mercoledì 18 febbraio 2015

Repubblica 18.2.15
La religione incompresa
La cultura moderna, la nostra cultura illuministica, è nata e si è radicata per domare il potere del fenomeno religioso
Ma la convinzione di averne ridotto la forza le si è ritorta contro
di Nadia Urbinati


A COMMENTO dell’attacco criminale degli estremisti islamici ai vignettisti e ai giornalisti di Charlie Hebdo , l’intellettuale francese Abdennour Bidar nella sua “Lettera aperta al mondo islamico” ha scritto che gli intellettuali occidentali sembrano aver smarrito la capacità di comprendere il fenomeno religioso. Per molti di loro la religione è un segno che sta per qualcos’altro: la narrativa che sostituisce le ideologie politiche decadute; il mezzo per mostrare contrarietà a leggi e sistemi politici; l’arma per denunciare la discriminazione, la marginalità, l’esclusione.
Certamente, la religione gioca e ha giocato tutte queste funzioni. Del resto, proprio per la sua capacità di muovere la paura e comandare l’obbedienza, ad essa si sono rivolti fondatori di Stati e loro consiglieri per indurre uomini e donne a fare cose che mai avrebbero altrimenti avuto il coraggio di fare. Spiega Machiavelli che solo quando i romani furono portati a sentire la paura della punizione divina i loro capi militari riuscirono a imporre il comando supremo nei campi di battaglia, perché la paura di dio superava quella della morte. Del resto, l’uso politico della religione ha un senso solo perché chi la usa e la mobilita ne conosce il potere tremendo e tragico, che sta oltre la vita e la morte.
La cultura moderna, la nostra cultura illuministica, è nata e si è radicata per domare e de-potenziare questo potere tremendo. Ci è riuscita permeando la vita civile della cultura dei diritti. Ma la convinzione di averne domato la forza le si è come ritorta contro, rendendola incapace di comprendere appieno le risorse di cui la religione dispone, di leggerla come nient’altro che un segno che sta per qualcos’altro, un fenomeno arcaico e un rifugio per chi non ha, per esempio, risorse culturali ed economiche sufficienti. Opium populi .
La religione è un fenomeno radicale che la cultura dei diritti ha modificato ma non cambiato nella natura. Ecco perché essa ha difficoltà ad accomodarsi con la tolleranza, un termine che designa ancora una virtù fredda o una non-virtù proprio perché richiede di accettare l’esistenza di quel che da dentro la propria fede si considera un errore. Come ci ha ricordato Norberto Bobbio in un articolo magistrale, i credenti accettano la tolleranza come una regola di prudenza ma non l’abbracciano come un imperativo o un principio in sé. Ci è voluta la retorica semplice di Papa Francesco per ricordarcelo: «se offendi mia mamma ti mostro il pugno». Certo, mostrare il pugno non è la stessa cosa di usarlo. Ma è bene ricordare che è alla cultura dei diritti che dobbiamo riconoscenza per farci capire appieno quella differenza.
Criticare l’autore di una satira invece di sopprimerlo: qui sta tutta la differenza del mondo. Ma questa differenza è segno che la tolleranza funziona come regola di prudenza, ovvero che sa suggerire comportamenti strategici senza bisogno di cambiare l’attitudine spirituale del credente. Ora, è evidente che se nei Paesi occidentali questa regola di prudenza non costa tanto e funziona abbastanza bene è perché chi la pratica opera all’interno di una cultura etica che è imbevuta di un seme religioso preponderante. La cultura europea ha una sua omogeneità, sia quando parla la lingua della religione che quando parla la lingua dei diritti. E usare la regola della tolleranza mostrando il pugno è tutto sommato un fatto eccezionale. Essere tolleranti tra eguali costa meno, rende l’autocontrollo meno difficile. E soprattutto, ci fa dimenticare la radicalità del fenomeno religioso.
Fa dimenticare che la cultura dei diritti è un bene delicato; che l’abitudine che abbiamo acquisito in questi due secoli di dissentire con ragioni invece che con i pugni non ci ha al fondo cambiati, che la religione non è diventata una filosofia o una visione del mondo come le altre; che, infine, anche il pluralismo, quando riesce a stabilizzarsi, non è proprio lo stesso di quello che si trova nel libero mercato delle idee dove si sceglie tra varie opzioni (diceva Antonio Labriola agli ottimisti positivisti del suo tempo che i valori non sono come “caciovalli appisi” che troviamo già fatti al mercato). Questo per dire che l’argomento che ci invita a considerare le condizioni del dialogo e dei suoi limiti, che ci ricorda la natura irriducibile e radicale della religione, che ci mette in guardia dal pensare che le condizioni materiali di vita siano, al fondo, la sola e vera posta in gioco di chi crede in un dio, è sensato e saggio. Nessuna giustificazione e nessuna tolleranza verso coloro che usano il pugno. Ma sarebbe riduttivo pensare che se la religione è permeabile all’intolleranza ciò è perché le persone non sono abbastanza benestanti, colte, integrate, riconosciute; che il fenomeno religioso sia segno di qualcosa d’altro.

il manifesto 18.2.15
La longevità dei pontefici
«Il papato e altre invenzioni. Frammenti di cronaca dal Medioevo a papa Francesco» di Agostino Paravicini Bagliani: cronaca di un'istituzione che si avvia a completare il secondo millennio di vita, fra solitudini, dimissioni e nuova popolarità

di Marina Montesano

qui

Celebrazioni per la ricorrenza dei Patti Lateranensi a palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata Italiana presso la Santa Sede a Roma.

La Stampa 18.2.15
Falso in bilancio
Forza Italia si impunta
Tempi più lunghi
di Francesco Maesano


Al culmine di un pomeriggio di opposizione senza sconti, Giacomo Caliendo lo ammette: «Sì, è vero, sono emendamenti ostruzionistici». Almeno così riporta il collega del M5S Enrico Cappelletti, che ascolta, registra e twitta. Alla fine resteranno sul campo appena cinque emendamenti, esaminati e bocciati, e quella minaccia di far «vedere i sorci verdi» al governo che ieri dopo pranzo ha preso forma al piano ammezzato di palazzo Madama, aula della commissione giustizia del Senato.
Sul ddl anticorruzione Forza Italia ha alzato le barricate, facendo intervenire tutti i suoi commissari su ogni singolo emendamento e obbligando il presidente Nitto Palma ad aggiornare la seduta ad oggi. Il provvedimento è previsto in aula per giovedì 26, ma a questi ritmi è escluso che si possa completare il lavoro in commissione. Tutto perché il governo ha annunciato di essere orientato a presentare direttamente in Aula l’emendamento sul falso in bilancio.
Nel nuovo testo del governo dovrebbero sparire le soglie di non punibilità, sostituite da una differenziazione legata al volume d’affari della società con un doppio binario di pena: da 2 a 6 anni al di sopra di un certo volume d’affari e da 1 a 3 anni al di sotto di una soglia ancora da stabilire. Il viceministro Costa ha provato a tenere la linea dura. «Lo portiamo in Aula», ha detto lasciando la commissione. A quel punto, per tentare di rendere un po’ meno accidentata la strada del provvedimento, il ministro Orlando ha lasciato via Arenula e si è chiuso in riunione con Costa, Nitto Palma e Lumia. Nessun annuncio di una soluzione raggiunta, ma non è escluso che già oggi l’emendamento possa essere mandato in commissione per provare a sbloccare l’iter.
Almeno a sentire il capogruppo Pd in commissione, Beppe Lumia, che ieri spiegava come «l’estensione dell’area della punibilità è un vero passo in avanti. Ora - ha proseguito Lumia - siamo pronti a discutere di questa norma e per questo riteniamo che sia giusto e necessario che il governo presenti in fretta in commissione l’emendamento che traduce l’accordo ritrovato. Apprezziamo la disponibilità dimostrata dal ministro a procedere in tal senso».
@unodelosBuendia

il Fatto 18.2.15
Accordicchi e ostruzionismo: anti-corruzione nel pantano
Forza Italia di traverso, poi con il Pd boccia il raddoippio della prescrizione
di Antonella Mascali


