e generali orizzonti di cultura.
La tipologia della seconda prova dei classici va cambiata, non c’è dubbio. E’ quanto è emerso da tre incontri – Torino, Siena, Benevento – che il Centro Ama dell’Università di Siena ha organizzato con il sostegno della Direzione degli Ordinamenti Scolastici del Miur (documentazione sul sito https://antropologiamondoantico. wordpress.co m). Oltre un centinaio di insegnanti di materie classiche, appassionati e motivati, ma sempre più inquieti, hanno fatto rete per discutere di questo problema e per formulare proposte. Decisamente semplici, bisogna dire, e tali da poter essere adottate anche subito. Ne citiamo alcune: fornire al candidato non una sola traccia, ma una rosa di più testi, perché possa scegliere quello più congeniale a lui e alle cose che ha studiato; inoltre far precedere il testo da una contestualizzazione più ampia che aiuti a capire di cosa si sta parlando. Sono anni che la linguistica ha messo in evidenza l’importanza del “contesto” per determinare il senso di qualsiasi enunciato: perché greco e latino dovrebbero fare eccezione?
Si è insistito poi sull’opportu- nità di far seguire al testo da tradurre una serie di domande che vertano non solo sui suoi aspetti linguistici, ma anche su quelli culturali o letterari. In questo modo si permetterebbe finalmente allo studente di valorizzare anche ciò che ha capito, e possibilmente amato, della cultura antica. Naturalmente questa trasformazione richiede di concedere più ore per la prova, almeno sei, di scegliere testi più brevi ma, soprattutto, di contenuto culturale più rilevante: in modo cioè da poterne anche parlare, oltre che metterli in italiano. In particolare, sapere che la prova finale darà spazio non solo alla lingua, ma anche alla cultura dei Greci e dei Romani, permetterà finalmente agli insegnanti di dedicare più tempo e più energie a questi aspetti – i più affascinanti degli studi classici - senza sentirsi in colpa. Se davvero si vuole far rivivere il nostro liceo, cominciamo dunque col ridargli aria togliendo il “tappo” della seconda prova. Il Ministro Giannini è una specialista di glottologia, sa bene che tradurre non è un atto puramente linguistico, ma chiede di mobilitare cultura, individuare analogie e differenze, e soprattutto dà la possibilità di mettere in prospettiva noi stessi rispetto agli altri: quelli di cui (chiunque essi siano) affrontiamo la lingua. Sta qui la bellezza, e l’importanza formativa, del tradurre. La preghiamo perciò di fare in modo che anche allo studente del classico sia finalmente permesso di esprimere tutto questo.
Repubblica 5.3.15
Primo Levi e la favola dell’uomo mutante
“Ranocchi sulla luna e altri animali”, una raccolta di racconti in cui lo scrittore s’ispira a Dante per narrare l’orrore dei lager
di Alberto Asor Rosa
“Angelica farfalla” è la storia di uno scienziato nazista che trasforma i prigionieri in uccellacci
CI sono libri interessanti. Libri divertenti. E libri inquietanti. Pochi quelli che assommano le tre specie. Ranocchi sulla luna e altri animali di Primo Levi è uno di questi. Siccome si tratta di una scelta di racconti, elzeviri, poesie, tratti da altre raccolte pubblicate nel tempo, può anche darsi che la fisionomia compatta e altamente significativa di quest’ultimo volume si debba ai criteri di scelta del sapientissimo curatore, Ernesto Ferrero, cui va riconosciuto più in generale se alle opere di Primo Levi è stata garantita quell’appropriatezza e quel rigore di edizione, che ci consente di leggerlo in ogni suo punto, direi, nella pienezza dell’opera prodotta.
FATTO sta che questi Ranocchi si presentano come un libro unitario, il quale, proprio per i criteri di scelta, ci consente di scoprire meglio un altro filo della ricchissima tavolozza leviana, la quale non smette di stupirci per la sua straordinaria elevatezza e, al tempo stesso, profondità.
