lunedì 2 febbraio 2015

Civiltà cattolica è la rivista ufficiale dei Gesuiti
Corriere 2.2.15
Il direttore di Civiltà cattolica Spadaro: la visione sua e di Bergoglio sono consonanti
«Un presidente dalla fede non muscolare Per lui la politica deve essere costruzione»

Padre Antonio Spadaro,direttore della rivista dei Gesuiti, la Civiltà cattolica , ha postato su Twitter una videointervista su YouTube in cui Mattarella descrive l’entusiasmo con cui ha vissuto gli anni del Concilio Vaticano II.
Perché?
«Perché mi ha molto colpito. Il video mostra che è stato eletto presidente una personalità ricca, un giurista, un politico di elevata statura, la cui formazione cattolica ha dato frutti. È un cattolico non muscolare, non ideologico, cresciuto in un periodo complesso, che considera la sua fede come un enzima».
Un enzima?
«Nella videointervista, che è del 2010, parla di sogni e di ideali, non di tattiche e di strategie. Per lui la fede è lievito dentro la storia. Non è un’ideologia astratta che si impone sulla realtà. Si richiama a due Papi: Giovanni XXIII e Paolo VI. Entusiasmo, speranza e innovazione per lui sono le tre parole chiave dell’eredità di quegli anni. Nel Concilio lo colpiva il senso pieno dell’universalità della Chiesa e la dimensione profetica della fede».
Un presidente d’altri tempi?
«No. E per lo stesso Mattarella non sempre il passato è migliore del presente. E il cristiano vive nel presente. Niente amarcord».
Mattarella si è formato a stretto contatto con i gesuiti, questo c’entra con il suo cattolicesimo non ideologico?
«Sì. C’è una parola che esprime questa caratteristica tipica dell’educazione dei gesuiti e che mi sembra abbia giocato un ruolo decisivo per Mattarella, così come emerge dalla sua stessa intervista, la parola “discernimento”. Essa esprime una visione positiva della realtà, un’apertura dialogica e la capacità di ascolto dell’altro. Oltre agli stretti contatti da adulto con padre Bartolomeo Sorge e padre Ennio Pintacuda. La sua formazione ha comunque avuto punti di riferimento plurale: i Fratelli maristi, l’Azione cattolica, i Padri rosminiani, la Pro civitate cristiana».
Il primo pensiero del presidente è andato «alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini».
«Nel video dice testualmente: “Studiare insieme, vivere insieme un’esperienza di classe, di comunità e di studio mi ha aiutato a comprendere le esigenze, i problemi e le attese degli altri. Si cresce, se si cresce insieme. Ci si realizza, se ci si realizza insieme”. Sembra di sentire papa Francesco che si esprime negli stessi termini».
Mattarella è stato segnato dalla tragedia del fratello. Oggi mafia e corruzione sono ancora emergenza.
«Mattarella è sceso in politica a causa di questa ferita viva nella carne: e dal fratello , che è stato politico di rottura , ha imparato la necessità della lotta alla corruzione. Questo è un tratto forte dell’identità del presidente, oggi particolarmente rilevante».
È singolare che un cattolico sia una riserva della Repubblica?
«No, anzi. È proprio il suo cattolicesimo a dargli una concezione “laica” della politica, intesa come costruzione — da parte di persone di diverse esperienze e culture — della cosa pubblica e del bene comune. E questo è anche il pensiero di papa Francesco. Le due visioni del neoeletto e di papa Francesco mi sembrano straordinariamente consonanti».

Repubblica 2.2.15
Scalfari: il nuovo presidente come il Papa, farà rispettare le regole
ROMA L’elezione di Sergio Mattarella è stata «un capolavoro dal punto di vista di Renzi, anzi di tutti». A dirlo è Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, in un’intervista a In Mezz’ora , su Raitre.
Per Scalfari il nuovo capo dello Stato «farà le stesse cose che il Papa sta facendo nella Chiesa». Certo, ha osservato Scalfari - «è una frase impegnativa, anche paradossale, ma contiene una verità. Non butterà all’aria le regole, le farà rispettare».
E questo, secondo il fondatore di Repubblica, «non è banale, perché non tutti i presidenti della Repubblica sono riusciti a far rispettare le regole, qualche volta sono stati al servizio di chi governava».