Non c’è ancora nessun testo sul falso in bilancio scritto nero su bianco. Dal ministero di via Arenula ribadiscono che vogliono presentare un emendamento in Aula e non in commissione Giustizia del Senato. Non c’è ancora l’accordo politico. Ieri è cominciata la votazione in Commissione sul disegno di legge anticorruzione, con tutta calma. Appena cinque gli emendamenti approvati su un centinaio.
Le riforme turbo del presidente del Consiglio Renzi sono diesel, anzi a passo d’uomo, con Forza Italia che fa ostruzionismo. Salvo quando nel pomeriggio si è rivisto il patto del Nazareno: la maggioranza e gli Azzurri hanno bocciato insieme un emendamento di M5s, votato anche dal Carroccio, che proponeva il raddoppio dei tempi di prescrizione per i reati contro la Pubblica amministrazione. “Chissà perché – chiede ironico il primo firmatario Maurizio Buccarella – ma lo abbiamo votato solo noi e la Lega... ”.
SE L’ANDAMENTO dei lavori sarà quello, ci vorranno settimane perché si chiuda su un provvedimento depositato nel marzo 2013, a firma del presidente del Senato Piero Grasso. Ieri, il senatore di M5S, Enrico Cappelletti, ha chiesto al presidente Nitto Palma, forzista, di calendarizzare anche sedute notturne, ma Palma si è riservato di decidere.
Forza Italia si è detta scandalizzata che il governo non presenti in commissione il suo testo, il presidente ha parlato di atteggiamento “poco rispettoso” verso la Commissione.
Il senatore ed ex sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, anche lui di Forza Italia, ha confessato l’obiettivo dell’ostruzionismo. Lo ha fatto in un momento di stizza, quando il capogruppo del Pd, Giuseppe Lumia, lo ha accusato di aver illustrato emendamenti incoerenti. Caliendo, a quel punto, a denti stretti ha ammesso che erano ostruzionistici. Proprio Lumia, insieme al collega del Pd, Felice Casson si è battuto contro le soglie di impunità per il falso in bilancio che gran parte del partito avrebbe voluto presentare. Rispetto al nuovo testo che circola, ma non ufficiale, a cui ha lavorato anche il responsabile Giustizia del Pd, David Ermini, Lumia pensa che sia “buono”, un passo avanti e sta facendo di tutto perché ci sia l’accordo definitivo Pd-Ncd. Accordo che per ora sembra lontano. Lo testimonia anche un nulla di fatto di una riunione ristretta Palma-Enrico Costa-Lumia con la comparsa dello stesso ministro Andrea Orlando. Ecco il vero motivo per cui il governo dice che preferisce presentare l’emendamento sul falso in bilancio in Aula. Ma Lumia vorrebbe la proposta di modifica subito in Commissione, senza rinviare la partita in aula. “Siamo pronti a discutere di questa norma e per questo riteniamo che sia giusto e necessario che il governo presenti in fretta in Commissione l’emendamento che traduce l'accordo ritrovato”. Il testo che gira da lunedì sera prevede: procedibilità d’ufficio, pene da 1 a 3 anni (con prescrizione sostanzialmente certa) per le piccole imprese con un volume d’affari inferiore a 600 mila euro. Per le altre, pene da 2 a 6 se non quotate in Borsa e da 3 a 8 anni per quelle quotate. Negli ultimi due casi, sono possibili le misure cautelari e le intercettazioni.
ANCHE M5S vorrebbe che il governo presentasse l’emendamento in Commissione, ma a certe condizioni: “Che lo presenti entro 48 ore – ci dice il senatore Cappelletti – in modo che possiamo votare e chiudere entro la settimana, altrimenti è meglio che lo porti in Aula, assumendosi la responsabilità di quello che presenterà. Finché non leggiamo il testo non ci fidiamo”.
In merito a Forza Italia, lo stesso Cappelletti su Twitter ha scritto: “Votare il provvedimento anti-corruzione è proprio contro la loro natura”.
La Commissione è stata aggiornata a oggi pomeriggio.

La Stampa 18.2.15
Lavoro: ok le tutele crescenti ma la maggioranza si spacca
L’agenzia unica ispettiva riaccende lo scontro
di Roberto Giovannini


Torna ad animarsi lo scontro sul «Jobs Act» voluto da Matteo Renzi. Quattro sono i fronti aperti in queste ore: la minaccia di referendum abrogativo della delega ipotizzato da Sel e dal leader Fiom Maurizio Landini. La spaccatura tra Pd e Ncd sul parere da dare al decreto attuativo sul contratto «a tutele crescenti» senza più articolo 18. L’imminente varo del decreto attuativo sui contratti precari. La diffusione della bozza del decreto sulla nuova Agenzia unica per le ispezioni sul lavoro.
Insomma, torna a crescere la tensione. Il governo aveva sperato che dopo le polemiche dei mesi scorsi la questione dell’abolizione del reintegro per i licenziamenti scomparisse dalle cronache, ma gli oppositori della riforma alzano il tiro. Maurizio Landini, numero uno Fiom, intende proseguire la mobilitazione senza «escludere nulla»; e considera il referendum abrogativo «una delle possibilità». Una iniziativa sostenuta anche dal deputato di Sel (ed ex dirigente Fiom) Giorgio Airaudo, e invece bocciata da altri dirigenti Cgil, come il leader dei bancari Agostino Megale. Di tutto questo discuterà oggi il direttivo della Cgil, che potrebbe proclamare nuove iniziative di protesta. Per oggi è previsto un incontro tra il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e i sindacati.
In teoria si dovrebbe discutere del merito dei nuovi decreti attuativi sul riordino delle tipologie contrattuali (su cui non dovrebbe cambiare granché rispetto ad oggi), la conciliazione vita-lavoro e l’Agenzia unica delle ispezioni. Ma l’esperienza ha dimostrato l’inutilità di questi incontri per i rappresentanti di Cgil-Cisl-Uil: non c’è nessuna possibilità di discutere i contenuti, e neanche di conoscerli in dettaglio. E ad alimentare l’ira dei sindacati c’è anche la bozza sul nuovo sistema delle ispezioni sul lavoro. La nuova Agenzia unica partirà dal 2016, e integrerà i servizi ispettivi del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, dell’Inps e dell’Inail. Avrà sede principale a Roma e 18 sedi territoriali, con una dotazione organica complessiva di 5982 unità. E vedrà la contestuale soppressione delle Direzioni interregionali (Dil) e territoriali (Dtl) del lavoro, 85 uffici, con il trasferimento del personale amministrativo: circa 1000 unità andranno all’Agenzia e le restanti circa 1760 verranno invece trasferite «anche in soprannumero, all’Inps, all’Inail o alle Prefetture-Uffici territoriali del governo».
Sono previsti risparmi totali per 26,1 milioni di euro. Ai sindacati non piace: sembra di capire perché potrebbe rappresentare un peggioramento di stipendio e condizioni per parte dei dipendenti. E anche perché non verrà discussa con loro.
E infine, l’eterna guerra tra i due ex ministri. Cesare Damiano (minoranza Pd, Commissione Lavoro della Camera) ha fatto varare un parere che chiede che il contratto a tutele crescenti non sia applicato ai licenziamenti collettivi. Ncd vota contro: «È una sconfessione della già timide innovazioni prodotte», accusa Maurizio Sacconi (Ap, Commissione Lavoro del Senato). Deciderà, come sempre, soltanto Renzi.

il manifesto 18.2.15
Caos totale sui contratti
La maggioranza si spacca (Ncd vota contro) sul parere sul "tutele crescenti"
Oggi incontro Poletti-sindacati
La Cgil lancia la mobilitazione per un nuovo Statuto
Nessuna certezza sui decreti attuativi
La promessa di Renzi di cancellare i cocopro slitta al 2016?
Camusso pronta a lanciare legge di iniziativa popolare
di Massimo Franchi

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Corriere 18.2.15
La Buona scuola? Frutti acerbi per tutti (precari inclusi)
Una riforma a metà non salva la scuola
di Gianna Fregonara


Il testo della Buona scuola, anche dopo la profonda revisione di queste ultime settimane, resta una proposta di riforma della professione di insegnante più che una riforma del sistema educativo. È un tentativo comprensibile e ambizioso di modernizzare la scuola attraverso gli uomini e le donne che ci lavorano. I due pilastri su cui si reggeva la proposta presentata a settembre non hanno retto al tentativo di essere trasformati in legge. Il primo, il sistema degli scatti solo premiali per i due terzi degli insegnanti di ogni scuola, è scomparso dal decreto in preparazione. Nelle intenzioni del governo, questo avrebbe dovuto innalzare il livello di preparazione, di impegno e di performance degli insegnanti italiani: si è capito che sarebbe stato impossibile da applicare e iniquo nei risultati, oltre che inutile. È stato sostituito da un sistema misto di scatti di anzianità e di scatti di merito assegnati con un più complicato sistema di valutazione della quantità e della qualità del lavoro e dell’aggiornamento degli insegnanti.
Un sistema che funzionerà soltanto, nel suo intento di premiare i più bravi, se ci saranno fondi sufficienti a spezzare quel patto non scritto del «ti pago poco ma ti chiedo poco».
Il secondo pilastro era il mega piano di assunzioni di precari, pensato con la lodevole quanto illusoria idea di chiudere per sempre il problema dei supplenti nella scuola, si sta rivelando inattuabile, quanto meno iniquo ( lo dicono i sindacati) e addirittura dannoso (giudizio della Fondazione Agnelli) per il sistema scolastico perché riempirebbe le scuole di insegnanti spesso senza cattedra in quanto abilitati in materie secondarie e non utili. Mentre per materie fondamentali come la matematica gli studenti continuerebbero ad avere supplenti e altri precari. C’è da aspettarsi che nel decreto si trovi una soluzione migliore, magari quella dettata dai tribunali con le ultime sentenze: assumere a tempo indeterminato chi ha lavorato 36 mesi negli ultimi cinque anni.
La scelta fatta a settembre di impiegare tutti i fondi disponibili per le assunzioni — salvo briciole per gli altri capitoli come l’innovazione tecnologica — e di rinviare la formazione degli insegnanti e le loro nuove competenze al prossimo concorso autorizza a pensare che per una riforma vera anche della professione ci sarà ancora da aspettare.
Lo slogan affascinante — «La scuola che cambia l’Italia» — ha trasmesso l’idea che una riforma della scuola serva a far ripartire il Paese: ma qual è l’idea di scuola che guida la nuova legge? Le parole chiave scelte dalla Buona scuola sono: concorso, alternanza scuola-lavoro, laboratori, autonomia, inglese, Internet, programmi contro la dispersione, formazione, scuole aperte. Tutti istituti o programmi già in vigore da tempo (i concorsi dai tempi della Costituzione) o in via di sperimentazione, ma che finora non hanno funzionato per motivi vari, e che i provvedimenti del governo cercheranno di rilanciare. Norme complicate e la burocrazia hanno frenato le innovazioni ma principalmente sono mancati i fondi e questo si ripeterà.
Dei grandi temi della scuola, a partire da quello che dovrebbe essere il curriculum degli studenti — un’ora di musica alle elementari e una di economia e arte nei licei non bastano —non c’è traccia nelle bozze: davvero così come è impostata la scuola italiana è al passo con i tempi? In passato si era parlato di riformare i cicli, di cambiare le medie, di rendere più flessibile l’ultimo biennio delle superiori, di migliorare l’offerta scientifica, solo per citare i principali temi del dibattito. Ci si attenderebbe che le nuove proposte, contrariamente al testo presentato nei mesi scorsi, parlassero di questo.
Altrimenti, come spesso avviene in Italia, se non si troverà un futuro credibile per la scuola pubblica, la riforma la faranno nei fatti gli studenti. Come dimostrano già i dati anticipati ieri sulle scelte per le superiori: i genitori e i ragazzi considerano che oggi sia utile una formazione scientifica e che servano le lingue, tanto è vero che i due licei con più iscrizioni sono lo Scientifico e il Linguistico. Due genitori su 5 — sono dati della ricerca pubblicata ieri dal Corriere — pensano che i propri figli avranno un futuro professionale all’estero: sarà questa scuola all’altezza di prepararli?

