Repubblica 17.2.15
Le responsabilità della filosofia
risponde Corrado Augias
Caro
Augias, si vorrebbe che i grandi filosofi fossero anche uomini di
grande livello, non sempre è così, dell’adesione al nazismo di Heidegger
si sapeva, e tuttavia, passando per la fenomenologia di Husserl a cui
Essere e tempo è dedicato, e agli sviluppi successivi
dell’Esistenzialismo di cui Heidegger è un fabbricatore, non si può non
prendere ciò che di nuovo e di spessore ci sia nella sua filosofia.
Anche Furtwangler è stato nazista, ma resta un grande direttore
d’orchestra. Forse bisogna separare, in alcuni (o molti?) casi, l’uomo
dall’opera, Andrea Emo, grande metafisico, poco conosciuto è stato
fascista, e tuttavia leggere (grazie a Cacciari) i suoi quaderni di
metafisica, è necessario, per chi ami la filosofia, che se non aiuta a
vivere a volte è sicuramente una consolazione (vedi Boezio). Gli uomini
sono complessi, figuriamoci i filosofi, questo certo non giustifica
certe scelte ma dobbiamo essere giusti, qualcuno lo ha detto che
Heidegger è stato un grande filosofo e un piccolissimo uomo, quindi
lasciamo perdere l’uomo…
Gianfranco Coci
Il signor Coci si
riferisce alla recente scoperta di un quaderno nero del filosofo
Heidegger da cui si ricava che egli era al corrente delle atrocità
commesse nei campi di sterminio ma non per questo cambiò idea. La
domanda se bisogna ancora una volta separare l’uomo dalla sua opera è
più che legittima. Ho chiesto un parere alla studiosa Donatella Di
Cesare, autrice del recente saggio Heidegger e gli ebrei (Bollati
Boringhieri). Mi ha cortesemente inviato la risposta che trascrivo: “Il
pensiero più elevato si è prestato all’orrore più abissale?
L’antisemitismo metafisico, emerso nei Quaderni neri, muta profondamente
la visione che abbiamo di Heidegger. E ora viene meno anche il suo
silenzio sullo sterminio. Sarebbe comodo continuare a leggerlo, facendo
finta di nulla, oppure gettare alle ortiche la sua opera. Il nazismo non
è stato una ‘follia’, ma un progetto di rimodellamento biopolitico del
pianeta. Gli ebrei non avrebbero più dovuto avere posto nel mondo.
Heidegger non è isolato; proviene da una lunga tradizione di odio verso
il popolo ebraico. Se Kant auspica una ‘eutanasia dell’ebraismo’, se
Hegel esclude gli ebrei dalla storia della salvezza, non ci deve
sorprendere che Heidegger definisca la Shoah l’autoannientamento degli
ebrei. Certo, ben diverse sono le responsabilità che si assume così
negli anni Trenta e Quaranta. Prendere alla lettera le metafore dei
filosofi è stato il lavoro dei boia. Ma l’accusa metafisica di tanti
filosofi che hanno condannato gli ebrei al non-essere, al nulla, ha
avuto esiti devastanti. Credo che sia venuto il momento — con Heidegger e
oltre Heidegger — di interrogarsi sulle responsabilità della filosofia
verso lo sterminio”.
il Fatto 17.2.15
In Vaticano, barba e capelli ai clochard sotto il colonnato
L’HANNO
CHIAMATA “barberia del Papa”: è il gruppo di parrucchieri che ieri,
sotto il Colonnato di piazza San Pietro, ha accolto i clochard della
Capitale per tagliare loro i capelli. Il servizio è disponibile negli
stessi locali adibiti a bagni per iniziativa dell’Elemosineria
apostolica, il braccio operativo della carità del Pontefice. Dopo
l’attivazione delle docce (aperte tutti i giorni tranne il mercoledì
durante l’udienza generale) il barbiere voluto da papa Francesco sarà a
disposizione tutti i lunedì dalle 9 alle 15. E ieri, nel giorno
dell’inaugurazione, decine di senzatetto hanno usufruito del servizio.
"Qualcuno - racconta Andrea, 33 anni, ristoratore e volontario Unitalsi -
sedendosi sulla sedia da barbiere ha voluto raccontarci di sé, come un
ragazzo italiano che ci ha detto di essere stato cacciato di casa dai
genitori. Tutti comunque, ringraziandoci ci hanno detto che qui si sono
sentiti a casa”. E alcuni, hanno spiegato i parrucchieri, hanno chiesto
tagli alla moda, con il ciuffo o come George Clooney.
Corriere 17.2.15
I clochard dai barbieri del Papa: «Lui non si dimentica di noi»
di Paolo Conti
In fila sotto il colonnato di San Pietro. I volontari: chiedono tagli alla moda e barbe alla George Clooney
ROMA
I romani che girano spesso nell’area intorno a San Pietro, li conoscono
bene di vista. Hanno i volti scavati, sdentati, sporchi, stanchi di chi
si ritrova ai margini della società, non ha più una casa né affetti.
Sono i senza casa, i clochard, i barboni che dir si voglia. Uomini e
donne che sopravvivono, dormono all’aperto o magari al riparo di
portoni, tra coperte e cartoni, o magari nel centralissimo Oratorio
dell’Angelo Custode in piazza Poli o, in periferia, nella parrocchia di
San Frumenzio ai Prati Fiscali.
Da ieri questi Ultimi tra gli Ultimi
hanno un nuovo servizio completamente gratuito: le docce e la barberia
alla destra del colonnato di San Pietro. Un’idea di Papa Francesco
realizzata dal suo elemosiniere, l’arcivescovo polacco Kondrad
Krajewski. Locali puliti, shampoo e saponi regalati da un privato,
spogliatoi, una classica sedia da barbiere. Un kit con asciugamano,
spazzolino e dentifricio a disposizione di ogni ospite. Taglio gratuito
dei capelli da barbieri e parrucchiere delle scuole professionali o di
professionisti di riposo, tutti coordinati dall’Unitalsi, i volontari
che di solito portano i malati a Lourdes e in altri santuari. Tra loro
il parrucchiere e maratoneta per la pace di Trento, Marco Patton.
Divieto a stampa e tv di fotografare gli interni, di riprendere chi si
avvicinava agli ingressi, nel nome della riservatezza e del rispetto
della persona.
Ieri, primo giorno di apertura tra le 9 e le 15, circa
trenta tra uomini e donne sono entrati malmessi e usciti ben puliti. Lo
aveva detto giorni fa padre Krajewski: «Se non hai un aspetto
dignitoso, accettabile, qualsiasi cosa è più difficile». Come ha
raccontato Arianna, parrucchiera romana volontaria, «c’è chi ha chiesto
tagli alla moda col ciuffo, barbe alla George Clooney». Pavel, un uomo
rumeno di età indefinibile, parla volentieri con i giornalisti appena
fuori piazza San Pietro: «Il Papa ci vuole bene, se sei sporco e puzzi è
impossibile riprendere una vita o trovare un lavoro». I volontari hanno
raccolto frammenti di esistenze disperate, di abbandoni e di
solitudini, di marginalità e malattie. Anche la storia di un ragazzo
italiano che ha sostenuto di essere stato cacciato di casa. E chissà mai
potrà capire o stabilire dove finisca la fantasia e cominci la realtà.
Come
racconta a New York il barbiere di lusso Mark Bustos, che la domenica
regala tagli gratuiti ai senza casa, qualche clochard il giorno dopo è
andato a ringraziarlo raccontando di aver subito ritrovato un posto di
lavoro. Piccoli miracoli laici che possono trasformare l’universo di una
persona.
il Fatto 17.2.15
Il giurista Paolo Maddalena
“Riforme sballate, lo Statuto albertino era meglio”
intervista di Salvatore Cannavò
Quando
sente parlare delle riforme di Matteo Renzi a stento trattiene
l’indignazione anche se sui fatti avvenuti in Parlamento non vuole
esprimere giudizi: “Secondo me le cose devono andare secondo le regole.
Non mi occupo di quanto avvenuto”.
Ma sul contenuto delle riforme del governo ha un’idea precisa?
Certo,
a condizione che le guardiamo nel loro insieme, comprese quelle
economiche. Io, ad esempio, sono rimasto sconcertato dallo “sblocca
Italia”.
Perché?
Perché capovolge i valori. La Costituzione pone
in primo piano la persona umana. Ma nell’articolo 1 di questa “riforma”
si dice che nel caso in cui i rappresentanti degli interessi ambientali,
artistici o storici o dell’incolumità pubblica non convengono sulla
costruzione dell’opera decide il commissario entro dieci giorni.
Perseguire l’opera diventa più importante dell'incolumità pubblica. Uno
scadimento totale della nostra capacità di autogoverno, visto che
governano i cittadini e questi hanno un dovere di resistenza.
Che tipo di resistenza?
Sul
piano amministrativo, secondo l’articolo 118 della Costituzione,
svolgono attività di interesse generale. E i portatori di interessi
diffusi, della salute, dell'incolumità pubblica, del paesaggio, sono
legittimati a prendere parte dei procedimenti amministrativi e
l’amministrazione ha l'obbligo di tenerne conto.
Il suo giudizio su atti significativi del governo è piuttosto netto.
Su
questi punti ho un vero groppo alla gola, perché vedere le conquiste
ambientali stravolte e calpestate mi sembra molto grave. Così come
sull’economia. Il governo e la Bce finanziano imprese e banche.
All’orizzonte si profila un accordo internazionale, il Ttip, che sottrae
gli operatori economici e commerciali alle giurisdizioni
internazionali. In ossequio al liberismo degli anni 30 rifiutato da
Roosevelt che, giustamente, seguì i consigli di Keynes.
C’è un filo che lega tutto questo alle riforme costituzionali?
Sì,
c’è un’idea di neoliberismo da applicare in relazione alla
globalizzazione internazionale. E che si traduce anche nelle restrizioni
democratiche.
Considera un errore l’abolizione del Senato?
Siamo
d’accordo che il bicameralismo perfetto fosse eccessivo ma bastava
ridurre il numero dei senatori e il numero delle materie da sottoporre
al Senato. Invece, si realizza una struttura composta da nominati. Ma
nominati da chi? I nominati, in realtà, sono nominati da “intrallazzi”
con accordi trasversali che incrementano il malcostume. Meglio, allora,
lo Statuto albertino che poneva la nomina in capo al Re. C’era
addirittura un rappresentante dei diritti. La riforma, a mio avviso, è
sballata.
Cosa pensa della legge elettorale?
Anche in questo caso
non si capisce cosa sia: è quella di Berlusconi, è il Porcellum o altro?
A questo punto sarebbe meglio il Mattarellum. Ha una logica e assicura
l’alternanza. Altra cosa grave è l’innalzamento del numero delle firme
in materia di referendum e di legge di iniziativa popolare.
Cosa bisognerebbe fare?
Mettere
le cose a posto. Innanzitutto, eliminare Berlusconi dalla vita politica
italiana. Non perdonerò mai a Renzi di essersi messo d'accordo con
colui che ha portato l’Italia alla rovina. Non dimentichiamoci che è lui
ad aver firmato il Fiscal compact.
E anche in questo caso lei invoca il diritto di resistenza?
Certamente.
Bisognerebbe, infatti, distinguere tra il “potere di revisione” della
Costituzione e il “potere costituente”. Oggi non siamo in presenza di
una semplice revisione, ma vengono intaccati i principi costituzionali
con un potere costituente che in realtà non si ha. Ci sarebbe quindi
tutta la possibilità di impugnare e prendere posizione contro una
riforma tutta sbagliata. La Corte costituzionale ha i poteri di abrogare
leggi costituzionali se queste sono andate oltre il potere di revisione
e hanno invaso il potere costituente. Così come ha anche la possibilità
di annullare provvedimenti conseguenti alle decisioni della Troika se
questi violano i diritti fondamentali del popolo italiano: la vita, la
salute, il lavoro.
Secondo lei, il presidente della Repubblica può e deve fare qualcosa?
Il
presidente Mattarella è stata la scelta migliore che si potesse fare.
Un uomo straordinario, dalle doti eccezionali. Lui sa sicuramente cosa
fare.
il Fatto 17.2.15
Degenerazioni
Svolta autoritaria anzi impunitaria
di Roberta De Monticelli
Svolta
autoritaria o svolta impunitaria? L’espressione “svolta autoritaria” è
stata recentemente esposta al rischio di suscitare sarcasmi amari.
Perché adottata, cinque minuti dopo la scucitura di un opaco accordo fra
un leader spregiudicato e uno pregiudicato, da quello dei due che
l’astuzia dell’altro rischiava di turlupinare. E questo basta a
riassumere l’alto livello della riflessione in atto fra principali nuovi
Padri Costituzionali italiani.
Ma questa espressione l’hanno usata
anche persone serissime. Nadia Urbinati in diverse occasioni, Maurizio
Viroli in altre – per esempio in un ottimo articolo uscito domenica sul
Fatto – molti costituzionalisti, ad esempio Gustavo Zagrebelsky, autore
anche di una articolatissima e costruttiva riflessione su una riforma
più razionale del Parlamento (che la ministra Boschi non si è degnata di
ricevere). Esponenti di spicco di associazioni devote agli ideali della
democrazia, come Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia, e molti altri.
Tutte queste persone hanno parlato a più riprese di “svolta
autoritaria”.
NE HANNO parlato soprattutto in relazione al metodo con
cui si sta procedendo, fra forzature di regolamenti parlamentari e
prepotenti riduzioni dei tempi di discussione, alla riforma del Senato,
oltre che in parte al contenuto di questa riforma, ma anche in relazione
alla “crisi trentennale che attanaglia insieme Costituzione, sistema
politico, etica pubblica” (Giovanni Ferrara, Il Manifesto, 14-02-15).
Zagrebelsky è arrivato a denunciare “un degrado, quasi il punto zero
della democrazia”, a proposito della decisione del presidente del
Consiglio di andare avanti nonostante le polemiche dell’opposizione (Il
Fatto Quotidiano, 14/02/15). Sabino Cassese invece ha voluto rassicurare
tutti sul fatto che la democrazia, per il momento, non corre pericoli e
che non è in atto una svolta autoritaria (Corriere della Sera,
12-02-15) – e infatti è stato ripreso da tutti i media con insolita
enfasi. Alessandro Pace gli ha obiettato la possibilità che il combinato
disposto dell’Italicum e della riforma costituzionale pregiudichi “quei
principi supremi ai quali lo stesso Cassese si richiama”. E non solo il
principio di rappresentanza, ma lo stesso articolo 1 della
Costituzione, dato che i senatori non saranno eletti più dal popolo, ma
dai così detti “grandi elettori” che non sono altro che i consiglieri
regionali, un migliaio di persone. O infine l’idea stessa di
deliberazione, dal momento che “nel procedimento legislativo alla Camera
dei deputati viene eliminato del tutto il passaggio nelle commissioni
in sede referente” – il cuore stesso del processo legislativo.
Ci si
può chiedere: ne parlano persone troppo diverse, di “svolta
autoritaria”? Il fatto che ne parli anche il politico che fino a cinque
minuti prima ci aveva le mani in pasta svaluta l’obiezione? E perché fra
le persone serie i costituzionalisti non sono unanimi? Di fronte a
questi dubbi, forse non è peregrina una mossa di approfondimento
concettuale, che per una volta può rendere utili i poveri mezzi della
filosofia rispetto al sapere specifico – giuridico e politologico.
Ma
nessun approfondimento concettuale dovrebbe prescindere dai dati. E c’è
un fenomeno specificamente italiano che scienze e filosofia pura non
avevano previsto: il lungo processo, giunto forse al “punto zero”, di
svuotamento graduale del senso e anche dell’efficacia delle istituzioni.
A volte le parole non dicono veramente quello che vogliono dire. La
parola “svolta autoritaria”, che spesso viene usata in riferimento al
presente italiano, evoca un rafforzamento unilaterale dell’esecutivo a
danno della rappresentanza e dell’equilibrio dei poteri. Ma ciò cui
assistiamo più che una svolta è un processo che sembra senza fine, il
cui limite già si vede: la completa erosione dello spirito delle leggi
tutt’intero, del rule of law: non a vantaggio di un tiranno o di una
compatta oligarchia, ma a vantaggio dell’arbitrio di molti e spesso
briganteschi amministratori pubblici (locali e nazionali) di interessi
particolari, anzi spesso di particolari pulsioni a delinquere.
C’è
un’essenza nazionale anche nello stile delle degenerazioni, forse: e la
nostra sembra resti del tutto... guicciardiniana, per parlar colto. O
insomma per parlar chiaro basata sul carisma del menefreghismo (rispetto
alle norme e forme) e sulla libertà dei servi cui serve approvare, come
giustamente suggerisce Viroli. Senato, Parlamento, Divisione dei
Poteri: parole alte e antiche.
GUARDIAMO però che non servano a
dimenticare che i Neo-Padri Costituzionali stanno negoziando sulle
percentuali di frode allo Stato cui si toglierà il nome di frode e la
sanzione. Come se non bastasse la straordinaria crescita dei nostri
primati, che avanza inarrestabile: primo posto in Europa e nell’intero
Occidente per corruzione percepita, 69° per grado di tutela
dell’interesse pubblico. Ultimo risultato il passaggio – a proposito di
libertà dei servi – dal 57° al 74° posto nella classifica
dell’indipendenza dell’informazione, che ci mette gloriosamente a
ridosso del Nicaragua. A conclusione dell’analisi, proporrei di
sostituire l’espressione “svolta autoritaria” con la più realistica
constatazione della caduta dei veli nella gestione rapace e
auto-assolutoria del potere: “Svolta impunitaria”.
il Fatto 17.2.15
Armiamoci e partite
di Antonio Padellaro
Morire
per Sirte? Nel 1939, con la domanda che passò alla storia – “Morire per
Danzica?” –, in quell’Europa che sperava ancora di ammansire Hitler, il
deputato collaborazionista francese Marcel Déat chiese se valesse la
pena scatenare una guerra per difendere una piccola città contesa tra la
Polonia e la Germania. Settantacinque anni dopo, in questa Europa
divisa e distratta mentre Al-Thani, premier del governo libico
filo-occidentale, chiede di agire subito “o l’Is arriverà in Italia”,
Renzi, premier del paese più minacciato dal Califfato, tra un tweet e
l’altro, liquida così la questione: “Non è tempo di interventi militari”
(smentendo Gentiloni e la Pinotti).