Repubblica 2.2.15
Mattarella, il Quirinale e il mondo cattolico
di Agostino Giovagnoli

UN CATTOLICO al Quirinale, ma non è il ritorno della Dc. Mattarella è, infatti, un erede, più che un protagonista, della storia democristiana. Il suo percorso ha avuto indubbiamente forti legami con le radici familiari. Il padre Bernardo è stato membro della Costituente e più volte ministro, amico di Giorgio La Pira e vicino ad Aldo Moro. Ma Sergio Mattarella è entrato in politica solo nel 1980, dopo l’assassinio del fratello Piersanti, ed è diventato deputato solo nel 1983, quando la Dc crollò dal 38% al 33% dei voti. Non è vissuto, insomma, nella Democrazia cristiana di De Gasperi e di Dossetti, è entrato nella Dc dopo il tramonto della “seconda generazione” di Fanfani e di Moro ed ha iniziato a fare politica quando era già cominciato il declino della Repubblica dei partiti.
La sua parabola politica, insomma, si è sviluppata tutta dentro la seconda metà della storia repubblicana (1980-2015), molto diversa dalla prima (1946-1980). Sta qui la chiave della sua elezione. Scegliendo il nuovo Presidente della Repubblica, i grandi elettori hanno acceso i riflettori sullo sforzo compiuto da un piccolo gruppo di uomini e di donne per custodire un’eredità politico-culturale importante. Negli anni Ottanta, Mattarella ha cercato di rilanciare la cultura politica cattolico-democratica affrontando nuove sfide, come quella della mafia, e impegnandosi con Roberto Ruffilli per le riforme politico-istituzionali. Quando è finita la Prima Repubblica, non ha seguito Leoluca Orlando che, fondando la Rete, ha rotto con questa tradizione e nel ‘93-’94 è stato a fianco di Martinazzoli nella fondazione del Partito popolare per rilanciarla in forme nuove. Con una coerenza che oggi tutti gli riconoscono, ha poi sostenuto l’Ulivo, militato nella Margherita e proposto un Pd a forte identità etico-politica, con il manifesto programmatico di cui è stato tra gli autori insieme a Pietro Scoppola.
Nella Seconda Repubblica, Mattarella e i suoi amici hanno avuto un ruolo politico minore. Ma le macerie prodotte dalla conflittualità bipolare di quest’era rivalutano oggi la loro storia, che è stata anche la storia in cui Renzi è cresciuto. Più di tutti, infatti, essi hanno custodito una cultura politica agli antipodi del bipolarismo selvaggio. Ma non hanno contrastato tale bipolarismo con una posizione “terzista” che implicava di fatto un cedimento al berlusconismo. Mattarella si è scontrato più volte con Berlusconi, dimettendosi per non votare la fiducia sulla legge Mammì, criticando l’ingresso di Forza Italia nel Ppe. A Berlusconi ha contestato anche il tentativo di impadronirsi di De Gasperi. La sua è stata una posizione anzitutto morale, contro il berlusconismo quale deriva antropologica prima che opzione politica. Mattarella e i suoi amici hanno pagato tale scelta con l’ostilità di un mondo ecclesiastico sempre più permeato dal berlusconismo.
Fin dagli anni ottanta, Mattarella è stato fra i più sensibili a questi problemi: era lui il tramite tra la Dc e l’episcopato italiano mentre esplodeva l’offensiva di Cl contro la Democrazia cristiana e a favore del Psi di Craxi. Poi ha trovato nel card. Silvestrini un riferimento importante. Oggi la sua elezione si collega ad un faticoso processo di deberlusconizzazione del cattolicesimo italiano, il cui inizio nel 2011 ha contribuito alla nascita del governo Monti. C’è anche questo dietro i tormenti del Nuovo centrodestra e dell’Udc in questi giorni: Area popolare ha cercato in tutti i modi di non votare un candidato il cui successo rappresenta un’evidente smentita del progetto di un centro-destra senza Berlusconi ma imperniato su cattolici exberlusconiani. L’apparente distacco con cui il mondo cattolico italiano ha seguito l’elezione del nuovo Presidente è stato attribuito all’“effetto Francesco”. Indubbiamente, dietro l’attuale crisi del centrodestra, c’è anche la novità di questo pontificato. Ma se molti vescovi, che pure apprezzano il nuovo Presidente, non sono usciti allo scoperto è anche perché la Chiesa italiana è ancora in una fase di transizione. Anche su questo terreno, perciò, l’elezione di Sergio Mattarella rappresenta un segno positivo.

La Stampa 2.2.15
Già al lavoro per il nuovo staff
In pole i fedelissimi della sinistra Dc
La nomina più importante sarà quella del segretario generale
di Antonella Rampino
qui

La Stampa 2.2.15
La rivincita degli allievi di Aldo Moro
di A. R.