il Fatto 18.2.15
Tutti in fila da Mattarella. Ma lui ha la bocca cucita
di Luca De Carolis


PRIMO GIRO DI INCONTRI DELLE OPPOSIZIONI CON IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA BRUNETTA E SEL CHIEDONO ASCOLTO. LUI PRENDE ATTO (ALTRO CHE

Dal Napolitano che interveniva al Mattarella che ascolta. Un padrone di casa di poche parole: tutte sul metodo. In un martedì mattina simil primaverile, Sergio Mattarella inizia i colloqui con i partiti di opposizione al Quirinale, il primo vero passaggio politico della sua presidenza. E marca la differenza con il predecessore. A parlare, principalmente di riforme e Libia, sono soprattutto gli altri: il solitario Brunetta, ricevuto alle 10, e la delegazione di Sel, entrata alle 11. Il presidente ascolta proteste e preoccupazioni, osserva documenti e lettere. E risponde con un pugno di frasi, promettendo attenzione per le opposizioni, rimaste fuori dell’aula alla Camera sulla riforma costituzionale. Di più non dice e non promette Mattarella, che in giornata riceve la telefonata di congratulazioni di Barack Obama (“un lungo colloquio” secondo la nota del Colle).
A BREVE, quasi certamente la prossima settimana, incontrerà l’M5S e Beppe Grillo, che gli hanno chiesto formalmente udienza il 4 febbraio. Il presidente ha risposto lunedì sera, e Grillo ha subito pubblicato sul suo blog la lettera in cui Mattarella “ringrazia per gli auguri” e assicura: “Sarò lieto di riceverla al più presto”. Al Quirinale dovrebbe salire anche la Lega Nord. Probabilmente senza Matteo Salvini, che ieri su Radio Padania ha ostentato disinteresse: “ Cosa devo chiedere a Mattarella? Chiedergli il numero di telefono del parrucchiere? ”. Parole che hanno provocato “stupore” sul Colle, secondo indiscrezioni riportate dall’Agi. Anche perché l’incontro l’hanno chiesto i parlamentari leghisti, pochi giorni fa. La certezza è che il neo presidente vuole incontrare tutte le opposizioni. Ieri ha iniziato con Brunetta. Solo soletto, il berlusconiano varca la soglia del Quirinale alle 10. Di fronte, oltre a Mattarella, si trova il segretario generale uscente Donato Marra e il suo successore Ugo Zampetti (la sua nomina è stata ratificata dal Consiglio dei ministri ieri pomeriggio): silenti. Il capogruppo alla Camera di Fi presenta subito un documento contro le riforme renziane, come concordato con Berlusconi. Un testo in 25 punti, in cui si protesta contro la “grave forzatura” del governo, per poi sostenere: “Il combinato disposto di riforma costituzionale e legge elettorale porta a un mostro giuridico che pregiudica i principi supremi della Costituzione”. Il resto lo aggiunge in viva voce il forzista: “Presidente, Renzi va avanti a colpi di maggioranza. Noi non potevamo che uscire dall’aula”. Mattarella replica auspicando “la ripresa del dialogo”, spiega che vedere le opposizioni fuori dell’aula lo ha “colpito molto”. Il colloquio dura una mezz’ora.
POI È LA VOLTA della delegazione di Sel, con i capigruppo De Petris e Scotto e il presidente Nichi Vendola. Parla soprattutto lui, che conosce Mattarella dai tempi in cui erano entrambi in commissione Antimafia (anni ‘90). Si lamenta subito del Renzi scappato avanti sulla Libia “con dichiarazioni improvvide”. Poi gli consegna la lettera di un artigiano romano sfrattato. Infine, gli chiede dei segnali sulle riforme, “da garante della Costituzione”. Mattarella assicura attenzione, fa capire che eserciterà la sua moral suasion per chiedere al governo maggiore condivisione. Sul contenuto di legge elettorale e riforma della Carta non entra, neppure di sfuggita. Si sofferma sul metodo, sull’importanza del confronto parlamentare. Davanti ai microfoni, sia Brunetta che Vendola manifestano soddisfazione. Secondo il forzista, “Mattarella userà tutti gli strumenti previsti dalla Costituzione per ripristinare un clima di confronto”. E Vendola: “Abbiamo espresso la preoccupazione che l’umiliazione della funzione parlamentare possa diventare insopportabile quando si tratta delle riforme costituzionali”. A margine, le schegge per Brunetta. La sua ascesa al Colle ha irritato una bella fetta di partito, fittiana e non. Come Maurizio Bianconi: “Di uomini soli al comando a Forza Italia ne basta uno solo, Silvio Berlusconi. Vediamo con disappunto che ce n’è un altro, nato Brunetta, che se ne va al Quirinale con un documento che sicuramente non ha confrontato col gruppo che rappresenta”. Mentre i renziani infieriscono: “Siamo passati da Forza Italia a Forza Brunetta”. Dai 5 Stelle invece continuano ad arrivare segnali positivi a Mattarella. “Vogliamo instaurare un dialogo col nuovo Capo dello Stato visto che col vecchio presidente non c’è stato” afferma la capogruppo alla Camera, Fabiana Dadone. Che aggiunge: “Al Quirinale andremo io, il capogruppo in Senato Cioffi e Grillo”. Ma più d’uno parla della possibile presenza di Casa-leggio. Ipotesi da verificare, per il Movimento che non vede l’ora di salire al Colle.

Corriere 18.2.15
L’ultima tegola sui conti Etruria Emerge una perdita di 400 milioni
La perdita, per ora «congelata», emerge dal preconsuntivo 2014
di Mario Gerevini

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La Stampa 18.2.15
Campania, quarto rinvio
De Luca non si ritira e il Pd vola verso primarie-suicidio
di Jacopo Iacoboni


Ci trasciniamo da prima di Natale, e siamo quasi in vista della Pasqua. Per fortuna che oggi è carnevale e possiamo buttarla in burla.
La battuta sulle primarie in Campania - che ieri sono state rinviate per la quarta volta (si terranno, o meglio, si dovrebbero tenere, non più domenica prossima, ma il 1 marzo) - circolava ieri ampiamente nel pd napoletano, non importa neanche più chi l’abbia detta per prima (probabilmente la deputata Luisa Bossa), ma descrive a metà ciò che rischia il partito democratico dopo la figuraccia in Liguria (brogli e silenzio tombale del leader), una burla che però è anche un suicidio collettivo. Nel momento in cui scriviamo (domani chissà) i contendenti principali rimangono tre, in mezzo a faide inestirpabili e esiti imprevedibili: Andrea Cozzolino, potente democratico napoletano, molto insediato in città (e nelle disperate periferie), da sempre capace di mobilitare truppe consistenti, anche al centro di enormi polemiche (non solo per i cinesi e le primarie annullate nel 2011); Vincenzo De Luca, il potentissimo sindaco di Salerno, al momento decaduto per via di una condanna a un anno per abuso d’ufficio (ma pende il suo terzo ricorso); e Gennaro Migliore, che è stata l’unica carta trovata da Renzi per provare a scardinare un minimo gli insediamenti di correnti e sottocorrenti (nel napoletano si arriva anche a sei-otto sottocorrenti dentro il partito). Il problema è che Migliore - che è comunque il primo tentativo che Renzi fa sui territori per rompere un po’ con gli assetti di potere locali - è debole, almeno se De Luca non si ritirerà e deciderà di aiutarlo. La qual cosa, nonostante il pressing di Luca Lotti (che gli ha fatto balenare un posto da sottosegretario, o un cda di una partecipata), non è finora avvenuta. Lotti stavolta sta fallendo, col vecchissimo osso duro De Luca, che insiste nel dire «chiedere a me di ritirarmi è come chiedere a Maradona che sta facendo la finale della Coppa Campioni: te ne vai in panchina?». E anzi, attacca: «Con questo ulteriore rinvio di copriamo di ridicolo». Dice che solo se Renzi convincesse Raffaele Cantone a candidarsi lui si farebbe da parte. Ma Cantone resiste e dunque, per ora, il suicidio collettivo può andare in scena.
Renzi non le vuole, queste primarie. Ma il tempo e le idee per evitarle latitano.

il Fatto 18.2.15
Grillo. Il blog precipita nella classifica dei big


Nove anni fa era tra i primi dieci siti di informazione più consultati, preceduto da Cnn, Bbc e Usa Today. Tre anni dopo, Forbes lo presentava come settima web star del mondo (basandosi sui dati di traffico elaborati dalla società di monitoraggio Alexa). Oggi, il blog di Beppe Grillo ha fatto un enorme balzo indietro. Beppegrillo.it   non attira più e, secondo i dati ottenuti dagli stessi siti di monitoraggio di qualche anno fa, la piattaforma del leader del Movimento 5 Stelle è arrivato al 154esimo posto in Italia e al posto n. 7488 nel mondo. A diffondere per primo queste stime è il settimanale Oggi: è vero che si tratta di proiezioni suscettibili di cambiamento, ma un cambiamento tale da riportare il sito ai fasti dei primi tempi è comunque inverosimile. I numeri sono stati confermati anche da altre società. Secondo Traffic Estimate, il blog è passato da 5 milioni di visite a giugno a 2,2 milioni. E Calcustat.com   gli assegna un ranking di fascia C. Per fare un confronto, la fascia A è attribuita ai siti come quelli del Fatto Quotidiano, di Repubblica e del Corriere della Sera. La B per il sito de La Stampa. Sul fronte social, nella classifica delle pagine Facebook dei politici che ottengono il maggior numero di “Mi piace”, Grillo resta al comando con 1, 776 milioni di apprezzamenti. E tra i primi undici ci sono anche i grillini Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Paola Taverna.