Il tema che sta alla base di questa raccolta è quello della «permutazione delle specie e delle forme». Ossia: tutto ciò che appare al nostro occhio come solido e immobile è in realtà in perpetuo movimento e si possono trovare tecniche ed espedienti, talvolta involontari, talvolta scientifici o più spesso pseudoscientifici, che rendono tale movimento più rapido e, come dire, più totalizzante. Questa prospettiva approda in Levi a due strade diverse: i ricordi infantili (mai come qui presenti); e l’osservazione scientifica, spinta anch’essa oltre i normali capisaldi dell’obiettività e dell’utilitario. Siamo cioè di fronte a un problema di «massimi sistemi», che Levi affronta con la consueta leggerezza stilistica e l’eccezionale concisione che gli sono proprie. Il «sistema» che ne risulta è interessante, — non possiamo non appassionarci a questa reinterpretazione del mondo, — e al tempo stesso inquietante, — non possiamo non provare un brivido nella schiena a contemplare come e quanto la permutazione possa cambiare, e in molti casi stravolgere, i fattori che eravamo abituati a conoscere e praticare.
Farò un solo esempio: il primo racconto della raccolta, intitolato Angelica farfalla . Quattro rappresentanti medico- scientifici delle potenze alleate (un inglese, un americano, un russo e un francese) si recano nell’immediato dopoguerra in un appartamento di Berlino devastato dai bombardamenti che avrebbe ospitato un misterioso e ambiguo scienziato, di nome Leeb, presumibilmente al servizio del regime nazista, il quale vi avrebbe compiuto esperimenti su individui umani allo scopo di cambiarne la natura. Di tutto ciò non resta nulla, se non il tanfo, la sporcizia, e un po’ di guano sul pavimento. I quattro hanno perciò modo di dissertare su varie questioni scientifiche attinenti: per esempio, l’esistenza di un misterioso animaletto, l’axocotl, che in un lago del Messico si riproduce allo stadio larvale (insomma, dicono fra loro, una sorta di neotenia).
Commenta l’americano, che funge da leader del gruppo: può darsi «che questa condizione non sia così eccezionale come sembra: che altri animali, forse molti, forse tutti, forse anche l’uomo, abbiano qualcosa in serbo, una potenzialità, una ulteriore capacità di sviluppo. Che al di là di ogni sospetto, si trovino allo stato di abbozzi, di brutte copie, e possano diventare “altri”, e non lo diventino solo perché la morte interviene prima. Che, insomma, neotenici siamo anche noi».
La testimonianza di una ragazza consente ai quattro di arrivare alla conclusione che lo scienziato tedesco, esaltato o pazzo o nazista fino in fondo, sarebbe riuscito a trasformare quattro ignoti prigionieri in altrettanti uccellacci, di cui più tardi la popolazione locale, stremata dalle sofferenze, avrebbe fatto strage per cibarsene. Quindi, i quesiti fondamentali rimangono irrisolti. Ma resta l’inquietudine del non trovato ma intuito, che nella mente di tutti i coinvolti incide una traccia ineliminabile di paura.
E l’«angelica farfalla»? L’«angelica farfalla» è una citazione da Dante, cui attribuisco un’importanza enorme. Data tale importanza, riprodurrei per intero il passo della Commedia: «O superbi cristiani, miseri lassi, / che, della vista de la mente infermi, / fidanza avete ne’ ritrosi passi, / non v’accorgete che noi siam vermi, / usati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi?». Siamo in Purgatorio X, 121-26, nella cornice in cui i superbi purgano il loro peccato per ascendere al premio eterno. Ora, Dante è essenziale in generale nell’ispirazione di Primo Levi (onestamente, mi sfugge se questa osservazione sia già stata fatta). All’ingresso di Auschwitz c’è una sorta di «caronte » che però rinuncia a gridare ai prigionieri ebrei «Guai a voi, anime prave» ( Se questo è un uomo): evidentemente, lì si sta per entrare in Inferno. Ma, ancor più significativamente, nell’approccio iniziale al campo di concentramento: «... Qui non ha luogo il Santo Volto, / qui si nuota altrimenti che nel Serchio » (quando Dante entra nella quinta bolgia, Inferno XXI, 48-49, e i demoni gridano ai dannati che il trattamento che loro sarà inflitto non avrà niente in comune con le esperienze passate). Altrettanto, ovviamente, accadrà nel campo di Auschwitz.