Come mai nessun ex comunista strilla «non vogliamo morire democristiani», com’é che anzi la componente che ebbe casa a Botteghe Oscure gioisce, e proprio mentre perde il Colle, e con Napolitano che anzi ha esercitato un ruolo maieutico nel portarvi il democristianissimo Sergio Mattarella? La risposta è nella cultura politica. Si realizzano d’improvviso lo Statuto del Pd e prima ancora dell’Ulivo, perché l’elezione di Mattarella con i voti degli ex comunisti mischia d’improvviso la cultura dei cattolici impegnati in politica con quella dei post-comunisti: le basi, per conto degli ex Dc, furono gettate da Piero Scoppola, da Leopoldo Elia, e da un giovane Mattarella. Dagli allievi di Aldo Moro. Dunque, può sembrare un paradosso, ma la linea della continuità tra Napolitano e Mattarella sarà proprio sul crinale della cultura politica: comunisti e democristiani nella storia repubblicana si sono battuti a lungo, ma sempre confrontandosi, sempre gestendo su uno stesso asse il Paese, nelle mille forme che erano consentite dall’impossibilità istituzionale e politica dell’alternanza, fino al momento cruciale, quello della solidarietà nazionale, del compromesso storico. Che Napolitano ha sempre considerato «un’esperienza troppo presto interrotta», individuando in questo il grande errore di Enrico Berlinguer. Adesso, con il nuovo presidente arriva al Colle una tradizione politica che avrebbe dovuto insediarvisi già trent’anni fa, quella morotea. Lo specialissimo è che l’operazione sia stata il capolavoro politico di un premier che viene valutato come l’erede di Fanfani, come l’erede proprio del grande antagonista di Moro. Matteo Renzi. Tra il morire democristiani e il vivere mattarelliani, però, la minoranza Pd ha votato entusiasta annusando, nell’aria di compromesso storico, la possibilità di trovare al Colle una sponda. Anti-fanfaniana, diciamo così.

La Stampa 2.2.15
L’Italia irrompe all’Alfalfa
“Mattarella per gli Usa è un amico affidabile”
Nel più esclusivo club americano si parla del Belpaese “Un fronte sicuro contro la Russia e il terrorismo”
di Paolo Mastrolilli

Il giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, seduto davanti ad un piatto di linguine all’astice, ammicca soddisfatto: «È siciliano come me, giudice costituzionale come me, cattolico come me, e ha combattuto la mafia che gli ha ucciso un fratello: un profilo perfetto. Non potevo chiedere di meglio». Poi aggiunge: «In estate sarò a Roma per un programma di insegnamento: spero di incontrarlo, o magari vederlo anche prima a Washington».
L’Italia al tavolo che conta
L’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica irrompe tra i tavoli di Alfalfa, il club più esclusivo degli Stati Uniti. Fondato oltre un secolo fa per celebrare il compleanno del generale sudista Lee, è diventato il luogo di incontro bipartisan di chi conta a Washington. Sabato il suo appuntamento annuale ha avuto tre momenti: un pranzo a casa di Vernon Jordan, super avvocato della famiglia Clinton, a cui ha partecipato il presidente Obama; la cena all’Hilton, dove c’erano dal capo della Cia Brennan al senatore McCain, passando per Warren Buffett, l’ex candidato repubblicano alla Casa Bianca Romney, e i compagni di partito che sperano di prendere il suo posto, come il governatore del Wisconsin Scott Walker; quindi il party conclusivo al Cafe Milano, dove Franco Nuschese ha ospitato il «who is who» della capitale, dal governatore della Virginia e amico dei Clinton McAuliffe, al generale Petraeus, e poi giornalisti come Mike Allen di Politico, e imprenditori come Jeff Bezos di Amazon.
L’argomento dominante sono le presidenziali americane: «Hillary - dice Allen - aveva già preparato l’annuncio della candidatura per aprile, ma vista la totale assenza di rivali, sta pensando di rimandarlo all’estate». Bret Baier della Fox aggiunge che «fra i repubblicani la nomina di Jeb Bush è tutt’altro che garantita. Occhio ai governatori, tipo Walker, che è in grande ascesa».
Alleanze atlantiche
Anche le presidenziali italiane, però, diventano argomento di conversazione: «La scelta di un uomo che è stato ministro della Difesa e provato amico degli Stati Uniti è molto positiva», dice il generale Jim Jones, già comandante della Nato e consigliere per la sicurezza nazionale di Obama. «L’importante - aggiunge - è ricordare la minaccia della Russia all’Alleanza. È un serio pericolo, non ammette debolezze». Poco lontano da lui il collega Petraeus, già capo della Cia e comandante delle forze Usa in Iraq e Afghanistan, si preoccupa dell’Isis: «Noi fermammo i terroristi con l’Anbar awakening, coinvolgendo le tribù sunnite. Voi europei avete bisogno di alzare la guardia sugli ingressi».
«Un amico affidabile»
La scelta di Mattarella, nonostante i vari identikit circolati alla vigilia del voto, ha soddisfatto chi in America segue le vicende italiane per almeno due motivi: lo ricordano come un amico affidabile, quando guidò il ministero della Difesa subito dopo l’intervento in Kosovo, e pensano che favorirà la stabilità e lo sforzo riformatore del governo Renzi, ritenuto indispensabile per liberare le potenzialità del paese, favorire la crescita, ed evitare che l’Italia torni ad essere un pericolo per l’economia globale. Il profilo internazionale era meno importante di quanto invece il nuovo presidente potrà fare sul piano interno, per ancorare l’esecutivo e disinnescare le mine politiche. Infatti mentre Obama andava al pranzo di Alfalfa, la Casa Bianca ha detto che è «ansioso di lavorare con il presidente Mattarella per affrontare le sfide transatlantiche e globali, e sfruttare nuove opportunità di stretta cooperazione».
E l’ambasciatore a Roma Phillips ha aggiunto che «la sua leadership assicurerà al paese stabilità e continuità, proseguendo sulla strada delle riforme e della crescita». Una lunga disputa sul Quirinale, o peggio ancora una crisi di governo, venivano viste come le prospettive più minacciose. Ora che questo ostacolo è stato superato, a Washington si torna a ragionare sulla visita alla Casa Bianca che Renzi non ha ancora fatto, e potrebbe avvenire in primavera. Sul tavolo della discussione si vede già la spinta ad andare oltre l’austerity europea, la collaborazione contro il terrorismo, ma anche un richiamo alla compattezza davanti alla Russia.