Corriere 18.2.15
Scrittori, attori e politici «Presero soldi in nero dal Grinzane»
Torino, l’appello all’ex patron del premio. Chiamparino e Bresso chiamati in causa Augias: «Io vorace e indecente? Sono sconvolto, si sta vendicando» Placido: «Ha detto solo fesserie»
di Luca Mastrantonio


MILANO «Guardi, è una tale enormità, Madonna... sfiora l’indecenza!». Finisce così la conversazione telefonica con Corrado Augias, iniziata nella tarda mattinata di ieri, quando il giornalista e scrittore aveva appreso, filtrata nei toni, l’accusa di Giuliano Soria. L’ex patron del premio letterario Grinzane Cavour, condannato a 14 anni e sei mesi per peculato e violenza sessuale, all’apertura del processo di appello, ieri, ha indicato Augias nella lista di presunti destinatari di pagamenti in nero per il premio. «La cosa mi ha sorpreso — esordisce Augias —, stiamo parlando di alcune migliaia di euro ricevute per rimborso spese o come premio letterario, di cui ho dato conto all’Agenzia delle entrate. E poi sono passati, quanto? Dieci anni? Per dire: Soria mi chiese di presentare Orhan Pamuk, premiato nel 2002; autore che per altro non conoscevo. Ecco, il valore del Grinzane era la capacità d’intercettare anzitempo grandi autori mondiali».
Come Pamuk, che riceverà il Nobel nel 2006, altri futuri Nobel sono stati premiati con il Grinzane internazionale: Gunther Grass, J. M. Coetzee, Doris Lessing, V. S. Naipaul e Mario Vargas Llosa. In trasferta a New York, il Grinzane premiò anche Philip Roth, del quale, al processo, ieri, Soria ha detto: «Per farlo venire non bastavano 30 mila dollari». Le cronache dell’epoca parlavano di un assegno da 25 mila euro. Ma più delle presunte cifre, colpiscono i giudizi di Soria. L’atteggiamento di Augias, infatti, cambia dopo aver appreso che in aula è stato descritto da Soria come «il più vorace, assillante sui pagamenti in nero. Sfiorava l’indecenza». A questo punto Augias sbotta: «Guardi, non è assolutamente vero, mi sgomento, cado dalle nuvole. Si tratta di un insulto personale. Non so, sembra una vendetta personale. Nella mia lunga vita nessuno mi aveva detto qualcosa del genere, siamo alla calunnia». Quale può essere il motivo di un tale attacco? «Non riesco a seguire nessun ragionamento, sono sconvolto, devo assorbire la cosa».
In serata, Augias scrive una lettera in cui si riserva di «esaminare gli atti processuali per valutare un’azione di risarcimento danni». C’è spazio anche per un ricordo personale, ora amaro: «Anni fa, nella casa di Quai St. Michel a Parigi, alla presenza tra gli altri di sua madre, Soria ebbe parole di così grande apprezzamento e simpatia da spingersi a offrire a mia moglie Daniela Pasti di lavorare per lui».
Chi non ha ricordi, né amarezza, è Giancarlo Giannini, anche lui indicato da Soria: «Chi? Sorìa, Sòria, Sorél non so chi sia. Un premio? Mi coprono di premi! Alla carriera, sperando che io muoia. Comunque se insiste — dice accelerando la voce — lo querelo, così mi prendo i suoi soldi... Neri!».
L’ha presa molto sul serio Michele Placido: «Sporgerò querela. A Sorì, che vuol dire che nel mondo dello spettacolo si paga tutto in nero? Che vuol dire? Che il Piccolo di Milano che ospiterà la mia compagnia mi pagherà in nero? Che fesseria!». Certo, aggiunge, ci sono delle ambiguità: «Per Romanzo criminale ho ricevuto il Premio di Qualità del ministero della cultura: 20 mila euro. Esentasse, uno dice: lo Stato che fa, si tassa sui premi che dà? Sì! La Guardia di Finanza mi ha fatto un controllo e una multa da diecimila euro. Soria forse ha giocato su queste ambiguità per intascare meglio, ma a me non mi frega».

La Stampa 18.2.15
Se il Rosario si recita in azienda
Parte da Torino l’iniziativa di “Impresa Orante”: dire il rosario nei luoghi di lavoro per combattere la crisi e riscoprire il valore educativo della preghiera
di Mauro Pianta

qui

il Fatto 18.2.15
Ultimatum, Perché Atene sta già per capitolare
di Stefano Feltri


Il bluff sta per finire: domani si capirà se la Grecia di Alexis Tsipras preferisce tradire le sue promesse elettorali o uscire dall’euro e dall’Unione europea. Secondo le indiscrezione che Bloomberg rilanciava ieri sera, il governo greco sarebbe orientato a chiedere un’estensione del programma imposto dalla Troika che scade il 28 febbraio. Ci saranno condizioni un po’ diverse, certo, ma alla fine Angela Merkel potrà spiegare agli elettori tedeschi che i greci rimangono sotto la tutela europea e non vengono lasciati liberi di cancellare tutte le riforme dell’austerità di questi anni. Tsipras spiegherà in Grecia che ha vinto perché la Troika non si chiamerà più Troika, anche se i creditori (Unione europea, Fondo monetario, Bce) continueranno a vigilare sui 240 miliardi che hanno prestato alla Grecia in questi anni.
La rottura dei negoziati lunedì sera all’Eurogruppo ha spinto tutti a riflettere sull’ipotesi che davvero Atene possa essere congedata dall’Unione e dall’euro: niente riforme e niente austerità significano niente più finanziamenti a uno Stato che ha le casse vuote. Sempre Bloomberg ha raccontato il clima al vertice dell’Eurogruppo a Bruxelles: il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, avrebbe “perso le staffe” e spiegato al suo omologo greco Yanis Varoufakis che rimanere nell’euro “è una decisione interamente nelle mani della Grecia”. E il premier Tsipras ha ripetuto che “l’austerity è morta” e che non accetta compromessi.
MA LA POLITICA si ferma dove cominciano le esigenze concrete della finanza. Le banche greche stanno affrontando da dicembre, quando sono state convocate le elezioni anticipate, una fuga di capitali verso l’estero, almeno 7,6 miliardi di euro. Fiumi di denaro continuano a lasciare il Paese, come dimostra la decisione della Bce di Mario Draghi di alzare da 60 a 65 miliardi la linea di credito di emergenza Ela in questi giorni di tensione. E, secondo la stampa greca, non sarebbero già più abbastanza. Sul Financial Times di ieri l’economista tedesco Hans-Werner Sinn sottolineava il paradosso di questa situazione: “In definitiva i cittadini degli altri Paesi europei, senza che nessuno li abbia consultati, stanno fornendo credito a proprio rischio e pericolo per consentire ai greci benestanti di spostare i loro capitali al sicuro”. I piccoli risparmiatori o i tanti ateniesi ridotti in povertà dalla austerità non hanno ingenti depositi da spostare all’estero. I ricchi – spesso evasori – invece sì. Hans-Werner Sinn suggerisce quindi che ci dovrebbe essere un blocco ai movimenti di capitale, come a Cipro nel 2013 durante la crisi bancaria che portò all’arrivo della Troika. Una crisi bancaria spingerebbe la Grecia fuori dall’euro ma le misure che servono a evitarla certificherebbero comunque la fine della moneta unica. Per questo Tsipras non ha altra scelta se non cedere.

La Stampa 18.2.15
Che cosa succede ad Atene se l’accordo non si trova?
I soldi bastano solo per un mese: poi il rischio è la bancarotta

E’ uno dei litigi interni più feroci della storia dell’Ue. Messa al tappeto dalla crisi finanziaria esplosa nel 2007, la Grecia s’è trovata con troppo debito e senza i denari per finanziarlo. Europa, Bce e Fmi hanno costruito un programma di salvataggio, 240 miliardi di prestiti condizionati a una serie di riforme strutturali destinate sulla carta a rendere competitiva l’economia ellenica. Il controllo del rispetto degli impegni presi da diversi governi ellenici è stato affidato alla famigerata Troika, il terzetto dei creditori internazionali. Il pagamento di ogni rata è stato vincolato alla realizzazione delle promesse. Dopo essere precipitato, il pil è tornato crescere (+1% nel 2014), ma la disoccupazione resta a livelli insostenibili (26%,6).
Perché la trattativa è urgente?
«Il programma d’aiuti scadeva a fine 2014 ed è stato prorogato sino a fine febbraio. Se non verrà rinnovato, o esteso, la Grecia dovrà andare sul mercato da sola per finanziarie l’immenso passivo pubblico (176,3% del pil a dicembre). I tecnici greci affermano di avere soldi per un mese. Solo in marzo scadono 4,3 miliardi di titoli, mentre poco meno di un miliardo va reso al Fondo. Tsipras può accettare di allungare l’aiuto della Troika. Oppure può far da solo e rivolgersi ai mercati, dove il denaro gli costerebbe oltre il 10%. Sarebbe l’inizio della bancarotta, dunque della possibile sortita dall’eurozona. A meno che non intervenissero prestatori esterni, magari la Cina o la Russia. Difficile».
Cosa offre l’Europa?
«Invitano Atene a chiedere una estensione tecnica di sei mesi del programma esistente come mossa temporanea. In questo modo, si potrebbe guadagnare i giorni necessari per discutere un nuovo accordo. Nel semestre, i greci dovrebbero mantenere buona parte degli impegni precedenti, in termini di riforme e controllo dei conti pubblici. Ogni misura tolta andrebbe compensata con un’altra per non mettere a rischio la stabilità».
Come risponde la Grecia?
«Alexis Tsipras ha vinto le elezioni promettendo uno stop all’austerità e la liberazione dalla Troika per risolvere la “crisi umanitaria” greca. La via d’uscita proposta insieme col ministro dell’Economia, Yanis Varoufakis, consiste nell’archiviazione del vecchio programma e nella definizione di una intesa che chiamano “Contratto a lungo termine”, ancora soldi e riforme, ma con un mix differente. Nel frattempo, chiedono una fase di transizione senza vincoli esterni e senza controlli. Un allungamento del piano dei prestiti con condizioni a piacere».
Perché l’Eurozona non vuole?
«Il motivo istituzionale è la difesa delle regole, non si può permettere che un solo socio faccia saltare gli accordi del club. Le ragioni politiche sono due: i paesi già usciti dal programma (Spagna, Portogallo e Irlanda) non possono accettare che i greci la facciano franca; gli stessi governi, soprattutto gli spagnoli e i popolari, non possono darla vinta a Syriza per non rafforzare gli emuli locali, nel caso Podemos».
Come finirà?
«Lo stesso Varoufakis ricorda che l’Europa è la terra dei compromessi, dunque questa resta la soluzione più probabile. In caso di rottura, marzo può essere ancora un mese di tempi supplementari estremi per trattare. Sennò Tsipras può liberarsi dall’Europa e restare da solo. Oppure può, insieme con i partner, trovare una formula semantica che permetta a tutti di dire “Abbiamo vinto!”, quindi negoziare in fretta un nuovo accordo. L’alternativa è il crac probabile. Che non conviene a nessuno».