Èevidente che tra le due frasi
non esiste nesso alcuno perché delle due l’una: o il libico drammatizza
il pericolo jihadista e chiede un intervento per puntellare il suo
traballante governo, o l’italiano minimizza per non avere problemi nel
cortile di casa. Poi c’è la realtà delle cose che ci mostra un’Europa
stretta tra il martello delle nere milizie che avanzano “a sud di Roma” e
l’incudine del terrorismo che dopo Charlie Hebdo colpisce Copenaghen,
mentre la furia antisemita fa scempio nei cimiteri israelitici della
Francia. Che l’Italia si trovi in primissima linea è un dato di fatto
per due motivi almeno. Perché un missile Scud potrebbe essere lanciato
dal Golfo della Sirte verso Lampedusa (come da comunicato Is). E perché
sotto la spinta della catastrofe libica 200 mila migranti potrebbero
sbarcare sulle nostre coste (come da dossier dei servizi segreti). Come
al solito, invece di convocare un gabinetto di guerra, perché nel pieno
di una guerra ci troviamo, il consueto teatrino italiano mette in scena
la nota pochade: armiamoci e partite. C’è chi chiede “prudenza” e di
“accelerare con la diplomazia” (Nicola Latorre, presidente pd della
commissione Difesa): un modo lodevole per non fare nulla visto che i
tagliagole trattano solo a colpi di ascia. Poi c’è “l’uso della forza,
ma sotto l’egida Onu” della renziana Simona Bonafè: proposta che,
immaginiamo, non farà morire di paura l’autoproclamato califfo
al-Baghdadi. Nel settembre 2014, al ritorno da Seul, Papa Francesco
evocò il pericolo imminente di una terza guerra mondiale “combattuta a
pezzi, con crimini, massacri, distruzioni”. Ora ci siamo dentro e Renzi
lo sa. Ma a morire per Sirte (e per l’Italia) ci vada qualcun altro.
La Stampa 17.2.15
L’illusione che non ci riguardi
di Mario Calabresi
Viviamo
circondati dalle crisi, facciamo finta che non ci siano, poi
d’improvviso, costretti dagli eventi, scopriamo che non esiste solo la
crisi italiana. Da un paio d’anni ormai ci guardiamo l’ombelico, come se
quello che accade fuori dai nostri confini fosse ininfluente, impegnati
a dibattere esclusivamente di problemi di politica interna,
caparbiamente chiusi nella nostra bolla.
Così ci accorgiamo che la
crisi ucraina e le sue conseguenze ci riguardano, non solo in termini di
sicurezza ma anche economici, che dipendiamo dalle esportazioni verso
la Russia come dai turisti di Mosca che sono scomparsi dalle nostre
Alpi. Così nel mondo globale la Grecia ci riguarda e cosa fare non può
essere solo un tema di simpatie o antipatie e non possiamo lasciare che
il nostro giudizio sui debiti da pagare sia influenzato dal modo di
vestirsi di un ministro dell’Economia.
Adesso ci è venuta addosso la
Libia, con tutto il suo carico di pericoli e destabilizzazione.
L’abbiamo di fronte a casa, siamo i più esposti alle ondate migratorie e
al pericolo terrorismo e le spiagge dove sono stati sgozzati gli operai
egiziani si affacciano sul nostro mare. Ma finora nel Parlamento che
urla e grida continuamente, dove da un anno si discute di legge
elettorale, non abbiamo visto nessuno alzarsi per dire ad alta voce che
dobbiamo occuparcene.
L’Italia ha fatto grandi cose con l’operazione
Mare Nostrum, mostrando capacità operative e coscienza umanitaria, ma
anche su questo non c’è stato un dibattito profondo capace di
coinvolgere l’opinione pubblica e quando abbiamo chiesto all’Europa di
fare la sua parte la risposta è stata debole e poco credibile.
Ora è
tempo di affrontare seriamente il tema Libia, di aprire un dibattito
vero nella società e in Parlamento, in cui si valutino i rischi di
un’azione ma anche i pericoli dell’inazione.
Abbiamo di fronte uno
Stato che non esiste più, uno spazio occupato da bande rivali, con due
governi contrapposti e in cui si moltiplicano gli avamposti di un
estremismo islamico che si richiamano al Califfato.
Tutto era
cominciato esattamente quattro anni fa a Bengasi, sull’onda delle
primavere arabe, quando migliaia di persone scesero in piazza dando il
via alla «Rivoluzione del 17 febbraio». Prima che la rivolta venisse
schiacciata nel sangue da Gheddafi cominciarono i raid aerei francesi -
una scelta ancora oggi non chiara nelle sue motivazioni e nelle sue
finalità - a cui si accodò la Nato.
Nessuno pianse la caduta di
Gheddafi e basterebbe leggere le testimonianze delle persone torturate e
imprigionate dal suo regime per farsi passare la voglia di
rimpiangerlo. Ma pensare che bastasse bombardare per liberare le
migliori energie, capaci da sole di costruire una società nuova e
democratica era non solo una pura illusione ma un modo di lavarsene le
mani.
Il dibattito pubblico europeo nel frattempo si è dimenticato
della Libia, ci sono voluti i barconi dei migranti cacciati a forza in
mare in pieno inverno, le immagini delle decapitazioni dei cristiani
copti e le minacce dell’Isis, oltre che la precipitosa fuga degli ultimi
occidentali con la chiusura dell’unica ambasciata rimasta aperta -
quella italiana - per svegliare la nostra attenzione.
Ora c’è bisogno
di tutto tranne che di avventate fughe in avanti, di nuovi exploit
senza un disegno stabilizzatore alle spalle e c’è bisogno di avere
chiaro cosa si vuole provare a fare. Parlare di missione di pace è una
evidente finzione, come già in passato, perché nessuno accoglierà
militari stranieri a braccia aperte, di certo non i jihadisti.
Dall’altra
parte rifugiarsi nell’illusione dell’inazione può essere
pericolosissimo, non ci possiamo permettere di convivere con basi
terroristiche sull’uscio di casa facendo finta di niente.
Ma perché
le scelte siano serie e ponderate bisogna cominciare con il chiarire non
tanto il numero di soldati necessari per un’azione militare, ma
piuttosto la reale situazione della Libia e cosa si può provare a fare
contro il caos. Non possiamo nemmeno pensare un intervento senza avere
chiaro il peso e l’orientamento delle fazioni che sono in lotta e senza
aver scelto quali potrebbero essere gli alleati sul terreno. E poi per
fare cosa? Con chi? Solo a quel punto si potrà discutere se intervenire
nel quadro di un mandato dell’Onu. Ma anche qui è necessario costruire
le condizioni per un’operazione ampia, a cui partecipino innanzitutto i
Paesi dell’area e che abbia ben chiari finalità e obiettivi.
In
questo quadro però noi italiani dobbiamo tenere presente un’altra cosa:
il nostro passato. La nostra avventura coloniale fu fatta di stragi e
torture e dobbiamo muoverci con molta cautela, la memoria in Libia è
viva e sarebbe facile denunciare un altro colonialismo e chiamare alla
guerra contro i nuovi crociati. Anche per questo è necessario che
qualunque iniziativa avvenga insieme ai paesi arabi dell’area e non ci
siano fughe in avanti italiane o europee.
Bisogna muoversi con
chiarezza e serietà. Ci siamo illusi per troppo tempo di poter chiudere
la porta ai problemi del mondo, di poter discutere solo di Imu, Tasi o
articolo 18, ma ora i problemi sono entrati in casa e ci è richiesto di
essere responsabili. Questo mondo è troppo complicato e interdipendente
per permettere a noi italiani il lusso di stare alla finestra o
l’illusione di essere immuni dal contagio.
Repubblica 17.2.15
La rivincita di Al Sisi. Ora il mondo si affida al nuovo raìs d’Egitto per battere il terrore
Affievolite
le “Primavere”, il terrorismo ha preso vigore. E per sconfiggere il
Califfato sono proprio i regimi arabi gli alleati indispensabili
dell’Occidente
di Bernardo Valli
La reazione del Cairo
dopo la decapitazione dei ventuno cristiani copti è stata immediata E il
presidente ha spiegato alla nazione che i suoi uomini sono pronti a
morire per la patria
LA REAZIONE è stata immediata. Poche ore
dopo la decapitazione dei ventuno cristiani copti sulla spiaggia libica,
gli aerei egiziani bombardavano le basi jihadiste in Cirenaica.
L’esecuzione collettiva, secondo il rituale in vigore a Raqqa e a Mosul,
in Siria e in Iraq, ha annunciato l’arrivo dello Stato islamico sulla
sponda del Mediterraneo. La rapida risposta militare del raìs del Cairo,
Abdel Fattah Al Sisi, ha annunciato l’intervento ufficiale dell’Egitto
nella guerra civile libica. Quello non dichiarato era già in corso, meno
intenso, più contenuto: dopo il massacro di egiziani sulla spiaggia non
era più il caso di agire con discrezione. L’incursione dell’alba sulle
basi jihadiste di Derna, tra il mare e le montagne, si è poi ripetuta
nella giornata per dimostrare che non si trattava di salvare la faccia
ma di avviare operazioni militari prolungate.
Un breve pezzo di
deserto separa la Libia dall’Egitto: uno spazio semivuoto che gli
islamisti cacciati diciotto mesi fa dal potere al Cairo attraversano per
incontrare gli amici jihadisti in piena attività. E ormai convertiti al
lontano Califfato della valle del Tigri e dell’Eufrate. I più frustrati
o perseguitati tra i fedeli dell’islamista Mohamed Morsi, l’ex capo
dello Stato egiziano destituito dal generale (poi maresciallo e adesso
presidente) Fattah Al Sisi, trovano facilmente conforto e aiuto nelle
“province” amiche. Senza precisare dove si trovano, i capi jihadisti le
hanno dichiarate parte dello Stato islamico.
Forse il legame tra
l’Islam estremista della Libia da un lato e quello di Siria e Iraq
dall’altro è più simbolico che reale: ma pratica e regole appaiono le
stesse. Le decapitazioni ne sono la prova. Nella confusione capita che i
libici si sbaglino nelle dichiarazioni. Ogni tanto si riferiscono ad Al
Qaeda, oggi meno influente e abbandonato, oltre che concorrente dello
“Stato islamico”. Ma il terrorismo non ha un codice, né una teologia.
Rispetto
al grande, storico e povero Egitto, la Libia è un ricco, bellissimo
deserto abitato da tribù litigiose. Che si odiano da sempre. Dai tempi
dei datteri al petrolio. L’Italia coloniale ci mise decenni prima di
domarle con repressioni sanguinose e con quelle poi chiamate pulizie
etniche, cioè con spostamenti in massa di popolazioni decimate. Nel
primo, in Egitto, c’è un regime dominato dai militari che non sopportano
chiunque contesta il loro diritto di esercitare il potere. La
confraternita dei Fratelli musulmani, portata al governo da libere
elezioni, era un rivale settario e incapace di governare. L’ondata
jihadista è la peste per colonnelli e generali. È l’indisciplina, il
fanatismo senza le regole che i militari prediligono.
La Libia è un
mosaico di clan per i quali valgono le affiliazioni regionali. I poteri
locali sono la base su cui si può creare lo Stato. Il denaro li divide
ancora di più. Tutti vogliono controllare i terminali del petrolio af-
facciati sul mare, i pozzi disseminati nel deserto, le vie attraverso le
quali far passare il greggio di contrabbando.
Adesso c’è chi
rimpiange Gheddafi, raìs schizofrenico e inaffidabile, oltre che crudele
e corrotto, perché teneva il Paese unito e le tribù in riga con la
forza o i dollari. Sbagliato sarebbe stato dunque l’aiuto militare
occidentale che ha contribuito alla sua fine. La verità è che il raìs
libico era ormai sfiatato, indebolito, contestato: e che dopo avere
favorito la sua cacciata, si doveva accompagnare la transizione. Non
intervenire con l’aviazione e lasciare il Paese in preda alle tribù
fameliche e inconciliabili, imbottite di armi e di dollari. “Spara e
scappa” non è un comportamento responsabile. Ma è quello che hanno avuto
gli occidentali, interessati soltanto al petrolio.
Domenica sulla
spiaggia, nel presentare la decapitazione degli ostaggi copti, il boia
ha tenuto a precisare che si trovava «a Sud di Roma». Una capitale da
conquistare. E ha definito l’esecuzione «un messaggio firmato col sangue
alla nazione cristiana». In realtà il suo era anche un affronto alla
più grande nazione araba. Il Cairo ha infatti preso come tale
l’uccisione dei connazionali appartenenti alla numerosa e antica
comunità cristiana della valle del Nilo.
Il presidente Al Sisi si è
rivolto al Paese. E subito dopo, alla televisione, una voce solenne ha
ripetuto più volte la parola d’ordine del momento: «Onore e nazione». Lo
slogan degli uomini «pronti a morire per la patria ». Sugli schermi
apparivano immagini di guerra: caccia bombardieri, carri armati, soldati
in tenuta da combattimento, mezzi della marina militare. Il repertorio
delle grandi occasioni. La voce era quella dello speaker che al Cairo
interviene, pure lui, per avvenimenti eccezionali. Ad esempio, quattro
anni fa, quando i militari presero il posto di Hosni Mubarak, il vecchio
raìs, dopo l’insurrezione di piazza Tahrir. Insomma al Cairo è stato
come se la nazione andasse in guerra.
Centinaia di migliaia di
egiziani vanno e vengono dalla Libia da quando il petrolio sgorga dal
deserto in cui i nostri coloni piantavano granoturco e fagiolini. I
libici comandano e litigano tra di loro. Gli immigrati lavorano. E sono
indifesi. Vulnerabili. Sono in molti a fuggire verso Lampedusa. Adesso
se ne andranno in tanti. Ma l’Egitto nazionalista del presidente Al Sisi
non può tollerare che gli egiziani vengano umiliati e massacrati. Gli
amici americani l’hanno messo un po’ da parte. In quarantena. Gli hanno
centellinato le forniture militari, in seguito alla repressione e ai
processi speditivi contro gli islamisti e i giovani libertari di piazza
Tahrir. Ma lui si è presa qualche bella rivincita. Vladimir Putin gli ha
fornito una centrale nucleare che darà energia elettrica al Paese, come
l’Unione Sovietica la dette a Nasser con la diga di Assuan più di
cinquant’anni fa. E il presidente socialista François Hollande gli vende
i caccia bombardieri centellinati dagli americani. L’Arabia Saudita
elargisce miliardi di dollari in concorrenza con gli Emirati del Golfo, e
Israele resta un interlocutore essenziale per arginare le bande
jihadiste annidate nel Sinai.
Al Sisi ha superato la cattiva
reputazione abbattutasi su di lui con la brutale presa del potere e le
successive repressioni. La minaccia dei terroristi jihadisti, che
decapitano gli ostaggi, uccidono giornalisti ed ebrei e spuntano sulla
sponda del Mediterraneo, rivaluta la figura del raìs. In quanto dighe
dell’islamismo, i dittatori arabi erano apprezzati in Occidente. Poi le
primavere arabe li hanno cacciati o squalificati. Appassite le
primavere, con l’eccezione tunisina, la figura del raìs è di nuovo
rispettata e ricercata. Soprattutto se come nel caso egiziano è alla
testa di un grande Paese.
Affiancato a Hollande, Al Sisi ha chiesto
la riunione del Consiglio di sicurezza per la Libia. Ed è lui che ha
cercato di colpire i tagliatori di teste in Libia, dove nessun altro per
ora osa inoltrarsi. L’etica weberiana della responsabilità invita a
riconoscere che i regimi arabi, quali che siano, sono gli alleati più
efficaci per combattere il terrorismo islamico. Sono indispensabili.
Solo la loro aperta collaborazione può arginare l’inquietante presenza
sull’altra riva del Mediterraneo. E soprattutto il presidente Al Sisi
dovrà impedire che il veleno jihadista trapeli attraverso il breve
tratto di deserto che separa l’Egitto dalla Libia, e destabilizzi il suo
regime che può non essere il nostro ideale, ma che l’emergenza rende
opportuno.
Repubblica 17.2.15
Ma attaccare oggi è un regalo al Califfo
Un’operazione militare a Tripoli porterebbe a nuovi disordini e alimenterebbe soltanto la propaganda contro l’Occidente
di Lucio Caracciolo
IL
“califfo” al-Baghdadi non potrebbe sperare di meglio: l’invasione
armata di ciò che resta della Libia, condotta da ”crociati” (italiani,
francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani più arabi e
africani vari). Eppure del nuovo sbarco sulla quarta sponda si discetta
nelle cancellerie europee e nei palazzi dei monarchi e delle giunte
militari arabe, con il discreto ma pressante incoraggiamento americano.
Una operazione di controguerriglia da sviluppare su un territorio
largamente desertico grande sei volte l’Italia, in totale caos
geopolitico, dove si affrontano decine di bande e milizie di vario
colore e appartenenza etnica, locale o regionale, tutte armate fino ai
denti. Una campagna che in teoria si presenta non dissimile dalle guerre
sovietica o americana in Afghanistan, solo in un contesto molto più
confuso e senza i mezzi delle superpotenze. Ma con la stessa carenza di
obiettivi chiari e perseguibili. Perché, contrariamente a quanto
affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la
Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace
usano il marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e
attirare reclute.
In ogni caso, per una spedizione oltremare
toccherebbe esibire una bandiera Onu autorizzata dal Consiglio di
Sicurezza — percorso non scontato — in modo da vestirla da “operazione
di pace”. Come ha avvertito il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni,
l’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità
internazionale». Stavolta però la foglia di fico onusiana non potrebbe
mascherare la natura della guerra: non c’è nessuna pace da preservare,
nemmeno in embrione.
Non basta: il ministro della Difesa Roberta
Pinotti ha annunciato che Roma aspira a guidare l’agognata missione
schierando un contingente di cinquemila uomini. In effetti, più che di
soldati avremmo bisogno di carri armati (Rommel docet), che non abbiamo:
quelli davvero efficienti si contano sulle dita delle mani o poco più.
Peggio, sembra che alcuni esponenti del governo abbiano persa la memoria
del nostro passato coloniale in Tripolitania e in Cirenaica. Certo non
l’hanno dimenticato i libici. «Tutto ciò cui aspiriamo è avere di nuovo
gli italiani qui fra le mani», ha twittato uno dei più seguiti blogger
di Misurata, nemmeno fra i più radicali. Per vendicare Omar al-Mukhtar e
i suoi gloriosi martiri.
Quattro anni dopo aver partecipato
controvoglia, su uno strapuntino dell’ultimo minuto, alla liquidazione
franco-britannica di Gheddafi (e della Libia), adesso rischiamo dunque
di tornarci in pompa magna, per ritessere la tela che abbiamo strappato.