Il Sole 2.2.15
La bussola del Presidente:
«Chi vince le elezioni governa, ma la Costituzione è di tutti»
di Guido Gentili

Parole di Sergio Mattarella: “Le istituzioni sono di tutti”. Quando nel ’47 si formò il primo governo De Gasperi con il Pci e il Psi all'opposizione,il confronto alla Camera sulla nuova Costituzione vedeva seduti al banco del Governo non il presidente del Consiglio ed i suoi ministri ma la Commissione dei 75, composta da maggioranza e opposizione. Per Mattarella questo è un riferimento storico importante.
«La lezione di un Governo e di una maggioranza – nota - che pur nel forte contrasto sapevano mantenere e dimostrare anche con gesti formali la differenza che vi è tra la Costituzione e il normale confronto tra maggioranza ed opposizione».
«Le istituzioni sono comuni». «La Costituzione per gli uni e per gli altri, per sé e per gli altri». «Le istituzioni sono di chi è al Governo e di chi è all'opposizione». «Chi vince le elezioni è chiamato a governare il Paese che è e resta di tutti». «Chi vince le elezioni deve essere, e deve sentirsi costantemente, sotto verifica da parte della pubblica opinione, degli elettori e di chi li rappresenta nelle istituzioni». «Alle istituzioni non si mettono briglie e steccati, lacci e lacciuoli».
Il nuovo Presidente della Repubblica ha uno stile politico schivo, interpreterà il suo ruolo evitando di sopravvalutare il raggio di azione dei suoi poteri ma tutto si può dire meno che non abbia convinzioni radicate. Con le quali tutti, maggioranza e opposizione a partire dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, che pure è stato il kingmaker della sua elezione, dovranno fare i conti. Piaccia o no, dettaglio per dettaglio, come dettagliato e puntiglioso è il metodo di lavoro di Mattarella.
Alla vigilia del messaggio di insediamento di fronte alle Camere riunite in seduta comune, la lettura dei suoi interventi parlamentari (in particolare quelli tra il 2004 ed il 2006, quando si oppose duramente alle riforme costituzionali ed elettorali presentate dal governo Berlusconi) offre una traccia preziosa per capire come si orienterà la sua bussola, in Italia e in Europa. Tanto più se si tiene conto, mentre ci si interroga sulla tenuta del Patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi sulla condivisione delle regole del gioco, che sono alle viste passaggi ad altissima sensibilità politica, a cominciare dall'Italicum e dalla riforma del Senato e del titolo V della Costituzione. Tutte materie che il nuovo Presidente conosce bene (comprese le preoccupazioni per la sovrabbondanza e la cattiva qualità della produzione legislativa e l'impennarsi del contezioso, anche costituzionale, tra Stato e Regioni) ed ha affrontato in presa diretta nel corso dei suoi mandati parlamentari.
Per lui si tratta di temi da «maneggiare con molta attenzione». Ad esempio, «l'unità nazionale e l'unità della Repubblica sono concetti di grande delicatezza e non aggettivabili perché o ci sono o non ci sono. Non può esservi un'unità settoriale, federale o regionale, perché aggettivare l'unità nazionale significa negarne l'essenza».
Il Presidente della Repubblica è «un arbitro tra le istituzioni, è il punto di equilibrio del sistema costituzionale», è «l'arbitro super partes, al di sopra delle parti, perché estraneo al gioco politico». Contrario in generale allo schema del “partito personale” e alla personalizzazione esasperata della leadership (in questo senso, mette nel 2006 la sua firma al Ddl del collega Castagnetti sull'attuazione dell'art. 49 della Costituzione in materia di democrazia interna dei partiti), Mattarella è altrettanto contrario alla concentrazione dei poteri «nelle mani di un solo organo, il primo ministro». E smentisce, dieci anni fa, che lo “strapotere” del premier sarebbe stato proposto dalla Commissione bicamerale per le riforme, di cui faceva parte. Non è vero, spiega atti alla mano: «Quella proposta prevedeva, al contrario, un rafforzamento del Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo e partecipe delle scelte di politica estera e della difesa».
Quanto all'Europa, altro tema forte ieri come oggi, il giudizio nel 2005 è netto e possiamo immaginare che resti lo stesso, dieci anni dopo. «Senza l'euro la nostra moneta e la nostra economia sarebbero crollate dopo i crac di Cirio e Parmalat». E «non si invochi fuor di luogo la sovranità nazionale, non si può pretendere di contemplarla collocandola in una teca, condannandola in realtà ad una progressiva irrilevanza internazionale, ad un ruolo privo di efficacia, di significato e di influenza. La sovranità, al contrario, va difesa fornendole un ruolo efficace, perché comune all'intera Europa». Un' Europa «pur grande mercato, che si fermasse o, peggio, facesse arretrare l'integrazione politica non sarebbe più moderna, ma al contrario vecchia e inadeguata nella sua frantumazione».
Domani il messaggio del nuovo Presidente. Dove, oltre ai sì e ai no, anche i dettagli conteranno, e molto. Perché l'uomo è fatto così, garbatamente e logicamente scomodo. Una volta era in discussione a Montecitorio la ratifica di un accordo di cooperazione con la Cina. Mattarella si alza in piedi e prende la parola. «Signor Presidente, mi consenta di dire: no! Non si può inserire nell'ordine del giorno dell'Assemblea, a Camere sciolte, un disegno di legge di ratifica sostenendo che su di esso incombe una scadenza internazionale da rispettare, che renderebbe altrimenti il nostro Paese inadempiente, e poi chiederne il rinvio in Commissione! Questo si fa prima, non si fa dopo!».