il manifesto 18.2.15
Tsipras cerca una via di uscita
di Antonio Sciotto
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il manifesto 18.2.15
Ilan Pappé: «Se si risolve la questione palestinese, il Medio Oriente cambierà faccia»
Intervista allo storico israeliano
«L'Isis pesca adepti tra i marginalizzati dell'Occidente. Non è una questione religiosa, ma socio-economica. E Tel Aviv lo sfrutta per avere supporto dall'Europa»
di Chiara Cruciati

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La Stampa 18.2.15
Tra le musulmane di Danimarca: “Nessuna pietà per chi uccide in nome del Profeta”
La rabbia delle donne: “Qui abbiamo welfare, asili, efficienza: perché colpire chi ci offre rifugio?”
di Francesca Paci

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La Stampa 18.2.15
Il sogno Usa: libero web in libero Stato
La legge sulla sostanziale libertà della rete divide il Congresso. In ballo c’è la possibilità di privilegiare solo i servizi e i contenuti preferiti dagli operatori internet
di Nicola D’Angelo


Di come funzionano le tecnologie poco si parla in Italia, soprattutto a livello politico. Eppure si tratta di temi che non possono essere riservati agli addetti ai lavori, visti i riflessi che hanno sullo sviluppo della nostra società.
Tra essi si colloca certamente il tema della cosiddetta net neutrality, cioè del funzionamento aperto di Internet. È sotto gli occhi di tutti quanto sia diventato importante l’accesso alla rete e alle sue immense possibilità di conoscenza e di comunicazione. Fino ad oggi siamo stati abituati a navigare senza ostacoli. Con una buona capacità di banda ogni parte dell’universo del web può essere raggiunta. Le cose però in futuro potrebbero cambiare se dovesse essere messo in discussione il funzionamento aperto di Internet.
IL TRAFFICO DATI POTREBBE essere trattato in modo discriminatorio, con priorità e maggiore velocità ai servizi e ai contenuti scelti sulla base delle preferenze degli operatori di rete. Uno scenario preoccupante nel quale anche le affascinanti idee di una libera conoscenza e di una democrazia on line andranno a farsi benedire.
Fortunatamente c’è almeno un paese nel quale l’argomento arroventa le discussioni tra i cittadini e le istituzione. Negli Stati Uniti la diffusa popolarità nazionale dei principi di neutralità della rete ha spinto anche il nuovo Congresso repubblicano ad abbracciare, contrariamente a tutte le previsioni, alcuni dei suoi concetti fondamentali. Con un disegno di legge in discussione nelle prossime settimane, i Repubblicani hanno proposto di vietare ai fornitori di banda larga la discriminazione del traffico web.
Tutto bene dunque? Non proprio. Il progetto di legge, che sembra far rispettare i principi fondamentali della neutralità della rete, mina in modo esplicito l’autorità legale della Federal Communication Commission (l’Autorità americana delle comunicazioni).
Nel dettaglio, la proposta vieta la limitazione dei dati, il blocco e le corsie preferenziali su internet. In cambio però i fornitori di banda larga non dovrebbero essere più classificati ai sensi del titolo II del Communications Act (la legge fondamentale sulle telecomunicazioni) e quindi perdere la qualifica di “servizi essenziali per la comunità”. Così la Fcc non avrà più la competenza a regolarli, in barba anche all’idea di Obama di considerare Internet un servizio di pubblica utilità. In realtà i Repubblicani ritengono che la banda larga deve rimanere un “servizio di informazione”, una denominazione che offre meno possibilità di intervento per il regolatore. In sostanza, a chiacchiere i Repubblicani vogliono la neutralità della rete, mentre privano Internet di possibili maggiori tutele. Alcuni commentatori hanno addirittura ipotizzato che la proposta di legge sia il frutto di una scrittura dei lobbisti dell’industria delle telecomunicazioni per far fronte alla montante marea.
Comunque la si voglia vedere la proposta rappresenta un punto di svolta nel dibattito. La popolarità dell’argomento ha posto un problema ai Repubblicani che non possono sottrarsi all’ampio sostegno che nell’elettorato trova il tema della net neutrality. La gente infatti si sta rendendo conto che è venuto il momento di adottare misure significative e giuridicamente sostenibili per proteggere Internet così come lo conosciamo. Il problema è che vietando solo pochi tipi di discriminazione del traffico si finisce per legalizzare ogni altro tipo di discriminazione. Limitando i poteri dell’Fcc infatti si impedirà in futuro all’Autorità di tenere conto del dispiegarsi degli sviluppi del mondo della rete.
Sarà solo la legge che vieta, mentre l’Fcc non potrà creare nuovi obblighi in capo ai grandi operatori di telecomunicazione. Fortunatamente, nessuna forza politica in America si sogna di andare contro la tutela dei consumatori e la correttezza della concorrenza. Quindi la grande discussione congressuale sarà sulle vere motivazioni alla base della proposta dei Repubblicani.
SOLO UN PROGETTO DI LEGGE che costituisce un tentativo cinico di eliminare il potere della Fcc o invece una genuina iniziativa che introduce un vero cambiamento nel modo di pensare la politica di settore di quel partito? Certo, il disegno di legge non si avvicina a quello che gli attivisti di internet e i democratici chiedono. Evitando la classificazione come servizio essenziale della banda larga e lavorando per rendere impotente l’Fcc, il nuovo Congresso repubblicano sembra suggerire che non vuole veramente la neutralità della rete, ma solo agire di facciata.
Sullo sfondo poi, il potere di veto del presidente Obama, che molto si è speso sull’argomento negli ultimi mesi. Ma anche se fosse, non sarà la fine del problema. A quel punto, i leader della Camera e del Senato richiederanno una rielaborazione bipartisan della legge. E sarà difficile per i Democratici resistere, perché il settore delle telecomunicazioni è straordinariamente generoso con i suoi contributi alle campagne elettorali. Secondo il Centro indipendente Responsive Politics, AT & T, Comcast e Verizon sono infatti tra i primi dieci spender aziendali in lobbying.

La Stampa 18.2.15
Turchia: 800mila tweet in poche ore, la rivolta delle donne corre sui social
A pochi giorni dal brutale assassinio di Özgecan Aslan, pugnalata e bruciata dopo un tentativo di stupro, è partito l’hashtag #sendeanlat (“spiegalo anche tu”): dalle star dello show biz alle donne comuni si moltiplicano nella rete le testimonianze di violenze subite
di Marta Ottaviani
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Repubblica 18.2.15
Nel carteggio tra il filosofo e lo storico la genesi di una visione rivoluzionaria della Resistenza
Quando Bobbio scrisse a Pavone “Ma in Italia fu guerra civile?”
di Norberto Bobbio e Claudio Pavone