Dante spiega che gli uomini sono come vermi, destinati a sprigionare da sé la farfalla, — che a mo’ di angelo dispiega le sue ali, rall egrandoci profondamente con la sua bellezza e leggerezza, — a meno che il colpevole, peccaminoso comportamento umano, a meno che lo stravolgimento delle funzioni vitali ed intellettive non costringano l’uomo a restare verme; oppure a meno che una volontà ostile e perversa non costringa l’uomo, o anche la bestia, a regredire verso il basso, invece di alzarsi verso l’alto (come, appunto, racconta la vicenda dell’ Angelica farfalla).
Ora, su questa possibile duplicità si costruisce la raccolta di racconti di cui stiamo parlando: si può andare verso il basso o verso l’alto a seconda della scelta che si è fatta. E l’umano e il bestiale, in questo accidentato percorso, si corrispondono e talvolta si fondono, creando ircocervi difficilmente distinguibili. La descrizione dei casi possibili contempla la chiamata in causa di esseri infinitesimali ma estremamente complicati come gli insetti, le formiche, gli scarabei, i coleotteri, per salire poi più su, ancora più su, con le chimere e i centauri, fino all’uomo, che però non può neanche lui essere considerato un punto fermo nel grande ciclo dell’esistenza universale ma può tornare indietro, alle sue bassure originarie, al suo fetido destino di sopravvivenza, «sì come vermo in cui formazion falla». Tutto ciò detto con quell’inimitabile leggerezza ed essenzialità della forma, che fa pensare talvolta che l’angolo della bocca di Primo Levi si torca un poco nell’enunciare queste terribili verità, quasi a raccomandare ai suoi lettori e ascoltatori che esse siano sì recepite, ma senza nessuna intonazione magniloquente. Questo è il divertimento: assistere al dispiegamento dello stile, che dice tutto, senza sprecare una sola parola (viene in mente Calvino, di cui Levi era amicissimo).
Ha qualcosa a che fare questa enunciazione della permutazione possibile delle specie con la rappresentazione dell’universo concentrazionario di Se questo è un uomo ? Io non avrei dubbi. La «filosofia naturale» di questi racconti ha ispirato la descrizione, e a sua volta ne è stata ispirata, dell’universo concentrazionario, di cui Levi ha fatto così terribile esperienza. Ad Auschwitz la permutazione dell’uomo nella bestia e della bestia nell’uomo ha raggiunto il vertice, pensata e governata da una diabolica volontà umana (umana... o bestiale?). In Ranocchi sulla luna la terribile lezione trova una sua formalizzazione esistenziale e letteraria, che va al di là della recinzione del lager. Ci sono mille occasioni, pretesti e giustificazioni per cui l’«angelica farfalla », quando la sua «formazion falla», torni a essere «il vermo» da cui essa proviene. L’umanità consiste nel procurarsi che il dono di bellezza e di armonia, di cui la farfalla è il simbolo, non ci sfugga, per debolezza, vanità, ingordigia di potere crudeltà, dalle mani.
IL LIBRO Ranocchi sulla luna di Primo Levi ( Einaudi pagg. 222, euro 19)
Repubblica 5.3.15
Matisse
“Arabesque”: cento capolavori alle Scuderie del Quirinale
Le lezioni orientali del signore della pittura
A Roma va in scena il mondo dell’artista francese che fu influenzato nel gusto per
l’ornamento dalle antiche civiltà
di Fabrizio D’Amico
HENRI Matisse è forse troppo grande per essere rivisitato in una sola mostra: l’abbiamo sperimentato molte volte davanti alle sue retrospettive allestite dai maggiori musei del mondo. E quando nel 2003 al Centre Pompidou di Parigi, in una mostra indimenticabile promossa congiuntamente dalla Tate di Londra, dal museo francese e dal Metropolitan di New York, la sua opera fu messa accanto a quella di Picasso – l’altro gigante dell’arte della prima metà del secolo scorso – la voglia assurda di fare una graduatoria fra i due si concluse ovviamente con un nulla di fatto, ma con una segreta e inconfessabile preferenza per il francese.