il Fatto 2.2.15
Ma una Panda non fa primavera
di Ferruccio Sansa

Il prossimo presidente si affaccerà al Quirinale a piedi. Scalzo. Con un sacco di ceci sulle spalle. Sergio Mattarella la mattina dell’elezione è arrivato con una Panda (vecchio modello e per giunta grigia!). Matteo Renzi si era mosso con una Giulietta bianca. Altri avevano fatto il loro ingresso in bicicletta e motorino.
Sono lontani i tempi delle auto blu, dei codazzi di macchine con i lampeggianti. Ormai è una gara a chi manifesta maggiore sobrietà (salvo poi, magari, andare a sciare con l’aereo di Stato). L’ostentazione della povertà può essere fuorviante come quella della ricchezza. È un bel gesto mostrare, all’inizio del proprio percorso di Presidente, semplicità e morigeratezza. Tanti italiani faticano ad arrivare a fine mese ed è un segno di attenzione nei loro confronti. È il tentativo di mostrare che i politici non vivono più in un mondo a parte, blindato contro gli attentati, ma anche impermeabile al sentire comune. Abbiamo sempre manifestato ammirazione per i paesi del Nord Europa dove i politici si muovono in mezzo alla gente, dove Angela Merkel va in vacanza in una pensione a due stelle; chissà che anche da noi, dopo i lussi sfacciati e offensivi delle ville in Costa Smeralda con tanto di vulcano, non riusciamo a ritrovare una dimensione più umana.
E, però, questa gara di modestia ci pone un interrogativo: dov’è il confine tra apparenza e sostanza? Non basta una Giulietta o, addirittura, una Panda grigia (imbattibile, a meno di non sfilare su una Duna anni ’90 come quella cantata dalle pagine di Cuore). Questo è un gesto buono per i fotografi che, si sa, sono appostati lungo il percorso. Il vero senso della misura, la consapevolezza di non avere un destino a parte sono questione molto più sottile e profonda, che non si può cogliere con una foto. Quello che si chiede a un presidente della Repubblica, a un premier, è la consapevolezza di essere un cittadino, un uomo come altri sessanta milioni, pure nel momento in cui occupa una posizione di - giusto - prestigio. Una persona che accetta le leggi che sono uguali per tutti. Che accoglie le critiche come, e più, di chiunque altro. Un uomo che non pretende di imporre le proprie opinioni in ragione della carica. Che non è cresciuto negli ambienti del potere sfruttando, per sé e i propri familiari, amicizie, convenienze e privilegi. Nell’Italia maestra di cerimoniosità e ossequi si viene chiamati presidenti per tutta la vita, ma terminato il mandato si torna a essere uomini.
Il tempo ci mostrerà se Mattarella ha anche questa umiltà più profonda. A Renzi la Giulietta non è stata sufficiente. E noi cittadini seguiamo l’impegno del nuovo Presidente augurandoci che lo svolga nel migliore dei modi. Senza, però, accontentarci di una foto folkloristica. Una Panda non basta.

il Fatto 2.2.15
Claudio Martelli
“Sergio non è un santo. Ombre su suo padre”
di Enrico Fierro