Torino, 14 aprile 1987
Caro Pavone, grazie dell’estratto del tuo articolo, molto interessante, che avevo già adocchiato (ndr si tratta dell’intervento di Pavone alla Fondazione Micheletti in cui per la prima volta formula in modo organico la sua tesi sulla Resistenza anche come “guerra civile”). Ma c’è differenza tra adocchiare e leggere: gli estratti servono proprio per questo. Il tema da te affrontato è di grande interesse: non avevo ancora chiaro quanto esteso fosse il riconoscimento della guerra di liberazione come guerra civile: da una parte e dall’altra. Avevo sempre avuto l’impressione che fosse più grande la rimozione da parte degli antifascisti.
E invece non è vero, almeno per quel che riguarda i tempi della lotta medesima (ndr Pavone spiega che la censura della nozione di “guerra civile” era più diffusa nel dopoguerra di quanto fosse stata tra gli stessi resistenti).
La rimozione da parte degli antifascisti è avvenuta sostituendo il concetto di «guerra partigiana » a quello di «guerra civile »: la guerra partigiana non è nel linguaggio tecnico o tecnicizzato una guerra civile, perché è una guerra contro lo straniero, se pure interno, o combattuta internamente. Guerra civile poteva essere soltanto quella contro i fascisti, ma una guerra di liberazione nazionale (di libertà dallo straniero) non può essere considerata nel senso rigoroso della parola una guerra civile. E la guerra dei partigiani fu, nella storia scritta dai vincitori, interpretata esclusivamente come una guerra di liberazione nazionale, un’interpretazione in cui si fece prevalere l’aspetto di lotta contro lo straniero su quello di lotta dell’alleato italiano (considerato come un servo e uno strumento del più potente alleato tedesco). È così?
Grazie ancora e cordiali saluti Norberto Bobbio Roma, 12 maggio 1987 Caro Bobbio, ti ringrazio molto per l’attenta lettura che hai fatto della mia relazione sulla «guerra civile». Quella relazione fu come l’estratto anticipato, e concentrato, di un capitolo del lavoro più ampio per concludere il quale avevo chiesto un anno di congedo (ma mi sono fratturato un ginocchio, e più che biblioteche e archivi ho dovuto frequentare ospedali). L’idea di questo lavoro mi venne dopo il seminario che tenni qualche anno fa al vostro Centro Gobetti. Poi si è sviluppato e anche aggrovigliato. Ho in mente un titolo provvisorio: «Saggio storico sulla moralità della Resistenza italiana». Oltre a intitolare alcuni capitoli a temi quali la scelta, il tradimento, la violenza, ne ho previsti tre che dovrebbero costituire proprio un trittico: la guerra patriottica, la guerra civile, la guerra di classe. Ti scrivo questo per comunicarti che i dubbi che tu esprimi nella tua lettera sulla piena liceità dell’uso del concetto di guerra civile per designare la resistenza sono anche i miei, nel senso che non considero quel concetto esaustivo. Penso invece che esso si combini in modo vario, talvolta nelle stesse persone, con il carattere patriottico (guerra di liberazione) e con il carattere «di classe» che ebbe la lotta. Per un «badogliano» il carattere patriottico poteva essere tutto; per un operaio comunista il nemico ideale e riassuntivo sarebbe stato un padrone fascista e servo dei tedeschi (ma non sem- pre i padroni davano questa soddisfazione agli operai...).
Ti ringrazio ancora e ti ricambio tanti cordiali saluti Claudio Pavone Torino, 10 aprile 1991 Caro Pavone, eccoti il discorso sulla Resistenza, inedito, di cui ti ho parlato ieri alla fine del seminario. Ricordavo di aver parlato delle tre guerre, ma non l’avevo mai più riletto, neppure quando scrissi l’articolo sulla «Stampa» che fu intitolato Le tre guerre, e scrivendo il quale probabilmente avevo in mente, pur senza averle rilette, le cose scritte da te, e lo scambio di lettere che vi fu tra noi due qualche anno fa, e di cui però ho un vago ricordo. Confrontando le tre guerre d’ora con le tre guerre del discorso del 1965 ci sono delle differenze, che mi paiono retrospettivamente di un certo interesse: la seconda guerra nel discorso del 1965 non viene mai chiamata «guerra civile»: segno evidente che allora questa espressione non si poteva ancora usare per una sorta di autocensura; la terza guerra non viene chiamata guerra di classe ma eufemisticamente di «emancipazione popolare» o d’«emancipazione sociale». (...) Cambia così anche il giudizio finale sulla terza guerra: completamente fallita nell’articolo di qualche mese fa, non fallita del tutto ma ancora in fase d’attuazione, nel discorso del 1965. Superfluo precisare che tra il 1965 e il 1990 c’è stato l’evento catastrofico della fine dei regimi comunisti. Il che spiega l’inconsapevole aggiustamento. (...) Norberto Bobbio Roma, 14 luglio 1991 Caro Bobbio, (...) mi sembra che nel discorso del 1965, a parte la diversa terminologia usata per designare le tre guerre, vi sia una meno rigida distinzione dei soggetti che combattono le tre guerre. (...). Ti unisco la premessa e il sommario del volume. Il titolo è frutto di lunghe discussioni con Bollati. La guerra civile ha finito col fare aggio sulle altre due. (...) Claudio Pavone

La Stampa 18.2.15
La nuova Italia nata dalla guerra civile
La triplice vittoria della Resistenza in un inedito del ’65 Che, nella parte finale, evoca il tabù poi infranto da Pavone
di Norbero Bobbio


Dobbiamo giudicare i risultati di un’azione dagli scopi che questa azione si era proposta. Poiché gli scopi del movimento di liberazione erano molteplici, dobbiamo giudicare i risultati della Resistenza tenendo conto di questi diversi piani su cui si dispose l’azione di coloro che vi parteciparono, cioè, ripeto, come guerra patriottica, come guerra per la libertà politica e come lotta per il rinnovamento sociale. Nel suo primo aspetto, la Resistenza mirò a liberare l’Italia dal dominio straniero, e fu un anello della lotta impegnata dagli eserciti alleati per la sconfitta della Germania e il crollo definitivo del nazismo. Sotto questo aspetto, il principale scopo della Resistenza fu quello di staccare le sorti dell’Italia da quelle della Germania e di evitare le tragiche conseguenze di una sconfitta che sarebbe stata, come infatti fu per la Germania, terribile. [...] 
Conseguenze decisive
Come guerra antifascista, cioè nel suo secondo aspetto, le conseguenze della lotta di liberazione sono state ancor più decisive e risolutive. Il fascismo è stato debellato, e gli Stati fascisti, che negli anni intorno al ’40 dominavano quasi tutta l’Europa, sono scomparsi (sopravvivono nella Penisola Iberica, che si sottrasse al conflitto mondiale). Non diciamo che sia stato merito soltanto della guerra di liberazione: la Resistenza italiana ebbe il merito di inserirsi nella direzione giusta della lotta al momento giusto. Questo risultato è, per quel che riguarda l’Italia, definitivo: la storia non torna indietro, nonostante la sopravvivenza di gruppi fascisti politicamente attivi ancor oggi in alcune città italiane, soprattutto nella capitale. Che vi siano gruppi politici che si ricollegano sentimentalmente e passionalmente a un regime che ha dominato per vent’anni, non deve sorprendere. Ci sarebbe da restar sorpresi se non ce ne fossero più. Che esistano non vuol dire che abbiano un peso politico. Ci furono per tanti anni in Italia, dopo l’Unità, nostalgici del Regno borbonico o dello Stato pontificio: poi furono sommersi dalle ondate della storia che spazzano via i relitti dei naufragi. Il problema più interessante che nasce sul terreno storico è quello che riguarda il terzo aspetto della Resistenza, la Resistenza come moto tendente alla trasformazione radicale della società italiana (e dei rapporti di forza tra le classi). Qui i giudizi sono disparati. Coloro che avevano riposto speranze rivoluzionarie nella guerra di liberazione sostengono che la Resistenza è fallita, e i morti sono morti invano. Al lato opposto, ci sono coloro che, trascinati volenti o nolenti dalla retorica celebrativa, si lasciano andare a panegirici senza limiti, quasi che attraverso la Resistenza sia sorta una nuova Italia. La verità, come sempre, sta nel mezzo: la Resistenza è stata una riscossa, non una rivoluzione; un risveglio da un cattivo sonno popolato da incubi, non una completa metamorfosi. Ha creato una macchina in gran parte nuova; ma il funzionamento di una macchina dipende dall’abilità e dalla audacia dei manovratori. 
La Costituzione
Usciamo dalle metafore: sul piano delle strutture politiche e sociali, il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione. La Costituzione è stato il risultato di un compromesso democraticamente raggiunto tra le nuove forze politiche, nate o rinate dopo lo sfacelo del fascismo, di due grandi forze, soprattutto, quella del movimento operaio (diviso tra il Partito comunista e il Partito socialista che ebbero alle prime elezioni del ’46, congiuntamente, circa il 40% dei voti) e quella del movimento cattolico (il cui partito, il partito della Democrazia cristiana, ebbe, nelle stesse elezioni, da solo, il 35%dei voti). Fu un grande risultato perché portò la democrazia italiana molto più innanzi di quella che era stata prima del fascismo: repubblica invece di monarchia; anche la seconda Camera democraticamente eletta e non più nominata dall’alto; il suffragio esteso alle donne; il riconoscimento dei partiti, senza i quali nessuno Stato democratico è in grado di funzionare; l’affermazione dei più ampi diritti sociali accanto alla riaffermazione dei tradizionali diritti di libertà (ammessi nella loro accezione più ampia); l’istituzione di una Corte costituzionale chiamata a garantire anche contro il Parlamento i diritti dei cittadini dichiarati nella Costituzione. Dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana del 1948 il passo è stato lungo: non è stato un rovesciamento radicale, perché la nostra Costituzione resta pur sempre nel solco delle Costituzioni ispirate ai principi della democrazia parlamentare, ma non è stata neppure una restaurazione dell’antico, come pur da molte parti si chiedeva. 
Un punto di partenza
La nuova Costituzione ha rappresentato un avanzamento decisivo pur nel rispetto della tradizione, in una parola rinnovamento nella continuità. Dalla Costituzione è cominciata una nuova storia civile d’Italia. Anche per questo terzo aspetto, dunque, il significato storico della Resistenza è stato importante. Come movimento patriottico, come movimento antifascista, come rivoluzione democratica, dobbiamo riconoscere che la Resistenza ha vinto. Questa è storia, la nostra storia, piaccia o non piaccia. Chi rifiuta la Resistenza, rifiuta questa storia: si mette fuori dell’Italia vivente, invoca un’Italia di fantasmi o peggio di spettri. 
La Costituzione non è solo un punto di arrivo; è anche un punto di partenza. Dalla Costituzione in poi, poste le basi del nuovo Stato, la nostra storia non appartiene più se non indirettamente alla Resistenza: è la storia della nuova democrazia italiana, di cui la Resistenza ha posto le basi, e tracciato a grandi linee il cammino. Il merito della Resistenza è stato di gettare le basi di una nuova piattaforma su cui si sarebbe dovuto erigere l’edificio della nuova democrazia italiana. Nonostante le crisi di sviluppo la piattaforma è solida; ha dimostrato di saper resistere all’usura del tempo e al logorio delle forze avverse. È avvenuto della Resistenza quel che avvenne del Risorgimento all’indomani dell’Unità: si disse anche allora che il Risorgimento era fallito perché l’Italia non era quella che i suoi padri avevano sognato: eppure il Risorgimento aveva raggiunto il suo scopo che era l’Unità, e l’Unità era una piattaforma su cui si sarebbe sviluppata la futura storia d’Italia. Il Risorgimento, come la Resistenza, che è stata spesso chiamata il secondo Risorgimento, aveva posto le premesse per la nuova storia: l’Unità d’allora, come la riconquistata unità della nuova Costituzione, non era soltanto un punto d’arrivo; sarebbe stata anche un punto di partenza per una nuova storia che non era più, allora, quella del Risorgimento, così come non è più, ora, negli anni trascorsi dalla Costituzione, quella della Resistenza. A mio parere - ma qui esprimo un’opinione personale - il modo più giusto di considerare il significato storico della guerra di liberazione è quello di vederla come una mediazione tra l’Italia prefascista e l’Italia di oggi e di domani, l’anello di congiunzione che permette di stabilire una continuità tra la storia passata e quella futura oltre la rottura operata dal fascismo: una saldatura, là dove la catena era stata interrotta. Il Risorgimento finì e si esaurì con la Prima guerra mondiale che ricongiunse all’Italia Trento e Trieste. Alla fine della Prima guerra mondiale, le prime elezioni politiche del 1919 furono dominate dai due partiti che rappresentavano le forze sociali, rimaste al di fuori del processo di formazione dello Stato unitario italiano: i socialisti e i cattolici. Uniti, avrebbero avuto la maggioranza in Parlamento; divisi, lasciarono aperta la strada a combinazioni anacronistiche, ad alleanze labili, a giochi parlamentari effimeri che spianarono la strada al fascismo. 
La storia ricomincia
Tra coloro che volevano un ordine nuovo, e coloro che volevano ripristinare l’ordine antico, vinsero coloro che volevano puramente e semplicemente l’ordine (e finirono per gettare il Paese nel disordine di una sconfitta e di una guerra civile). La Resistenza ha permesso all’Italia di riprendere la propria storia là dove era stata bruscamente interrotta: ha rimesso la storia d’Italia nella storia del mondo, ci ha fatto di nuovo procedere all’unisono col ritmo con cui procede la storia delle nazioni civili. Rispetto al fascismo è stata una svolta, rispetto all’Italia prefascista, un ricominciamento su un piano più alto: insieme frattura e rinnovamento. 
© 2015 Bollati Boringhieri

