martedì 3 febbraio 2015

La Stampa 3.2.15
Le radici politiche del Presidente
di Umberto Gentiloni


L’equazione che va per la maggiore tra il profilo di Sergio Mattarella e il ritorno dello scudocrociato al vertice delle istituzioni è meno scontata e univoca di quanto potrebbe apparire a un primo sguardo. La biografia del dodicesimo Presidente merita approfondimenti e richiami che in queste ore rischiano di passare in secondo piano. Troppo facile riferirsi alla traiettoria della Dc e alla sua centralità nella storia della Repubblica. Il Presidente appena eletto tiene insieme almeno due ambiti tra loro distinti. Il padre Bernardo ha partecipato ai lavori dell’Assemblea costituente e ha ricoperto più volte la carica di sottosegretario e ministro in diversi esecutivi a guida democristiana; il figlio Piersanti segue con successo il solco del tracciato familiare. Fino al tragico assassinio del fratello, il 6 gennaio 1980, Sergio Mattarella si dedica allo studio laureandosi in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma (nel 1964) con una tesi sulla funzione dell’indirizzo politico, per poi imboccare la strada della libera professione di avvocato e della carriera accademica privilegiando gli ambiti del diritto costituzionale e parlamentare. Non si tratta di una puntigliosa differenziazione cronologica, i tempi definiscono un contesto radicalmente diverso da quello della Dc delle origini. Sergio Mattarella viene eletto deputato per la prima volta nel 1983, quando il partito che lo candida perde 5 punti in percentuale: il segno di un crollo inarrestabile che si snoda per un lungo decennio. La Dc è in crisi, la parabola del declino non ammette repliche. Il tempo di De Gasperi è sfocato in lontananza, anche la seconda generazione (quella di Moro e Fanfani per intendersi) ha esaurito la sua funzione di guida. Mattarella è un uomo di una fase inedita che s’iscrive nella crisi della Repubblica dei partiti. Il travaglio è quello dello scorcio conclusivo del Novecento, la sua figura è già legata agli interrogativi sulle eredità del dopoguerra, sui lasciti di culture e storie che mostrano crepe e scricchiolii.
Ecco il senso più profondo della scelta di sabato scorso. Il recupero di una presenza culturalmente rilevante, anche se numericamente esigua. Una tradizione e un pensiero quello del cattolicesimo democratico nella sua accezione più alta: il contributo alla democrazia italiana nel solco del popolarismo di stampo europeo. E’ il rovesciamento dei paradigmi precedenti, quelli dell’unità politica dei cattolici, prima nel tentativo di sostenere il partito popolare di Mino Martinazzoli e poi nella dinamica di un bipolarismo incerto e pervasivo. La scelta di un gruppo intellettuale, figure di confine in contrasto con il verso della corrente che spinge verso un nuovismo dai contorni a dir poco indefiniti. Figure preziose, in parte accomunate dai trascorsi comuni nella Lega democratica che dal 1975 si muove nei settori del mondo cattolico contrari all’abrogazione della legge sul divorzio. Sono Beniamino Andreatta, Pietro Scoppola, Leopoldo Elia a mettersi in gioco in quel campo di forze che si muove dopo il crollo del vecchio sistema politico. Mattarella è parte di questa storia, del cammino di una generazione che partendo dalla stella polare della Costituzione del 1948 e dalle sfide del Concilio Vaticano II tenta di misurarsi in uno scenario nuovo e imprevedibile. Lo stesso bagaglio, i linguaggi, le letture di riferimento del cattolicesimo democratico vengono trasformati e superati dal contatto con il nuovo mondo. Sono i rischi e le opportunità di una transizione che appare incompiuta. Da qui il segno positivo del recupero delle radici, della profondità di un cammino che ci spinge a guardare indietro, con poche certezze e molti interrogativi. Quali quindi le eredità e i lasciti del cattolicesimo democratico? Come in un passaggio di testimone lasciamo alle parole cristalline di un messaggio che Giorgio Napolitano indirizzò nel 2008 alla Fondazione Ermanno Gorrieri, un anno dopo la scomparsa di Pietro Scoppola: «Il contributo multiforme del movimento dei cattolici democratici è riconosciuto da tutti coloro che guardano senza ingiustificate preclusioni al lungo cammino dell’Italia dagli anni dell’antifascismo e della Resistenza sino ai giorni nostri, e si è espresso nel favorire l’avanzamento sociale, culturale e politico della società civile, del movimento ecclesiale, del mondo politico e delle istituzioni».

La stampa 3.2.15
La missione di chiudere la guerra civile
di Marcello Sorgi


Unire, ricucire, pacificare: Sergio Mattarella ci prova per davvero a chiudere con le divisioni e i risentimenti che hanno accompagnato la sua elezione e forse anche la lunga guerra civile che si trascina di più di vent’anni. L’invito rivolto a Berlusconi (insieme con tutti gli altri leader politici e le alte cariche dello Stato) per la cerimonia del suo insediamento al Quirinale ha precisamente questo significato. E l’ex-Cavaliere - rallegrato ieri dal condono di 45 giorni di pena che il giudice di sorveglianza gli ha concesso, anticipando all’8 marzo la fine delle limitazioni imposte dall’affidamento ai servizi sociali - si può dire che non aspettasse altro. Entrare stamane al Quirinale insieme al selezionatissimo corteo di ospiti che incontreranno il Presidente al suo primo giorno di lavoro costituirà per il leader di Forza Italia un passo di avvicinamento al recupero dell’agibilità politica che insegue da tempo.
Di qui a un’effettiva distensione del quadro politico, tuttavia ne corre. Non solo per le tensioni che attraversano il centrodestra (in Forza Italia, nel giro stretto di Berlusconi, la senatrice Rossi e Denis Verdini sono ai ferri corti, e la minoranza di Fitto reclama l’azzeramento di tutte le cariche; il Ncd, dopo le dimissioni dei due capigruppo deve ancora ritrovare un equilibrio), ma anche per le polemiche riprese all’interno del Pd. La ritrovata unità Democrat che ha portato all’elezione di Mattarella, infatti, rischia già di essere compromessa dal ritorno della legge elettorale alla Camera. Bersani e la minoranza interna premono perchè il testo sia rivisto, anche se in questo caso dovrebbe tornare al Senato, almeno nella parte dei capilista bloccati e delle preferenze, e si preparano a coinvolgere il Capo dello Stato. Renzi è contrario, punta a un’approvazione rapida e definitiva del testo, e invita a lasciare in pace Mattarella. Il premier ha detto che intende accelerare anche senza “i partitini”, frase che ha irritato Lupi e il Nuovo centrodestra.
La sua opinione sulle riforme il Presidente la dirà stamane nel messaggio alle Camere dopo il giuramento. Lo slogan trapelato dalla riservatezza della squadra di collaboratori che ha lavorato al discorso è: “Innovare per non tradire”, in altre parole aggiornare la Costituzione nei punti su cui il Parlamento è già impegnato, salvando lo spirito del “patto” stretto tra i Padri Costituenti.
Sarà interessante vedere, oltre a Berlusconi, quali e quanti altri leader dell’opposizione saliranno al Colle stamattina. Dalla lista delle presenze e delle assenze si potrà già ricavare una previsione sull’efficacia pratica dell’appello del Capo dello Stato e sull’effettiva volontà, ad esempio, di Lega e Movimento 5 stelle, di smetterla con l’ostruzionismo e riprendere a confrontarsi sulle riforme.

il Fatto 3.2.15
Il miracolo del condannato B. da Cesano Boscone al Colle
Oggi Berlusconi sarà al Quirinale, ritrova la centralità persa con la decadenza
di Carlo Tecce


Quirinale ore 11:30, salone dei Corazzieri, autorità militari e istituzionali: insediamento di Sergio Mattarella, (re) insediamento di Silvio Berlusconi. Il protocollo quirinalizio, che viene applicato in maniera pedissequa, vuole che segretari e presidenti di partito assistano al saluto (una breve orazione, di solito) del Capo dello Stato. E capita, stavolta, che un ospite sia un condannato per frode fiscale, un uomo che sconta ancora i servizi sociali in quel di Cesano Boscone (sino all’8 di marzo), un senatore decaduto, fra pernacchie e sberleffi di un’agguerrita minoranza democratica, neanche un anno e mezzo fa con una solenne votazione a palazzo Madama. L’ex Cavaliere ha ricevuto una telefonata da Mattarella, domenica sera verso le venti; un invito diretto con formula classica: “Mi fa piacere, se... ”. Non c’era bisogno di attendere la risposta, Berlusconi non ci ha riflettuto. Ha detto sì. Il pregiudicato intuisce le convenienze, è rapido. Avrà uno spazio, farà clamore. E confida in una fotografia: vuole stringere la mano a Mattarella, guidare la delegazione di Forza Italia, composta dai capigruppo e dai vicepresidenti di Camera e Senato. E poi, magari, racconterà una barzelletta.
BERLUSCONI non adora i politici seriosi, e Mattarella è molto serioso, essenziale. E chissà, finalmente, i cronisti potranno cogliere un cenno d’intesa, un abbraccio (troppo?) fra Renzi e Berlusconi. Nonostante i frequenti appuntamenti, più o meno carbonari, negli archivi mancano le immagini tra gli alleati Silvio & Matteo. Questa è una succulenta occasione. L’ex Cavaliere deve dimostrare di essere ancora presente, di essere un padre costituente, il premuroso custode del patto che fu siglato al Nazareno.
Un tempo, l’imprenditore col sole in tasca detestava le cerimonie. Guai a proporre a Berlusconi un posto in seconda fila, un ruolo da secondo attore. Non partecipò, figuriamoci, al giuramento di Barack Obama a Washington. E replicò sdegnato, con perfida ironia: “Non sono andato per George W. Bush e poi io sono un protagonista, non una comparsa”. Non sapete com’è allegro, adesso, di fare la comparsa, di avere una sediolina al Quirinale per ascoltare Mattarella. Quando risorge, l’ex Cavaliere è incontenibile. Al Colle avrà l’opportunità di apparire di nuovo centrale, anche a favore di telecamera: una centralità che predilige. Così B. ha ragionato, per un pomeriggio rinchiuso in villa San Martino di Arcore, su una mossa più spettacolare: fare una capatina a Montecitorio per il discorso di Mattarella? Azzardare o desistere. Poi ha capito che sarebbe esagerato e complicato per un politico espulso dal Senato. Non importa. Quel che va contabilizzato è il gesto di Mattarella, inevitabile per la prassi (un po’ meno la telefonata), che richiama in vita l’ex Cavaliere sbertucciato dai suoi parlamentari per come ha gestito la tornata per il Colle, padrone di una Forza Italia in frantumi, ma sempre necessario per le riforme di Renzi. E non soltanto per le riforme.
PER IL SENATORE DEM Miguel Gotor, un professore arruolato in Parlamento da Pier Luigi Bersani, sarebbe un peccato non veniale illudersi che sia finito il sodalizio fra Silvio & Matteo: “Il patto non ha soltanto contenuti politici, altrimenti Berlusconi non avrebbe votato l’Italicum a pochi giorni dal Quirinale, ma riguarda anche materie economiche, finanziarie e giudiziarie. E non sarà interrotto”. Entusiasta per il cortese approccio di Mattarella, ora Berlusconi precisa di aver ordinato ai suoi di scegliere scheda bianca perché non c’erano dubbi su Mattarella, semmai sul metodo di Renzi. E vengono dimenticate le dimissioni dell’ex democristiano moroteo, quand’era ministro dell’istruzione e lasciò il governo per protestare contro la legge Mammì che salvava le televisioni Mediaset. Era il 1990, e Berlusconi cancella i brutti ricordi. Il sottosegretario Graziano Delrio commenta la decisione di Mattarella con poche parole. Quella che comincia per R è fondamentale: “È un segno di apertura, di una riconciliazione che fa sentire la presidenza della Repubblica la casa di tutti”. Quanto piace a Berlusconi la riconciliazione. Sarà pure ferito l’orgoglio di Silvio per il tradimento politico di Matteo sul Quirinale. Ma Silvio è un uomo completo: oltre a tradire, sa perdonare.

il Fatto 3.2.15
Invitati scomodi
Il fratello Antonino resta a Palermo

TANTI, praticamente tutti stamani per il gran giorno del giuramento di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Familiari, amici oltre che politici e uomini delle istituzioni. Ma non lui. Antonino Mattarella, fratello del neopresidente, resterà a Palermo. Un gesto di accortezza, dopo le notizie pubblicate dal Fatto Quotidiano sui prestiti da lui richiesti (750 milioni di vecchie lire) a Enrico Nicoletti - cassiere della banda della Magliana - così come risulta da un provvedimento di sequestro dei beni che il tribunale di Roma ha emesso nel 1995 nei confronti proprio di Nicoletti.