Onorevole Claudio Martelli, posso leggerle cosa disse di lei Sergio Mattarella? “Faccia pure”. Ecco: “…non mi interessa polemizzare con Martelli, è troppo miserabile il livello in cui si colloca…”. “Che hanno era? ”. Il 1992. “Allora, la prego, contestualizziamo”. Lo facciamo. 1992, la Prima Repubblica sta morendo ma non lo sa, in Sicilia si affaccia la primavera e la mafia uccide. Il 12 marzo viene ammazzato il proconsole andreottiano Salvo Lima, Claudio Martelli è ministro della Giustizia nel governo Andreotti. La Democrazia Cristiana sotto accusa si aggrappa al nome di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione ucciso dodici anni prima dai corleonesi, per rivendicare una sorta di verginità antimafiosa. “Mattarella come Pio La Torre”, dicono in coro. Martelli interviene con parole laceranti: “Mattarella non è tra i morti che hanno combattuto la mafia a viso aperto e non può essere paragonato a chi è caduto mentre era in guerra con le cosche”. Un comportamento “intollerabile, chi lo manifesta non è degno di ricoprire l’ufficio di ministro della Giustizia”, fu la replica della vedova Mattarella.
Onorevole Martelli, abbiamo contestualizzato, ora a lei la parola.
La ricordo bene quella polemica, intervenni dopo a pochi giorni dall’omicidio Lima, perché nella Dc si stava facendo spazio questa sorta di accostamento poco giudizioso tra la morte di Salvo Lima e le altre vittime della mafia.
Ma lei parlò di Piersanti Mattarella…
Certo, ma non vi fu nessuna aggressione né alla sua memoria, né alla famiglia. Mi concentrai su una distinzione netta tra Piersanti Mattarella e La Torre. Il primo aveva combattuto la mafia contrastando il sistema di potere all’interno del suo partito, Lima, Gioia, Ciancimino, e per questo forse fu ucciso. La Torre, no, la sua fu una battaglia dura, netta, contro Cosa nostra e i suoi legami politici.
Lei tirò in ballo la figura di Mattarella padre, Bernardo, definendolo “il leader politico che traghettò la mafia siciliana dal separatismo, alla Dc”, e Sergio Mattarella bollò il suo livello come “miserabile”.
Non mi sono mai inventato accuse nei confronti di Bernardo Mattarella. Le cose che dissi all’epoca le presi dalla relazione di minoranza presentata dal Pci in Antimafia e firmata da Pio La Torre.
Era il 1976…
Ricordo bene… aspetti che ho qui la relazione, pagina 575, La Torre analizza il passaggio di campo della mafia dal 1948 al 1955, proprio gli anni in cui cresce il potere di Mattarella padre. “La Regione siciliana fu impiantata da uno schieramento politico che era l’espressione organica del blocco agrario e del sistema di potere mafioso”. Nella pagina precedente La Torre spiega “verso quali forze politiche si orientarono le cosche mafiose” dopo il tramonto del separatismo. Una parte, fu la risposta, “si orientò verso la Dc… uomini come Aldisio, Milazzo, Alessi, Scelba, Mattarella… era la doppia anima della politica che la Dc seguirà negli anni successivi: da un lato, un programma di riforme e di sviluppo democratico e dall’altro un compromesso con i ceti parassitari isolani”. All’epoca della polemica o Sergio Mattarella non aveva capito o faceva finta di non capire.
Mattarella padre artefice, insieme agli altri, del passaggio di pezzi del potere mafioso dentro il grande alveo della Dc. Una grande operazione politica, paragonabile a quella che nel 1987 fecero i socialisti, con lei tra i leader più influenti. Ricorda il boom elettorale in Sicilia?