La Stampa 18.2.15
Il filosofo e lo storico, il coraggio
di chiamare le cose col loro nome
di Maurizio Assalto


In cauda venenum, si dice, ma invece qui, nella coda, c’è il coraggio intellettuale di infrangere un tabù. Confinata in una parentesi, verso la fine del discorso che Norberto Bobbio tenne a Vercelli nel ventennale della Liberazione, c’è l’espressione rivelatrice: là dove, a proposito di Mussolini e dei suoi, osserva che «finirono per gettare il Paese nel disordine di una sconfitta e di una guerra civile».
«Guerra civile», a proposito del conflitto (anche) fratricida che si insanguinò l’Italia tra il ’43 e il ’45, era a metà degli Anni Sessanta, come già negli Anni Cinquanta e ancora in tutti i Settanta, una locuzione proibita, almeno a sinistra. Non che fosse ignota, anzi era stata correntemente usata dagli azionisti: Franco Venturi la considerava l’unica guerra che, per il suo valore etico, meritasse di essere combattuta; Dante Livio Bianco, nella sua corrispondenza con Giorgio Agosti, ne parlava come di una guerra della civiltà e per la civiltà. I comunisti invece preferivano parlare genericamente di guerra patriottica. Ma l’interdetto scattò quando l’espressione cominciò a essere agitata a fini polemici dai neofascisti. E quando negli Anni Ottanta Claudio Pavone prese a rimetterla in circolo, su basi storiograficamente argomentate - in un seminario su «Etica e politica» al Centro Gobetti di Torino, nell’aprile 1980; in un convegno a Brescia nell’ottobre ’85 - subito si levarono le voci di dissenso dell’Anpi e di vecchi combattenti come Giancarlo Pajetta.
Il fatto è che «questa espressione non si poteva ancora usare per una sorta di autocensura», come avrebbe riconosciuto Bobbio in una lettera del 10 aprile ’91 a Claudio Pavone, che in quei mesi stava ultimando il suo epocale lavoro intitolato proprio Una guerra civile (con il significativo sottotitolo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza). Nella risposta, datata 14 luglio, lo storico osservò tra l’altro che le tre guerre (patriottica, antifascista e di classe) «spesso convivono, non senza contraddizioni, negli stessi soggetti individuali e collettivi. Si potrebbe anche dire che le tre guerre sono disposte una dentro l’altra: la scatola più grande è la guerra patriottica, la media è quella civile antifascista, la terza quella di classe».
Nelle lettere che Bobbio e Pavone si scambiarono tra il 1983 e il 2001 - ultima parte del volume Sulla guerra civile, in uscita da Bollati Boringhieri, che raccoglie scritti vari, in larga parte inediti, dei due studiosi - si può seguire il cammino sofferto, non privo di dubbi e ripensamenti da parte di entrambi, di una nozione storiografica oggi acquisita. Ma che per riemergere aveva bisogno di personalità capaci di superare le sterili ottiche degli schieramenti.

La Stampa 18.2.15
Una lettera conferma che Hemingway voleva donare la casa a Cuba
Lo svela un biglietto della moglie Mary. Si pensava che la Finca Vigía fosse stata espropriata
di Mario Baudino


Fu una donazione, un esproprio o semplicemente il far buon viso a cattiva sorte? La vicenda della casa cubana di Hemingway, la Finca Vigía dove visse fra il 1939 e il ‘61 scrivendo Per chi suona la campana e Il vecchio e il mare oltre a una gran quantità di testi pubblicati postumi, dedicandosi a battute di pesca e circondandosi negli ultimi anni di gatti, sembra giunta a un punto finale. O quasi.
E’ andata all’asta in America una lettera finora sconosciuta della sua quarta moglie, Mary, che a un mese dal suicidio dello scrittore dichiara la sua intenzione di lasciarla al «popolo cubano», in base ai desideri del marito. Non è una lettera vera e propria, semmai un appunto, scritto in inglese, e destinato a un comune amico cubano, Roberto Herrera, che evidentemente doveva tradurlo e consegnarlo a chi di dovere. Non venne mai spedita, perché fu data a Herrera solo a cose fatte, quasi per una sistemazione «a posteriori» della intricata faccenda.
Al popolo
Mary Hemingway in questo appunto è molto chiara: «Sarebbe stato felice che le sue proprietà cubane passassero al popolo», dice del marito da poco scomparso, per «diventare un centro di cultura e di ricerca, anche in sua memoria». E dunque «con questo documento, in quanto unica erede, consegno la proprietà al popolo di Cuba, sperando che ne approfitti per imparare e trarne piacere, almeno quanto ne abbiamo avuto Ernst ed io». Le vicende successive, fra restauri infiniti e polemiche internazionali sulla conservazione della Finca (costruita dall’architetto catalano Miguel Pascual y Baguer nel 1887, affittata nel 1930 da Martha Gelhorn, terza moglie di Hemingway, e acquistata l’anno seguente) non hanno forse realizzato del tutto questo augurio.
Il tassello storico è però importante. Per decenni si è infatti discusso se la Finca fu spontaneamente donata al governo cubano o se molto semplicemente la vedova fu costretta a cedere la proprietà, in un momento storico in cui, fallito lo sbarco anticastrista alla «Baia dei porci» sostenuto dagli Usa, il regime rivoluzionario, sotto embargo economico, sequestrò tutte le proprietà nordamericane. Hemingway, che si uccise pochi mesi dopo, il 2 luglio 1961, nell’Idaho, di Castro era amico, o comunque figurava come tale nell’iconografia ufficiale. Un gesto di imperio nei confronti della sua eredità non sembrava politicamente consigliabile. Ci furono, secondo i biografi, trattative più o meno segrete, che coinvolsero anche l’amministrazione Kennedy.
Nel giro di pochi mesi la villa passò ai cubani, come era nell’ordine delle cose, per diventare un centro culturale; però Mary e la nuora Valery (ex segretaria dello scrittore, che ne sposò il figlio, conosciuto al funerale) riuscirono a salvare il salvabile. Non certo la barca Pilar - che continua a far bella mostra di sé alla Finca - e nemmeno la macchina da scrivere: ma qualcosa di molto più importante, e cioè i manoscritti ancora inediti, sigillati e depositati al Banco National, oltre a oggetti di famiglia come i quadri, tra cui un Klee e un Gris.
Fidel Castro
Fu una trattativa complessa, anche se felpata. Fidel Castro, proprio in quei giorni, aveva cerimoniosamente invitato Mary a trasferirsi a Cuba. Lei si limitò a chiedere e ottenere un visto. Nelle memorie (pubblicate nel ‘76 col titolo, How It Was), la vedova Hemingway parla ovviamente della controversa faccenda senza però citare l’appunto per l’amico cubano. Definisce il passaggio di proprietà una «acquisizione» o una «appropriazione» e menziona una telefonata con Cuba in cui diceva di non essere sicura di voler donare la Finca, ma chiedeva di poter venire sull’isola a recuperare le carte personali. Quasi a suggerire uno scambio.
La barca con cui Mary trasportò quadri e manoscritti dall’Avana a Tampa fu l’ultima a fare un viaggio regolare fra le due sponde. Dopo più di mezzo secolo si dischiudono nuove prospettive. Dall’anno scorso la «JFK Presidential Library» di Boston ha reso disponibile le scansioni digitali di 2.500 documenti e materiali che si trovavano a Finca Vigía . E la lettera a Herrero, proposta con una valutazione tra i due e i tremila dollari, ne ha realizzati solo mille.