A supportare le ambizioni egiziane sulla Cirenaica e gli interessi
francesi nel Fezzan. Invece del Colonnello, con cui flirtammo per
quattro decenni, lavoreremmo stavolta per un sedicente generale dalle
ambigue credenziali, Khalifa Heftar, appoggiato da egiziani, sauditi,
emiratini e altri petromonarchi del Golfo. Il quale ha saputo abilmente
intestarsi la “guerra al terrorismo” (sezione libica), certificato di
qualità ad uso dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali meno
avvertite, utile a legittimare l’eliminazione dei propri avversari — in
questo caso anzitutto le milizie di Misurata e altri gruppi
presuntamente “islamisti”. Puro avventurismo geopolitico, che fra
l’altro significherebbe esporci gratuitamente al terrorismo jihadista
sul nostro territorio molto più di quanto non lo si sia adesso. A
rimettere ordine nel dibattito pubblico alimentato dai suoi stessi
ministri ha pensato Matteo Renzi, avvertendo che «non è tempo per una
soluzione militare». Il nostro premier ha preso tempo: meglio “aspettare
l’Onu”. E ha correttamente osservato: «In Libia non c’è un’invasione
dello Stato Islamico, ma alcune milizie che combattevano lì hanno
iniziato a fare riferimento a loro». Renzi mostra così di non voler
cadere nella trappola della propaganda del “califfo”, che si annuncia “a
sud di Roma”. E, se volessimo davvero combattere lo Stato Islamico,
potremmo attaccarlo dove effettivamente si trova, fra Siria e Iraq. Non
risulta però che i nostri piloti siano autorizzati a colpirlo.
Ma
qualcosa si può e si deve fare. Prima di tutto, non accendere nuovi
focolai di guerra senza speranza di vincerla. Poi, usare le leve
finanziarie di cui ancora disponiamo per bloccare i flussi di denaro che
arrivano ai gruppi armati — operazione tutt’altro che impossibile. In
terzo luogo, colpire i traffici che alimentano i miliziani, compresi i
jihadisti che fanno riferimento allo Stato Islamico. Tra Iraq e Siria
gli americani hanno bombardato con qualche successo raffinerie e
impianti controllati dal “califfato”. In Libia le Marine occidentali
potrebbero affondare, prima che partano, le barche con cui i mercanti di
essere umani attraversano il Canale di Sicilia, lucrando su migliaia di
disperati. Un blocco navale di fatto, accompagnato da operazioni di
forze speciali nei porti libici, infliggerebbe un colpo severo al più
osceno dei traffici. E alla cassa degli aspiranti emuli del “califfo”.
Repubblica 17.2.15
Dalla diplomazia all’attacco militare così l’Occidente può fermare il Califfato
di Vincenzo Nigro
All’intervento
della Nato e alla caduta di Gheddafi nel 2011, non è seguita
un’operazione che disarmasse le milizie. Ora la Libia è al collasso e si
è aperto lo spazio per i jihadisti. Una missione internazionale è
ancora possibile: ma solo se le fazioni raggiungeranno un accordo
LO
STATO ISLAMICO È ENTRATO IN LIBIA PERCHÉ NEL PAESE SI COMBATTE UNA
GUERRA CIVILE PER IL CONTROLLO DEL PETROLIO. PERCHÉ LA CRISI È
PRECIPITATA? E CHE PUÒ FARE L’ONU?
Il Consiglio di sicurezza
dovrebbe riunirsi mercoledì, su richiesta francese. La crisi in Libia si
è aggravata con l’orrendo assassinio di 21 cristiani egiziani compiuta
dall’Is. Il che conferma che i miliziani del “Califfo” si stanno
installando a 300 chilometri dall’Italia. Mercoledì il Consiglio
potrebbe iniziare a prendere in considerazione la creazione di una forza
di stabilizzazione, ma per ora probabilmente darà mano libera
all’Egitto per i suoi attacchi aerei.
E’ ANCORA POSSIBILE UN «INTERVENTO MILITARE» A TUTTO CAMPO IN LIBIA?
Realisticamente
no, senza nessun dubbio. Un intervento militare a tutto campo per
imporre la pace oggi in Libia sarebbe un rischio insostenibile per le
democrazie occidentali, anche a fronte dei pericoli che il paese ci
pone. Un’azione possibile con finalità di peace-keeping o anche di
peace-enforcing (mantenere la pace oppure imporre la pace) doveva essere
annunciata nel 2011 alla fine dell’operazione Nato. Oggi è impossibile
per questi motivi: le milizie, e non solo i gruppi terroristici, non
accetterebbero di sottomettersi a una forza militare, anche targata Onu.
Ci sarebbero atti di ritorsione contro i militari stranieri, che
costringerebbero in pochi mesi i governi intervenuti a ritirare le loro
truppe (è avvenuto in un contesto molto meno pericoloso in Somalia).
DAVVERO GLI ESERCITI EUROPEI NON POTREBBERO IMPORRE LA PACE?
Come
è accaduto anche agli Usa in Afghanistan (nonostante i pur gravi danni
collaterali provocati ai civili), una forza Onu sarebbe costretta a fare
un uso limitato e non indiscriminato della forza. Per capirci: per
imporre la pace i militari Onu non potrebbero neppure lontanamente fare
un uso del potere aereo come quello esercitato dagli israeliani l’estate
scorsa a Gaza per proteggersi dai missili di Hamas. L’Onu a cosa si
appellerebbe per bombardare massicciamente Derna?
MA ALLORA UNA FORMA DI INTERVENTO MILITARE È DA ESCLUDERE?
Paradossalmente
non è da escludere, ma va ben calibrato. Va limitata e asservita a un
progetto politico. Contro l’Is e il terrorismo sicuramente sarebbero
necessari attacchi aerei autorizzati dall’Onu in maniera esplicita (e
non autogestita come fa oggi l’Egitto) per colpire i santuari
terroristi. Ma l’uso del potere aereo e di piccoli contingenti di
addestratori o anche di forze speciali dovrebbe essere collegato a un
processo di unificazione delle fazioni libiche meno intransigenti.
QUALE POTREBBE ESSERE UN POSSIBILE PIANO POLITICO?
Bisognerebbe
cercare di creare le condizioni perché le milizie trovino un accordo
per l’autogoverno delle parti principali del paese. la Libia limiterà il
terrorismo se si auto-governerà da sola. Bernardino Leon, inviato Onu,
senza poter minacciare uso della forza militare, aveva iniziato
individuare fra i soggetti da mobilitare le comunità locali, le tribù e i
consigli comunali di Libia. Un obiettivo insperato sarebbe di iniziare a
consolidare un autogoverno di tribù/gruppi locali che saranno anche
collegati alle mafie del posto, ma che scelgano di coordinarsi fra di
loro per amministrare le comunità. Un analista dice «per decine di anni
il potere centrale italiano ha accettato che il Sud Italia venisse
governato col contributo di mafia e camorra: una governance simile per
la Libia sarebbe un risultato insperato».
TRA GLI IMMIGRATI POSSONO ESSERCI MILIZIANI INFILTRATI DELL’IS?
Nonostante
quel che si creda, è molto improbabile. I fenomeni sono paralleli,
possono incrociarsi, ma sono diversi. Affrontare un’odissea nel
Mediterraneo imbarcandosi su un barcone di migranti viene considerato
poco probabile da Mattia Toaldo, analista che a Londra lavora per
l’European Council on Foreign Relations: «In tanti anni c’è stato un
solo caso di jihadista arrestato tra i migranti arrivati via mare.
Attraversare il Mediterraneo su certe imbarcazioni è molto pericoloso
come dimostrano i continui disastri. È vero invece che le organizzazioni
jihadiste possono trarre profitti dal traffico di esseri umani».
I FLUSSI MIGRATORI POSSONO CRESCERE ANCORA IN UNA LIBIA SENZA CONTROLLO?
Assolutamente
sì. Il vero problema dell’immigrazione clandestina che attraversa la
Libia è che i migranti vengono gestiti dalle potenti mafie di
trafficanti libici che li prendono in consegna nel sud del paese, in
Fezzan e li trasferiscono sulle coste. Poi li imbarcano anche con la
forza. Sono bande potenti, spesso collegate a milizie che hanno una
presunta agenda politica. Finchè l’Italia e l’Europa non avranno di
fronte un governo libico o governi locali libici con cui trattare, i
trafficanti avranno la meglio.
LA PRESENZA IS IN LIBIA: CHI SONO, QUANTI SONO?
Non
ci sono ancora migliaia di miliziani dell’Is trasferiti in Libia dal
teatro siro/iracheno. Secondo la Rivista Italiana Difesa ad oggi i
combattenti dell’Is sono fra i 2000 e 3000, un contingente comunque
assai pericoloso. La verità è che si tratta in gran parte di miliziani
jihadisti che hanno cambiato bandiera: appartenevano per esempio ad
Ansar Al Sharia, ora hanno scelto di passare con il “Califfo”. L’unico
grosso contingente rientrato dalla Siria sarebbe il “Battaglione Bitar”,
un gruppo di 500 miliziani schierati in precedenza a Mosul e Deir
Ezzor. Adesso sono a Derna, la loro capitale.
QUALE TIPO DI INTERVENTO MILITARE SAREBBE EFFICACE CONTRO L’IS?
Dice
ancora Toaldo, dell’Ecfr: «Un certo grado di forza militare è
imprescindibile. L’elemento fondamentale, che finora è mancato in Siria e
in Iraq, è l’accordo politico nella popolazione locale che permetta di
isolare gli estremisti e far ripartire un minimo di macchina statale:
alcuni posti di confine, la polizia, i servizi di base. Una delle fonti
di consenso dell’Is è proprio la sua capacità di «farsi Stato»». E per
questo torniamo alla «casella uno»: si potrà combattere l’Is se si
ricostruirà uno Stato libico, o anche solo un accordo politico fra
tribù, milizie e fazioni libiche.
Repubblica 17.2.15
Il sentiero stretto di Renzi in cerca di una strategia per la Libia
L’”isteria” lamentata dal premier è tipica di una classe politica che affronta una guerra come l’Italicum
di Stefano Folli
SAREBBE
un errore considerare le parole di Renzi sulla Libia come un
soprassalto d’incertezza o, peggio, un voler chiudere gli occhi davanti
alla minaccia evidente. Più semplicemente il presidente del Consiglio
vuole evitare di commettere errori irreparabili. Quello che sta
accadendo sulla costa nordafricana pone problemi enormi di tipo
politico, diplomatico e militare, ma né a Roma né altrove in Europa
esiste già una strategia chiara e concordata.
Ecco perché il
presidente del Consiglio si preoccupa intanto di richiamare i ministri
del suo governo a una maggiore sobrietà di linguaggio. Inutile parlare
di cinquemila soldati pronti a partire, quando nessuno — e certo non
l’Italia — è in grado di prendere un’iniziativa solitaria. Sul punto
Renzi non ha torto: la corsa a rilasciare interviste, rendendo più
elettrico un clima già teso, serve a poco, se non a complicare la
gestione di un conflitto drammatico. Rispetto al quale l’Italia è solo
un tassello, sia pure rilevante. L’”isteria” lamentata dal premier è
tipica di una classe politica poco preparata alle grandi crisi e portata
a credere che una guerra nel Mediterraneo si possa affrontare con la
stessa aggressiva verbosità di una «querelle» sulla legge elettorale.
Del resto, come diceva Talleyrand, «soprattutto mai troppo zelo ». Ed è
in fondo ciò che chiede Renzi, consapevole del sentiero stretto su cui
il governo deve muoversi.
Da un lato l’Italia non può star ferma e
fingere di non vedere. Nell’assenza di una politica europea (Emma Bonino
aveva chiesto invano un commissario per il Mediterraneo), esiste nei
fatti una divisione territoriale e pragmatica dei compiti. Per cui la
Germania è chiamata a occuparsi dell’Ucraina e all’Italia spetta
l’estremo Sud, quindi la Libia. La comunità internazionale si attende
un’iniziativa sul piano politico e diplomatico: proprio il genere di
passi che Renzi ha evocato nel momento in cui ha precisato che
l’intervento militare non è imminente. Ma cosa vuol dire in concreto?
Nel recente passato l’Italia avrebbe avuto l’occasione di giocare un
ruolo diretto nel teatro libico con Romano Prodi, un mediatore fra le
tribù bene accetto dai locali quando l’Isis non era ancora minaccioso.
Non
si capisce perché, ma la nomina non fu sostenuta dal governo — lo
stesso di oggi — e l’opportunità tramontò. Oggi è tutto più difficile.
L’Italia può adoperarsi per favorire una presa di posizione delle
Nazioni Unite. Il che non significa invio di «caschi blu», ipotesi fuori
della realtà, bensì ottenere la bandiera dell’O-NU come copertura a una
coalizione di «volenterosi ». Questo vuol dire una riunione del
Consiglio di sicurezza, già chiesta dalla Francia, a cui si dovrà andare
preparati. È indispensabile quindi tessere una rete diplomatica
soprattutto con Mosca e Pechino, due capitali con diritto di veto. Ne
deriva che il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri
dovrebbero essere assorbiti in questi giorni in un giro vorticoso di
telefonate con russi e cinesi, ma ovviamente anche con Washington,
Berlino e Parigi. Prima di questo passaggio — ha ancora ragione Renzi — è
inutile parlare di spedizione militare.
Dall’altro lato, il governo
di Roma non può rischiare di non essere preso sul serio dai partner;
ovvero di ritrovarsi isolato di fronte al precipitare degli eventi,
magari costretto a uniformarsi a decisioni prese da altri. Nel 2011
Berlusconi si accodò malvolentieri alla guerra di Sarkozy contro
Gheddafi, adesso non sarebbe possibile comportarsi da gregari in
un’azione multinazionale contro lo Stato Islamico. Certo, la Libia è un
inferno prodotto dagli errori occidentali. Dopo la caduta di Gheddafi
nessuno o quasi si è posto il problema di gestire il vuoto di potere che
si era creato. Adesso che la responsabilità è in parte sulle spalle del
governo Renzi, l’aspetto più importante è la solidarietà reale, non
solo retorica, della comunità internazionale. Al tempo stesso ci sarà
bisogno di quella coesione interna da verificare sul piano parlamentare.
Non è tempo di baratti, del genere prima il patto del Nazareno poi la
politica estera. Semmai è l’ora di rivolgersi agli italiani nel segno
della concordia. Una sfida decisiva per Renzi e il «renzismo».
La Stampa 17.2.15
“Entrare in guerra è facile ma si rischia il pantano”
Il generale Mini: 5 mila uomini? Ne servirebbero 50 mila
intervista di Francesco Grignetti
«Andare
in Libia a fare la guerra è fin troppo facile. Una volta che ci fossimo
infilati in quel pantano, però, difficile sarebbe uscirne. Guardate che
cosa accade dopo 14 anni di Afghanistan». Non è usuale sentire un
generale del nostro esercito usare tanta freddezza nei confronti della
guerra. Eppure Fabio Mini, che è stato il comandante della missione Nato
in Kosovo, e capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze
alleate Sud Europa, non si nasconde dietro le parole.
Generale Mini, perché intervenire in Libia sarebbe una missione tanto sbagliata?
«Perché
ho sentito molta frettolosità nell’analisi del presente, e nessuna
parola sul futuro. Per parafrasare un mio libro, diteci quale guerra
verrebbe dopo la guerra. Spiegateci quale è la strategia complessiva.
Parlare di “peace keeping” alla maniera libanese, non ha senso: non ci
sono due fazioni che si affidano a noi per consolidare una tregua. Fare
come nel 2011 con i raid aerei, poi, lascerebbe le cose come stanno. Se
proprio si deve controllare il territorio, in Libia ci sarebbe da
combattere sul serio e non so se è chiaro che avremmo 50 morti nella
prima settimana. Né si pensi che bastino 5 mila uomini, ce ne vorrebbero
50 mila e forse sarebbero ancora pochi».
L’alternativa sarebbe
un’operazione alla kosovara o alla curda. Noi ci mettiamo potenza aerea e
consiglieri militari, loro le forze di terra.
«Possibile. Ma allora
ci devono dire chi sono gli alleati e chi no. Cioè quali fazioni
appoggiamo e quali contrastiamo. Perché è evidente che l’Isis è soltanto
una bandiera, e sotto ci sono le stesse milizie che prima pagavamo e
che ora indossano la tuta nera perché da quelle parti è diventato un
marchio vincente».
I jihadisti sembrano essere diventati i terzi
incomodi tra due fazioni in rotta, gli islamici di Tripoli e i laici di
Tobruk. Un intervento occidentale rischia di rompere gli equilibri e
coalizzare tutti gli islamisti contro di noi?
«Appoggiando lo
schieramento del generale Haftar, gli egiziani e gli americani avevano
già provato a chiudere la partita con una spallata. I risultati sono
sotto gli occhi di tutti. Egiziani e francesi, da quel che vedo, tentano
ora una nuova spallata ma non penso che avranno successo neppure
stavolta».
E allora, che fare?
«Innanzitutto andrei a rivedere
quell’accordo di amicizia tra Italia e Libia che si firmò ai tempi di
Berlusconi. Se un ampio spettro di forze libiche ci chiedessero aiuto...
Ma abbandoniamo idiozie come l'esportazione della democrazia.
Ipocrisia. Come quella che in questi anni ci fossero uno Stato, elezioni
regolari, e governi legittimi. La Libia è terra di tribù, ciascuna con i
suoi pozzi di petrolio. Se devo dirla tutta, converrebbe che gli
equilibri locali si chiariscano da soli. Con un intervento occidentale
ora, la crisi si internazionalizza e in prospettiva diventa ancora più
ingestibile».
Corriere 17.2.15
Servono 60 mila soldati
di Paolo Rastelli
I
raid aerei non bastano. Ma se in Libia andranno truppe europee quanti
dovranno essere i soldati? Una stima prudente dice non meno di 60.000
con equipaggiamento pesante.
Per partire servono 60 mila soldati
Impossibile
intervenire se non con un’ampia coalizione, necessarie truppe sul
terreno L’Italia si troverebbe a impiegare almeno una brigata pesante,
circa 7 mila uomini
L’ex primo ministro iracheno Nouri al Maliki
l’ha definita senza mezzi termini «Terza guerra mondiale», visto che
viene combattuta contro un’organizzazione, il Califfato di Al Baghdadi,
che aspira al dominio universale. Maliki in quel momento (ottobre 2013)
aveva tutto l’interesse a drammatizzare gli attacchi dell’Isis per avere
il massimo dell’aiuto possibile. Ma certo la minaccia portata dallo
Stato Islamico si sta allargando, producendo una risposta multinazionale
i cui aderenti aumentano giorno per giorno.