Di fronte a questa mostra delle Scuderie del Quirinale (a cura di Ester Coen, catalogo Skira, fino al 21 giugno), però, si ha la sensazione che si sia giunti a toccare davvero un cuore pulsante di quell’esperienza creativa: non tanto per le oltre cento opere di Matisse – fra le quali molti capolavori – che gli organizzatori sono riusciti a portare a Roma dalle maggiori raccolte pubbliche e private di due continenti (e fra esse la Tate, il Metropolitan, il MoMA, il Puškin, l’Ermitage, i musei nazionali francesi, la Fondazione Agnelli) e che sono accompagnate in mostra da numerosi e ben scelti esempi d’arte primitiva ed extra-europea (stoffe, tessuti, ceramiche, tappeti, maschere e armamenti, elementi architettonici, xilografie di secoli diversi, originarie dell’Africa, dell’Oceania, del Medio e dell’Estremo Oriente) – non tanto o non solo per questo, ma perché il percorso espositivo si sviluppa organicamente attorno ad un’idea che fu centrale in Matisse e che già il titolo della rassegna di oggi esplicita: Arabesque.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
«LA preziosità o gli arabeschi non sovraccaricano mai i miei disegni, perché quei preziosismi e quegli arabeschi fanno parte della mia orchestrazione del quadro», confesserà: non un orpello aggiunto, dunque, ma il nucleo profondo del suo modo creativo. la decorazione, assieme ai valori che essa comporta, è stata per secoli negletta e quasi messa all’indice dalla cultura figurativa occidentale: dall’epoca del tardo gotico in avanti.
Da quando, con Giotto e poi con Masaccio, s’inaugurò il modo opposto di concepire la pittura come scandaglio della realtà, essa non ha avuto in Occidente quasi più diritto di cittadinanza, ed è stata relegata nell’universo delle arti che si nominavano “minori”. Fino a Matisse. Che ha riformato drasticamente l’idea di spazio che alla pittura competeva da secoli; rinnegando parimenti il proposito di mimesi della realtà di cui essa s’era fatta succube. Matisse, che ha riportato la pittura sul piano, liberandola dall’obbligo di precostituirsi una conca spaziale allargata dalla prospettiva; che le ha ridonato quel talento di non essere servile nei confronti della verità di natura, ma da essa indipendente. Non è stata senza preavvisi, la sua rivoluzione: né gli è venuta solo dall’Oriente, come poi disse. La superficie era stata cercata già da Monet, e da lui infine trovata nelle serie degli anni Novanta dell’Ottocento (dalle Cattedrali di Rouen ai Mattini sulla Senna).
Nel mentre, una nuova spazialità era stata scovata da Cézanne nelle tavole sovraccariche di frutta, e nei ritratti, dello stesso ultimo decennio del XIX secolo. E l’età lunga, e diramata in cento rivoli, del simbolismo era andata in traccia, soprattutto a Parigi, di una realtà diversa dall’usata. Ha fatto tesoro, Matisse, di tutto ciò: di quello sguardo gettato sulla natura da occhi formidabili o semplicemente aguzzi; dello sguardo di Manet e di Cézanne (e dunque di Picasso e del cubismo), ma anche di Gustave Moreau, o del coetaneo Vuillard.
Ma la decorazione sarà per Matisse non solo conquista, ma gioia e libertà degli occhi e del cuore, sarà pittura senza confini accertati, pittura che esorbita dai suoi limiti materiali e s’incammina verso una potenziale infinitezza. È questa l’idea di decorazione che Matisse ha forse per la prima volta sperimentato nel suo capolavoro giovanile della Joie de vivre, del 1905, e alla quale ritornerà sempre: ne La Danza e ne La Musica per la casa moscovita di Sergej Schukin, concepite e compiute tra 1909 e 1910; poi di frequente nei dipinti da cavalletto e parimenti nel disegno degli anni Venti; quindi fra ‘30 e ’31 nell’immensa Danza Merion, ove sperimenta per la prima volta la tecnica nuova delle carte ritagliate.