Fummo messi in croce per quei voti proprio dagli esponenti del sistema di potere siciliano.
Aspetti, onorevole, in quell’anno il Psi aumenta del 6-7% a Palermo, a Ciaculli e Croceverde, borgate mafiose, il suo partito esplode, nel regno del boss Michele Greco, il Papa, dal 5% passate al 23 e la Dc perde il 20%.
Ma è assurdo, in quell’anno il Psi ebbe ottimi risultati a Napoli, a Bari, in tutto il Sud. A Bologna aumentammo del 6%... ”.
Fu anche l’effetto del referendum sulla responsabilità civile dei giudici. Certi ambienti apprezzarono.
Forse qualcuno, anche nel mio partito, cavalcò l’equivoco. Io no. La prima persona che volli incontrare a Palermo fu Giovanni Falcone, ricordo che Marco Pannella mi invitò a fare degli incontri all’Ucciardone, io rifiutai perché non volevo equivoci sulla mia strada.
Come giudica Sergio Mattarella oggi?
È un uomo che merita rispetto. Quella foto del 6 gennaio 1980 è l’immagine di un dolore indicibile, instancabile, che non passa mai. È una sorta di battesimo, una vocazione originaria. Ma la santificazione no, non mi piace. Aspettiamo. Sergio Mattarella è stato un uomo di partito, di corrente, di polemiche aspre. È stato l’uomo che all’indomani del ribaltone che defenestra Romano Prodi diventa il vicepresidente del Consiglio con D’Alema. E anche quelle dimissioni dal governo sulla legge Mammì, aspetterei a leggerle come una scelta ideale, diciamo che furono ordini di corrente ai quali Mattarella e altri ministri ubbidirono.
Lei è stato al governo con Mattarella un anno, che rapporti avevate?
Mai una polemica, ma neppure amicizia. Eppure ero il ministro della Giustizia, lui era siciliano, forse qualche scambio avremmo potuto averlo. Pazienza.
E oggi, che succederà con Mattarella presidente della Repubblica?
Leggo tante cose, c’è chi lo vuole capace di resistere a Renzi, chi invece lo vede legatissimo al premier. Renzi è stato abile, si è coperto a sinistra con Vendola e ha costruito una maggioranza preventiva sul nome di Mattarella stringendo Alfano in un angolo. C’è una forte tendenza al partito unico, un grande partito di centro che assorbe la sinistra, ne contiene un’ala. Così si chiude la strada ad ogni alternativa e si costringe la destra ad estremizzarsi.

La Stampa 2.2.15
A dispetto delle promesse del premier, tutti i voti si sono resi riconoscibili

La sera di giovedì Renzi aveva promesso: «Non voglio schede siglate, massima libertà per tutti i gruppi». Non è stato così, a giudicare dai resoconti della votazione a Montecitorio. Il Pd si sarebbe diviso in tre segnature diverse, una i deputati, una i senatori, una terza i giovani turchi. Tutti si sono resi riconoscibili al loro segretario. «Mattarella» avrebbe scelto di segnare il gruppo Pd alla Camera (343 voti). «Mattarella S.» sarebbe invece - secondo diverse fonti - la scelta dei Giovani turchi del Pd (61 voti). «Sergio Mattarella» avrebbe invece votato il gruppo Pd del Senato (130). Sel ha votato «On. Sergio Mattarella»: onorevole, nome e cognome (28 voti). «On. Mattarella»: onorevole, ma senza nome, solo cognome, hanno deciso i 35 grandi elettori di Ncd, per i quali era politicamente fondamentale farsi riconoscere da Renzi. Infine, «Mattarella Sergio» dovrebbe esser stata la decisione presa dall’Udc. Ci sono dei voti di gruppi più piccoli, «Sergio on. Mattarella» (6), e alcuni semi singolari (prof Sergio Mattarella, 2), on. prof. Sergio Mattarella (2). E c’è Mattarella on. Sergio: chi ha scritto, da solo, così, ci teneva tanto a far sapere chi fosse. [R. I.]