Oggi si sono uniti gli
egiziani, che dopo la decapitazione dei cristiani copti diffusa via
video in tutto il mondo, hanno eseguito tre raid aerei in forze in
Libia, aiutati anche da quel poco che rimane di aviazione libica rimasta
fedele al governo di Tobruk, riconosciuto come legittimo dalla Comunità
internazionale: secondo rapporti diffusi dallo stesso governo libico,
una cinquantina di militanti dell’Isis sarebbero rimasti sul terreno
anche se un effettivo controllo di queste cifre è allo stato
impossibile. Qualche giorno fa in Siria erano intervenuti gli F-16 (in
generale il velivolo più diffuso nell’area mediterranea, in possesso
anche dell’Aeronautica militare italiana) della Forze aeree reali
giordane, in risposta all’immolazione del pilota Maaz al Kassasbeh,
bruciato vivo in una gabbia. Sempre in Siria e Iraq hanno lanciato
incursioni, in momenti diversi, aerei americani, australiani,
britannici, francesi, sauditi, del Qatar e degli Emirati arabi.
La
Libia non è raggiungibile agevolmente da tutte queste aviazioni,
soprattutto da quelle degli Stati arabi del Golfo in assenza di basi più
vicine all’obiettivo. Ma comunque sul nuovo fronte aperto dal califfato
è ipotizzabile, se mai avverrà, l’impegno di una robusta coalizione,
più o meno analoga a quella che aiutò i ribelli a rovesciare Gheddafi
nel 2011: Francia, Gran Bretagna, Italia, Canada, Danimarca, Norvegia,
Spagna, Emirati arabi uniti, Qatar, Egitto (che proprio ieri ha concluso
con la Francia l’acquisto di altri 24 sofisticati caccia Rafale), con
l’appoggio degli Stati Uniti, che può anche essere solo di Elint
(informazioni elettroniche) con i velivoli Awacs e
individuazione/illuminazione degli obiettivi.
Da questa lista si
capisce che un eventuale intervento italiano (sul quale peraltro il
presidente del Consiglio Matteo Renzi si è dimostrato per ora alquanto
tiepido) non potrà che essere inquadrato in un’iniziativa Nato con il
via libera dell’Onu. Chiunque interverrà non potrà certo limitarsi ai
raid aerei, per controllare un territorio ci vogliono, come dicono gli
americani, i boots on the ground , gli stivali sul terreno: contro
Gheddafi le forze di terra erano fornite dai ribelli, ma adesso dovranno
essere mandate anche truppe europee. Quante? Secondo una stima
prudente, dovendo bonificare e controllare un territorio vasto senza
rilievi naturali importanti, almeno 60 mila uomini con equipaggiamento
pesante: carri armati, elicotteri di attacco, mezzi trasporto truppe,
genio.
Nel caso dell’Italia, non meno di una brigata corazzata o
meccanizzata tipo Ariete o Garibaldi: due reggimenti di fanteria, uno di
cavalleria corazzata, uno di carri armati, uno di artiglieria
semovente, per un totale di almeno 7 mila soldati. Cosa troverebbero ad
attenderli? Secondo un’analisi diffusa ieri dal Rid , Rivista italiana
difesa, in Libia l’Isis ha un nucleo «duro» di 800 uomini (tra cui molti
reduci del teatro siriano-iracheno) nell’area di Derna. A queste vanno
aggiunte bande sparse, di consistenza incerta, nella Sirte e in
Tripolitania, in parte scissioniste dalle milizie della Fratellanza
musulmana. Per il momento l’armamento sarebbe leggero: mitragliatrici,
razzi anticarro Rpg, mortai. Niente carri armati, per ora.
La Stampa 17.2.15
La scelta guerrafondaia non pagava
di Marcello Sorgi
Parola
d’ordine: niente isteria. Così Renzi ha frenato ogni ipotesi di
intervento in Libia, rinviando ogni decisione a un pronunciamento
dell’ONU e frenando rispetto all’annuncio del ministro della Difesa
Pinotti, che aveva parlato di 5000 soldati pronti a partire e di quello
degli Esteri Gentiloni, che non aveva escluso l’intervento militare.
Renzi
ha espresso le sue valutazioni davanti alla direzione del Pd e ha fatto
capire che le sue decisioni erano frutto di un’approfondita valutazione
fatta in campo internazionale e legata anche al colloquio con il leader
egiziano Al Sisi, che aveva inviato i suoi bombardieri in Libia dopo la
strage dei cristiani copti perpetrata e filmata per propaganda dai
terroristi dell’Is. Il premier ha detto di aver dato la propria
solidarietà al vicino del Cairo, ma ha chiarito che al momento non c’è
alcuna prova che la Libia sia stata conquistata dalle milizie dell’Is. È
possibile invece che quelli che si sono proclamati esponenti del
Califfato siano esponenti locali impegnati nella guerra civile che da
mesi insanguina la Libia.
La frenata del premier non vuol dire che
l’Italia possa chiamarsi fuori definitivamente da un intervento
militare. La risoluzione dell’ONU, chiamata in causa dall’Italia ma
anche da altri paesi europei, potrebbe infatti arrivare entro la
settimana. La coalizione destinata a intervenire, di cui oltre a Italia e
Francia potrebbero far parte Spagna e Gran Bretagna, potrebbe essere
formata nei prossimi giorni e l’intervento vero e proprio, se reputato
necessario, partire più o meno negli stessi tempi. Questo dovrebbe
spiegare domattina alla Camera Gentiloni, che sta coordinando una fitta
rete di contatti internazionali da cui alla fine dovrebbe scaturire la
decisione sull’iniziativa da prendere in Libia.
Quanto al rischio di
attentati sul territorio italiano (il governo e in particolare
Gentiloni, definito “ministro crociato” sono entrati nel mirino dei
terroristi), Renzi ha spiegato che non può essere escluso, ma va
valutato senza emotività, come dire che oggi non è più, ma anche meno,
probabile di ieri. All’affermarsi della linea prudente del governo, che
ha corretto l’impazienza delle prime ore, non sarebbe stato estraneo il
Quirinale. Ma non nel senso di un richiamo diretto del Presidente
Mattarella a Renzi, quanto di una identità di vedute sulla necessità di
aspettare una valutazione compiuta dell’ONU, sotto la cui egida, del
resto, avvenne anche l’intervento voluto da Sarkozy e dalla Francia nel
2011, che portò all’eliminazione di Gheddafi e, malauguratamente, al
caos che adesso ha reso possibile l’aggancio della Libia ai deliranti
programmi del Califfato.
Corriere 17.2.15
La maschera del nemico
di Sergio Romano
È
giusto che l’apparizione in Libia dell’Isis, l’autoproclamato Stato
islamico, susciti le nostre preoccupazioni. È naturale che il governo,
anche se il premier dichiara che non è tempo d’interventi, debba
prendere in considerazione la possibilità di un conflitto. Il
riferimento all’Onu, soprattutto in una situazione in cui l’Italia
avrebbe un ruolo di primo piano, è inevitabile. Ricordiamo che cosa
accadde quando Berlusconi desiderava competere con la Gran Bretagna per
l’ambito ruolo di alleato degli Usa nella guerra irachena. Bastò una
riunione del Consiglio superiore di Difesa e un richiamo all’art. 11
della Costituzione sul «ripudio» della guerra, perché la missione
militare italiana divenisse una paradossale missione di pace. Per chi
voglia opporsi con le armi all’Isis occorre un mandato internazionale.
Ma il mandato dell’Onu da solo non basterebbe. Vorremmo qualche
notizia in più sulla natura dei nemici. Chi sono? Una delle tante
milizie libiche create dopo la dissennata operazione franco-britannica
del 2011? Sono salafiti (una delle varianti più radicali dell’Islam)
provenienti dal Sahara? Obbediscono al «Califfo» Al Baghdadi o hanno
scelto il marchio di fabbrica che è oggi vincente nella gara del
terrore? L’Isis sta combattendo anche una guerra psicologica e non meno
pericolosa. Conosciamo male l’organizzazione, ma sappiamo che ogni
gruppo terroristico sopravvive soltanto se sostituisce i morti con nuove
reclute. E il reclutamento è tanto più facile quanto più
l’organizzazione può rivendicare successi proiettando di se stessa
un’immagine di audacia e ferocia . Un governo deve dare la sensazione di
non avere sottovalutato il pericolo, ma sbaglierebbe se non ricordasse
che un’opinione pubblica allarmata è esattamente l’obiettivo dell’Isis.
Siamo
male attrezzati, militarmente e psicologicamente, per vincere guerre di
guerriglia contro chi non esita a usare la propria vita come un’arma.
La spedizione franco-britannica ha dimostrato che i bombardamenti non
bastano a creare le condizioni per una Libia pacificata e rinnovata. Ma
potrebbero servire a cacciare l’Isis da Sirte, a impedirgli altre
conquiste e a rafforzare le milizie del generale Khalifa Haftar.
La
Libia è certamente un problema italiano. Ma è anche un problema
mediterraneo e dell’Unione Europea. Francia e Spagna non possono
attendere che venga risolto da altri. Una coalizione tripartita,
sostenuta da altri Paesi dell’Ue, non sarebbe utile soltanto sul piano
militare. Dimostrerebbe che l’Europa non è esclusivamente il luogo in
cui si parla di euro, stabilità e crescita. È anche una patria da
difendere.
Il Sole 17.2.15
Tutti i rischi di autogol di un’azione militare
di Gianandrea Gaiani
Sarà
l’Italia a guidare la Coalizione che muoverà guerra allo Stato Islamico
sul fronte libico? Il termine «guerra», inusuale per la politica
italiana che non lo utilizza dal 1945 preferendogli la definizione
«missioni di pace», è stato evocato dal ministro degli Esteri Paolo
Gentiloni. L’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro
della legalità internazionale».
«Non possiamo accettare - aveva detto
il ministro venerdì - che a poche ore di navigazione dall’Italia ci sia
una minaccia terroristica attiva». Una sfida che lo Stato Islamico ha
raccolto e rilanciato con la propaganda e con le armi. Prima la radio
dello Stato Islamico ha definito Paolo Gentiloni «ministro degli Esteri
dell’Italia crociata» poi un gruppo di scafisti armati di kalashnikov ha
imposto all’equipaggio di una motovedetta italiana di consentire loro
di andarsene con il barcone una volta trasferiti gli immigrati
clandestini a bordo sull’imbarcazione italiana. Affermare che l’Italia è
pronta a combattere ha un senso se si sono già autorizzate iniziative
militari ma rischia di diventare un autogol se a queste parole fanno
seguito la rassegnata accettazione che le nostre motovedette possano
essere minacciate (e domani forse aggredite) da terroristi e miliziani e
se l’unica operazione effettuata in Libia dagli italiani è
l’evacuazione dell’ambasciata e degli ultimi connazionali. Una fuga, una
ritirata che fornirà all’attenta propaganda dello Stato Islamico
materiale utile a denigrare l’Italia. Del resto sull’ipotesi di un
intervento militare italiano c’è molta confusione. Lo ha escluso anche
il presidente della Commissione esteri del Senato, Pier Ferdinando
Casini che ha sottolineato «la necessità che l’Onu si assuma la
responsabilità di convocare al più presto il Consiglio di sicurezza». Il
ministro della Difesa Roberta Pinotti si è invece spinta già a
quantificare il contingente da schierare in Libia in 5 mila militari.
Quella libica diverrebbe così la più importante missione nazionale
all’estero con un costo, considerati mezzi, velivoli e navi, superiore
al mezzo miliardo di euro. Dubbi circa la tenuta dell’Italia in un
conflitto sono più che giustificati. Non riusciamo a fermare i flussi di
immigrazione illecita e siamo pronti a fare la guerra in Libia? Siamo
l’unico Paese della Coalizione che non autorizza i suoi aerei a
bombardare i jihadisti a Mosul ma siamo pronti a bombardarli a Sirte?
Sbarcare
in Libia con 5 mila soldati per combattere lo Stato Islamico non ha
senso se non sono chiare le alleanze sul terreno. I due schieramenti
politico –militari che si contendono il Paese e devono entrambi fare i
conti con lo Stato Islamico, sono divisi al loro interno ma concordano
nel non volere stranieri sul suolo libico. Il governo laico di Tobruk
guidato da Abullah al Thani è ai ferri corti col generale Khalifa Haftar
che guida gran parte dell’esercito e la campagna contro gli islamisti. I
miliziani islamici (Fratelli Musulmani, Salafiti, milizie di Misurata)
del “Fronte Alba della Libia” controllano molte aree della Tripolitania
ma pare stiano perdendo alcune milizie attratte dal modello dello Stato
Islamico. Come è accaduto in Siria l’Isis utilizza armi e denaro per
comprare l’adesione di milizie tribali o appartenenti ad altre
organizzazioni. In Libia gli uomini del Califfato hanno incassato e
incassano milioni gestendo i traffici di immigrati verso l’Italia,
denaro che possono investire nella guerra per conquistare Sirte e
puntare ora su Misurata. Prima di sbarcare truppe sulla nostra “quarta
sponda” meglio chiarire che sarà una missione di guerra non certo di
peacekeeping e che la presenza di nostre truppe sul terreno attirerà
terroristi islamici da tutto il Nordafrica e Sahel.
Il Sole 17.2.15
Le voci stonate di Roma, la gara con Parigi
di Gerardo Pelosi
La
diplomazia europea brancola nel buio più profondo sulla crisi libica né
sembra favorire una qualche soluzione la competizione esistente tra
Roma e Parigi tra chi conquisterà la leadership di un intervento
internazionale sotto l’egida Onu o Nato, unica opzione possibile al
momento per il Governo italiano guidato da Matteo Renzi.
L’ alto
rappresentante per la politica estera e di difesa europea, Federica
Mogherini (assente nella crisi ucraina gestita da Merkel e Hollande)
sembra animata dalle migliori intenzioni per la Libia e, giovedì,
incontrerà a Washington il capo della diplomazia Usa, John Kerry e il
ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry. L’Egitto è oggi il Paese
dell’area che più si sta impegnando nella lotta all’Is e l’offensiva
aerea lanciata ieri dal Cairo contro le basi di Derna e Sirte come
risposta alla decapitazione di 21 egiziani copti sembra solo l’inizio di
una storia molto più lunga. È comunque un fatto che mentre il
presidente francese Hollande e il presidente egiziano al Sisi facevano
pressione sull’Onu per una riunione urgente del Consiglio di sicurezza a
New York, il ministro della Difesa francese Le Drian sbarcava nella
capitale egiziana per firmare un maxi-contratto da 5,2 miliardi di euro
per la vendita di 24 caccia-bombardieri Rafale, velivolo
supertecnologico finora mai venduto all’estero. Sono gli stessi “caccia”
fatti decollare dall’ex presidente Sarkozy nel 2011 verso Tripoli per
annientare il dispositivo militare di Gheddafi giunto alle porte di
Bengasi mentre all’Eliseo erano ancora in corso i colloqui tra i leader
europei per valutare l’offensiva, con il nostro premier di allora,
Berlusconi assai prudente sul da farsi. Lo stesso Sarkozy, pochi mesi
prima, aveva accolto Gheddafi all’Eliseo e, a conclusione dell’intricata
vicenda delle infermiere bulgare, aveva dato il suo assenso alla
vendita a Tripoli di forniture militari. L’obiettivo della Francia era
quello di rompere il monopolio di fatto dell’Eni nel settore energetico
dopo la firma del grande accordo di cooperazione e amicizia tra
Berlusconi e Gheddafi che aveva chiuso il contenzioso del periodo
coloniale e consolidato i contratti petroliferi. Ora l’interesse di
Hollande si concentra molto sul Sud della Libia in quelle zone al
confine con il Ciad e il Mali dopo che le forze francesi hanno ripreso
in mano la situazione negli ultimi mesi. Neppure la diplomazia francese,
tuttavia, ha ben chiari al momento i pro e contro di un intervento
internazionale. Per il passato ci si può solo affidare alle parole del
filosofo Bernard Henry Levy secondo il quale la Francia «non ha fatto
male» a intervenire in Libia per far cadere Gheddafi, «l’errore che
abbiamo fatto è stato di andarcene, pensare che la missione fosse
compiuta appena caduta la dittatura». Nulla, comunque, in confronto alle
voci stonate ascoltate in Italia negli ultimi giorni con dichiarazioni
poco prudenti (il Gentiloni dell’Italia «pronta a entrare in guerra»
anche se «nel quadro della legalità internazionale» e il ministro
Pinotti con i 5mila soldati pronti a partire). Se ne è accorto, sia pure
con un certo ritardo, il premier Renzi che ieri ha avuto un colloquio
telefonico con il presidente egiziano al Sisi sul terrorismo, sul futuro
della Libia e sul ruolo dell’Onu. Il premier ha cercato di mettere un
po’ d’ordine nelle ultime prese di posizione spiegando che occorre
«senso di saggezza» perché «non si può passare dalla totale indifferenza
all’isteria». Per Renzi questo «non è il tempo dell’intervento». Ma una
cosa è certa, secondo il premier: «la visione del Governo è una sola e
tutti i ministri la condividono. Aspettare che il Consiglio di sicurezza
dell’Onu lavori un po’ più convintamente sulla Libia coinvolgendo tutti
gli attori in gioco». Tutto ciò premesso Renzi ribadisce che l’Italia
«non si tirerà indietro di fronte alle sue responsabilità perché non
giriamo la testa dall’altra parte». Da qui a immaginare un passo
concreto dell’Italia che produca un risultato concreto come quello che
nel 2006 portò Romano Prodi a guidare Unifil 2, ce ne corre.
Repubblica 17.2.15
La
situazione in Libia pone il Paese di fronte alla scelta più difficile.
Dal ricordo di Caporetto alle missioni in Kosovo e Iraq l’eterno dilemma
tra armi e neutralità
Interventismo
Quando l’Italia sceglie se andare alla guerra
di Filippo Ceccarelli
È
UN interventismo minore, ambiguo e riluttante, se Dio vuole, quello che
da venti o trent’anni va in scena in Italia, e forse merita rispetto
proprio perché la guerra non è mai la cosa più semplice del mondo, né si
rende più facile e più bella chiamandola — ah, le delizie
dell’ipocrisia anglofona! — “peace-keeping” o come negli ultimi giorni
“peace-enforcing”. Così in Libano (1982), nel Golfo Persico (1987 e
1990), nella prima guerra del Golfo (1991), come poi in Somalia (1992),
in Kosovo (1999), in Afghanistan (2002), in Iraq (2003) e in Libia
(2011) ogni volta è stato un tormento, o meglio: uno stranguglione.
Esiccome
l’Italia è sempre l’Italia, ecco che questo mezzo interventismo
inespresso e sorvegliato, questo spedire aerei, navi e soldati
all’estero senza dirlo e talvolta senza neppure farlo, questo fritto
misto di retorica e di omertà, di timore e di sapienza, di furbizia e
buon cuore, insomma, non solo finisce per assomigliare a una specie di
sfuggente neutralità, ma riattiva spassosi ri- cordi e scoppi d’ira,
melodrammi e sarcastiche ammissioni dei propri limiti guerrieri.