Corriere 3.2.15
Il caso del 3 per cento
La frusta e il dolce fiscale
di Antonio Polito

qui

il Fatto 3.2.15
Forse si rimangiano il 3% per B. ma rimane il regalo agli evasori
Il governo riscrive il decreto fiscale, resta la parte che interessa alle banche
di Carlo Di Foggia e Stefano Feltri


Uno scivolone, un indizio e un’ammissione di colpa. Le parole di Maria Elena Boschi e Matteo Renzi aiutano a capire come si evolverà il pasticcio della norma salva Berlusconi. Quella che salva chi evade o froda il fisco sotto il 3 per cento del reddito imponibile (o dell’Iva) dichiarato - che avrebbe potuto ridare l’agibilità politica all’ex Cavaliere – e del decreto fiscale modificato in extremis da Palazzo Chigi e approvato alla vigilia di Natale. Testo bloccato e congelato fino al 20 febbraio.
LO SCIVOLONE. “Non è una norma pensata per salvare l’ex Cavaliere, ma riguarda 60 milioni di italiani” spiega domenica il ministro per le Riforme in tv: “Non credo che possiamo fare o non fare una norma perché c’entra o meno Berlusconi. Così si resta fermi agli ultimi 20 anni”. Aggiungendo: “In Francia hanno una norma uguale, con una soglia più alta, non del 3 per cento ma del 10 di non punibilità”. I tecnici al Tesoro si sono messi le mani nei capelli. In Francia la “soglia parametrata” per il reato di frode fiscale ha una doppio limite: il 10 per cento, e uno molto più basso, 153 euro, sopra i quali si configura il reato e si rischia una condanna a 5 anni di carcere e una multa fino a 500 mila euro, che salgono a 2 milioni se il frodatore ha sede all’estero, o falsifica il domicilio fiscale. Su un milione di euro, non si possono frodare 100mila euro ma solo 153, mentre in Italia – stando al testo approvato – fino a 30mila. Non solo: in Francia per chi froda l’Iva non esistono soglie di non punibilità – così come per le frodi documentali (salvate sotto il 3 per cento dal governo italiano o se le fatture false non superano i 1000 euro) - e lo stesso reato di frode è inteso in modo molto ampio, visto che punisce anche la sola “intenzionalità” e comprende “l’omessa dichiarazione dei redditi” (reclusione da sei mesi a tre anni).
RENZI HA SPIEGATO ai suoi ministri che “la soluzione finale sarà molto vicina ai francesi e non riguarderà Berlusconi”. Nel senso che dovrebbe essere esclusa dal provvedimento ogni tolleranza per la frode fiscale. Se rientrasse nel 3 per cento, l’Italia sarebbe l’unico Paese – tra le economie più sviluppate – ad avere una soglia così alta. In Germania l’evasione è punita fino a cinque anni o con una sanzione (in casi molto gravi la pena può salire fino a 10 anni) e sopra i 100 mila euro scatta la pena detentiva, che oltre il milione di euro supera i due anni. In Inghilterra, sopra le 20mila sterline si finisce a giudizio, con pene molto severe, mentre in Spagna la soglia è più alta. In tutti i casi, non esistono percentuali. Lo stesso decreto del governo ha triplicato a 150mila euro le soglie minime, sotto le quali chi evade non rischia il carcere. Una misura che dovrebbe rimanere.
Questo schema è confermato dal Tesoro, dove l’ipotesi sul tavolo è la sola esclusione delle dichiarazioni fraudolente. Quindi la nuova versione del decreto non dovrebbe riguardare Silvio Berlusconi, condannato a 4 anni di reclusione per aver frodato il Fisco: se l’ex Cavaliere vorrà cercare di cancellare gli effetti della legge Severino che lo rendono incandidabile, dovrà tentare la strada del Parlamento. Il decreto come uscito dal Consiglio dei ministri è stato comunque percepito come un segnale di non belligeranza del premier in vista della partita del Quirinale (sappiamo com’è finita, Berlusconi non ha votato Sergio Mattarella ma neppure lo ha delegittimato lasciando l’Aula).
Resterà invece la franchigia del 3 per cento per il reato di evasione fiscale e già questo, sostiene l’ex ministro Vincenzo Visco, è un gigantesco regalo ai grandi evasori: si riparte dall’ipotesi studiata e poi scartata (preoccupava l’Agenzia delle Entrate) dalla commissione tecnica che ha redatto il primo testo (quello poi modificato da Palazzo Chigi), presieduta dal presidente emerito della Consulta Franco Gallo. Nelle scorse settimane, il gruppo ha consegnato al ministro Pier Carlo Padoan il parere sulle modifiche apportate dal governo: il giudizio è negativo su tutto, compresa la norma “salva banche” che preoccupa il pool dei reati finanziari della Procura di Milano, quella che aiuta gli istituti che hanno evaso il fisco con operazioni di finanza strutturata, come i derivati, purché messe a bilancio (se ne avvantaggerebbero Unicredit e Banca Intesa).
Altro aspetto critico che verrà confermato: non dovrebbe essere inserito un tetto massimo alla soglia del 3 per cento, per evitare di premiare chi ha redditi più elevati, e quindi può evadere di più. “Tolta la frode, che è ingiustificabile, sarebbe comunque auspicabile un limite massimo”, spiega il Sottosegretario al Tesoro Enrico Zanetti (Sc). “Per i grandi evasori – se la soglia verrà confermata il raddoppio delle sanzioni”, ragiona in questi giorni il premier. Ma queste sanzioni maggiorate erano già previste e valgono per tutti, che il reddito sia di 10 milioni o di un miliardo di euro. La norma peraltro parla del reddito imponibile “dichiarato”: prima si evade per ridurre l’imponibile e poi, su quello, si pagano meno tasse del dovuto.
L’altra ipotesi che gira in queste ore è che nel decreto resti anche una franchigia per la frode ma vengano messi a punto dei meccanismi per accertare che non “sia dolosa”. Una frode “di sopravvivenza”, che dovrebbe escludere comunque l'ex Cavaliere ma difficile da accertare nei controlli.
IL GETTITO. Secondo l’ex ministro del Tesoro Giulio Tremonti, le sanzioni penali per l’evasione la disincentivavano. Il governo Renzi sembra andare in direzione opposta. E questo potrebbe irritare anche i tecnici della Commissione europea che non si fidano dei conti presentati dall’Italia e, temendo che le coperture dovute alla lotta all’evasione si rivelino ancora più esili del previsto, a marzo potrebbero chiedere nuovi sforzi all’esecutivo.

il Fatto 3.2.15
L’aiuto agli Aleotti e il Silvio ingannato
Il decreto servirebbe al patron Menarini Srl, vicini a Renzi, mentre B. vuole cambiare la Severino
Il ruolo di Verdini
di Marco Palombi


“Questa cosa nasce a Firenze”. Una fonte di governo racconta così, dietro la garanzia dell’anonimato, la genesi del famigerato articolo 19 bis del decreto attuativo della delega fiscale, quello che cancella i reati di evasione e frode fiscale se il maltolto è inferiore al 3% del fatturato: la norma - che a quanto risulta al Fatto Quotidiano preoccupa anche la Procura di Firenze - servirebbe a chiudere il processo apertosi un anno fa contro i vertici della Menarini, colosso farmaceutico con 16mila dipendenti nel mondo, 3,36 miliardi di fatturato stimato nel 2014 e sede nel capoluogo toscano. Proprietaria del gruppo - che ora possiede anche l’1 per cento di Mps, dopo essere salita fino al 4 - è la famiglia Aleotti: deceduto il capostipite Alberto, alla guida (e sotto processo) ci sono i figli Lucia e Giovanni, presidente e vice.
I rapporti con l’ex sindaco e quelli con l’ex Cavaliere
Ovviamente conferme ufficiali sulla genesi dell’articolo 19 bis non esistono (a parte l’ammissione del premier al Fatto sui pareri positivi arrivatigli da “grandi avvocati”), ma è un dato di cronaca incontestabile il rapporto tra Matteo Renzi e il gruppo farmaceutico: Lucia Aleotti, per dire, a marzo fu tra i pochi invitati dal premier al suo primo incontro a Berlino con Angela Merkel (gli altri erano Giorgio Squinzi, Fulvio Conti dell’Enel, e Mario Greco delle Generali). D’altronde la Menarini sa come coltivare le relazioni: quando Renzi era presidente, l’azienda firmò un protocollo con la provincia di Firenze e regalò oltre 600 computer a scuole e associazioni di volontariato; quand’era sindaco Menarini finanziò il recupero di alcuni appartamenti di edilizia popolare. Più significativo, forse, il fatto che l’imprenditore renzianissimo Fabrizio Landi - nominato nel cda di Finmeccanica - sieda anche nel consiglio di tre società del gruppo degli Aleotti: Menarini Diagnostics, Firma e Sili-con Biosystem. I rapporti tra Menarini e la politica, comunque, sono una sorta di tradizione: anche col governo di Silvio Berlusconi c’erano contatti più che frequenti. Ad esempio, agli atti dell’inchiesta fiorentina sulla Menarini - oltre a continui incontri con gli allora ministri Scajola, Fazio, Fitto, Matteoli, Sacconi e a una cena con l’ex Cavaliere - c’è pure una telefonata tra Alberto Aleotti e Gianni Letta: l’imprenditore chiede rassicurazioni su un emendamento e il sottosegretario risponde che se ne occuperà lui (“lo faccio dire io a Mosca dal presidente a Scajola”).
Il processo iniziato un anno fa: danni alla Sanità per 860 milioni
Tornando al decreto fiscale, i vertici della Menarini avrebbero un ottimo motivo per rallegrarsi se passasse con l’articolo 19 bis: un processo in corso a Firenze dal febbraio scorso in cui anche palazzo Chigi si è costituito parte civile (per una coincidenza divertente l’ha fatto il 22 febbraio, il giorno prima dell’insediamento del governo Renzi). L’accusa per l’azienda è pesante: aver gonfiato - attraverso un raggiro e per quasi trent’anni (dal 1984 al 2010) - il prezzo di alcuni farmaci accumulando nel frattempo fondi neri. Lucia e Giovanni Aleotti, in particolare, sono accusati di aver partecipato a questo sistema inventato dal padre spostando i soldi su 900 conti correnti intestati a 130 società estere fino a usufruire dei due scudi fiscali di Tremonti nel 2003 e nel 2009. Racconto corroborato, dicono i pm, da alcuni indagati che hanno già patteggiato la pena. Per la Procura Alberto Aleotti (il padre) in questo modo si sarebbe “procurato un ingiusto profitto non inferiore a 575 milioni di euro, con conseguente ingentissimo danno per il Servizio sanitario nazionale non inferiore a 860 milioni”. La dimensione della frode contestata è mostruosa: 1,2 miliardi di euro (la Cassazione, però, ha detto di no al sequestro preventivo). Lucia Aleotti, infine, è accusata anche di corruzione dell’ex senatore Pdl Cesare Cursi.
I tormenti del sultano di Arcore: “Quella legge non è per me”
Curiosamente anche fonti assai vicine a Silvio Berlusconi confermano la lettura per cui il beneficiario di quella amnistia mascherata che è l’articolo 19 bis sono gli Aleotti (è certo, in ogni caso, che pure quasi tutte le banche italiane avrebbero di che festeggiare). Secondo questa versione Denis Verdini - ormai uno dei principali collaboratori di Renzi - era informato della cosa, ma avrebbe contribuito a far credere all’ex Cavaliere che quella norma era pensata per lui: “Berlusconi è stato messo in mezzo, ma quella roba gli serve a poco: la pena ormai l’ha scontata e lui infatti continua a chiedere solo la non retroattività della legge Severino sulla incandidabilità, in modo da poter correre nel 2016”. E invece, dicono dal cerchio magico, il premier e Verdini insistono ad agitargli davanti agli occhi l’esca del 3% “salva-Silvio”. Fosse vero, sarebbe solo la conferma che i tramonti possono essere assai malinconici

l Fatto 3.2.15
La Regione Toscana deve fare causa a papà Renzi
Il consigliere del Cda di Fidi scrive al presidente:
L’impresa di famiglia ha commesso un reato penale “ai danni dello Stato”
di Davide Vecchi