Corriere 18.2.15
Treccani, l’antenna della cultura che trasmette e riceve da 90 anni
di Alberto Melloni


La data del 18 febbraio 1925, che vede nascere a Roma l’Istituto della Enciclopedia Italiana, ha un carattere che segnerà tutta la vicenda di questa grande antenna della cultura e della politica culturale nazionale. In quel febbraio, che già portava i semi dei due manifesti degli intellettuali fascisti e degli intellettuali antifascisti, si iniziava una storia e se ne finiva un’altra.
La storia che si concludeva era il disegno con cui alcuni audaci editori fin dal 1907 avevano immaginato una enciclopedia che colorasse con la tempera del sapere la parete dell’orgoglio nazionale, senza sapere ancora quanto resistente sarebbe stata la tempera, quanto ruvida la superficie. L’idea sarà ripresa dopo la Grande guerra da Ferdinando Martini, già ministro di Salandra, e da Mario Menghini, editore di Mazzini. Pensano a Vito Volterra — matematico, primo presidente del Cnr nel 1923 — come direttore scientifico e a Bonaldo Stringher, direttore generale della Banca d’Italia e ministro di Vittorio Emanuele Orlando, come amministratore.
Manca il quid che arriva con l’editore Angelo Fortunato Formiggini: egli capisce che non sarà l’asse politici-dotti a far l’enciclopedia e crea il primo contenitore. Nel 1921 fonda l’Istituto per la propaganda del libro, poi diventato Fondazione Leonardo. S’appella agli editori e chiama gli intellettuali a fare un’opera basata sulla pluralità delle voci e l’italianità del carattere. È allora che Benedetto Croce raccomanda a Formiggini di fare una enciclopedia con «un pensiero suo». Tesi a suo modo simile a quella di Gentile che, mentre è ministro, organizza la sua «marcia sulla Leonardo» — come la chiamerà Formiggini nell’amaro pamphlet scritto molti anni prima di suicidarsi per protesta contro le leggi razziali: ma la macchina che il filosofo si fa consegnare non ha ruote finanziarie.
Le porterà in dote il 18 febbraio l’imprenditore Giovanni Treccani. L’uomo che aveva comperato a peso d’oro la Bibbia di Borso d’Este, per riportarla in Italia, fa nascere con propri capitali un nuovo Istituto: sia per fare quella che ancora oggi su eBay si chiama «la Grande» enciclopedia, sia per produrre un Dizionario onomastico degli italiani «illustri». La direzione scientifica affidata a Gentile, quella manageriale a Tuminelli, questa fabbrica del sapere ha efficienze incredibili. I volumi della enciclopedia escono a tempo di record. E se il fascismo si vanterà di questo vitalismo produttivo, non potrà incidere su voci e collaboratori — antifascisti, modernisti, ebrei emancipati — antipodici alla cultura di regime.
Una efficienza costosa che modifica più volte l’assetto editoriale: finché nel 1932 si rileva che «cento impiegati dove basterebbero sei, stipendi inauditi da direttore agli uscieri, donne voraci, locali principeschi, enormi sperperi nella stampa hanno stancato alla fine il Treccani, mentre arricchivano molte persone». Si aprono le porte ai capitali pubblici che non riescono a condizionare l’impianto dell’enciclopedia, conclusa nel 1937, sotto la presidenza del camerata Luigi Federzoni.
Il passaggio ad «ente» non garantisce le opere «fasciste» che qualcuno pianifica, mentre tutela la durata della Treccani. La guerra travolge infatti tutto e tutti, incluso Giovanni Gentile. Ma nella Roma liberata l’istituto riparte: nomi noti come Gaetano De Sanctis e Luigi Einaudi, nomi meno visibili come Alberto Pincherle, Mario Niccoli o Fortunato Pintor; i giovani come Tullio Gregory, che curano le Appendici, le nuove opere come il Dizionario Enciclopedico Italiano e il Lessico Universale Italiano, l’avvio del Dizionario Biografico degli Italiani. E da lì la costruzione di una lunga fase repubblicana, che vede nascere le nuove enciclopedie tematiche e passare da piazza Paganica altre tre generazioni di dotti. Con una dirigenza che da Aldo Ferrabino e Vincenzo Cappelletti arriva fino alla presidenza di Rita Levi Montalcini. E da lì fino ai presidenti scelti da Giorgio Napolitano (il capo dello Stato è l’erede del diritto regio di nomina del presidente di quella che è una società per azioni): cioè Giuliano Amato, che dal 2009 al 2013 ha messo a disposizione della cultura la sua autorevolezza; e poi dal gennaio 2014 Franco Gallo, già ministro di Ciampi ed ex presidente della Corte costituzionale.
A Gallo tocca così il compito di festeggiare il novantesimo di un inizio, di una storia e di un mito. Un mito che, per merito di Franco Tatò, si è digitalizzato ed è accessibile a tutti in un portale gratuito. E costituisce ancora la riprova di quel «grigiore filologico» che minimizza l’enfasi persino nel discorso dello specialista. Un mito che deve trovare il suo posto in una cultura nella quale l’intuizione originaria di far da antenna a zone diverse della cultura ha ancora senso. Una antenna che trasmette e riceve, nobilita e seleziona. La Treccani è saper fare questo, da novant’anni.

Corriere 18.2.15
Una donna con troppi misteri Intrighi di guerra a Berlino
Il regista tedesco Petzold affronta il passato nazista con un dramma noir
di Paolo Mereghetti


Ci sono dei film che finiscono per essere più interessanti per le suggestioni che lasciano nello spettatore che per la storia che raccontano, perché capaci di offrire spunti di riflessione che vanno al di là della loro semplice invenzione narrativa. Proprio come è il caso di Il segreto del suo volto del tedesco Christian Petzold (in originale Phoenix ), capace di far venire in superficie una serie di temi che ruotano intorno alla «cattiva» memoria dei suoi connazionali.
Ambientato nella Germania giusto alla fine della Seconda guerra mondiale, il film inizia con il ritorno alla libertà di Nelly (Nina Hoss), una cantante ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento da cui è uscita con il volto gravemente sfigurato. L’amica Lene (Nina Kunzendorf), membro di un’associazione sionista che vorrebbe convincerla a emigrare con lei in Israele, l’accompagna da un chirurgo per restituirle un viso nuovo. Ma con grande sorpresa di tutti, Nelly vuole riavere la sua faccia: sa che sarà impossibile tornare proprio com’era ma anche qualcosa di approssimativo le sembra meglio di una nuova «identità». Per lei, il campo di concentramento è stato una specie di parentesi da dimenticare: spera di ritrovare il marito pianista, con cui faceva coppia sulla scena, e con lui riprendere la carriera ma soprattutto ritrovare l’amore che li legava.
Lene la mette in guardia: non è detto che non sia stato proprio il marito a denunciare il suo nascondiglio alla Gestapo e quindi essere all’origine della sua prigionia, ma lei non vuole sentire ragioni e si mette a cercarlo in una Berlino che cerca di sopravvivere tra le macerie. E lo trova anche il suo amato Johnny (Ronald Zehrfeld), uomo di fatica in un locale per soldati americani dal promettente nome di Phoenix, la fenice che rinasce dalle sue ceneri, ma lui non sembra riconoscerla. O meglio, intravede una qualche identità con la moglie scomparsa e allora le propone di collaborare a un piano che ha preso forma nella sua mente dopo aver notato la rassomiglianza con la Nelly di ieri: le chiede di fingersi la scomparsa per entrare così in possesso della cospicua eredità della «defunta».
A questo punto Nelly diventa una specie di donna che visse due volte: lui la crede un’altra ma vuole che assomigli a chi è veramente. Ed è qui che la sceneggiatura (del regista e di Harun Farocki, ispirata al romanzo di Hubert Monteilhet Le retour des centres ) comincia a perdere coerenza e credibilità. Troppi salti logici, troppi punti oscuri che non vengono chiariti, a cominciare dal ruolo di Lene, troppo remissiva di fronte alla decisione di Nelly, per continuare con la protervia di Johnny che sembra far di tutto per non accorgersi che la Nelly di oggi e quella di ieri sono la stessa persona.
Eppure è proprio questa specie di «negazionismo» logico a fare l’interesse del film, perché dà una forma cinematografica a quella voglia di dimenticare che la Germania ha coltivato per tanto tempo. Lei non vuole credere che proprio il suo amato marito l’abbia tradita e denunciata, nonostante le prove contrarie si accumulino.
Lui cerca in tutti i modi di cancellare gli anni della guerra e di come si era comportato in quel frangente per tornare indietro a un periodo senza colpe. E curiosamente entrambi sembrano voler nascondere a loro stessi non tanto l’adesione collettiva al nazismo ma proprio gli anni in cui quel nazismo aveva scatenato gli istinti più bassi e bestiali. Come se si potesse far distinzione tra la causa e gli effetti.
Forse solo Kluge aveva affrontato con altrettanta chiarezza (ma con più stringente analisi) questa svoglia di smemoratezza nazionale, che trasforma un giallo con qualche illogicità in un piccolo trattato di sociologia collettiva. Lo fa chiaramente nella scena in cui Johnny mette in scena il falso ritorno della moglie dalla prigionia. Alle domande di lei, preoccupata che gli amici possano fare troppe domande imbarazzanti, lui risponde che nessuno noterà o chiederà niente, perché sarà tale la contentezza per un lutto in meno (Nelly è tornata sana e salva) che tutti si comporteranno come se nulla fosse accaduto.
Naturalmente alla fine non tutto andrà come previsto, ma ci vorrà la forza della disillusione per poter finalmente aprire gli occhi e guardare davvero quello che in tedeschi hanno fatto alla Germania.

Corriere 18.2.15
La conferma Il Maggio fiorentino costretto a cancellare il suo corpo di ballo

Dopo le indiscrezioni, la conferma: il Maggio musicale fiorentino ha detto addio al suo corpo di ballo. Il sovrintendente Francesco Bianchi ha spiegato che «i mezzi economici non consentono di sviluppare la danza così come un teatro come il nostro merita» aggiungendo: «Abbiamo già incontrato i sindacati. Ci sono in questo momento 17 tersicorei: 5 sono prossimi alla pensione e il piano triennale prevede mezzi per prepensionarli. Ne restano 12: con 12 non si fa un corpo di ballo. I mezzi per arrivare a questo sono molto rilevanti». Bianchi ha parlato di «una scelta dolorosa: avevo un letto di 2 metri ma una coperta di 1,5, ho deciso cosa lasciare scoperto. Se non avessi fatto così avrei portato la fondazione in una situazione identica a quella in cui si trovava al momento del commissariamento». L’ipotesi della cancellazione del corpo di ballo era stata paventata dai sindacati, dopo che era fallita l’esternalizzazione di MaggioDanza.