Quale
altro paese al mondo, d’altra parte, avrebbe mandato a combattere un
ammiraglio, l’indimenticabile Buracchia, che prima ancora di arrivare a
destinazione dichiarava a Famiglia cristiana «Eh, con un po’ di saggezza
la guerra si sarebbe evitata...»? E come è stato possibile bombardare
la Serbia tenendo aperta l’ambasciata a Belgrado?
Nel primo caso,
agli albori di “Desert storm”, il premier Andreotti si liberò come un
anguillone dalla stretta Nato per rivolgersi a Gorbaciov e addirittura
Formigoni si portò a Bagdad con l’idea di liberare gli ostaggi di Saddam
scongiurando il conflitto. Nel secondo, quatti quatti, i
cacciabombardieri italiani formalmente volarono ex post sulla ex
Jugoslavia, nel senso che il Parlamento diede l’assenso quando già
avevano compiuto il loro triste compito ed erano sulla via del ritorno; e
a rendere la faccenda ancora più singolare, ce li aveva mandati quello
stesso D’Alema che qualche anno prima s’era segnalato a piazza San
Pietro, con bimbo o bimba sulle spalle, a reclamare la pace sotto il
balcone del Papa.
Ci sono ovviamente ragioni storiche dietro a tutto
questo. Il ricordo inconfessabile di Caporetto, del disastro fascista,
dell’8 settembre. La Costituzione che ripudia espressamente la guerra.
Il lungo predominio di culture politiche, la comunista e la cattolica,
lontane se non ostili al Risorgimento e istintivamente restie alla
prospettiva di uno Stato in armi. La presenza inoltre del Vaticano,
sempre a favore della pace. E infine di un forte e fino a qualche anno
fa anche fantasioso movimento pacifista cresciuto negli ultimi vent’anni
con marce, camping, sit-in, grandi manifestazioni, donne in nero e
bandiere arcobaleno esposte alle finestre.
E tuttavia quasi sempre in
Italia le missioni militari si sono intrecciate anche con le beghe
della politica politicante. C’è chi ricorda — lo documenta una preziosa
velina di Orefice — che nel 1995 qualche irresponsabile coltivò il
progetto di un intervento nei Balcani per evitare il rischio di elezioni
anticipate. E se una volta Ciriaco De Mita chiese il ritorno dei
soldati italiani dal Libano mentre faceva il bagno, con i giornalisti
che prendevano appunti camminando sul bordo della piscina dell’hotel
“Villa Igiea” di Palermo, il record della confusione istituzionale va
senza dubbio a Francesco Cossiga.
Il quale Cossiga, come altri nel
suo partito (Evangelisti, per dire, o Ciarrapico) collezionava soldatini
di piombo; e devoto com’era agli alleati d’oltreoceano, rifuggiva in
teoria da ogni vocazione pacifista, tanto che a un certo punto del
settennato piantò un bella grana su chi dovesse comandare in caso di
guerra (i democristiani istituirono naturalmente una bella commissione,
affidandola al professor Palladin che produsse il più salomonico
verdetto). Al momento di dare una lezione a Saddam, perciò, si disse
favorevole come cittadino e presidente, ma come cattolico del tutto
contrario all’intervento, fino a valutare l’ipotesi di dimettersi. Salvo
poi coprire d’improperi un giornalista inglese che aveva osato
ironizzare sulla scarsa attitudine bellica degli italiani.
Anche su
quest’ultima, fin dai tempi di Napoleone, e come si potrebbe documentare
da un famoso articolo di Benedetto Croce fino al retroscena secondo cui
Mamma Rosa fece promettere a Silvione suo di non mandare soldati fuori
dai confini, esiste del resto una diffusa leggenda. Ma pure
un’aneddotica inveratasi e aggiornatasi nel recente passato grazie ad
alcuni fantastici inci- denti, tipo il portellone bloccato che impedì ai
bersaglieri di sbarcare in Libano o la “Vittorio Veneto” che si arenò
con ignominia nella rada dinanzi a Valona.
Di altro genere, ma meno
divertente, la circostanza per cui alcune unità navali furono impiegate
nel Golfo Persico per sminare delle mine, appunto, che però erano di
fabbricazione italiana. In realtà, e al netto delle resistenze, delle
avventure e delle trovate più o meno folcloristiche che si possono
mettere in conto ai governanti e più in generale al ceto politico,
nessuno può oggi sostenere che i soldati italiani non abbiano svolto il
loro dovere fuori dai confini, spesso offrendo il loro contributo di
sangue.
Ma il punto delicato è che più spesso di quanto si voglia far
credere chi non vede altra soluzione che la guerra e reclama
l’intervento ha molto spesso qualcosa da nascondere. E anche se non ce
l’ha, rispetto all’esperienza della storia e alla posta in gioco, è nel
gioco democratico che ci sia qualcuno che glielo attribuisce.
il Fatto 17.2.15
“A sud di Roma”
Il Califfo dirimpettaio non sa che la Sicilia è già islamica
di Pietrangelo Buttafuoco
A
sud di Roma vuol dire essere già in Sicilia. Significa, più
precisamente, trovarsi al confine d’Italia che sta sotto la Calabria e a
nord del Califfato. Quel mare bagnato dal sangue dei ventuno cristiani
passati a fil di coltello è il Mediterraneo, il Mare Nostrum. Sono 450 i
chilometri da Sirte e poco ci manca che un peschereccio di Porto
Empedocle, la città del commissario Montalbano, finisca per essere
sequestrato dai libici. Questi, a differenza di un tempo – quando c’era
Muhammar Gheddafi – non mercanteggeranno ma uccideranno. E ci faranno
anche un video: a maggior gloria dell’Isis, lo Stato islamico, che è
arrivato in Libia ed è, di fatto, dirimpettaio della Repubblica
italiana.
Il Califfo che sta alle porte di Roma cerca Palermo, la
città “dalle duecento moschee”. Così nella definizione delle cartografie
di Idrisi, geografo di Re Ruggero, che stabilì in Sicilia il tracciato
dei tre valloni segnato dagli emiri: il Val Demone, il Val di Mazara e
il Val di Noto. Salemi è Salam ed è una geografia quella siciliana che
già nella traslitterazione – da Caltanissetta a Caltabellotta, da
Racalmuto a Regalbuto – nel passaggio dall’alfabeto latino a quello
arabo non cambierebbe il suono essendo la lingua coranica il codice
identificativo della toponomastica e anche della stessa anagrafe. Così,
infatti, i cognomi tipici di Sicilia: Alì, Calì, Zappalà e Sciascia.
Quando
si dice “colpo di striscio, fu”, quel dislocare a sinistra il colpo
mettendo il verbo alla fine è ben più di un arabismo, è carta
d’identità. Come il saluto siciliano: “Sabbenedica”. La traduzione
letterale è “la benedizione di Dio su di voi”, ovvero Salam wa Aleikom. A
sud di Roma c’è tutto questo, c’è anche – tra le incompiute del regime
democristiano – lo scheletro di un albergo. È a Pantelleria. E il
fabbricato fu a suo tempo conteggiato tra le proprietà del colonnello
Gheddafi che non potendo beccare l’isola coi suoi missili pensò bene –
grazie all’avvocato Michele Papa, il suo brasseur d’affaires – di
comprare il più possibile pezzi di territorio italiano, anche un palazzo
a Catania dove allocare una moschea. A sud di Roma c’è Santa Croce
Camerina, teatro del tragico omicidio di Loris, un paese ad alta
concentrazione di immigrati dove nessuno, grazie a Dio – a differenza
del delitto Yara dove si cominciò con l’arrestare un marocchino – ha
evocato l’uomo nero. Ciò a riprova dell’avvenuta integrazione, man mano
consolidatasi, portando solidità all’agricoltura nell’area ragusana.
A
SUD DI ROMA c’è Mazara del Vallo. La numerosa comunità tunisina è
presente da cinquant’anni e la casbah della città – fino a sei anni fa
senza allaccio idrico e fognature – è oggi il quartiere modello dove
dovrebbe andare a lezione la destra xenofoba e islamofoba. Nicola
Cristaldi, il sindaco missino, potrebbe spiegare come svegliare la
remota identità che, in questo caso, è anche islamica. Gli immigrati, a
Mazara, sono gli anticorpi contro la peste fondamentalista wahabita.
Sono, infatti, “tornati” a essere mazaresi nel flusso mai interrotto col
Maghreb. Ciò che per l’Europa è solo una periferia – la discarica del
pittoresco, la famosa Regione siciliana – nella percezione dei
terroristi è un approdo. Gli assatanati dell’Isis sono più veloci degli
analisti occidentali. È in Sicilia che, ben oltre la stessa radice
culturale, individuano il boccone più ghiotto. Il Califfo impostore,
bestemmiatore dell’islam, sparge spavento sapendo di potervi condurre –
Siqillyya è “la perla dell’islam” – la tappa prossima della guerra
civile globale. È il terrore, nostro dirimpettaio.
Corriere 17.2.15
Il primo test di Mattarella con le opposizioni
Parlare
di un consulto con tutte le forze politiche d’opposizione è improprio
per almeno un paio di motivi. Perché il termine evoca di per sé qualcosa
di drammatico e lo staff di Sergio Mattarella vuole tenere il più
possibile a bada l’emotività. E poi perché quello che comincia in queste
ore è solo un parziale giro d’orizzonte: udienze in ordine sparso
concesse ai gruppi parlamentari che hanno chiesto un incontro con lui.
Sfumature lessicali a parte, di sicuro gli incontri calendarizzati per
stamane (alle 10 salirà la delegazione di Forza Italia e alle 11 quella
di Sel, mentre entro la settimana dovrebbe presentarsi anche il
Movimento 5 Stelle) costituiranno comunque per il capo dello Stato il
primo test per approfondire le ragioni che hanno fatto deragliare il
confronto politico in una balcanizzazione del Parlamento. Con durissime
contestazioni alla presidente dell’Assemblea, accuse al premier Renzi di
«deriva autoritaria» e «ferita mortale per la democrazia», risse in
Aula, minacce di Aventino e lo spettro delle urne agitato da diversi
versanti. Un vero choc per il Paese.
Prove di forza più o meno simili
questo presidente della Repubblica ne ha viste, negli anni in cui ha
fatto politica. Stavolta però, oltre a rompere fragorosamente la piccola
tregua nata sulla sua elezione (ed è ovvio che non s’illudeva durasse
più di tanto), il conflitto andato in scena a Montecitorio pone problemi
di particolare peso. Il braccio di ferro con il governo, infatti, verte
su una profonda (42 articoli) riforma costituzionale, e i postumi dello
scontro potrebbero mettere in gioco la stessa tenuta della legislatura.
Accogliendo i suoi interlocutori, Mattarella si porrà dunque «in
atteggiamento di ascolto, con lo spirito di chi vuole contribuire — per
la parte che gli compete — a un rasserenamento del clima generale e, sì,
al corretto svolgimento della dialettica parlamentare». Traducendo:
senza interferire nel ruolo di garanzia che compete a chi è alla guida
delle Camere. Questo spiegano dal Colle. Ed è scontato che, in quel
promesso sforzo «arbitrale», al capo dello Stato in ogni caso non sfugga
il fatto che la stessa riforma oggi contestatissima, era pur passata al
Senato con una maggioranza significativa. Lo strappo può essere
ricucito? Su quali basi e a che condizioni? Ecco che cosa potrà capire
dai suoi primi colloqui il presidente, mentre altre complicatissime
grane incalzano il Quirinale. A partire dall’avanzata dell’Isis in
Libia.
Corriere 17.2.15
Lo scenario internazionale, un’occasione per ricucire
di Massimo Franco
La
frenata di Matteo Renzi su un intervento militare italiano in Libia
riporta la questione nell’alveo internazionale che meritava. E può
diventare un modo per tentare la ricucitura con le opposizioni sulle
riforme istituzionali: dividersi sulla politica estera è più difficile
che su altri temi. L’idea di «aspettare il Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite» toglie di mezzo alcune parole avventate dei suoi
ministri. E probabilmente argina il rischio di mostrare un’Italia
tentata da un’offensiva unilaterale per fermare l’Isis: pericolo che si è
affacciato per qualche ora.
In realtà, le polemiche rimangono aspre.
Forza Italia e M5S approfittano di quanto avevano detto a caldo i
ministri degli Esteri e della Difesa, Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti,
per tacciare il governo di «dilettantismo».
Di certo, l’inesperienza
ha influito sulle prime reazioni, mostrando una carenza vistosa di
coordinamento. Ma ieri Palazzo Chigi ha richiamato alla «saggezza,
prudenza e senso della situazione». Non si può passare, spiega Renzi,
«dall’indifferenza totale all’isteria».
Il ricordo dei bombardamenti
euroamericani del 2011 e la tribalizzazione sanguinosa seguita alla
rimozione del dittatore Gheddafi sono vivi; e così la consapevolezza che
il caos rappresenta una delle principali conseguenze di un attacco
deciso ed eseguito allora senza valutarne i contraccolpi strategici e
geopolitici. Si tratta di un errore da non ripetere: anche perché
avrebbe effetti dirompenti all’interno della stessa maggioranza. Una
politica estera concordata potrebbe invece svelenire lo scontro tra
governo ed opposizioni sulla riforma della Costituzione: quello che le
ha portate ad abbandonare l’Aula della Camera e ad accusare Renzi di
«deriva autoritaria».
Il presidente del Consiglio ha rivendicato il
ruolo del suo partito nell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. A
poche ore dall’incontro di oggi tra il capo dello Stato e delegazioni
di FI, Sel e Lega, Renzi si è impegnato in direzione «a fare ciò che
l’arbitro ci ha chiesto nel discorso inaugurale: tutto il Pd è impegnato
per dare una mano all’arbitro». Impegno «non semplice perché proprio il
voto per il Colle ha prodotto una rottura motivata da FI con questioni
di metodo». C’è dunque la volontà di offrire una sponda a Mattarella.
La
decisione del governo di riferire domani alla Camera sulla crisi libica
va in questo senso. Rimane da capire se basterà. Renzi sostiene di
volere il confronto, eppure insiste: il Pd ha i voti per fare da solo.
Tende a definire le opposizioni come «palude». E avverte: «Niente do ut
des ». Tanto basta per ricevere reazioni stizzite da FI. Berlusconi
manda il capogruppo Renato Brunetta al Quirinale per avvertire: il
premier non può imporre il «prendere o lasciare». Insomma, la Libia
suggerirebbe l’unità nazionale. Il problema è se si troveranno i toni
giusti per tracciarne confini condivisi.
il Fatto 17.2.15
Brindisi col buco
Matteo, la Boschi e la birra con Buzzi
Chissà
se Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative rosse che lavorava per
Massimo Carminati, ha assaggiato la birra Flea alla cena di
autofinanziamento del Pd lo scorso 7 novembre. Buzzi versò 10 mila euro
per accomodarsi a uno dei tavoli renziani e tra le bevande trovò le 800
bottiglie di birra prodotta a Gualdo Tadino dal 34enne Matteo Minelli,
imprenditore in buoni rapporti non solo con il premier ma anche con la
famiglia Boschi e la banca guidata dal papà del ministro: la popolare
dell'Etruria. Capita infatti che il giovane umbro abbia ricevuto dei
finanziamenti dall'istituto di credito commissariato da Banca d'Italia,
dopo aver preso parte all'operazione Palazzo della Fonte. Un'operazione
che ha contribuito a creare il buco di circa 3 miliardi della popolare.
Se l'avesse saputo, magari Buzzi (e i suoi soci) avrebbe potuto dare una
mano.
il Fatto 17.2.15
Eur Spa adesso vende anche i musei
Dopo il Campidoglio, a Roma si fa cassa liquidando gli immobili
E pure l’Archivio di Stato
di Valeria Pacelli
Non
solo il Campidoglio. A Roma si vende di tutto, anche i musei. La
necessità di fare cassa infatti ha coinvolto anche le municipalizzate
della Capitale. In particolare l’Eur spa – l’ente controllato al 90 per
cento dal Tesoro e il restante dal Comune di Roma – che deve
ricapitalizzare per ben 133 milioni di euro. Troppi soldi che avrebbe
dovuto versare il Tesoro (dato che il comune di Marino non naviga di
certo in buone acque: il debito generato negli anni a oggi ammonta a
circa un miliardo di euro).
L’Eur spa oltre alle finanze, ha anche il
problema di ricostruire la propria immagine pubblica, dopo che l’ex
amministratore delegato, Riccardo Mancini, è finito coinvolto nella
vicenda di Mafia Capitale. Arrestato e poi scarcerato, perché ritenuto
vittima della presunta associazione criminale, Mancini viene anche
definito nelle motivazione del Riesame di Roma, che ha fatto decadere
nei suoi confronti l’accusa di associazione a delinquere, “un
personaggio certamente contiguo ad ambienti criminali di elevato
spessore”.
TUTTAVIA NON È LA PRIMA volta che Mancini ha dei guai con
la giustizia: già a marzo 2013 finì coinvolto in un’inchiesta per una
tangente su un appalto per la fornitura di 45 autobus al Comune di Roma.
Mentre cercano di far dimenticare questo passato, i membri
dell’assemblea dell’ente Eur hanno deciso di allinearsi alla politica
del sindaco Marino e ieri hanno approvato la modifica dell’articolo 4
dello statuto, prevedendo quindi la possibilità di vendere alcuni
immobili, anche musei, sperando così di incassare oltre 300 milioni di
euro. “È una svolta – ha commentato il successore di Mancini, Pierluigi
Borghini – che prevede il ripianamento completo dei debiti con la
copertura delle necessità finanziarie passate e future, compreso il
completamento delle opere in corso, dalla Lama alla Nuvola all’ex
Picar”.
Proprio la Nuvola, progettata dall’architetto Massimiliano
Fuksas, dopo molti ritardi (il primo appalto per i lavori è stato
affidato nel lontano 2002), dovrebbe essere pronta entro la metà del
2016, mentre i suoi costi nel tempo sono lievitati: se tutto va bene
costerà circa 430 milioni di euro.
Una lista di immobili da vendere
quindi già c’è: come l’archivio centrale dello Stato, il museo Pigorini,
il museo delle arti e tradizioni popolari e il museo dell’alto
medioevo. Non verrà venduto invece il palazzo della civiltà italiana,
noto come “Colosseo Quadrato”, già affittato dal luglio del 2013 al
gruppo Fendi, che ha firmato un contratto per nove anni, con un canone
che aumenta con il passare del tempo. “Il canone annuo di locazione – è
scritto nel contratto visionato dal Fatto – è pattuito: per i primi due
anni in 2 milioni di euro, per il terzo e quarto anno, in 2,5 milioni di
euro”. Cifra che a partire dal quinto anno arriva a 2,8 milioni, oltre
l’Iva. Se da una parte L’Eur continuerà a possedere quanto meno il
Colosseo Quadrato, dall’altro il Campidoglio metterà in vendita una
serie di immobili, dopo aver fatto una lista di chi da anni ha la buona
abitudine di non pagare gli affitti o di continuare a pagarli per cifre
irrisorie.