È “indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato”. Paolo Spagnoli, avvocato e consigliere di amministrazione di Fidi Toscana, lo scrive nero su bianco: la società Chil Post di Tiziano Renzi non solo era “priva dei requisiti” previsti, ma “l’omissione di informazioni” ha rilevanza “ai sensi dell’articolo 316 ter del codice penale”. Per questo Spagnoli invita il presidente di Fidi Toscana, Silvano Bettini, “a informare senza indugio la Regione per gli adempimenti di legge”.
Il documento di cui il Fatto ha potuto prendere visione è stato inviato da Spagnoli il 26 gennaio ai membri del cda di Fidi Toscana che nella seduta del 14 gennaio avevano discusso la situazione della Chil Post. La vicenda riguarda un mutuo concesso alla società del padre del premier e finito nel fallimento dell’azienda per cui Tiziano Renzi è ora indagato dalla procura di Genova per bancarotta fraudolenta.
Parte di quel mutuo è stato pagato da Fidi Toscana attraverso un fondo per le piccole e medie imprese poi restituito dallo Stato. Ma, come ha documentato il Fatto a inizio gennaio, la Chil Post non aveva i requisiti per beneficiarne. Lo stesso governatore Enrico Rossi, in un’intervista pubblicata il 14 gennaio scorso, annunciò che sarebbe stato pronto ad agire per vie legali se ce ne fosse stato motivo. Quello stesso giorno il Cda di Fidi, di cui la Regione è socia di maggioranza, ha affrontato l’argomento e il 26 gennaio Spagnoli ha comunicato le conclusioni. “Anche alla luce degli ulteriori approfondimenti
- scrive Spagnoli - emerge in modo evidente che alla data dell’erogazione del finanziamento la società non aveva i requisiti”. Non solo, ma individua e specifica che Chil Post è incappata in un reato penale “l’articolo 316-ter cp: indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato” e che prevede una pena detentiva dai sei mesi ai tre anni. La Chil Post al momento della richiesta del finanziamento era rappresentata dalla mamma, Laura Bovoli, e dalle sorelle del premier, Matilde e Benedetta che hanno poi ceduto le quote a Tiziano Renzi. Questa una delle variazioni societarie non comunicate che, secondo Spagnoli, rientrano “nell’omissione di informazioni dovute” previste dall’articolo 316.
Ora toccherà a Rossi agire per vie legali. “Vediamo se manterrà la parola”, commenta Giovanni Donzelli, capogruppo regionale di Fratelli d’Italia e candidato governatore. “Non può più scappare, a questo punto diventa necessario e urgente recuperare i soldi pubblici irregolarmente erogati come ha confermato lo stesso cda”, aggiunge. “Fa particolarmente effetto scoprire che in un periodo di crisi con aziende costrette a chiudere e a licenziare, l’azienda di famiglia del premier fallita viene aiutata con soldi pubblici: è indecente”.

il Fatto 3.2.15
Il dissidente Alfredo D’Attorre
“Progetti incompatibili con il Pd”
intervista di CdF


Non può passare, in nessuna forma”. Alfredo D’Attorre, deputato, bersaniano di ferro e voce della minoranza Pd calibra le parole, ma sulla norma del 3 per cento non ipotizza compromessi.
Il ministro Maria Elena Boschi ha detto che se riguarda 60 milioni di italiani non si cambia solo perché tocca anche Berlusconi. E che in Francia la soglia è del 10%.
Io sono per mantenere il clima di unità, ma a condizione che lo costruiamo su fatti e verità.
Quali?
Il richiamo alla Francia è del tutto fuori luogo: lì c’è un limite quantitativo molto basso, che vanifica la percentuale.
Questa è la verità. I fatti?
La norma del 3 per cento è un regalo ai grandi evasori.
Era un regalo a Berlusconi?
Voglio credere si sia trattato di un infortunio involontario...
L'ipotesi è che la frode venga esclusa, e con essa l’ex Cav.
Mettere una soglia percentuale, senza un tetto massimo, anche alla sola evasione sarebbe gravissimo, fuori dalla civiltà tributaria occidentale. Vanificherebbe la lotta agli evasori, per giunta premiando quelli ricchi.
Nessun compromesso?
È una norma incompatibile con il Partito democratico.
Ricomincia la discussione interna al Pd?
La stragrande maggioranza del partito la pensa come me. Non si solletica il voto degli evasori, mortificando storia e cultura della sinistra.
Il 3 per cento non è la sola norma contestata.
Ci sono molti elementi da cancellare. A partire da quelli sulle banche.
Renzi vi ascolterà?
Ascolti il suo partito, come per Mattarella. Ha visto che la maggioranza che ottiene è più ampia di quella del patto del Nazareno.
Quello che ora sembra morto.
L’abbiamo disinnescato sul Quirinale, non credo sia morto.
Se sul 3% dovesse andare avanti lo stesso?
Ho fiducia che non insisterà. È materia esplosiva, le conseguenze politiche sarebbero ingestibili...

Corriere 3.2.15
Orfini alla minoranza: rivedere l’Italicum? No, ha un buon equilibrio
di Daria Gorodisky


ROMA Matteo Orfini, presidente del Pd: appena eletto il presidente della Repubblica, il governo rilancia il 3% come soglia di non punibilità per l’evasione fiscale. Molti lo ritengono un favore a Berlusconi, e voi lo avevate ritirato.
«Il decreto era stato scritto in modo sbagliato e lo abbiamo ritirato. Però riteniamo giusto che ci sia una differenza fra frode fiscale e errore fiscale: se c’è dolo, si tratta di reato, dunque punibile penalmente; mentre, in caso di sbaglio, basta la sanzione amministrativa».
In Europa non è contemplato nulla del genere. Anche la Francia, citata dal ministro Boschi, ha una norma severissima: il Code général des impôts all’articolo 1741 parla sì di soglia del 10%, ma solo se non supera i 153 euro.
«I tecnici si occuperanno di numeri e soglie. Io mi fermo al principio che ho appena descritto, e che all’articolo 8 del decreto fiscale è stato approvato da tutti, incluso il Movimento 5 Stelle: la necessità di distinguere fra errore e dolo. Servirà anche a snellire la Giustizia, il tribunale penale è ingolfato di procedimenti».
Ma non è più intasato il tribunale civile?
«Infatti è previsto un incontro preventivo con le Procure per valutare gli effetti del decreto. Il testo sarà anche pubblicato online e aperto a tutte le osservazioni».
Come vede il percorso delle riforme dopo la grande «pacificazione» tra le diverse aree del suo partito intorno al nome di Sergio Mattarella?
«Credo che la bella pagina dell’elezione per il Quirinale ci indichi il dovere di portare a completamento le riforme: a partire da legge elettorale e modifiche costituzionali».
Partiamo dal futuro sistema di voto. La vostra minoranza era e rimane contraria ai capilista bloccati: c’è disponibilità, adesso, a rivedere questo elemento?
«Mi sembra che la legge elettorale, così come è stata licenziata dal Senato in seconda lettura, rappresenti un buon punto di equilibrio fra le diverse esigenze di tanti di noi. Quindi penso che concluderà il suo iter con l’approvazione della Camera, non credo che ci saranno modifiche. Del resto, un partito offre un nome in un collegio: se all’elettore quel nome non piace, può non votare quella formazione».
E le riforme costituzionali?
«L’impianto generale è definito. Ci sono ancora alcuni nodi, per esempio sul Titolo V, ma rispetteremo il calendario. Vedo in questo Parlamento una volontà molto ampia di compiere riforme. Certo, sento dichiarazioni curiose di esponenti di Forza Italia che le legano all’elezione del capo dello Stato: ma non c’è nesso fra patto del Nazareno e Quirinale».
Il dubbio ha più che sfiorato settori del suo partito.
«Direi che l’elezione del presidente della Repubblica con un consenso così ampio è servito a cancellare i dubbi di chi ne aveva e descriveva il patto del Nazareno come qualcosa di mefistofelico. Credo che questo aiuterà anche a purificare dalle scorie il clima interno al Pd. Da presidente, devo garantire il massimo sforzo per raggiungere una sintesi. Però a volte questo è impossibile, e allora esistono delle regole per decidere. Il partito non può essere paralizzato».
Uno dei leitmotiv è che, con Renzi e Mattarella, il Pd si sia trasformato in una nuova Dc.
«Noi non siamo morti né comunisti, né democristiani. Viviamo benissimo da socialisti europei: anzi, siamo il più grande partito della sinistra europea».

il Fatto 3.2.15
Forza Italia a pezzi, las tragicommedia finisce nel ricatto
Denis Verdini, odiato da tutto il paertito non si dimette e Berlusconi non lo può mollare:
è lui i custode degli accordi con Renzi (a cui bisogna rimanere aggrappati)
di Fabrizio d’Esposito