E finalmente nell’ultimo decennio, dalla pubblicazione di Jazz in avanti, quella tecnica lo prende quasi totalmente, e grazie ad essa egli inaugura una seconda, luminosa stagione, dopo quella giovanile, che risulterà non meno determinante della prima nel segnare la via del moderno (e quel suo essere sino in fondo, e dichiararsi consapevolmente, “superficie” fu allora la ragione, anche, che seppe allontanare la pittura di Matisse dall’affollato palcoscenico su cui il secondo dopoguerra europeo s’ingaggiava in scontri sterili e inessenziali fra figurativo e astratto; mentre lui, sovranamente, dipingeva un giorno una donna abbandonata su un letto di cuscini e il giorno appresso cerchi rossi e una losanga nera sul fondo bianco). Arabesque, l’idea che guida la mostra di oggi, orienta la scelta fra gli infiniti capolavori di Matisse: fra i quali, oggi esposti a dimostrare la verità dell’assunto dichiarato, sono tra l’altro I pesci rossi ( 1912) del Puškin, e, sempre provenienti dal museo moscovita, Zorah sulla terrazza, Rifano in piedi, Arum, iris e mimose; poi Pervinche, sempre del ’12, L’italiana del ’16, Il paravento moresco del ’21 e molti altri straordinari dipinti.
Henri Matisse: Marocchina in giallo , 1912; Maschera Wan-nyaka Mossi Burkina Faso, XX secolo; Piatto Iznik, Turchia, seconda metà XVI secolo
Repubblica 5.3.15
L’ornamento non è più un delitto
Tutto è superficie nei suoi quadri così si afferma il dominio dei colori e della geometria curva
di Achille Bonito Oliva
HENRI Matisse smentisce l’etica progettuale di gran parte degli artisti che operano nei primi decenni del ventesimo secolo. Se in architettura per Adolf Loos l’ornamento è un delitto, per il grande pittore francese invece è la conferma di una potenzialità espressiva capace di portare tutto alla superficie, segni e colori sapientemente orchestrati sotto la direzione dell’artista. «Gli arabeschi – scriveva – non sovraccaricano mai i miei disegni, ma fanno parte della mia orchestrazione del quadro».
L’opera diventa il frutto di una vera e propria iconografia stereofonica che trova nella superficie del quadro accoglienza e distribuzione. Non c’è più profondità prospettica che risucchia al suo interno l’alfabeto visivo che, invece, trova una fluidità stabile nello scorrevole supporto della pittura, disegno o collage. Il percorso creativo di Henri Matisse è segnato dalla iniziale attenzione verso il pointillisme di Paul Signac, l’uso del colore di Paul Cézanne ed il nomadismo di Paul Gauguin aperto al vagabondaggio tra altre culture, oltre quelle occidentali.
Il suo superficialismo è fomentato da una forte attenzione verso il fattore luminoso, stemperato nell’uso del blu e del verde che rendevano liquida ogni visione.
La dance e La musica ( 1911) installata in casa Schukin sono l’emblema del suo slittamento verso un astrattismo al limite della figurabilità e l’adesione verso i linguaggi che sviluppano movimento e metamorfosi della forma. L’apertura verso l’arte islamica, abbondantemente collezionata al Louvre, e l’esposizione mondiale del 1900 gli permettono di scoprire l’arte musulmana nei padiglioni della Turchia, Marocco, Persia, Tunisia, Algeria ed Egitto. La scoperta dell’arabesco lo libera da ogni tentazione per il profondo e gli permette viaggi verso un’arte decorativa per niente ornamentale.
Dal soggiorno in Algeria (1906) ritorna carico di ceramiche e tappeti da preghiera e da quello in Italia (1907) con una forte emozione estetica per gli affreschi visti a Firenze, Arezzo, Siena e Padova. Ma è Giotto che provoca in lui il bisogno di una nuova orchestrazione della pittura, un sentimento rinnovato nei confronti del segno e del colore.
Sempre più in Matisse si consolida un’idea compositiva della pittura e del disegno dominati da un’imperiosa direzione orchestrale. L’arabesco diventa il felice strumento che gli permette un movimento aperto all’impiego di una geometria della linea curva. La superficie diventa lo spazio di una risonanza cromatica che richiede sempre una pluralità dell’alfabeto visivo.