PER LA PRECISIONE, il Comune ha 751 immobili da
dismettere. Nella maggior parte di questi, vivono inquilini morosi o non
paganti, altri 58 sono liberi, mentre solo 63 regolari. Qualora fossero
tutti affittati, nelle casse del comune entrerebbero circa 27 milioni
di euro. A oggi invece quegli affitti fruttano poco più di un 1,7
milioni. Così si scopre che qualcuno a Roma riesce a pagare poco più di
100 euro per una casa di 94 mq in piazza della Consolazione. La scelta
del comune però è più che altro quella di vendere, anche se pure
stavolta sul caso è dovuta intervenire la Corte dei conti.
Repubblica 17.2.15
Eur, in vendita i musei e l’Archivio di Stato
Borghini: “Non cederemo il Colosseo quadrato. Con quei soldi finiremo la nuvola di Fuksas”
di Francesco Erbani
ROMA
VICINA al collasso finanziario, l’Eur aliena i suoi gioielli. La
società che gestisce un intero quartiere romano, quasi fosse il suo
feudo, ha deciso di vendere i palazzi che ospitano l’Archivio centrale
dello Stato e i musei Luigi Pigorini, quello delle Arti e delle
Tradizioni popolari e quello dell’Alto medioevo. Sembrerebbe salvo,
almeno per il momento, il Palazzo della civiltà del lavoro, il
cosiddetto Colosseo quadrato. Con i 300 milioni che si spera di
incassare, assicura il presidente Pierluigi Borghini al termine di una
riunione del consiglio d’amministrazione, sarà completata la Nuvola di
Massimiliano Fuksas. Ma non solo, perché per la chiusura di quel
cantiere mancano 130 milioni.
Pezzi importanti del patrimonio
culturale vengono messi sul mercato per finire un Centro congressi che
sembra una voragine senza fondo. Ma sono anche altre le operazioni
spericolate condotte dalla società di cui era amministratore delegato
Riccardo Mancini, uomo legatissimo all’ex sindaco Gianni Alemanno,
finito in galera prima per tangenti e poi per Mafia capitale. Dalla
demolizione del Velodromo allo scorticamento delle torri di Cesare
Ligini. Altri manufatti di pregio, la cui sorte fu decisa durante
l’amministrazione Veltroni.
I palazzi in vendita, per i quali
Borghini sostiene ci siano già delle offerte, non sono edifici
qualsiasi. Fanno parte di un complesso architettonico avviato alla fine
degli anni Trenta e completato dopo la guerra. Un quartiere nato per
iniziativa del regime fascista, ma realizzato seguendo criteri
urbanistici di qualità, dagli assi viari al verde. La sede dell’Archivio
centrale fu progettata da Mario De Renzi insieme ai più giovani Gino
Pollini e Luigi Figini. L’edificio è documentato in tutti i testi
d’architettura e qui, in 110 chilometri di scaffalature, è custodita la
memoria cartacea del paese.
L’Eur è una spa interamente in mano
pubblica. Il 90 per cento è del ministero dell’Economia, il 10 del
Comune di Roma. Paradossalmente il ministero per i Beni culturali paga
all’Eur quasi 5 milioni l’anno di affitto per l’Archivio. Per il Museo
Pigorini 3,6 milioni. Per il Museo delle Arti e delle Tradizioni
popolari 1 milione 890 mila. Per il Museo dell’Alto Medioevo 370mila. Ma
tutti questi soldi che escono da un portafoglio pubblico per entrare in
un altro portafoglio pubblico, non sono bastati a rimettere in sesto le
disastrate casse dell’Eur. Che ora dice di essere costretta anche a
licenziare 40 persone.
Quella dei musei dell’Eur è una storia che si
trascina da decenni. In origine l’Archivio centrale pagava all’Eur un
canone di concessione in uso. Era previsto infatti che l’Eur fosse
liquidato e che il palazzo rientrasse nel patrimonio dello Stato. Nel
2000, invece, l’Eur venne trasformato in spa (era un epoca di
ubriacatura da privatizzazioni). Nel frattempo la concessione in uso era
diventata un canone d’affitto a prezzi di mercato, lievitato fino ai
quasi 5 milioni di oggi.
Ma in quali mani finiranno gli edifici? E
che cosa ne sarà di quel che contengono, le carte dell’Archivio e le
collezioni dei musei? L’operazione di vendita non può essere completata
senza l’assenso di diverse soprintendenze. Gli edifici sono tutti
vincolati e vincolato è quel che custodiscono. Borghini sostiene che si
sono fatti avanti sia privati che enti pubblici. Ai quali lo Stato
potrebbe continuare a pagare salatissimi affitti affinché custodiscano
beni che sono di tutti. «Alienare un patrimonio che già doveva essere
pubblico e che è stato gestito malamente, per fare cassa, ripianare
debiti e allo stesso tempo garantire agli acquirenti profitti sicuri è
una operazione scellerata», sostiene la Cgil Funzione pubblica.
il Fatto 17.2.15
Partita a poker
La linea dura di Varoufakis: “Noi non stiamo bluffando”
di Yanis Varoufakis
In
un editoriale sul New York Times di ieri dal titolo “Non è tempo per
giochi in Europa”, il ministro dell’Economia greco Yanis Varoufakis ha
spiegato la strategia negoziale del suo governo a Bruxelles. Riprendiamo
qui in pillole le frasi salienti per capire cosa pensa.
Se c’è
qualcosa che la mia competenza nella teoria dei giochi mi insegna è che
sarebbe pura follia pensare agli attuali negoziati tra la Grecia e i
suoi partner come una partita che si può vincere o perdere con bluff e
tatticismi”.
GLI INCENTIVI. “Il problema della teoria dei giochi è
che, come spiego ai miei studenti, è che dà per scontati gli incentivi
dei giocatori.
A poker o blackjack questo non è un problema, ma in
questi negoziati tra governo greco e partner europei, tutta la questione
è trovare nuovi moventi. Scoprire un nuovo approccio mentale che vada
oltre le divisioni nazionali, dissolva la distinzione tra debitori e
creditori favorendo una prospettiva pan-europea e metta il bene comune
degli europei al di sopra delle politiche-feticcio e dei dogmi che si
sono dimostrati tossici se applicati in modo universale”.
BLUFF.
“Spesso mi chiedono: che succede se il solo modo per ottenere
finanziamenti è attraversare le tue linee rosse e accettare misure che
consideri parte del problema invece che della soluzione? Fedele al
principio che non ho il diritto di bluffare, la mia risposta è questa:
le linee che abbiamo presentato come rosse non saranno oltrepassate.
Altrimenti non sarebbero davvero linee rosse, ma soltanto un bluff”.
RIFORME.
“Niente più prestiti, almeno – non finché non avremo un piano credibile
per l'economia in modo da ripagare quei prestiti, aiutare la classe
media a sostenersi da sola e affrontare una terribile crisi umanitaria.
Mai
più programmi di “riforme” che hanno come bersaglio poveri pensionati e
farmacie di proprietà famigliare mentre lasciando intonsa la corruzione
su vasta scala”.
DEBITI. “Il nostro governo non sta chiedendo ai
partner un modo di non pagare i debiti. Chiediamo qualche mese di
stabilità finanziaria che ci permetta di impegnarci in riforme che la
popolazione greca possa in larga misura sostenere e sentire proprie,
così che possiamo riportare la crescita e mettere fine alla nostra
incapacità di rispettare gli impegni presi”.
KANT. “Come facciamo a
sapere che la nostra modesta agenda di politica economica, che
costituisce la nostra linea rossa, è giusta in termini kantiani? Lo
sappiamo guardando negli occhi le persone affamate che riempiono le
strade delle nostre città o la classe media sotto pressione, o
considerando gli interessi di ogni lavoratore nell'unione monetaria”.
La Stampa 17.2.15
Ma i peggiori nemici di Tsipras sono Irlanda, Spagna e Portogallo
I Paesi “salvati” dalla Troika: stiamo perdendo la pazienza
di M. Zat.
Si
può capire l’irritazione di Pedro Passos Coelho nei confronti di Alexis
Tsipras. All’inizio dello scorso anno - pur di racimolare un centinaio
di milioni extra per rimborsare Bce, Fmi e Ue - il premier portoghese ha
cercato di vendere all’asta 85 opere di Mirò finite nel portafogli
dello Stato dopo il crac del Banco de Negocios. Glielo hanno impedito a
furia di proteste ed è stato un bene. A colpi di austerità e riforme,
nel maggio 2014 Lisbona è uscita dal «programma» triennale da 78
miliardi che gli ha evitato la bancarotta. È stata dura, ma ha pagato.
Nonostante il superdebito, il pil a dicembre dovrebbe crescere
dell’1,6%. «Abbiamo rispettato gli impegni», argomenta il leader
lusitano. E «questa deve essere la regola».
I peggiori alleati della
Grecia sono le capitali uscite da tunnel, quelle finite sott’acqua e
tornate a galla. Portogallo, Irlanda e Spagna sono state messe in
ginocchio dalla crisi finanziaria che ha minato il sistema bancario e
hanno salvato i loro istituti coi prestiti condizionati dei creditori
internazionali guidato dalla famigerata Trojka. Inevitabile che, a
Madrid, Mariano Rajoy tuoni che «non posso contemplare lo scenario della
Grecia che non rispetta gli impegni che ha preso». Per lui è questione
di principio, ma anche politica. Se il leader di Syriza la spuntasse
gratis, i lanciatissimi cugini iberici di Podemos avrebbero gioco ancora
più facile, e i popolari del premier sarebbero spazzati via.
Rajoy verso le urne
Meglio
impuntarsi, dunque, mano nella mano coi portoghesi, che pure devono
superare l’esame delle urne. Il taccuino dice che in un anno la Spagna è
riuscita a coprire una esposizione con l’Europa da 41,3 miliardi. Il
prezzo sociale è stato elevato, soprattutto in termini di disoccupazione
(22,5% della forza lavoro), è l’anno che s’è appena iniziato è
contrastato, l’economia potrebbe crescere di oltre due punti, ma
l’inflazione è negativa. A fine anno si vota. Rajoy, quasi simbiotico
con Angela Merkel in tempi recenti, non può che restare fedele alla
linea delle regole. «La Grecia non ha tanto il problema del debito,
quanto quello di crescita e occupazione - ha detto venerdì a Bruxelles
-. Su questi due fronti fa passi nella giusta direzione, pertanto ora
mantenga gli impegni presi».
Tutti contro Atene
Al vertice europeo
il clima è stato teso. «Volete solo scontri, chi credi di essere?», ha
detto lo spagnolo al greco. «E’ nervoso - gli ha risposto Tsipras -: ho
avuto l’opportunità di spiegargli che non può esternalizzare in Europa i
problemi interni». L’irlandese Enda Kenny non sarebbe stato d’accordo.
«In Consiglio è stata sottolineata con forza il punto di vista secondo
cui le regole vanno rispettate», ha spiegato il Taoiseach, che ricordato
come «anche noi abbiamo sofferto molto l’austerità». «Stiamo
cominciando a perdere la pazienza», gli ha fatto eco Alexander Stubb, il
premier finlandese, un uomo che detesta i giri di parole. Il risultato è
che all’Eurogruppo ieri erano 18 contro uno, i greci che, i fan, non li
hanno in Consiglio ma nelle capitali. All’opposizione, però.
Repubblica 17.2.15
L’amaca
di Michele Serra
BIBI
Netanyahu ci ricorda che l’ottusità è, nella storia umana, un fattore
purtroppo notevole. Come ha spiegato benissimo, e con condivisibile
animosità, Gad Lerner su questo giornale, invitare gli ebrei europei ad
abbandonare i loro paesi per trovare rifugio in Israele equivale a
concedere all’antisemitismo e al terrorismo una patente di
invincibilità: come se la sola cosa da fare fosse scappare a gambe
levate. E come se le comunità nazionali delle quali quegli ebrei, a
milioni, fanno parte a pieno titolo da molte generazioni fossero così
imbelli e impreparate da non essere in grado di proteggere i propri
cittadini.
Di peggio c’è solo da aggiungere che il pensiero di
Nethanyau racchiude, alla massima potenza, la perniciosa idea che ognuno
di noi sia ciò che è solo in conseguenza della religione e/o
dell’etnia; mentre essere francesi o inglesi o italiani o danesi o
europei è uno status che, anche formalmente, non deriva in alcun modo da
religione o etnia. Qualcuno spieghi a Bibi che gli ebrei francesi e gli
ebrei danesi sono francesi ebrei e danesi ebrei: e non è la stessa
cosa. Il patto sociale, nelle democrazie moderne, non è tra
correligionari, è tra concittadini. Un mondo organizzato alla maniera di
Netanyahu prevede tutti gli ebrei in Israele, tutti gli islamici in
Arabia e tutti i cristiani a Roma? E gli atei? Tutti a Las Vegas?
Repubblica 17.2.15
Le due Russie in conflitto
di Timothy Garton Ash
“MAI
più!” fu il grido degli europei dopo la prima guerra mondiale. E
ancora, dopo il 1945, ancora, dopo la Bosnia nel 1995. Ma è successo di
nuovo. Nutro una speranza forte quanto il dubbio che l’accordo di Minsk
raggiunto grazie agli eroici sforzi di Angela Merkel conduca alla pace.
Ma anche nell’eventualità altamente improbabile che ciò accada, siamo
già andati troppo oltre.
Un altro Paese europeo è stato smembrato,
con la forza. Secondo le stime Onu i morti sono almeno 5.400, i feriti
13.000 e circa 1,6 milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro
case. La Russia si è formalmente annessa la Crimea, il territorio di uno
stato sovrano confinante. L’accordo “Minsk 2” per il cessate il fuoco
siglato la scorsa settimana stabilisce che l’Ucraina recuperi il pieno
controllo della sua frontiera orientale con la Russia solo entro la fine
di quest’anno e solo se si terranno elezioni e verrà conferito lo
“status speciale” alle regioni di Donetsk e Luhansk.
L’accordo
prevede anche che il governo di Kiev continui a pagare le pensioni, i
salari e le “utenze” per regioni che ormai non controlla più. Pensate, è
come cedere il soggiorno di casa propria a chi ti punta la pistola alla
testa essendo costretti a continuare a pagare le bollette.
Da
persone di buon senso possiamo avere idee diverse su come contrastare
questa vergognosa aggressione, ma almeno non dovremmo farci illusioni
sulla realtà che abbiamo di fronte. Vladimir Putin sfida
intenzionalmente l’Unione Europea con uno stile diverso di fare
politica, datato e peggiore. La ragione è della forza. Il nero è bianco.
La guerra è tornata sulla strada maestra e il diritto zoppica verso il
fossato, come un profugo ferito.
Tutto questo accade in un Paese che
Russia, Stati Uniti e Gran Bretagna — ma a chi importa più della Gran
Bretagna ormai? — giurarono solennemente di mantenere integro sotto il
profilo territoriale nel memorandum di Budapest del 1994, purché
l’Ucraina fresca di indipendenza rinunciasse al proprio arsenale
nucleare, uno dei maggiori del mondo. Cito testualmente: «La Federazione
russa, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e gli Stati
Uniti d’America ribadiscono il proprio impegno … a rispettare
l’indipendenza e la sovranità e i confini esistenti dell’Ucraina ».
Firmato: Boris Yeltsin, Bill Clinton e John Major. Immaginate che razza
di lezione trarranno dal mancato rispetto di questa garanzia altre
potenze nucleari o aspiranti tali: saranno invogliate a non fidarsi e a
non rinunciare in nessun caso alle armi nucleari.
La legge della
giungla di Mosca si contrappone alla giungla legislativa di Bruxelles.
Chi vince? «Vince la Russia», risponde il noto “realista” americano John
Mearsheimer. Cosa dovremmo fare allora? «L’Occidente dovrebbe rendere
l’Ucraina uno stato cuscinetto neutrale, tra la Russia e la Nato, una
sorta di Austria ai tempi della guerra fredda. A questo fine l’Occidente
dovrebbe esplicitamente rinunciare all’espansione dell’Unione Europea e
della Nato». Bene, grazie mille Professor Realista. Perché non lo firma
lei l’accordo? Guardi, abbiamo la sede perfetta per il suo vertice
ispirato alla realpolitik: Yalta, dove nel 1945 Franklin D Roosevelt e
Winston Churchill diedero ambigua legittimazione all’occupazione
dell’Europa orientale da parte sovietica. Yalta, nella Crimea fresca di
annessione.
Che diritto abbiamo di indicare ad altri Paesi
indipendenti e sovrani di essere “stati cuscinetto neutrali”? Garry
Kasparov, che conosce la Russia un tantino meglio di Mearsheimer,
recentemente ha twittato: «Sembra che i “realisti” siano ben lieti di
condannare milioni di ucraini a vivere da prigionieri in un territorio
occupato. In Europa, nel ventunesimo secolo». Qualche giorno fa ho
parlato con Kasparov dell’Ucraina. Era stato a Kiev per il ventesimo
anniversario del memorandum del 1994 e la sua opinione su questa
tragedia è coraggiosa e originale come il suo approccio alla scacchiera.
Kasparov ribadisce che non si tratta di un conflitto tra Ucraina e
Russia. A suo giudizio è una gara tra due Russie. Con licenza poetica le
chiama la Rus di Kiev e l’Orda d’oro. Pur considerando credibili i
sondaggi che oggi attribuiscono a Putin in Russia una popolarità
stellare, non dovremmo commettere l’errore di confondere Putin con la
Russia. Anche Adolf Hitler godette a suo tempo di enorme popolarità, e
lo stesso vale per Slobodan Milosevic. La gente può essere condotta
verso il baratro se un’abile propaganda sa sfruttare miti nazionali
radicati e profonde ferite. Qualche anno dopo però la nazione si sveglia
e inizia a pagarne il prezzo. Essere contro Putin non significa essere
contro i russi. Anzi, significa essere filorussi e più lungimiranti,
sostenendo i russi sotto attacco che rappresentano l’altra Russia.
Da
notare che Putin sta agendo in aperta violazione del principio che da
sempre sostiene debba essere alla base delle relazioni internazionali:
la sovranità incondizionata degli stati. Da che pulpito viene la
predica, potreste controbattere pensando all’Iraq. È vero, l’invasione
anglo americana dell’Iraq è stata un errore sotto il profilo giuridico,
morale e strategico, ma due errori non riparano un torto.