Seppur screpolate, consumate e rigide per gli strati marroni di cerone, le maschere del berlusconismo restano uno spettacolo tragicamente fantastico. Lo choc per l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale ha sdoppiato ancora di più la personalità del Condannato. Argomento: l’epurazione o meno di Denis Verdini, il custode azzurro di tutti i segreti del patto del Nazareno. Domenica pomeriggio ad Arcore. Silvio Berlusconi è al telefono con un parlamentare di alto rango del suo partito. Uno sfogo, l’ennesimo: “È vero, Renzi mi ha tradito, i patti non erano questi, ma fosse per me ammazzerei tutti. Verdini? Resta con noi, non se ne andrà. Non succederà”. Clic. Altro squillo. Altra conversazione. Stavolta parla con un’ex ministra, intima del cerchio magico, in particolare di Giovanni Toti. Il Pregiudicato cambia subito versione su “Denis”: “Sono stati lui e Renzi a fregarmi. Stai tranquilla, per Verdini è finita”.
Il condannato e il macellaio
Quale dei due Berlusconi dice la verità? Probabilmente nessuno. Racconta una fonte azzurra informata, senza tanti fronzoli: “Verdini tiene per le palle il presidente”. Il punto, dunque, è tutto qui: chi tiene Pper le palle chi. Il Condannato sa perfettamente che i dati della scatola nera del Nazareno sono in mano a Verdini e Gianni Letta. Ma se quest’ultimo è una sorta di eunuco andreottiano destinato a seguire l’Imperatore sino in fondo, nel bene e nel male, non è così per il toscano che di fatto ha inventato l’accordo con il suo corregionale oggi presidente del Consiglio. Ieri, lo sherpa plurimputato e plurinquisito di Forza Italia ha rotto il suo proverbiale silenzio e ha mandato un pizzino pubblico a uso interno. Sostiene Verdini: “Il patto del Nazareno è una questione politica, non notarile, ed è evidente che facendo insieme le riforme elettorali e costituzionali si dovesse arrivare a un presidente condiviso”. Poi, le vere stoccate. La prima: “Io penso che i numeri del Parlamento sono talmente grandi che Renzi poteva fare qualunque altra cosa, noi siamo abbastanza irrilevanti”. La traduzione di questa frase indica la filosofia verdiniana sull’indispensabilità dell’inciucio con Renzi: “Caro Silvio se rompi con Matteo e ti rinchiudi nella tua Salò con Toti e la Rossi non abbiamo più speranze. Da soli non contiamo nulla”. Ed è proprio alla Badante del Pregiudicato, alias Mariarosaria Rossi, che aveva stroncato la gestione del Nazareno da parte di Verdini e Letta (“duo tragico”), che è indirizzato il secondo messaggio di “Denis”: “Resto dove sono, non è nel mio Dna dimettermi”.
La delega fiscale e la salva Silvio
Aggiunge la fonte azzurra convinta che Verdini tenga “per le palle il presidente”: “Aspettiamo il 20 febbraio, quel giorno vediamo se abbiamo ragione noi oppure quelle pu.... e che si tiene intorno”. Insulti a parte, il 20 febbraio sarà il giorno della verità sulla Salvasilvio del 3 per cento. Ma Verdini non ha solo quest’arma di pressione. Qualora la guerra di questi giorni dovesse portare a una conta mortale, senza feriti, lui potrebbe giocarsi la carta del gruppo autonomo. Nonostante le smentite, il successo avuto dai franchi soccorritori forzisti pro-Mattarella ha delineato la forza numerica dei verdiniani. In tutto i voti azzurri al nuovo capo dello Stato sono stati 70, di cui almeno 40 riconducibili al custode del patto. Ed è per questo che, per B., l’unica strada percorribile resta quella di “rimanere aggrappato con unghie e con i denti al patto del Nazareno”.
I nazareni e i boy-scout
La resurrezione del Nazareno è ovviamente uno schiaffo per i soci del contropatto radunati nel fatale cerchio magico di B. insieme con il barboncino Dudù. Oltre alla già citata Rossi, un altro pasradan anti-Denis è Giovanni Toti, che ieri ha proposto il patto dei quarantenni di Forza Italia, subito sbeffeggiato da Renato Brunetta (il capogruppo che sta solo con se stesso, in odio a tutti): “Faremo un patto per ogni generazione, dai settantenni ai boy-scout”. L’obiettivo è di allearsi con Fitto contro l’ala nazarena. Agli occhi di Verdini, il cerchio magico ha la colpa principale di aver riportato Angelino Alfano ad Arcore. La ritrovata alleanza tra Fi e Ncd ha infatti sparigliato le trattative del Nazareno sul capo dello Stato e affossato le speranze berlusconiane di far eleggere Giuliano Amato.
I superstiti del cespuglio
Il versante alfaniano della tragicommedia del centrodestra post-Mattarella offre altre scene notevoli. Come quella del ministro ciellino Maurizio Lupi che intima al premier di “non trattare Ncd come uno zerbino”. Nel frattempo, nel partitino ministeriale di Alfano, prosegue la crudele cerimonia degli addii. Il più pesante, per il momento, è quello della portavoce Barbara Saltamartini che preso atto dell’esistenza di Ncd come “cespuglio di centro” non particolarmente influente. Quasi certamente, nei prossimi giorni, la Saltamartini approderà nel gruppo della Lega di Matteo Salvini. In fondo, dopo lo choc renziano su Mattarella, diventa ancora più drammatico il problema della sopravvivenza elettorale. In questa chiave va letta la faida di Forza Italia. In ballo ci sono i pochi seggi, non più di 70, previsti dall’Italicum. E adesso ci sono da accontentare anche gli alfaniani superstiti.

Corriere 3.2.15
Il centrodestra è alla deriva ma non ha alternative
di Massimo Franco


Il centrodestra continua a dire che «nulla sarà come prima». E il tono vuole essere minaccioso nei confronti di Matteo Renzi, accusato di aver fatto eleggere Sergio Mattarella al Quirinale scavalcando FI e Ncd. Ma l’insistenza finisce soprattutto per sottolineare la sconfitta di Silvio Berlusconi e di Angelino Alfano. Si accompagna a uno sbandamento progressivo dei due partiti, con tanto di abbandoni. E deve fare i conti con parole del premier che non suonano come una mano tesa, quanto piuttosto come perentori inviti a superare il trauma: a «leccarsi le ferite», dice testualmente, e a decidere se sono ancora intenzionati a fare le riforme.
Sono pochi quelli che suggeriscono di abbassare i toni con Palazzo Chigi, nel timore fondato di un nuovo schiaffo renziano. L’atteggiamento del presidente del Consiglio è quello del vincitore poco disposto a cedere qualcosa: basta registrare il modo in cui ha bollato come «vecchi riti» la richiesta di una verifica della maggioranza da parte del Ncd. D’altronde, Alfano è ministro dell’Interno e non può tirare troppo la corda senza scaricare le contraddizioni del suo partito sulla stabilità del governo. Quanto a Berlusconi, sa che, in caso di rottura con il Pd sulla legge elettorale o sul nuovo Senato, potrebbero essere rimessi in discussione i cento capilista bloccati, chiesti e ottenuti dall’ex Cavaliere.
La minoranza che fa capo a Pier Luigi Bersani insiste sull’esigenza di rivedere il progetto. Si tratterebbe infatti di un sistema che prevede «troppi nominati», ha avvertito l’ex segretario subito dopo l’elezione di Mattarella, alimentando la vulgata di FI secondo la quale Renzi si sarebbe sbilanciato a sinistra per tenere unito il Pd. In realtà, l’unica novità è che il patto del Nazareno è stato brutalmente ridimensionato e declinato con FI in posizione subordinata rispetto a Palazzo Chigi. L’ipotesi che Renzi si pieghi alle richieste della minoranza o approdi ad una nuova coalizione con Sel appare assai poco verosimile. La verità è che per giustificare i propri errori, FI e Ncd attaccano il premier. Dentro FI si tenta il «processo» contro Denis Verdini, uomo di raccordo tra Berlusconi e Renzi. E il Nuovo centrodestra perde pezzi.
Esponenti come Maurizio Sacconi e Gaetano Quagliariello lasciano capire che Ncd dovrebbe porsi il problema della stessa permanenza al governo: un tema che metterebbe in seria difficoltà Alfano. E Maurizio Lupi manda a dire a Palazzo Chigi: «Non siamo i tappetini o i cespugli di Renzi». Si tratta di convulsioni che mostrano per intero le frustrazioni del principale alleato di governo. Eppure, una via d’uscita non si vede. L’ipotesi di un nuovo patto con FI andando oltre la leadership berlusconiana sa di già visto. FI non può che appoggiare l’agenda istituzionale del governo, seppure dall’opposizione e con diffidenze e malumori crescenti.
La stessa idea, che qualcuno accarezza, di ricostruire un’alleanza con la Lega viene liquidata dal segretario Matteo Salvini come «operazione a tavolino». E poi, il 20 febbraio il Consiglio dei ministri dovrà decidere se cambiare il decreto che depenalizza la frode fiscale sotto il 3 per cento dell’imponibile: la norma sospesa da Renzi perché si diceva servisse a Berlusconi. Il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, tende a rivendicarla. Ribadisce che le riforme vanno fatte insieme con FI. Ma aggiunge che in ogni caso «la maggioranza ha i voti per approvarle da sola». Avvertimenti col sorriso sulle labbra.

Repubblica 3.2.15
Il protocollo e il condominio che non c’è più
Lo sconto di pena e l’invito al Colle stemperano l’umiliazione di Silvio ma non restaurano il Nazareno
di Stefano Folli


AVOLTE la storia è fatta di dettagli. Nelle ultime ore ce ne sono un paio che raccontano qualcosa dell’attuale stagione. Il primo: stamane alla cerimonia per l’insediamento del presidente della Repubblica sarà presente anche Berlusconi, nella veste di ex presidente del Consiglio. Il protocollo serve in questo caso a coprire un’esigenza politica: la volontà, condivisa senza dubbio dal nuovo capo dello Stato, di stemperare le tensioni che hanno scandito il voto del Parlamento. Berlusconi, estromesso a suo tempo dalla Camera e nei giorni scorsi umiliato da Renzi nella vicenda del Quirinale, ottiene attraverso il cerimoniale un riconoscimento formale che lo aiuta a riassestarsi.
Secondo dettaglio: quasi nelle stesse ore il capo di Forza Italia guadagnava anche uno sconto sui servizi sociali di Cesano Boscone. Quarantacinque giorni in meno rispetto alla sentenza: il 6 marzo, in pratica un mese da oggi, come data ultima della pena. Una modesta riduzione, quasi una mini-grazia, che non chiude certo il capitolo giudiziario: resta aperto il processo Tarantini a Bari sulle «cene eleganti» e soprattutto la legge Severino impedisce a Berlusconi di ricandidarsi fino al 2019 (per questo è pendente il ricorso presso la corte europea di Strasburgo). Ma in definitiva è un altro piccolo segnale positivo per Berlusconi.
Occorre tuttavia fare attenzione. Non stiamo assistendo alla rinascita del famoso «patto del Nazareno», cioè a una sorta di riabilitazione che permetterebbe all’ex premier di riprendere il discorso dove l’aveva lasciato prima del poker di Renzi. Non esiste un «heri dicebamus » in questa storia, come non è mai esistito un condominio fra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli, se non nella mente di qualcuno. C’è semmai una logica per cui il «patto» diventa sempre più una questione di convenienza pratica. E il più interessato a non interrompere il filo delle intese parlamentari, ossia delle riforme condivise, oggi è senz’altro Berlusconi.
È lui il più debole sul piano politico, al limite dello psicodramma; lui che è uscito sconfitto dal confronto sul Quirinale e ormai non è quasi in grado di porre veti o esercitare l’interdizione. È lui quindi che deve affrettarsi ad afferrare la mano che gli viene tesa per evitare di perdere tutto. La rete degli interessi economici che ruotano intorno a Mediaset consiglia più che mai la massima prudenza e il ritorno a un comportamento istituzionale. Fosse anche la presenza muta e composta all’insediamento di un presidente che Forza Italia non ha votato, salvo una pattuglia non irrisoria di franchi tiratori ai quali lo stesso leader, sotto sotto, aveva lasciato la briglia lunga.
Chi vuole potrà continuare a chiamarlo «patto del Nazareno», ma è evidente che si tratta d’altro. Da un lato c’è in questo momento una figura egemone, in grado di dare le carte o ritirarle dal tavolo; dall’altro, un personaggio che deve accettare la realtà, fino a rendersi conto di non possedere in alcun modo la forza per competere nella gestione del potere. Nonostante tutto, Renzi resta un interlocutore a cui quel che resta di Forza Italia non può rinunciare. È un approdo poco sicuro, come si è visto, ma è l’unico che può assicurare al centrodestra visibilità e un ruolo pubblico, sia pure in chiave subordinata. Vedremo allora nelle prossime settimane cosa accadrà.
Ci sono pochi dubbi che Berlusconi si affretterà a manifestare rispetto verso il presidente Mattarella, rifuggendo anche solo l’idea di aprire una polemica preventiva nei suoi confronti. Renzi potrà allora sfruttare la tregua a destra per bilanciare gli accordi all’interno del Pd. La coesione ritrovata con l’area di Bersani è essenziale, purché non diventi la premessa per richieste eccessive nel campo delle riforme: in particolare della legge elettorale. In tal caso le vecchie intese con i berlusconiani potrebbero tornare utili. Viceversa, l’esigenza di tenere unito il Pd e in generale il centrosinistra potrà servire a limitare e migliorare il decreto fiscale, quello con la soluzione 3 per cento che tanto male ha fatto all’immagine del renzismo.