«Un tono non è che un colore, due toni sono un accordo», dichiara Matisse. Consapevole che il linguaggio adoperato è sincronico e polivalente sotto la direzione di una mano che vuole costruire una felice dissonanza e una fertile rappresentazione del visibile. Affermazione di una creatività che viaggia attraverso molteplici geografie culturali, per confermare la consonanza di una visione del mondo segnata dall’insita spiritualità dell’arte.
Repubblica 5.3.15
Illuminato sulla via di Tangeri
Due settimane di pioggia lo accolgono in Marocco poi finalmente arriva la luce
di Tahar Ben Jelloun
IL PRIMO incontro di Henri Matisse con l’Oriente (con la luce del Marocco, chiamato in arabo “l’estremo Occidente”!) per poco non lo scoraggiò fino ad indurlo a ripartire. Quando era imbarcato sul “Radjani”, a Marsiglia, il 27 gennaio 1912, aveva in testa una sola idea: scoprire la luce del Marocco, come già prima di lui Eugène Delacroix.
Una traversata gradevole, senza incidenti; ma nei pressi dello Stretto di Gibilterra lo fu assai meno. Mare agitato, cielo ingombro, luce spenta. Deluso, pensò tuttavia che quella pioggia sarebbe stata passeggera. Da Algecira a Tangeri la distanza è di soli 14 chilometri. È normale che il maltempo andaluso si estenda fino alla costa di Tangeri, al fondo d’Europa e alle porte dell’Africa. È l’estremità di un qualche luogo. Dalla terrazza dell’hotel Villa de France, dove Matisse aveva preso alloggio, quando l’aria è limpida si distingue la costa spagnola con le sue luci, i suoi punti salienti, la sua arroganza.
La pioggia si attardava in quella città dello Stretto. Quindici giorni di grigiore e di rovesci. Quindici giorni di attesa, e poi di noia. Matisse scrive a Gertrude Stein: «Vedremo mai il sole in Marocco? Come andremo a finire? Basterà un niente per farci tornare a Parigi a cercare il sole. Impossibile uscire dalla nostra stanza [...]. Qui fa chiaro come in una cantina. Ah! Tangeri, Tangeri! Vorrei proprio avere il coraggio di darmela a gambe».
Il cielo aveva mangiato le sue luci. Pioveva in maniera discontinua e un grigiore insolito regnava ovunque. Il vento dell’est faceva tremare le querce alte nel cielo. Sollevava una polvere d’oro. Platani dalle radici martoriate. Il vento e gli uomini, giovani e giovanissimi, a cavalcioni su un muretto, in attesa di qualcuno o di qualcosa. Il mare, laggiù. Bianco, verde, azzurro: una capigliatura scomposta dai capricci della luna e della tempesta. Mare agitato, mura crepate. I rumori della città si ritiravano lasciando al vento la sua musica senz’armonia. Qualcosa di moderno. Schiaffi, ceffoni, lenzuola gonfiate e strappate. Nei caffè più esposti, tavolini e sedie inchiodati a terra come su una nave. Tangeri beccheggia. Mani tenute in testa. Poi, dopo tre settimane il cielo ritrova la sua luce e si fa tutto azzurro. È quel blu magnifico, strano e talora inquietante, che Matisse farà suo.
A partire da quella schiarita tutto cambiò. Dalla camera 35 il pittore vedeva il suk popolare, il mare e la costa spagnola. Tutte quelle sfumature di azzurro lo riempivano di gioia. Uscì, e grazie a una guida marocchina incontrò alcune figure e personaggi che avrebbe dipinto.
Delacroix scrisse nel suo diario: «È un luogo fatto per i pittori, dove il bello abbonda ». Matisse scrive ai suoi amici: «Sono stato a Tangeri perché è l’Africa. Delacroix era lontano dai miei pensieri». Se il primo fece solo alcuni schizzi, l’altro produsse, durante i suoi due soggiorni, 23 tele e 65 disegni a penna e inchiostro. Qui Henri Matisse semplificò le sue composizioni e osò i colori caldi.