In Siria,
potreste anche obiettare, si registrano massacri al cui confronto
l’Ucraina sembra quasi in pace. I dati Onu indicano la cifra drammatica
di 3,8 milioni di profughi. Cosa sta facendo l’Occidente a riguardo? Le
vite arabe valgono meno di quelle europee, quelle dei musulmani meno di
quelle dei cristiani? A intervalli regolari mi chiedo se scrivere o meno
sulla Siria. Ma a parte il fatto che del Medio Oriente so molto meno
che di Europa, le opinioni degli esperti non indicano nessuna chiara
soluzione. A quanto pare in territorio siriano troppi gruppi sono
bloccati nel conflitto, appoggiati da troppe potenze esterne (inclusa la
Russia, che sostiene Bashir al-Assad).
Invece nel caso dell’Ucraina,
per quanto complesso esso sia, una soluzione esiste. Può essere
riassunta in 14 parole: Putin ritiri le sue forze, l’Ucraina assuma il
pieno controllo della sua frontiera orientale. A differenza che in
Siria, la soluzione è che un solo attore politico cambi atteggiamento.
Senza dubbio questo non fermerà la lotta rabbiosa dei separatisti per la
Repubblica popolare di Donetsk. In Ucraina orientale, come in Bosnia,
come in Siria, la brutalità della guerra spinge alla radicalizzazione e
ha trasformato dei popoli confinanti in nemici. Kiev avrà bisogno di
grandi doti di governo e di fantasia per ricostruire uno stato ucraino
effettivamente federale, in cui le persone di identità russa possano
sentirsi a proprio agio. Ma il cammino verso la pace durevole inizia da
quelle quattordici parole.
Repubblica 17.2.15
La nuova religione di Giordano Bruno
Il suo pensiero è nel punto di giuntura tra il sapere rinascimentale e la modernità
In un volume parole e concetti del filosofo di cui ricorre oggi l’anniversario del rogo
di Roberto Esposito
IL
17 febbraio del 1600, per ordine del tribunale dell’Inquisizione,
Giordano Bruno veniva arso vivo in Campo de’ Fiori. Ciò che nella sua
persona bruciava era un frammento decisivo della filosofia europea e un
simbolo della libertà del pensiero nei confronti di costrizioni e di
dogmi. A lui è dedicata, per le Edizioni della Scuola Normale Superiore,
in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento,
un lessico di singolare rilievo scientifico, diretto da Michele
Ciliberto, con il contributo di una serie di studiosi. Configurato come
una costellazione, esso è costituito da un numero imponente di voci
sulla vita, il contesto storico, l’opera, la fortuna di Bruno. Accanto
ai nomi più consueti di Keplero, Spinoza, Leibniz, compaiono, a
sorpresa, quelli di Nietzsche e di Joyce, di Gadda e di Calvino, quasi
come raggi di una stella che nel corso dei secoli non ha mai smesso di
brillare. Come suggerisce il curatore, la grande influenza di Bruno
sulla cultura moderna si deve da un lato al suo martirio, che ne ha
fatto un mito celebrato dovunque si è voluto difendere la libertà di
pensiero; dall’altro alla collocazione della sua opera alla giuntura tra
il sapere rinascimentale, aperto ai linguaggi dell’ermetismo, della
mnemotecnica, dell’alchimia, e quello moderno, rivolto a protocolli di
tipo scientifico. Situato troppo in fretta dalla tradizione
illuministica all’origine della cultura moderna, Bruno è stato poi
spinto fuori dai suoi confini, in un “mondo di maghi” immaturo ed
esaurito, incapace di rapportarsi a paradigmi filosofici e scientifici
adeguati.
Solo recentemente il pendolo dell’interpretazione si è
stabilizzato, restituendo a Bruno la straordinaria originalità del suo
pensiero. La difficoltà a riconoscerne i lineamenti sta
nell’inadeguatezza di un approccio strettamente concettuale rispetto ad
un autore che, adoperando la lingua delle immagini, ha allargato i
confini del lessico filosofico, aprendolo a una dimensione inedita in
cui elementi diversi, e anche contrari, interagiscono tra loro. Al
centro di questa complessa trama, che sembra collegare quanto precede il
sapere il moderno a ciò che lo segue, vi è la figura, insieme
immaginifica e concettuale, della Vita infinita. In essa si radica
quella rete di differenze che restituiscono il senso profondo della
realtà, articolando tra loro il mondo della natura e le varie specie
viventi, compresa quella umana. L’unica capace di attingere il sapere
dell’intero attraverso quell’itinerario ascendente mirabilmente percorso
nel dialogo degli Eroici furori.
In esso l’uomo sperimenta il limite
che lo vincola a una misura di finitezza e l’impulso continuamente
rinascente a forzarlo fin quasi ad oltrepassarsi, entrando così in
rapporto con il movimento in cui ciascun mondo viene a contatto con
altri, collegati nel principio vibrante della materia vivente. C’è
qualcosa, in questo straordinario disegno che sporge non solo verso i
vertici del pensiero moderno — in particolare di Spinoza e di Leibniz —
ma anche verso quella svolta della filosofia contemporanea che ha posto
la riflessione sulla vita, cosmologica, antropologica, politica, al
centro del dibattito. La battaglia di Bruno a favore di una nuova
religione, libera dalle catene della superstizione e della violenza,
acquista rilievo. Soltanto se connessa a un sapere complessivo della
vita, intesa in tutta la sua potenza, materiale e spirituale, la
filosofia può acquisire una valenza che va al di là dei propri confini,
per farsi liberazione del corpo, sviluppo della mente, fondazione di
civiltà.
IL LIBRO Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, a cura
di Michele Ciliberto, Edizioni della Normale, 3 voll., pagg. 2.400,
euro 180
Corriere 17.2.15
L’immagine di Togliatti dalle lodi alle critiche
risponde Sergio Romano
Leggo
sul Corriere della Sera del 10 febbraio l’interessante articolo
«Tragedia delle foibe — il ricordo dopo l’oblio» di Dino Messina, dove
si mette in evidenza che le oltre diecimila vittime, fra ex fascisti e
partigiani non comunisti, sono da imputare al maresciallo Tito
appoggiato dal capo del Pci Palmiro Togliatti. In molte città italiane
(specialmente emiliane) ci sono ancora strade intestate a Togliatti. Le
domando se non è arrivato il momento di leggere una critica obiettiva,
al di là di quell’opportunismo politico che ha sempre caratterizzato
questo «sinistro» uomo politico, su Togliatti e sul suo reale
comportamento nei confronti degli oppositori politici e delle sue vere
intenzioni sul futuro del nostro Paese.
Luigi Agosti
Caro Agosti,
La
toponomastica è conservatrice e i nomi delle strade cambiano
generalmente durante i grandi rivolgimenti politici. Personalmente
preferisco un nome sbagliato sulla targa di un viale o di una piazza,
piuttosto che mutamenti bruschi e traumatici. Quanto alla immagine di
Togliatti nella politica italiana, ho l’impressione che si sia
progressivamente appannata. In un libro apparso nel 1997 presso il
Mulino ( Togliatti e Stalin: il Pci e la politica estera staliniana
negli archivi di Mosca ) Elena Aga Rossi e Viktor Zaslavsky hanno
dimostrato che la «svolta di Salerno», vale a dire l’ingresso del Pci
nel governo Badoglio nella primavera del 1944, fu voluta da Stalin.
Togliatti, apparentemente, ne fu soltanto il disciplinato esecutore.
Contemporaneamente quasi tutti gli studi su Antonio Gramsci, apparsi
negli ultimi tempi, hanno meglio chiarito la natura dei rapporti fra i
due leader comunisti e sollevato parecchie perplessità sul modo in cui
Togliatti utilizzò i Quaderni del carcere.
Non è tutto. Vi sono
pagine della vita di Togliatti, prima del suo ritorno in Italia (la
missione spagnola durante la guerra civile, il suo ruolo nella
liquidazione del Partito comunista polacco, la «rieducazione» dei
prigionieri militari italiani in Russia durante la Seconda guerra
mondiale) su cui vorremmo avere maggiori informazioni. E ve ne sono
altre del periodo successivo (lo spietato giudizio su Giovanni Gentile
dopo il suo assassinio, il sostegno a Tito nella questione di Trieste)
che non giovano alla sua immagine di leader nazionale.
Credo che stia
accadendo, in altre parole, quello che spesso succede quando un uomo è
stato troppo lodato ed esaltato. Togliatti ha diritto a un posto
onorevole nella storia politica italiana del Novecento. Ha fatto del Pci
un partito nazionale. Ha reso possibile la scrittura di una
Costituzione che è molto invecchiata, ma che ebbe allora il merito di
rispecchiare i sentimenti e le idee di un largo fronte politico. Ha
cercato di rivedere la posizione del suo partito dopo la denuncia dei
crimini staliniani durante il XX congresso del Partito comunista
dell’Unione Sovietica. Ma gli nuoce ancora la venerazione del popolo
comunista e di molti intellettuali soprattutto dopo la sua morte.
Continua a sorprendermi il fatto che tanti comunisti abbiano riservato a
Togliatti lo stesso culto della personalità che tanti fascisti avevano
tributato a Mussolini .
Corriere 17.2.15
Minoranze laiche sconfitte con onore
Prevale
il pessimismo nelle pagine finali della Breve storia del liberalismo di
sinistra. Da Gobetti a Bobbio (Liberilibri, pagine 217, e 16), in cui
Paolo Bonetti ha riassunto con sapienza e passione le vicende
dell’antifascismo laico che cercò di coniugare difesa dei diritti
individuali e apertura alle istanze sociali. Ne risulta un Pantheon di
padri nobili molto variegato, in cui l’autore colloca anche figure tutto
sommato più prossime al socialismo democratico (Carlo Rosselli, Guido
Calogero, lo stesso Norberto Bobbio) che al liberalismo vero e proprio.
Ma tutti, da Piero Gobetti a Mario Pannunzio passando per Giovanni
Amendola (che molto di sinistra in realtà non era), finirono sconfitti,
sia pure con onore, nel tentativo coraggioso di tradurre le loro idee in
azione politica. Del resto ormai si tratta di filoni culturali
consegnati alla storia, oggi privi di eredi credibili, per cui stupisce
che il Partito d’Azione — realtà effimera ed altamente eterogenea,
sparita da quasi 70 anni — continui ad attirarsi strali acuminati come
quelli che Dino Cofrancesco, esagerando un po’, gli rivolge nella
postfazione, una sorta di cortese controcanto critico, che conclude il
saggio di Bonetti.
Corriere 17.2.15
Ebrei a Destra un labirinto
Nessi impensabili a livello ideologico ci fu chi ipotizzò un patto con Hitler
di Paolo Mieli
Da
qualche anno il rapporto tra il mondo ebraico e la destra politica
europea è finito all’attenzione degli storici. Nei decenni successivi
alla Seconda guerra mondiale, eccezion fatta per qualche studioso
americano, in pochi avevano approfondito questa relazione, soprattutto
perché, indagando su di essa, si sarebbe dovuto indagare su nessi che
coinvolgevano il fascismo e, perfino, il nazismo. Di destra ed ebrei si
era cominciato a parlare nella seconda metà degli anni Settanta, ai
tempi della vittoria in Israele di Menachem Begin con il Likud. Fu in
quel momento (1977) che venne «riscoperta» la figura del leader del
revisionismo sionista Vladimir Ze’ev Jabotinsky. Ed è alle personalità,
peraltro tra loro assai diverse, di questa particolarissima sensibilità
per la destra del mondo israelitico che è dedicato l’interessante libro
di Vincenzo Pinto, In nome della Patria. Ebrei e cultura di destra nel
Novecento , di imminente pubblicazione per Le Lettere. Fin qui, scrive
Pinto, la cultura di sinistra ha finito per rileggere la storia degli
ebrei sotto la categoria della persecuzione antisemita («geneticamente»
di destra). Le figure conservatrici del mondo ebraico «sono state
relegate ai margini della storia», come ingenui rappresentanti di
un’utopia, «quella di essere parte integrante del proprio Paese
ospitante, di poter realizzare il sogno della diversità senza
l’assimilazione».
C’è stato, però, dell’altro. L’ebreo di destra,
scrive Pinto, è culturalmente «figlio legittimo della tradizione ma
figlio “adottivo” della modernità tecnologica e spirituale». La «destra
ebraica», ha osservato lo studioso israeliano Ezra Mendelsohn, è molto
più difficile da definire rispetto alla sinistra; se i partiti ebraici
progressisti erano orgogliosi di affermare la loro «simpatia ideologica
per la sinistra generale europea», i loro oppositori «erano alquanto
restii ad ammettere qualsiasi affinità con la “destra generale europea”
che, nel periodo interbellico, era spesso sinonimo di fascismo (e,
naturalmente, di antisemitismo)». Ciò nonostante, prosegue Mendelsohn,
se definiamo la destra come «la formazione di un campo politico
fieramente opposto al socialismo» nonché «conservatore nella sua idea di
come dovrebbe organizzarsi la società ebraica», allora diventa
possibile identificare una destra israelitica già nella stagione tra le
due guerre mondiali.
La caratteristica unificante, nel corso degli
anni Venti e Trenta, era «l’enfasi tenace sull’assoluta necessità
dell’unità ebraica e, di conseguenza, la profonda ostilità verso tutti i
movimenti politici che predicavano l’idea di guerra di classe o persino
la divisione di classe nel mondo ebraico». Uno dei termini preferiti
nel dizionario politico della destra secolare, ricorda Mendelsohn, era
quello di monismo ( hadnes in ebraico; una bandiera), «che implicava la
supremazia dell’unità nazionale, valore tradizionale ebraico, sulla
divisione sociale». La sinistra definì assai pericolosa questa enfasi
sull’«unicità» ebraica. Così la destra israelitica fu subito criticata
per aver «importato nel mondo israelitico pericolose idee “straniere”
che ponevano falsamente un ebreo contro l’altro e perciò facevano il
gioco del nemico comune: l’antisemitismo».
Pinto bolla come
«discutibili» queste tesi. Ma riconosce a Mendelsohn il merito di aver
impostato correttamente la questione. Rimproverandogli, però, di aver
teso a «liquidare la destra ebraica moderna (non sionista) come
irrilevante nella diatriba tra secolarismi e religiosi», e di aver
dimenticato «che, lungo tutto il Novecento, vi furono non pochi ebrei di
destra sostenitori di altre forme di nazionalismo conservatore». Grande
protagonista di questo libro è il già citato Jabotinsky, definito da
Pinto «il re senza corona». Nato a Odessa nel 1880, giornalista,
agitatore politico, scrittore, ufficiale dell’esercito, e perfino
assicuratore, ha segnato «in maniera indelebile il discorso politico
sionista e israeliano nei primi decenni del Novecento» ed è considerato
«una delle personalità ebraiche più affascinanti ma, al contempo,
contraddittorie del secolo passato». Fu il primo a teorizzare, durante
un pogrom nel 1903, l’autodifesa ebraica. Autodifesa che Jabotinsky
avrebbe esportato a Gerusalemme all’inizio degli anni Venti. È stato il
padre, si è detto, del «revisionismo sionista», ma morì di un attacco
cardiaco a New York nell’agosto del 1940 prima di conoscere il volto
atroce della Shoah, ma anche prima di aver potuto vedere realizzato il
sogno di uno Stato di Israele .
Figura ben diversa è quella del
banchiere ebreo torinese Ettore Ovazza, considerato da Pinto «un
personaggio quasi romanzesco per la sua ingenua e fideistica adesione al
fascismo» o, piuttosto, «un personaggio tragico, accecato dal proprio
amor patrio a tal punto da non scorgere il nodo del destino sempre più
stretto intorno al collo proprio e dei propri cari». Ovazza — al quale
si è già dedicato Alexander Stille nel libro Uno su mille (Mondadori) —
rimarrà fascista fino alla fine, accettando la legislazione antiebraica,
respingendo l’opportunità di emigrare e trovando una tragica morte, per
mano delle SS il 9 ottobre del 1943, nei pressi del confine svizzero.
Il suo amore per il fascismo mussoliniano può anche essere letto,
secondo Pinto, «come un tentativo di trovare una dimensione estetica
nuova e alternativa al sentimentalismo borghese, chiuso in se stesso,
incapace di riunire armonicamente spirito e materia». Anche se la
visione spirituale dell’ebraismo e del fascismo di Ovazza «si è
scontrata con una visione e una realtà materiali che avevano preso il
sopravvento»; dappertutto ormai in Europa «si considerava l’ebreo come
il materialista per eccellenza, come il distruttore dell’idillio e di
tutte le barriere, non come il difensore di un ideale di giustizia
messianica o come parte integrante della civiltà occidentale» .
Un
caso più complicato è quello di Isaac Kadmi-Cohen (1892-1944) , ebreo
polacco, che mise radici in Francia. «Ebreo di sinistra nello scacchiere
politico francese, ma di destra in quello sionista internazionale»,
scrive di lui Pinto, Kadmi-Cohen «ha cercato disperatamente di mutare le
sorti del suo popolo e di salvarlo dalla tempesta antisemita»
battendosi per la nascita di uno Stato mediorientale che fosse «la casa
di tutti i popoli semiti». Kadmi-Cohen concepisce un semitismo come modo
di essere alternativo all’arianesimo, e il suo progetto pansemita è
alternativo allo «spirito del ghetto». Di più. Per lui «la vera minaccia
dell’Occidente non è la barbarie comunista oppure l’Oriente vicino ed
estremo… e non è nemmeno più una questione di contrapposizione interna
al continente». Il vero nemico è rappresentato dall’America (cioè gli
Stati Uniti) e, più in particolare, da quel materialismo di cui è
emblema una semplice banconota: il dollaro». L’identificazione del
«nemico americano» produce un ambizioso progetto di federazione degli
Stati europei, la cui prima tappa dovrebbe essere nella costituzione di
un asse politico tra Parigi e Berlino, «che ponga fine ai vecchi
conflitti».
Tale progetto va in frantumi tra il 1939 e il 1940 con
l’invasione nazista della Polonia e lo scoppio della Seconda guerra
mondiale. E, quando le croci uncinate invadono la Francia, Kadmi-Cohen
punta addirittura ad una trattativa con il governo di Vichy per una
«espulsione di massa» che favorisca la creazione di uno Stato ebraico e
che salvi gli ebrei dal genocidio hitleriano. Ai suoi occhi il nazismo
non rappresentava una maledizione politica o religiosa, bensì «una
possibilità per porre fine all’apolidismo diasporico». Teorie che non
gli eviteranno una morte atroce nel campo di sterminio di Gleiwitz. Ma
che gli varranno l’imbarazzante stima di antisemiti come il visconte
Léon de Poncins o di negazionisti come Paul Rassinier. Ma la sua storia
in un certo senso non finisce con la morte a Gleiwitz.