Il Sole 3.2.15
Gli effetti della partita sul Coille
Il declino del centro-destra
di Gennaro Sangiuliano


La vicenda del Quirinale, prescindendo dal fatto oggettivo dell’elezione di un galantuomo come Mattarella e dalla vittoria politica di Renzi, determina evidenti effetti collaterali, primo fra tutti segna un ulteriore livello al ribasso nel declino del centrodestra italiano, una vera e propria discesa verso gli inferi dell’irrilevanza politica e prima ancora culturale.
Gli errori grossolani e la goffaggine con cui è stata gestita la vicenda Quirinale non sono un fatto isolato, sono molto di più. Sono la conseguenza di una crisi di identità e di leadership, di proposta e di uomini.
Sul terreno della tattica il centrodestra ha sbagliato tutto, sembra quasi ci sia stata una regia dell’autodistruzione .
Ma per leggerne la crisi non bisogna soffermarsi ai tatticismi, che pure pesano e peseranno, bisogna guardare oltre, al vuoto culturale, di progetto e di programma che connota in questa fase storica lo schieramento moderato.
La politica, secondo il giurista Carl Schmitt, autore del saggio Le categorie del politico, si determina nelle differenze, nella rappresentanza e nella proiezione di elaborazioni culturali diverse, in un gioco hegeliano di tesi e antitesi. Ebbene quali idee, quali visioni, rappresenterebbe oggi il centrodestra? Quale idea per l’Italia di fronte alle turbolenze globali?
L’Occidente, dopo secoli di dominio, subisce il peso della sfida globale, la plurilateralità dei soggetti economici, l’attacco del fondamentalismo islamico, migrazioni senza regole. Si tratta di un passaggio epocale rispetto al quale chi coltiva i valori della libertà, dell’identità della Patria, del conservatorismo compassionevole e sociale, dovrebbe fare uno sforzo di elaborazione culturale.
Nel bagaglio della destra ci sarebbero i valori borghesi di Longanesi, l’anticonformismo di Prezzolini e Montanelli, la libertà di Machiavelli e Croce, la coscienza della crisi di Spengler e Dostoevskij. Le esperienze riformatrici di Margaret Thatcher, di Ronald Reagan e prima ancora di De Gaulle.
Nel resto del mondo quando si pensa agli schieramenti moderati si richiamano i valori della sobrietà, del perbenismo, del rigore morale, del conservatorismo. In Italia, il centrodestra, anche nella rappresentazione fisica delle sue leadership è l’opposto di ciò che dovrebbe essere. Una incapacità di cogliere il passo dei tempi e di affermare quell’identità culturale, teorizzata da una nobile linea di pensiero, – che pure ci sarebbe – accompagnandola alla credibilità delle persone.
Il Berlusconi del '94 propose la “rivoluzione liberale” al blocco sociale di imprenditori, lavoratori autonomi, artigiani e commercianti nati dall’economia degli anni Ottanta e privi di voce politica. Creò un suggestivo sogno italiano, tradito irreparabilmente da anni di governo senza riforme.
Questa esperienza è chiusa dal tempo e dai fatti, oggi il centrodestra, in evidente soggezione psicologica e morale nei confronti del centrosinistra, sconta il mancato rinnovamento, l’incapacità di archiviare il passato e costruire nuove idee e soggettività. Non basta, si ritrova col macigno di un coagulo d’interessi che lega una sua parte al perseguimento di fini eterogeni rispetto agli interessi dei suoi possibili elettori e quasi del tutto estranei alla politica.
Se nel trascorso ventennio la presenza di Berlusconi in politica era stato l’elemento capace di catalizzare consensi e di unificare esperienze diverse all’interno della formula del centrodestra, oggi il persistere di questa presenza, appare un limite oggettivo.
È un errore pensare che questo tema sia solo interno al centrodestra, perché la pluralità dell’offerta politica e con essa l’opzione dell’alternanza, costituiscono una ricchezza della democrazia. Non c’è democrazia liberale e costituzionale compiuta se non c’è possibilità per il cittadino elettore di valutare scelte alternative e soprattutto diverse visioni culturali e programmatiche.
«La destra che non c’è», scrisse Giuseppe Prezzolini, tratteggiando quel grande anelito conservatore e richiamando Ortega y Gasset che chiarisce come il valore dei moderati siano nel «piantare i talloni nel passato, partire dal presente e mettersi in marcia». Una prospettiva che oggi potrebbe rivolgersi soprattutto nella capacità di lottare alla dittatura dei luoghi comuni e del politicamente corretto ma con il rigore degli argomenti e dei fatti.
«Il Vero Conservatore è persuaso di essere se non l’uomo di domani, certamente l’uomo del dopodomani», concludeva Prezzolini.

Repubblica 3.2.15
Denis Verdini:
“Nel patto c’era anche un presidente condiviso”
intervista di Marco Billeci


ROMA Onorevole Verdini, nel patto del Nazareno c’era anche il nome del presidente della Repubblica?
Ai microfoni di Repubblica Tv risponde l’uomo di Berlusconi che ha gestito in prima linea, insieme allo stesso leader di Fi, le trattative con il premier Renzi sulle riforme e sulla partita del Quirinale.
«Il patto del Nazareno è una questione politica, non notarile. E’ evidente che, facendo insieme le riforme costituzionali e elettorali, si dovesse arrivare a un presidente condiviso. Ma i numeri del Parlamento sono talmente grandi che Renzi poteva fare qualunque altra cosa. Noi siamo abbastanza irrilevanti. Cosa che spesso non si considera».
E’ deluso da Renzi?
«Uno viene deluso dalle proprie fidanzate».
L’Espresso pubblica una lista di parlamentari di Forza Italia che avrebbe votato Mattarella, fra questi c’è anche lei. Lo conferma?
«Io le dico che il voto segreto è la fiera degli idioti e di quelli che non sanno come fare a giustificarsi e quindi, dietro al segreto dell’urna, fanno come pare loro. I franchi tiratori sono una vecchia invenzione. Per quanto mi riguarda, io sono berlusconiano e sto alle direttive di partito».
Lei si dimette da coordinatore di Forza Italia come le chiedono molti suoi avversari interni o lascia decidere i ruoli al partito?
«Le dimissioni non sono nel mio Dna. Punto. E non ne vedo le ragioni».
L’onorevole Rossi su Repubblica vi ha definiti così: «Verdini e Letta sono il duo tragico». Quindi attribuisce un po’ a lei e a Letta la responsabilità del fallimento della trattativa con Renzi. Cosa risponde?
«Abbiamo fatto anche un contratto per cantare qualche canzone, un duo che fa? Canta. Sono opinioni della Rossi che io non condivido e non commento».
Si parla di un avvicinamento sempre più forte tra lei e Fitto.
«Queste sono cattive informazioni. Io e Fitto stiamo litigando da tempo. Se volete mediare e invitarci a pranzo tutti e due, potrete verificare da voi lo stato dei rapporti».

Corriere 3.2.15
Mancano le donatrici di ovociti
Caos nelle Regioni sull’importazione
di Margherita De Bac


L’ipotesi di bandi locali. Costi tra 2.800 e 3.500 euro. Potrebbero ricadere sulle coppie
ROMA I figli dell’eterologa made in Italy saranno per metà «stranieri». Almeno quelli concepiti in provetta nei centri pubblici. La pratica sul campo ha infatti reso evidente ciò che era prevedibile. Le donne italiane non donano ovociti e le Asl si devono arrangiare.
La Toscana anche in questo è stata intraprendente con la delibera del Careggi che ha stabilito una sorta di convenzione per l’importazione da quattro bio-banche. Altre Regioni stanno valutando l’ipotesi di battere la stessa pista per rifornirsi, acquistandoli, di gameti femminili ceduti da donne spagnole, svedesi o di altra nazionalità. Non sarebbe una sorpresa se l’ufficio legale del ministero della Salute andasse a verificare la compatibilità della delibera del Careggi con la normativa italiana specie per quanto concerne l’aspetto economico.
Il tavolo tecnico delle Regioni sulla procreazione medicalmente assistita nell’ultima riunione ha preso atto delle difficoltà: «Non possiamo fingere — dice il coordinatore, l’andrologo veneto Carlo Foresta —. Il nodo va districato. Come? Magari con la creazione di banche in Italia sul modello di quelle europee. Bisogna uniformare i criteri di donazione, ad esempio la raccolta e la ricompensa alle volontarie».
Ora, insiste Foresta, il sistema è squilibrato. Un pacchetto di ovociti importati, inclusi il trasporto, costa da 2.800 e 3.500 euro, a carico della coppia committente che deve inoltre pagare il ticket per l’eterologa (circa 200 euro). A conti fatti, sembrerebbe più conveniente espatriare in cliniche estere. I viaggi della speranza riproduttiva sono il fenomeno che la sentenza della Corte costituzionale (a giugno l’eterologa è tornata legale) avrebbe dovuto stroncare.
L’Emilia-Romagna è orientata a seguire la Toscana, ipotesi che si sta delineando negli incontri tecnici fra i responsabili dei servizi ospedalieri. Critico Giovanni La Sala, direttore del centro di Reggio Emilia: «A livello personale sono contrario alle bio-banche estere. Formalmente risultano a posto con la legge comunitaria che vieta di remunerare le donatrici, nella pratica la ricompensa c’è. Si chiama in altro modo, ad esempio indennità». Inoltre l’eterologa made in Italy contiene una contraddizione, rileva La Sala: «Le pazienti secondo le raccomandazioni delle Regioni possono farla gratuitamente sotto i 43 anni e con un numero massimo di tre cicli. L’età di chi richiede la donazione è più alta e tre tentativi non bastano». In Puglia, stessa situazione di stallo. Nel maggior centro pubblico (ospedale Iaia di Conversano), come a Bari e Nardò, l’eterologa è un miraggio: «Anche qui ci vorrebbe un bando per le bio-banche estere — non vede alternative Giuseppe D’Amato, direttore a Conversano —. Un fatto è certo. Un’indagine interna fra le nostre pazienti in cura per la fecondazione omologa (ambedue i gameti della coppia), si è conclusa amaramente. Nessuna è disposta a regalare parte degli ovociti in sovrannumero, il cosiddetto egg sharing . C’è una barriera culturale. Chissà che con una campagna di informazione...».
Il servizio di fecondazione artificiale all’Evangelico di Genova è diretto da Mauro Costa: «La scelta della Toscana è discutibile. Noi speravamo nell’altruismo delle nostre pazienti in trattamento per l’omologa. Su 150 solo una ha sottoscritto l’ egg sharing . Una delusione. Bisogna arrangiarsi».
Il ministero sta lavorando sulle nuove linee guida nazionali per la fecondazione artificiale. Ci vorrà tempo.