Il suo incontro col nord del Marocco cambiò il suo modo di dipingere in maniera radicale e felice. Raramente la luce di un Paese ha dato tanto a un grande artista. Qui Henri Matisse si è “orientalizzato”.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Repubblica 5.3.15
Novità in edicola
Lo storico settimanale si rinnova nella grafica e nei contenuti Il direttore Vicinanza: torniamo a raccontare l’Italia rimanendo fedeli alla nostra grande tradizione
Lo spazio del settimanale è quello dell’inchiesta Dobbiamo essere sempre dove sono i lettori
L’Espresso compie 60 anni “Cambiare guardando al futuro”
di Concetto Vecchio
ROMA «Un giornale più denso, fedele alla grande tradizione dell’ Espresso ». Il direttore Luigi Vicinanza racconta il numero che troverete in edicola domani, ripensato nella grafica e nei contenuti. La testata, ingrandita, torna di colore rosso su sfondo bianco, come agli inizi. «Compiamo 60 anni. Riscopriamo il piacere di raccontare l’Italia».
Direttore, cosa cambia?
«Lo sfoglio viene suddiviso in due parti. Le hardnews, i temi da battaglia, all’inizio: la storia di copertina, le grandi interviste (questa settimana a Matteo Renzi), le esclusive, le rubriche delle grandi firme, da Roberto Saviano, l’anima civile, a Michele Serra, lo spirito caustico. Poi, al centro, ecco il reportage fotografico. Quindi la ricca sezione culturale, con tanto spazio dedicato al web. Si chiude sempre con il commento di Eugenio Scalfari o Umberto Eco».
Viene abolita la tradizionale divisione per settori. Come mai?
«Perché il taglio delle notizie dev’essere trasversale. La guerra in Libia o la crisi in Grecia non sono soltanto un fatto di politica estera o di economia, ma offrono più letture, viste da più angolazioni».
Perché cambiare formula?
«Perché è giusto adeguare il settimanale al cambiamento dei gusti e delle abitudini dei lettori. Quando ero ragazzo c’erano due appuntamenti con l’informazione: l’acquisto del giornale in edicola e poi il tg serale. Oggi siamo travolti da un flusso ininterrotto. La nostra sfida consiste nel riportare a unità questioni complesse».
Ormai anche i siti online settimanalizzano. Che spazi restano al newsmagazine?
«Lo spazio è quello dell’inchiesta. Pensiamo alla recente copertina sui 100mila immigrati spariti, frutto di un viaggio di tremila chilometri, dalla Sicilia al Friuli Venezia Giulia. Ai miei dico spesso: ora che tutti settimanalizzano noi dobbiamo mensilizzare».
Come sarà l’integrazione con il sito?
«Faccio un esempio. Il via libera alla pubblicazione della lista Falciani arrivò alle 22 di domenica 8 febbraio, non potevano che darla sul sito. Nei giorni successivi abbiamo continuato a lavorarci online. Venerdì siamo usciti in edicola. Bene, il web non aveva cannibalizzato la carta, anzi. La morale è che dobbiamo sempre essere laddove sono i lettori».
Qual è la cifra dell’Espresso?
«La laicità. Anche nel raccontare le cose. Dopo l’inchiesta sugli immigrati di cui si perdono le tracce qualcuno mi ha rimproverato di aver fatto così un favore a Salvini, ma per me i fatti vengono prima di tutto».
L’Espresso dove si colloca nella storia del nostro giornalismo?
«Come l’icona più immaginifica. Basta ricordare il titolo, ancora oggi attuale, “Capitale corrotta, nazione infetta”, entrato nella storia, insieme alle grandi battaglie per il divorzio, i diritti civili, le denunce ripetute contro il malaffare e la corruzione. Oggi questo modello va proiettato nel futuro ».
Come festeggerete i 60 anni?
«Con dodici volumi che raccontano la storia del Paese, uno per ogni quinquennio, a cura di Bruno Manfellotto. Ogni edizione avrà un tema. Il primo, in edicola il 13 marzo, è dedicato al boom economico, l’ultimo alla grande crisi, alle nuove povertà: la parabola dell’Italia ».
Anni fa l’americano Philip Meyer predisse l’ultima copia del New York Times per il 2043. Secondo recenti studi i quotidiani saranno morti nel 2035. Possibile?
«No, non ci credo. Così come la tv non ha ucciso la radio, e il cinema non ha ammazzato il teatro, nemmeno internet soppianterà la carta. Però i giornali stanno cambiando, e noi perciò cambiamo l’ Espresso ».