Suo figlio
Jean-François Steiner (dal cognome del patrigno, anche lui ebreo)
pubblica nel 1966 un romanzo a tesi intitolato Treblinka (pubblicato in
Italia da Mondadori). Treblinka narra la storia della rivolta ebraica
nel Lager nazista «cercando da un lato di mettere in evidenza i
meccanismi psicologici, tecnologici e morali utilizzati dai carnefici (i
“tecnici”) per piegare la volontà delle vittime e dall’altro lato
mostrando le profonde contraddizioni insite nel popolo ebraico e, in
particolare, il dilemma tra salvezza fisica e salvezza morale». Secondo
Pinto, all’autore premeva «dimostrare che la retorica martirologica
della resistenza non rappresentava che una prosecuzione del vecchio
“spirito del ghetto” tanto criticato dal padre». Voleva altresì porre
domande assai scomode sulla «scarsa resistenza ebraica alla
deportazione» e persino sulla «collaborazione delle classi dirigenti»
israelitiche con i persecutori del loro popolo.
Una storia a sé è
quella del lituano Joseph G. Klausner (1874-1958), prozio di Amos Oz,
che di lui ha scritto in Una storia di amore e di tenebra (Feltrinelli).
La sua opera «ha rappresentato la realizzazione di una particolare
sintesi fra la cultura umanistica occidentale e la tradizione ebraica
orientale», là dove Klausner provò a recuperare «le migliori aspirazioni
libertarie dei suoi correligionari illuministi occidentali (tedeschi,
in particolar modo)», per innestarle sull’albero «sano» della tradizione
religiosa orientale.
Più imbarazzante il caso di Abba Achimeir o
Gaissinovic (1897-1962), «lettore e interprete» di Oswald Spengler,
ammiratore di Benito Mussolini che definì come l’autentico erede di
Mazzini e di Garibaldi, oltreché estimatore del generale polacco Józef
Pilsudski. Restano celebri le sue «cronache di un fascista» scritte nel
1928 sul giornale revisionista «Doar Hayom». Nel ’29 fonda, con il poeta
Uri Zvi Greenberg e lo scrittore Yehoshua Yevin, l’associazione segreta
«Brit Ha’Birionim» (Patto dei briganti), ispirata agli zeloti d’epoca
romana nell’intento di combattere gli inglesi, gli arabi, ma anche gli
«ebrei moderati o disfattisti». Nel 1933 Achimeir fu arrestato con
l’accusa di istigazione all’assassinio di Chaim Arlosoroff, esponente di
punta del sionismo in Palestina, ritenuto uno dei principali artefici
di un accordo commerciale con la Germania nazista.
Ancora più
complicato il caso del tedesco Hans-Joachim Schoeps (1909-1980), che nel
1930, in uno scritto dal titolo «Gioventù e nazionalsocialismo», fu in
grado di prefigurare la vittoria nazista e nel 1932 venne all’attenzione
— in parte benevola — del celeberrimo studioso di misticismo ebraico
Gershom Scholem. Negli anni tra il 1933 e il 1934, Schoeps diede vita ad
un bollettino, «Der Vortrupp», sorretto da un’omonima casa editrice,
vagheggiò un incontro tra ebraismo e nazismo e cercò di costituire un
fronte ebraico in grado di ottenere il riconoscimento da parte del
governo hitleriano. Tutto era basato su un progetto di «epurazione»
interna dell’ebraismo tedesco. Tale progetto, ricorda Pinto, «fu
espresso in un memoriale che conteneva l’idea di creare una corporazione
ebraica che separasse gli elementi ebraici insani (i sionisti e gli
ebrei orientali) da quelli sani (gli ebrei coscienziosamente tedeschi)».
I
nazisti non lo seguirono su questa strada, già nel ’35 esclusero gli
ebrei dall’esercito e dalla marina e sciolsero tutte le associazioni
ebraiche. Nel ’38 Schoeps riparò in Svezia, i suoi morirono nei campi di
concentramento e lui poté tornare solo nel 1946 in Germania, dove
insegnò all’università e approfondì il nesso tra ebraismo e
prussianesimo che gli stava a cuore fin dai tempi della gioventù.
Schoeps, scrive Pinto, non rinnegò mai il proprio passato politico (le
proprie simpatie per la «rivoluzione conservatrice»), tanto da
pubblicare nel 1970 la raccolta di scritti Bereit für Deutschland
(Pronti per la Germania) come risposta alle accuse di esser stato un
«nazista ebreo». Tenne sempre a distinguere, prosegue Pinto, il suo
particolare conservatorismo prussiano dal nazismo, esito di una
«rivoluzione popolare» e razziale dettata dall’ hybris umana moderna. Il
legame fra prussianesimo ed ebraismo «aveva radici storico-religiose,
non razziali, l’eroica ostinazione prussiana contro l’auto-disgregazione
aveva sconfitto l’infinità del paesaggio pianeggiante (a differenza
della melanconia russa), come gli ebrei avevano fatto verso il deserto
attraverso la parola del loro Signore sovrano».
Jabotinsky è stato il
leader della destra sionista negli anni che precedettero la
costituzione dello Stato di Israele. Ovazza è stato uno dei maggiori
rappresentanti della destra ebraica antisionista nell’Italia fascista.
Kadmi-Cohen è stato il paladino di un semitismo ultra-rivoluzionario
nella Francia della Seconda Repubblica. Klausner ha alimentato una
visione organicistica della nazione ebraica tra la Russia tardo-zarista e
la Palestina mandataria. Gaissinovic ha sostenuto una visione
rivoluzionaria del sionismo. Schoeps ha pensato fosse possibile una
rifondazione dialettica dell’ebreo tedesco durante il nazismo. Tutti
questi personaggi, scrive Pinto, hanno creduto in una visione militante
della cultura: lo spirito non deve «emancipare» gli ebrei dal giogo del
capitalismo, ma renderli «partecipi consapevoli della modernità» .
Il
loro comune avversario avrebbe dovuto essere l’Illuminismo, l’idea che
l’ebraismo fosse semplicemente una «morale» universalizzabile e non più
una religione nazionale, che gli ebrei fossero uomini come tutti gli
altri. Liberalismo e comunismo erano ritenuti due facce della stessa
medaglia: la distruzione dei legami spirituali e comunitari degli
individui e la loro sottomissione ad una presunta etica universalistica e
utilitaristica. L’antisemitismo era visto come l’altra faccia della
modernità, come l’esito di logiche puramente materiali e della (fallita)
assimilazione degli ebrei ai popoli ospitanti. Le loro furono
esperienze tra loro molto diverse, ma che testimoniano una complessità
di nessi in qualche caso imprevedibili. Addirittura insospettabili.
Corriere 17.2.15
Quei personaggi che lottarono per il risveglio del loro popolo
Esce
domani in libreria il volume di Vincenzo Pinto In nome della Patria.
Ebrei e cultura di destra nel Novecento , edito da Le Lettere (pagine
200, e 16,50) nella collana Biblioteca di «Nuova Storia Contemporanea»
diretta da Francesco Perfetti. Uno su mille (Mondadori, 1991) è il
titolo del saggio in cui Alexander Stille si è occupato anche del
banchiere ebreo italiano Ettore Ovazza, un fervente fascista che venne
ucciso dalle SS nell’ottobre del 1943. S’intitola Treblinka (traduzione
di Luisa d’Alessandro e Giovanni Mariotti, Mondadori, 1967) il libro
dedicato da Jean-François Steiner alla rivolta avvenuta nell’omonimo
campo di sterminio. Lo scrittore israeliano Amos Oz parla del suo prozio
Joseph G. Klausner, esponente della destra ebraica, nel romanzo Una
storia di amore e di tenebra (traduzione di Elena Loewenthal,
Feltrinelli, 2003)
La Stampa 17.2.15
Quando tutti gli europei avevano lo stesso vocabolario
La ricerca: 4500 anni fa la culla delle lingue tra Russia e Ucraina
di Fabio Di Todaro
Lo
studio non è stato ancora pubblicato. Ma le sue conclusioni, anticipate
online, hanno risollevato un dibattito caro ai linguisti: da dove
vengono gli idiomi che oggi si parlano in tutta Europa? Se l’origine
comune è infatti tutt’altro che da escludere, resta da capire quale sia
stato l’epicentro comune da cui ha avuto origine il nostro lessico.
Secondo le ultime evidenze, le radici della linguistica indoeuropea
andrebbero ricercate nei terreni freddi dell’ex impero sovietico, dove
un avo del mix di vocaboli attualmente in uso sarebbe nato almeno 6mila
anni fa, per poi diffondersi nel Vecchio Continente. L’ipotesi irrompe
dopo un ventennio in cui diversi studi avevano riconosciuto il primato
all’attuale Turchia, in ragione delle origini delle prime forme di
domesticazione: animale e vegetale.
Un unico antenato
Dall’inglese
al greco, dal latino all’irlandese antico, per giungere al tocario:
parlato fino all’anno mille in Cina. Più di 400 lingue, dialetti
compresi, derivano da un unico antenato. Su questo, ormai da più 300
anni, non ci sono dubbi: troppe le affinità lessicali riscontrate tra
espressioni soltanto all’apparenza distanti per non convincersi della
stretta «parentela». Ciò che rimane poco chiaro è la localizzazione
delle origini di questo embrione linguistico. Oggi, ad anticipare il
rilancio delle quotazioni dell’ex Unione Sovietica, sono due ricerche
reperibili su BioRXiv, piattaforma creata per favorire la conoscenza dei
risultati degli studi scientifici ancor prima che siano pubblicati. In
quella che diversi millenni fa era una terra esposta alle incursioni
delle popolazioni nomadi, sarebbe germogliata la glottologia poi
diffusasi lungo le rotte delle migrazioni dell’essere umano.
Favorevoli e contrari
La
conclusione era già stata anticipata 30anni fa, prima che nel 1987
l’archeologo britannico Colin Renfrew rilanciasse il primato
dell’Anatolia. Da quel momento in poi la comunità scientifica si è
divisa in due fazioni: i favorevoli e i contrari alla leadership della
Mesopotamia. Sono arrivate prove a sostegno delle tesi di Renfrew ed
evidenze avverse, portate da chi di fronte alle sue conclusioni era
parso scettico fin dal primo momento.
Utilizzando le informazioni
genetiche tratte da 69 uomini europei e asiatici vissuti nel pieno del
neolitico, i ricercatori guidati dal paleobiologo australiano Wolfgang
Haak (Università di Adelaide) e dai genetisti statunitensi Dadiv Reiche e
Iosif Lazarids (Harvard Medical School di Boston) hanno determinato gli
spostamenti dei nostri antenati. Dal confronto dei polimorfismi
«sospettati» di indicare i percorsi compiuti delle comunità prese in
esame, è emerso che in quei secoli le popolazioni occidentali e
orientali si sono mosse lungo direttrici opposte, per incrociarsi
all’incirca 4500 anni fa nella steppa. «Le origini di una buona parte
delle lingue parlate in Europa sono da collocare tra Ucraina e Russia»,
sostengono i ricercatori.
Le conclusioni
Lo studio ha considerato i
movimenti di artigiani appartenenti alle culture di Jamna (proveniente
dalle attuali Ucraina e Kazakistan) e della ceramica cordata (mossisi
dalle regioni settentrionali della Germania). Valutati i loro itinerari,
gli studiosi hanno concluso che «l’agricoltura non è stata l’unica
causa delle migrazioni avvenute tra Europa e Asia». La diffusione delle
coltivazioni dalla Mezzaluna Fertile risale infatti ad almeno ottomila
anni fa: troppo indietro nel tempo per collegarla alla nascita di una
lingua comune. Più recente, invece, l’incrocio tra i due orizzonti
archeologici: collocabile nel corso della tarda età della pietra. È
dalla loro commistione che ha iniziato a propagarsi il «bisnonno» delle
nostre lingue attuali.
La Stampa 17.2.15
Ora il 90% degli idiomi è a rischio estinzione
L’Unesco: mobilitazione il 21 febbraio
di Stefano Rizzato
La
previsione più catastrofica è del linguista americano John McWhorter:
«Tempo cent’anni e il 90% delle lingue sulla Terra potrebbe essere
estinto. Nel 2115 ne avremo circa 600».
Perdiamo le parole
Una
stima estrema, forse una provocazione, ma che parla di un problema vero:
il mondo sta perdendo le parole. La varietà di idiomi e dialetti
globali si sta consumando proprio come la biodiversità naturale. Anzi,
ancora più in fretta. Già oggi le lingue in difficoltà, quelle che
rischiano di sparire, sono tra 2400 e 3 mila nel mondo. Ed è per questo
che sabato prossimo, come ogni 21 febbraio, tornerà la giornata
internazionale Unesco per la lingua madre.
Un’iniziativa che questa
volta avrà anche una dimensione digitale. Tra i progetti collegati alla
giornata ce n’è uno – chiamato «Tweet in your #MotherLanguage» – che
suggerisce di usare i social network, e in particolare Twitter, per il
compito di proteggere le lingue in pericolo. La proposta è questa:
almeno per un giorno, niente cinguettii e messaggi nel solito inglese.
Ognuno usi la Rete per scrivere nel proprio idioma nativo, mettendo alla
fine un hashtag con il nome della lingua (ad esempio #arbëreshë) e
contribuendo così a farlo girare.
Proprio l’egemonia dell’inglese
come lingua internazionale e della modernità è tra i grandi nemici della
varietà linguistica. Basti pensare che l’italiano – che oggi di certo
non si può definire a rischio – figura solo nell’1,8% dei siti Internet
globali. Il 55% del web è invece in inglese. E ci sono lingue nazionali
come sloveno, serbo, croato, ucraino che raggiungono a malapena quota
0,1%. Gocce minuscole nell’anglofono mare digitale.
La colonizzazione
«In
questa fase storica non c’è dubbio: l’inglese è una lingua
colonizzatrice, che negli ultimi 40 anni si è espansa e si sta ancora
espandendo». A spiegarlo è Cristina Guardiano, linguista dell’Università
di Modena e Reggio Emilia. Che precisa: «Ad essere a rischio non sono
le lingue ufficiali e che s’insegnano nelle scuole, ma quelle che hanno
perso vitalità. Quelle legate a comunità che si stanno estinguendo o
dove nascono bambini che non le imparano più come prima lingua».
Nelle Americhe
I
problemi maggiori sono nelle due Americhe, dove ad essere «moribonde» o
«dormienti» – per seguire la definizione dell’osservatorio Ethnologue –
sono 335 lingue su 1060. Idiomi indigeni come l’Irántxe, parlato in
Brasile da meno di 40 persone. E altri arrivati a quota zero, forse
svaniti. «In questi e altri casi – prosegue Guardiano – è difficile
pensare a un antidoto. Riportare artificialmente in vita una lingua che
si avvia ad essere dimenticata ha poco senso. Molti studiosi credono in
operazioni di questo tipo, ma le lingue sono organismi naturali: la loro
evoluzione non si può forzare».
Repubblica 17.2.15
Quirinale a porte aperte
Il Palazzo non è solo una scenografia di specchi reali e metaforici
È anche il contenitore di una sterminata raccolta di opere d’arte
di Tomaso Montanari
L’AVEVA
detto nel messaggio d’insediamento, il Presidente Mattarella:
«Garantire la Costituzione significa » anche «amare i nostri tesori
artistici e ambientali». Il verbo “amare” appartiene ad un vocabolario
davvero lontanissimo dalla retorica corrente della “valorizzazione”
(leggi mercificazione) del nostro patrimonio culturale: perché il
sottotesto è il brano del Vangelo di Matteo dove si dice che: «Là dov’è
il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore». È la stessa lingua della
Costituzione, che dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il
patrimonio della Nazione » non per aumentare il Pil, ma per favorire «il
pieno sviluppo della persona umana» (art. 3) attraverso «lo sviluppo
della cultura» (art. 9). Parole che oggi diventano concrete
nell’annuncio che il Quirinale sarà aperto tutti i giorni agli italiani.
E
ANCHE in questo simbolo della reggia dei papi che diventa reggia dei
cittadini c’è un nesso profondo con la Carta: con l’articolo 1, che ci
vuole “sovrani”. Entrare nel Palazzo del Quirinale significa camminare
sulla cresta sottile del vertice dell’arte barocca: quando Roma era, per
l’ultima volta, la capitale artistica del mondo. Nemmeno i Palazzi
Apostolici del Vaticano possono sfoggiare un appartamento di Stato delle
dimensioni e della solennità del nesso costituito dall’immensa Sala
Regia (oggi detta Salone dei Corazzieri) e dalla contigua Cappella
Paolina, separate e unite da un portale di marmo degno di una basilica,
disegnato da Carlo Maderno (autore, tra l’altro, della navata e della
facciata di San Pietro) e scolpito dal dimenticato (ma bravissimo)
Taddeo Landini. In questi spazi straordinari, che sfociano in una serie
infinita di sale e gallerie, Paolo V Borghese (papa dal 1605 al 1621)
riceveva gli ambasciatori, circondato dalle figure dipinte dai seguaci
dei due grandi rivoluzionari di primo Seicento, Annibale Carracci e
Caravaggio.
Come spesso succede nell’arte barocca, nella Sala Regia
va eternamente in scena uno spettacolo, basato sullo sdoppiamento:
grazie agli affreschi del fregio, anche quando è vuoto il salone sembra
gremito di diplomatici, giunti ad omaggiare il papa da ogni angolo del
mondo. Tra i tanti volti esotici che si affacciano dalle balconate
dipinte è possibile riconoscere quelli degli inviati del re del Congo, e
quello del dignitario giapponese Hasekura Rokuemon, che fu a Roma nel
1616. È una scena che si presta ad una doppia lettura: da una parte essa
sottolinea l’aspirazione universale, oggi diremmo globale, del potere
papale. Ma è solo il trucco di un bravo pittore illusionista: perché già
al tempo di Paolo V il papato era ridotto al rango di potenza
regionale, e per giunta di seconda fila. Dopo quattro secoli il
messaggio colpisce con la stessa forza, e ci ricorda che la proiezione
internazionale dell’Italia rischia di rimanere un’aspirazione, anzi
un’illusione: la lama della retorica barocca è a doppio taglio, e noi
non siamo cambiati.
Ma il Quirinale non è solo una scenografia piena
di specchi (reali e metaforici), è anche il contenitore di una
sterminata raccolta di opere d’arte (che vanno dall’antichità ai nostri
giorni) e di una importantissima serie di arredi (dagli arazzi ai
mobili) provenienti dalle regge degli antichi sovrani di tutta la
Penisola, e qui concentrati (anche troppo disinvoltamente, per la
verità) dai Savoia. Non c’è davvero alcun bisogno di pensare di
trasformare questo luogo unico in un museo, perché è già un meraviglioso
racconto del nesso profondissimo tra nazione italiana e patrimonio
culturale. Bisogna solo farlo “parlare”: ed entrarci — da sovrani — ci
verrà perfettamente naturale.