La Stampa 3.2.15
“Stop all’austerity, l’America torna a spendere”: Obama alza le tasse a corporation e super ricchi
Il presidente Usa presenta la manovra finanziaria da 4.000 miliardi di dollari. E offre una sponda a Tsipras: «Inutile spremere i paesi che sono nel mezzo della depressione»
di Paolo Mastrolilli

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Il Sole 3.2.15
Il negoziato sul debito
Atene e Berlino condannate a un’intesa
di Adriana Cerretelli


Si incontreranno prima o poi le divergenze parallele che per ora muovono Atene e Berlino, il colosso tedesco e il “topolino” ribelle della moneta unica? La logica della Realpolitik oltre che del buon senso fa rispondere di sì.
Nessuno può permettersi di perdere l’euro nel mondo globale, meno che mai i tedeschi che ne sono i grandissimi beneficiari. Al suo terzo mandato e con un posto già assicurato nei libri di storia, Angela Merkel di sicuro non vuole passare agli annali con il marchio della liquidatrice del maggiore progetto di integrazione europea.
Nemmeno Alexis Tsipras, il suo giovane antagonista alle prime armi che ha stravinto in Grecia promettendo di sovvertire l’ordine costituito e i “patti ineguali” che hanno piegato il suo Paese, può permettersi il lusso di provare a far saltare il banco europeo perché il primo a saltare sarebbe comunque il suo. Il divorzio della Grecia dall’euro implicherebbe infatti automaticamente anche quello dall’Unione, una lacerazione storica, quando l’80% dei greci auspica esattamente il contrario.
Anche se sono condannati a trovare l’intesa, non è detto che i due protagonisti la trovino presto: il cammino per arrivarci si annuncia accidentato e pieno di rischi. E trappole.
Non a caso, dopo le iniziali “sparate”, probabilmente dettate anche da ingenuità e inesperienza politica, il nuovo governo di estrema sinistra sembra essersi convertito a una certa moderazione, comunque alla cautela dichiaratoria, forse dettata anche dalla crescente consapevolezza dei vincoli ineludibili che la permanenza nell’euro comporta per tutti.
Non a caso Tsipras e Yanis Varoufakis, il suo ministro delle Finanze giacobino, sono alla disperata ricerca di solide alleanze in Europa e fuori. Oggi il premier greco sarà a Roma, domani a Bruxelles e a Parigi. A Berlino invece niente più di un incontro in formato ministeriale. II faccia a faccia con la Merkel dovrà attendere il 12 febbraio: il vertice Ue di Bruxelles sarà l’atteso momento della verità per una partita che continua a presentarsi confusa e nebulosa.
Proprio perché sa di essere il vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro, Tsipras spera di arrivare all’appuntamento con l’appoggio di un fronte che ne condivida le rivendicazioni, conferendo loro respiro più ampio, un passo e una valenza europea.
Respinte le profferte di aiuto della Russia di Putin e fugati così anche i timori dei partner circa la sua intenzione di diventarne il cavallo di Troia in Europa nel pieno della guerra ucraina, il premier greco ha trovato anche l’insperato sostegno dell’America di Barak Obama. Non certo nuovo agli scontri con la Merkel e i mega-surplus correnti tedeschi che non aiutano la domanda mondiale, il presidente Usa non ha certo perso l’occasione per abbracciare la causa della crescita europea definita «il miglior modo per ridurre i deficit e recuperare la salute fiscale» e affermando che «non si può continuare a spremere i Paesi con l’austerità quando si trovano nel mezzo della depressione».
Nonostante il prezioso assist di Obama, Tsipras dovrà comunque misurarsi prima di tutto con i creditori europei, con la troika e la gabbia dei programmi di austerità e di riforme. Cui chiede comunque sconti sostanziosi sia pure con toni decisamente morbidi: «Sono fiducioso, troveremo un accordo reciprocamente vantaggioso nel rispetto degli impegni assunti dalla Grecia con Bce e Fmi».
Di cancellazione del debito non si parla più. Si punta invece alla rinegoziazione delle scadenze e dei tassi di interesse. Senza chiedere un’ulteriore proroga del programma di aiuti Ue che scadrà a fine mese ma una semplice intesa-ponte in attesa di un nuovo accordo. Si auspica il ripensamento delle politiche di austerità su scala europea oltre che greca (con riduzione tra l’altro dal 4,5% all’1,5% del surplus primario), nella speranza di garantirsi l’alleanza di Francia e Italia. Si insiste sul ridimensionamento del ruolo e dei poteri della troika.
La nuova Grecia sembra scesa a più miti consigli ma per ora la Germania non ci sta: respinge quasi tutte le richieste di «cambiamenti unilaterali» agli accordi stipulati e difende come intangibili i poteri di controllo della troika. La Commissione Juncker invece appare più possibilista.
Il braccio di ferro è appena cominciato. Tutti avrebbero l’interesse a concluderlo al più presto per evitare di eccitare gli appetiti dei mercati e gli opposti populismi che tormentano tutte le democrazie europee in un anno molto elettorale. Per evitare che, in assenza di un accordo, la Bce sia costretta a chiudere i rubinetti del credito alla Grecia. Per non compromettere i segnali di una ripresa finalmente possibile nell’eurozona grazie a mini-euro, calo-petrolio, tassi bassi e quantitative easing sovrano.

Il Sole 3.2.15
Syriza, la destra e il Manifesto di Ventotene
di Barbara Spinelli

Caro direttore,
l’articolo di Guido Rossi «Perché all’Europa serve un Manifesto di Ventotene», pubblicato domenica dal suo giornale, è fuorviante e non del tutto in buona fede. Non c’è identità di vedute né di strategie fra Syriza e le estreme destre europee. E dentro Syriza una componente significativa si richiama esplicitamente al Manifesto di Ventotene e ad Altiero Spinelli: la via scelta da questa componente è quella di restare in Europa per cambiarla in meglio, se possibile, proprio perché le soluzioni sovraniste sono ritenute catastrofiche.
L’alleanza con la destra di Anel era praticamente obbligata (Tsipras deve condurre fin da subito una dura battaglia sull’austerità e non aveva alleati pronti a farla con lui) e ha parecchi tratti inquietanti, sono d’accordo. Ma occorre tener conto del fatto che il nuovo ministro greco dell’immigrazione, Tasia Christodoulopoulou, di Syriza, ha annunciato fin dal primo giorno, appena nominata, che introdurrà nel proprio Paese lo ius soli, diritto che in Italia ancora non abbiamo, ahimè. Non è precisamente un regalo fatto alle destre di Anel.
Un caro saluto
Ognuno ha le sue idee, la mia è del tutto in buona fede. (G. R.)

La Stampa 3.2.15
Sogno o son greco
di Massimo Gramellini


Il nuovo ministro greco dell’Economia è un matematico di passaporto australiano che assomiglia a un boxeur e si veste come un rocker. Yanis Varoufakis. La foto lo immortala in compagnia dell’omologo britannico Osborne, di cui non condivide le idee e a prima vista nemmeno il sarto. Nei giorni scorsi l’uomo più indebitato del continente aveva già traumatizzato il pennellone olandese della Trojka addetto al recupero crediti, presentandoglisi dinnanzi a cavallo di una moto, lo zaino in spalla e la camicia fuori dai pantaloni. Il dottor Varoufakis si veste così perché si sente così. Ma il suo rifiuto di adeguarsi all’esperanto sartoriale del potere è anche un segnale politico. Si può essere diversi, si può cambiare lo schema. Il turbocapitalismo finanziario che da vent’anni ha uniformato le grisaglie e ammutolito le forze sociali è solo uno dei tanti mondi possibili. 
Il ministro scamiciato viene fatto passare per comunista o per pazzo, eppure dice cose di buon senso. Per esempio che la Grecia pagherà i debiti quando ricomincerà a vivere perché pagarli adesso significherebbe morire. Forse Varoufakis durerà poco. Di sicuro, come tutti i monelli, ispira simpatia.

il Fatto 3.2.15
Tsipras disarma anche la polizia
Nuove regole nelle manifstazioni
E a capo degli 007 un giornalista che indagò sulle trame della Cia
di Roberta Zunini

Atene Quando il neo primo ministro greco Alexis Tsipras l’anno scorso aveva candidato alle municipali di Atene il suo attuale vice premier e portavoce del governo, il giovane economista Gavril Sakellaridis, la prima cosa che gli aveva raccomandato di mettere in agenda era la rimozione dei cavalli di frisia davanti al Parlamento e la diminuzione dei poliziotti antisommossa nelle strade. Sakellaridis perse per una manciata di voti e le transenne rimasero in piazza Syntagma, per ricordare a tutti i cittadini che oltre una certa soglia non si può andare, che manifestare è legale, ma fino a un certo punto, che se proprio ci si deve suicidare – come è successo nel 2011 durante le manifestazioni contro il memorandum imposto dalla troika- non lo si può fare troppo vicino al palazzo dove la “casta” lavora. Anche le moto dei rambo in divisa continuarono ad aggirarsi minacciose per le vie della capitale, soprattutto nel quartiere anarchico e alternativo di Exarchia, dove Sakellaridis peraltro vive da anni. Ora che Tsipras e Sakellaridis sono al vertice del governo, la prima cosa che hanno fatto è stata rimuovere le transenne.
PER QUANTO RIGUARDA la polizia, la questione è più complessa, ma il vice ministro greco per la Protezione del cittadino, Yannis Panousis, ha annunciato ieri che il ruolo della polizia nelle manifestazioni deve cambiare e l’uso delle armi va evitato se non in casi estremi: “Quei tempi sono finiti. Per arrivare a usare spray chimici bisogna che si raggiunga un livello di scontro estremo. Ma le sostanze chimiche non si devono usare contro insegnanti in pensione. Se si dispone di informazioni che lo rendano necessario o succede qualcosa di imprevedibile, la polizia sarà ovunque, ma non con le armi. O se si radunano 10-15.000 persone, è chiaro che dobbiamo avere la polizia in piazza, all’angolo delle strade, ma questo non significa che si debbano lanciare lacrimogeni o pallottole di gomma o, addirittura le pallottole vere”. Ieri, poco prima che Tsipras partisse per Cipro e l’Italia (incontrerà Renzi questo pomeriggio) è stato nominato a capo dei servizi segreti, l’EYP, Yiannis Roubatis. Giornalista, 67 anni, è stato nominato capo dei servizi segreti. Roubatis, come la maggior parte di coloro che hanno appena ottenuto il ruolo di ministro o cariche istituzionali, ha studiato negli Stati Uniti, alla John Hopkins University e quindi in Inghilterra per un dottorato. Conosce il mondo politico da decenni essendo stato consigliere speciale per i media globali dell’allora primo ministro socialista Andreas Papandreou, nel 1981. Inoltre ha lavorato come portavoce del governo nel biennio 1987-1988. Con il partito socialista Pasok è stato eletto al Parlamento europeo. Nel 1987, Roubatis ha pubblicato Tangled Webs: US in Grecia 1947-1967 (Trame ingarbugliate: gli Usa in Grecia dal 1947 al 1967), un libro basato sulla sua tesi di dottorato in cui denunciava le amministrazioni americane e i partiti conservatori greci del dopoguerra per la loro collaborazione con i servizi segreti statunitensi. Un rapporto di amore e odio quello tra il nuovo esecutivo greco e gli Stati Uniti. Ieri il presidente statunitense Obama ha parlato pubblicamente della Grecia, dicendo che “non ci potranno essere riforme serie e durature se il Paese continuerà a essere spremuto come un limone”, dalla troika. Obama, teme che la Grecia di Tsipras, pur essendo membro Nato, continui la sua relazione pericolosa con Putin, interessato a destabilizzare l’Europa.

La Stampa 3.2.15
Syriza e Podemos: così vicini, così lontani
I media ne esaltano le similitudini, ma tra i partiti guidati da Tsipras e Iglesias ci sono forti differenze
di Gian Antonio Orighi

qui

Corriere 3.2.15
«Missili e truppe, così prenderemo Roma»
I timori per il dossier dell’Isis su Internet
Video, mappe, armi da impiegare. La propaganda per eccitare le «cellule dormienti» in Europa
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Un documento di cento pagine per rilanciare la «chiamata alle armi» incitando i jihadisti a entrare in azione. L’ultima minaccia dell’Isis viaggia via internet e prende di mira l’Italia, annuncia la «conquista di Roma». Si intitola «The Islamic State 2015», contiene piantine con la capitale cerchiata in rosso, fotografie di combattenti, un lungo elenco di account twitter, forse l’indicazione dei «referenti» europei dei fondamentalisti.
Mentre il ministro dell’Interno si accinge a firmare nuovi decreti di espulsione nei confronti di stranieri ritenuti «pericolosi per la sicurezza nazionale», una nuova iniziativa di propaganda mette in allerta gli apparati di prevenzione e intelligence . Perché nessuno può certificare l’autenticità del dossier, ma la sua circolazione sul web può rappresentare comunque un segnale per tutti quei fondamentalisti che già si trovano in Europa e potrebbero pianificare un attentato.
Istruzioni ai «soldati»
La prima parte è una sorta di vademecum che illustra gli obiettivi dell’Isis, le zone sotto controllo, la strategia di attacco. A scovare il documento sono stati i giornalisti del sito internet Wikilao, specializzato in temi legati alla sicurezza, che ieri l’hanno rilanciato e analizzato. Le fotografie mostrano numerose azioni, compresa l’intera sequenza del bambino di dieci anni che spara in testa a un prigioniero. Poi ci sono le regole che i «membri dell’Isis» — compresi numerosi bimbi che vengono fotografati mentre maneggiano le armi — devono seguire con la scansione della giornata, dalla sveglia alle 4,45 al silenzio delle 22, compresi gli addestramenti per essere perfetti tiratori. Si cerca di dimostrare come i leader si occupino anche del mantenimento dei combattenti e delle loro famiglie con la lista dei soldi destinati a chi aderisce alla jihad .
Attacco all’Europa
L’Europa è nel mirino, Roma è certamente nella lista dei bersagli. La strategia di attacco prefigura un’alleanza anche con Al Qaeda in una sorta di tenaglia che possa portare alla conquista dell’Occidente, propaganda pura, che però intimorisce gli analisti. «Ansar al Sharia in Libia e Al Qaeda nel Maghreb Islamico cominceranno a sparare missili verso il cuore dell’Europa, come vendetta per quanto patito dai loro fratelli in Siria», è scritto nel documento che ipotizza un attacco da tre fronti «da ovest (Spagna), dal centro (Italia, Roma) e da est (Turchia, Costantinopoli/Istanbul)». Il proclama finale spiega la strategia: «Il messaggero di Allah ha promesso che i musulmani vinceranno la battaglia. In questo caso l’Isis sarà in grado di passare attraverso la Turchia ed entrare in Europa da est. Entreremo a Roma dal mar mediterraneo (Tunisia e Libia) e in Spagna dal Marocco. Allora saranno in grado di entrare le truppe di terra in Italia per supportare i musulmani oppressi. E questa è la conquista di Roma».
Gli account twitter
Gli investigatori della polizia di prevenzione e dei carabinieri del Ros stanno analizzando lo scritto ed effettuando verifiche, così come gli esperti dei servizi segreti. In particolare ci si concentra sulla lista di account twitter contenuta nel dossier per accertare se si tratti di possibili referenti europei, indirizzi riconducibili a persone che potrebbero rappresentare una minaccia, anche solo per l’attività di proselitismo svolta. Secondo i primi controlli il documento sarebbe stato veicolato inizialmente senza passare per i siti internet ufficiali dell’Isis e questo fa dubitare che a prepararlo siano stati i leader fondamentalisti. I riferimenti agli arsenali e all’utilizzo dei missili per colpire l’Italia appaiono poco precisi per quanto riguarda la potenza militare, dunque potrebbe essere stato scritto da mani diverse, anche poco esperte. L’effetto che può avere desta comunque allarme proprio perché mira a eccitare quelle «cellule dormienti» già presenti in Europa e chi ha l’intenzione di partire per il Medio Oriente.
Le nuove espulsioni
In questo clima di preoccupazione, alimentato anche dalla decapitazione dei due ostaggi giapponesi, l’Antiterrorismo ha aggiornato la lista delle persone che possono rappresentare una minaccia e nei prossimi giorni il ministro Angelino Alfano firmerà nuovi decreti di espulsione. Provvedimenti saranno presi, proprio come accaduto nei primi quindici giorni dell’anno, su una decina di stranieri da anni residenti in Italia con un regolare permesso di soggiorno che hanno mostrato l’intenzione di unirsi ai jihadisti oppure che stanno cercando di reclutare combattenti nel nostro Paese. In attesa delle nuove norme che dovrebbero identificare questi comportamenti come reati.

La Stampa 3.2.15
Hegel, la talpa non parla più alla civetta
di Federico Vercellone


Quando Hegel afferma nei Lineamenti di filosofia del diritto che «la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero» non si limita a proporre un ruolo egemone della filosofia nell’ambito del sapere, ma addirittura di riassumere nel proprio seno l’andamento stesso del mondo. Questo ruolo egemone viene assunto, secondo Hegel, dalla filosofia, e ciò significa che la filosofia stessa è responsabile nei confronti del proprio tempo, che l’astratto è ben più concreto di quel che erroneamente si ritiene. Questo può suonare molto eccentrico alle nostre orecchie abituate a pensare che la filosofia possa al massimo riflettere su quello che è o accade ma difficilmente influenzarlo.
Proprio su questi temi ritorna Remo Bodei riscrivendo il suo primo libro, Sistema ed epoca in Hegel, uscito nel 1975, ora ripubblicato, sempre da Il Mulino, in una nuova versione con il nuovo titolo La civetta e la talpa cui fa seguito, come sottotitolo, il titolo antico.
Che cosa significa per un filosofo e per un grande esegeta come Bodei riaggiustare la prospettiva su di un gigante come Hegel a distanza di quasi quarant’anni? Che aspetto assume il pensiero di Hegel dopo il tramonto del marxismo del quale, nella cultura filosofica del Novecento, le interpretazioni del pensiero hegeliano sono state molto spesso congiunte? Qual è il nuovo volto di Hegel dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo il declino della cultura postmoderna dominata, fra l’altro, da una costellazione filosofica molto variegata che va da Deleuze, a Derrida a Martin Heidegger?
In questo importantissimo libro, che è ormai parte integrante della grande tradizione degli studi hegeliani italiani e insieme, dell’ermeneutica della cultura del nostro tempo, Bodei mostra, tra le altre cose, che l’epoca alla quale apparteniamo non è più in grado di mettere insieme la talpa del negativo hegeliano che scava e plasma la realtà con la civetta del pensiero che la organizza nel sistema del sapere speculativo. Nell’universo globalizzato l’inquietudine del pensiero non potrà ma più coniugarsi con lo sguardo panoramico che si appaga della propria riuscita costruzione. In questa lacerazione ci tocca vivere e pensare.

Corriere 3.2.15
La filosofa entra nel Palazzo della politica. E si ribella
Il libro intervista (Utet) di Michela Marzano con Giovanna Cavalli: un’analisi su arroganza e compassione
di Massimo Rebotti


Una filosofa in Parlamento. Il libro di Michela Marzano Non seguire il mondo come va (Utet) è, prima di tutto, lo sguardo di chi entra per la prima volta nel Palazzo e si fa domande senza sconti. Docente a Parigi, autrice di diversi saggi di filosofia morale e politica, viene candidata nelle liste del Partito democratico alle elezioni del 2013 e, a marzo, approda alla Camera come deputato. Il primo impatto è uno choc: «Quello che penso non interessa a nessuno, in politica contano soprattutto conoscenze e appartenenze». Marzano «non appartiene e non conosce» e proprio per questo il suo punto di vista è prezioso, anche se la prova parlamentare costerà, e probabilmente costa ancora, non poche frustrazioni all’autrice. Il libro, scritto con la giornalista Giovanna Cavalli, parte dall’osservazione politica e antropologica sulla vita alla Camera e poi si apre a una serie di interrogativi sul significato di alcune emozioni in politica: dalla rabbia alla compassione, dalla sfiducia alla speranza. Ed è qui che la deputata Marzano mette pienamente a disposizione quella competenza filosofica per la quale, in teoria, è stata candidata, ma che, nella routine parlamentare o di partito, quasi mai le viene richiesta: «Alla Camera e al Senato — annota — alla fine conta l’arroganza».
Non seguire il mondo come va non è però un testo disilluso o genericamente contro il Palazzo («la retorica anti sistema — scrive a un certo punto a proposito dello spirito dei tempi — è una delle piaghe contemporanee»). È, viceversa, un libro sulla fiducia (smarrita) nella politica, sui suoi peggiori sostituti — la rabbia, la sfiducia, il cinismo — e sulle parole che ci vorrebbero per riaccendere la partecipazione. Una di queste è speranza: «Renzi ha ragione, senza speranza non c’è politica», ed è per questo, sostiene Marzano, che il segretario del Pd ha prevalso nella sfida dei messaggi alle ultime europee sulla «rabbia» di Beppe Grillo. Le pagine sui Cinquestelle sono affilate: «Non era ancora mai accaduto che l’assenza di fiducia si trasformasse in paranoia. Con Grillo si assiste all’emergere di una propaganda in cui il vero e il falso sono l’uno accanto all’altro».
In tempi di politica post-ideologica, però, ogni successo può essere effimero: «La differenza tra speranza e strumentalizzazione della speranza — scrive — è nel rapporto che si stabilisce, o meno, con la realtà». E qui verso il Matteo Renzi «veloce e carismatico» si avanza qualche dubbio: «Senza progetto e senza visione la sinistra rischia di scomparire». Il problema, argomenta, nasce ben prima dell’attuale premier e non si risolverà con lui. Per l’autrice la possibile soluzione consiste nel guardare la realtà con «compassione» («sono allibita dalla mancanza di rispetto e di cuore di tanti dirigenti») e «battersi» per renderla migliore. Ed è per questo che, tra le tante citazioni, quella centrale è del saggista francese Jean Guéhenno: «Il vero tradimento è seguire il mondo come va e occupare lo spirito a giustificare questo».
Ci sono pagine in cui Michela Marzano abbandona la posizione dell’intervistata e racconta in prima persona episodi della sua esperienza in politica. Sono personali ribellioni «al mondo come va» come quando, a sorpresa, prende la parola in una tesa riunione del gruppo Pd oppure alla Camera in un’aula distratta: «Non so cosa ci faccio qui dentro, ma se c’è chi ascolta quello che dico, forse ne vale la pena».

Corriere 3.2.15
Ii fondamento delle libertà
ll legame ormai rotto tra la democrazia e l’economia di mercato
Il capitalismo si è adattato facilmente a regimi autoritari e cuylture profondamente diverse da quella occidentale
Dimostrandosi così ben più esportabile dei modelli politici
di Slavoj Zizék


Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk osserva che se c’è una persona a cui faranno il monumento nei prossimi cent’anni, quella sarà Lee Quan Yew, il leader di Singapore che ha inventato e realizzato il cosiddetto «capitalismo dal volto asiatico». Il virus di questo capitalismo autoritario si sta diffondendo, lento ma inesorabile, in tutto il mondo. Deng Xiaoping, prima di avviare le sue riforme, era stato a Singapore e lo aveva espressamente elogiato come modello di riferimento per la Cina. Questo cambiamento ha un significato storico e mondiale: fino ad oggi, il capitalismo sembra essere inestricabilmente associato alla democrazia — certo, a volte si è fatto ricorso alla dittatura diretta, ma dopo uno o due decenni, la democrazia si è imposta nuovamente (basta ricordare i casi della Corea del Sud e del Cile). Ora, comunque, si è rotto il legame tra democrazia e capitalismo.
Oggi si parla spesso del fallimento della civiltà occidentale come modello di riferimento globale, e del fallimento di quegli Stati post-coloniali che hanno cercato di emularlo. Questa diagnosi ha tuttavia un difetto: è finito, sì, il sogno di Fukuyama di una democrazia liberale globale, ma a livello economico il capitalismo ha trionfato in tutto il mondo — i Paesi del Terzo mondo che l’hanno sostenuto, oggi registrano tassi di crescita spettacolari.
Il capitalismo globale non ha problemi ad adattarsi a una pluralità di religioni, culture e tradizioni locali. Quindi, l’ironia crudele dell’anti-Eurocentrismo è che, in nome dell’anti-colonialismo, si critica l’Occidente proprio nel momento storico in cui il capitalismo globale non ha più bisogno dei valori culturali occidentali per funzionare perfettamente, ed è a suo agio con la «modernità alternativa».
Il capitalismo globale non implica necessariamente l’edonismo e l’individualismo permissivo. L’India, ad esempio, ha imboccato la strada della celere modernizzazione capitalista: ma non c’è stata rimozione universale delle tradizionali strutture sociali, come l’anteposizione dei legami comunitari al successo personale o il rispetto per gli anziani.
Questo non dimostra in alcun modo che simili realtà non siano totalmente «moderne». E si sbagliano di grosso i teorici post-coloniali «servili», che vedono nella persistenza delle tradizioni premoderne una forma di resistenza al capitalismo globale e al suo processo violento di modernizzazione che distrugge i legami tradizionali. La fedeltà ai quei valori è, paradossalmente, la vera prerogativa che permette a Paesi come Cina, Singapore e India di seguire la strada del processo capitalista in modo persino più radicale che nei Paesi liberali occidentali. Il riferimento ai valori tradizionali offre una giustificazione etica a chi condivide la logica spietata della competizione di mercato. È molto più semplice far riferimento a valori tradizionali per poter giustificare l’indifferenza agli altri. «Lo faccio per aiutare i miei genitori, per guadagnare i soldi necessari a miei figli e cugini per poter studiare...»: simili motivazioni sono molto più accettabili rispetto a «Lo faccio per me».
Non è un caso che la libertà sia un fondamento debole per il capitalismo nell’Occidente, perché è anche un fondamento vuoto. La libertà sopravvive anche qui, ma in una forma stranamente ingarbugliata. Dal momento che la libera scelta è stata elevata a valore supremo, il controllo sociale non può più sfiorarla. Spesso, comunque, l’accordo è solo retorico.
L’illibertà mascherata dal suo opposto si manifesta in una miriade di forme: quando siamo privati dell’assistenza sanitaria, ci dicono che ci offrono la libertà di scelta (del fornitore di assistenza sanitaria); quando non possiamo più contare su un impiego a lungo termine e siamo costretti a cercare un nuovo lavoro precario ogni due anni, ci dicono che ci offrono l’opportunità di reinventarci e scoprire nuove e inaspettate risorse creative, latenti nella nostra personalità; quando dobbiamo pagare l’istruzione dei nostri figli, ci dicono che «investiamo su di noi», come un capitalista che deve scegliere liberamente come investire le risorse possedute (o prese in prestito): in formazione, salute, viaggi… Bombardati costantemente da «libere scelte» imposte, costretti a prendere decisioni per cui generalmente non siamo neanche abbastanza qualificati (o informati), viviamo la nostra libertà per quello che è realmente: un peso che ci sottrae la vera scelta di cambiare.
Forse, questo paradosso ci consente anche di gettare una nuova luce sulla nostra ossessione per quello che sta succedendo in Ucraina, o l’ascesa dell’Isis in Iraq. Quello che ci affascina in Occidente non è il fatto che a Kiev il popolo abbia lottato per il miraggio di uno stile di vita europeo, ma che (quanto meno apparentemente) abbia combattuto semplicemente per prendere in mano le redini del proprio destino. Ha agito come un agente politico di un cambiamento radicale che in Occidente non possiamo più scegliere di fare.
(Traduzione di Ettore C. Iannelli)

Repubblica 3.2.15
Un ricordo del grande autore argentino
Le mie notti con Borges nei labirinti dei libri
Fu un uomo modesto, profondamente etico Voleva essere Ulisse e gli toccò essere Omero
L’avevo conosciuto a Buenos Aires, nella libreria Pygmalión. Cercava testi in inglese antico
di Alberto Manguel


L’ULTIMA volta che ho visto Borges è stato a Parigi, nel piccolo hotel di Rue des Beaux Arts in cui ora ci sono le targhe con i nomi dei suoi due ospiti più illustri, Oscar Wilde e Jorge Luis Borges. Negli ultimi anni della sua vita era diventato nomade e adorava parlare dei luoghi che aveva frequentato di recente: l’Egitto, da cui si era portato via un pugno di sabbia dorata; l’Islanda, dove, fra le rovine di una cappella sassone, aveva recitato il Padrenostro nella lingua dei vichinghi; il Giappone, dove aveva conversato sull’aldilà con un sacerdote scintoista. Gli raccontai che vivevo in Canada e mi parve sorpreso. «Caspita! », mi disse.
«Il Canada è talmente lontano che quasi non esiste». In uno dei suoi versi, Borges si domanda: «Chi ci dirà a chi, in questa casa, senza saperlo, abbiamo detto addio? ». Quella notte non sapevo che stavamo ripetendo la sua domanda, che ci stavamo dicendo addio. L’avevo conosciuto a Buenos Aires, nella libreria Pygmalión. Io avevo sedici anni e lavoravo lì la mattina. Accompagnato da sua madre, Borges era venuto a cercare libri di inglese antico, lingua che si era messo a studiare con un entusiasmo da adolescente. Un giorno mi propose (come a tanti altri fortunati) di andare a leggerglieli a casa sua; sua madre, che leggeva per lui fin dai primi anni della sua cecità, cominciava a stancarsi facilmente. Accettai, e per diversi mesi divenni uno dei suoi cento felici lettori. O meglio, fui una delle voci delle sue letture, giacché il ruolo di lettore (scegliere i libri, soffermarsi su alcuni passaggi, commentare la lettura) continuava a essere esclusivamente suo.
Le letture di Borges erano sempre illuminanti e originali. Davano luce a un testo facendone sfolgorare gli angoli più reconditi, e i suoi commenti erano sempre nuovi, non perché Borges fosse il primo a pronunciarli, ma perché era il primo a segnalare che esistevano tali possibili letture. Le sue scoperte erano a un tempo ovvie e sorprendenti; avremmo dovuto chiamarle riscoperte, in quanto credevo nell’osservazione di Bacone: «Così come Platone immaginò che ogni conoscenza non è altro che ricordo, così Salomone dichiarò che tutto ciò che è nuovo non è altro che oblio».
Ricordo i suoi commenti, ma anche la sua voce, così particolare. Borges parlava con voce pacata, un po’ asmatica, che sapeva usare con grande duttilità. [...] Di quelle notti mi rimane il ricordo di un lettore ideale, generoso, brillante. Le sue osservazioni ora impregnano le letture anche di quanti non lo hanno letto, giacché formano il mondo di tanti altri scrittori, scrittori diversi come Marguerite Yourcenar e Umberto Eco, Italo Calvino e George Steiner, Salman Rushdie e José Saramago. Le sue rivelazioni sono essenziali. Ha saputo definire la ricca ambiguità che giace al fondo di ogni opera d’arte, autorizzando il lettore a godere di un testo e tuttavia a non capirlo del tutto. «L’imminenza di una rivelazione che non si produce», disse, «è forse il fatto estetico». Osservò che ogni scrittore crea i suoi propri precursori, spiegando così le curiose biblioteche che ogni libro amato crea nella memoria del suo lettore. Conferì a ogni lettore il potere della creazione letteraria, e preferì non tracciare limiti fra chi legge e chi scrive. Fu un uomo modesto, profondamente etico, ammiratore del coraggio epico che sapeva essergli stato negato. Voleva essere Ulisse e gli toccò essere Omero. Con rassegnazione, credeva che il nostro dovere morale fosse essere felici.
Non sono stato, ovviamente, amico di Borges. L’amicizia implica condividere certe intimità e Borges appena sospettava la mia esistenza. Io ero una delle tante voci di lettore, niente di più. Il suo unico amico, il suo amico vero, paziente e costante, fu Adolfo Bioy Casares. La prima volta che li vidi insieme fu nel grande appartamento in cui Bioy e Silvina Ocampo abitavano, vicino al cimitero di La Recoleta, a Buenos Aires. Quella sera, ero andato a trovare Silvina, a cui avevo chiesto un testo per un’antologia per la casa editrice Galerna. Stavamo parlando in salone (Silvina faceva domande intime a cui io non sapevo come rispondere) quando a un tratto sentimmo due uomini ridere a crepapelle in una delle stanze in fondo. «Quei due si divertono come due ragazzacci», commentò Silvina. Quando comparvero, sorridevano ancora. Il sorriso di Borges era il più contagioso, forse perché il più visibile. Quando rideva, apriva la bocca, chiudeva gli occhi, e il volto gli si contraeva come se cercasse di trattenere qualcosa sul punto di esplodere. Il sorriso di Bioy era più discreto, forse perché era più giovane, più riservato. «Fanno sempre così quando scrivono insieme», mi spiegò Silvina. «Invece io, se qualcosa che scrivo mi fa ridere, devo ridere da sola».
È risaputo che Bioy e Borges si conobbero grazie a Victoria Ocampo. La madre di Bioy, amica di Victoria, un giorno le confessò di essere preoccupata per le velleità letterarie di suo figlio adolescente, e voleva sapere se Victoria conoscesse qualcuno, con una certa esperienza nel mondo delle lettere, che potesse guidarlo. Senza esitazioni, Victoria nominò Borges. Adolfito, come lo chiamavano allora, aveva diciassette anni; Borges, trentadue. La loro prima conversazione, da quanto ricorda lo stesso Bioy, avvenne durante il tragitto di ritorno dalla casa di Victoria. Con la goffaggine di un giovane scrittore di fronte a un altro già consacrato, Bioy si era lanciato in un “elogio della prosa sbiadita di un poetastro che curava la pagina letteraria di un quotidiano porteño ”.
«D’accordo», aveva risposto Borges, «ma a parte quel tipo, chi altro ammira, di questo secolo o di qualsiasi altro?».
«Gabriel Miró, Azorín, James Joyce», fu l’impossibile risposta. Borges, con la generosità di cui a volte era capace, osservò che «i giovani trovano letteratura in quantità sufficiente solo negli scrittori che si lasciano completamente avvolgere dall’incanto della parola». Questo fu l’inizio di un’amicizia che durò quasi fino alla morte di Borges, nel 1986. A vederli insieme, quei due uomini erano così straordinariamente diversi che risultava difficile capire cosa li unisse, se non una passione comune per la letteratura, che forse era già sufficiente.
Bioy era un uomo estremamente attraente. Curava il proprio aspetto, vestiva bene, si preoccupava per la sua salute. Seduceva le donne ma raramente si lasciava sedurre (queste non sono rivelazioni indiscrete ma emergono da ciò che lo stesso Bioy aveva scritto nei suoi diari). Aveva molti amici. Praticava sport ed era appassionato di fotografia. Era ricco. Gli piacevano la letteratura francese del diciannovesimo secolo, i romanzi erotici, la pettegola corrispondenza letteraria, la poesia lirica più di quella epica, le narrazioni popolari più delle storie di guerra. In generale, era un uomo felice.
Borges non pareva avere un corpo solido: dargli la mano era come stringere l’aria. Anche se sua madre o la governante, Fani, si davano da fare affinché avesse la camicia ben stirata e il fazzoletto, profumato di colonia, nel taschino della giacca, a Borges bastava soltanto sentirsi in ordine, non gli importava l’eleganza. Era poco socievole. Gli piaceva nuotare (in una poesia si rivolge all’acqua come «il tuo nuotatore, il tuo amico ») e chiacchierare camminando, non entrare in competizione. Era povero. Ammirava la letteratura anglosassone più di quella francese e il romanzo fantastico più di quello realista. Il suo genere preferito era l’epica. Ammetteva di essere sentimentale e amava i film che lo facevano piangere. Si innamorava con una frequenza spaventosa. In generale, era un uomo infelice. [...] Ci sono scrittori che vanno oltre la geografia della propria terra e dei propri libri, che offrono al lettore non solo nuovi paesaggi o mondi antichi, ma che propongono vette segrete dalle quali poter scoprire sorprendenti sentieri e ignote costellazioni. Attraverso la sua letteratura, il lettore può così intuire e nominare (anche se non comprendere) il quasi infinito catalogo dell’esperienza intellettuale umana; non per mezzo di favole o di morali, bensì per mezzo di un nuovo senso, di una nuova intelligenza, di una nuova perspicacia. Borges (ora lo sappiamo) è stato uno di questi rari e immensi scrittori.