il Fatto 2.2.15
Le impronte sul Colle
Pasquino, politologo ed ex senatore dei Ds: “Sgradevole cifrare il proprio voto”
“Le schede segnate? Vanno vietate”
di Gianluca Roselli

Questo controllo del voto adottato dai partiti è un esempio di cattiva politica. Sulla scheda si dovrebbe scrivere solo il cognome del candidato”. Il giorno dopo l’elezione di Sergio Mattarella, il professor Gianfranco Pasquino, politologo ed ex senatore dei Ds, condanna il fenomeno dei voti cifrati, che sabato l’ha fatta da padrone nel conteggio delle schede. Voti “firmati” in cui si sono contati i partiti e le correnti al loro interno, come i giovani turchi del Pd. Ma anche i consensi azzurri giunti in soccorso al nuovo capo dello Stato.
Professore, ha visto: “Mattarella”, “Sergio Mattarella”, “Mattarella S. ”, ecc…?
Paradossalmente le dico che, visti i famosi 101 traditori di Romano Prodi, forse è meglio così. Per lo meno c’è più trasparenza. In realtà, il fatto che i partiti e i parlamentari usino questo sistema per controllarsi a vicenda è sgradevole e poco edificante. Lo accetto, ma prendo atto dell’incapacità dei parlamentari di assumersi le loro responsabilità. È una brutta politica che, però, in questo caso ha dato buoni frutti, perché Mattarella è il miglior presidente possibile nelle circostanze date.
Il fenomeno dei voti riconoscibili non vìola la Costituzione, che parla di voto segreto?
Si dovrebbe cambiare il regolamento e obbligare a scrivere solo il cognome. Detto questo, non vìola la Costituzione perché il voto non è riconducibile al singolo parlamentare, ma al massimo a gruppi di deputati o senatori.
È giusto su alcune votazioni mantenere il voto segreto?
Assolutamente sì, perché va difesa la libertà del parlamentare, che deve poter votare secondo coscienza. In questo caso difendo il diritto dei forzisti di dare il voto a Mattarella contro l’indicazione di Berlusconi. Inoltre, il voto segreto tutela il votante nei confronti del votato. Il quale, una volta eletto, e dalla sua posizione di potere, potrebbe in qualche modo vendicarsi. Ma le voglio raccontare un aneddoto.
Prego.
Nel 1994, quando ero senatore, a Palazzo Madama si doveva eleggere il presidente. Carlo Scognamiglio prevalse per un voto su Giovanni Spadolini, con una scheda contestata in cui c’era scritto “ScognaMIGLIO”. Tra l’altro, senatore all’epoca era anche il professor Gianfranco Miglio. Era chiaramente una scheda “firmata”. Che fu ritenuta valida permettendo a Scognamiglio di essere eletto.
Parliamo dell’elezione. Forza Italia ha contestato il metodo di Renzi…
Il metodo è stato assolutamente trasparente. Sia da parte di Renzi, che ha indicato Mattarella. Sia da parte di Berlusconi, che ha scelto di votare scheda bianca. Le obiezioni del leader di Forza Italia sono fuori luogo. Se il premier avesse proposto una rosa di nomi, avrebbe concesso all’ex Cavaliere, che sta all’opposizione, di scegliere il capo dello Stato. Le sembra giusto?
Dopo l’elezione di Mattarella, il patto del Nazareno continuerà?
Innanzitutto credo che il patto non contenesse il nome del capo dello Stato, ma il fatto di discuterne. Il Nazareno è al capolinea non per i fatti di questi giorni, ma perché ha già dato tutto quello che doveva dare: le riforme istituzionali e la legge elettorale. Si è, come dire, esaurito.
L’Italicum arriverà a breve al vaglio del Quirinale...
Oltre ad avere la solida cultura politica della sinistra diccì, Mattarella dà garanzia di autonomia e indipendenza, anche rispetto a Renzi. Quando dovrà dire dei no, lì dirà, ma non in maniera rumorosa e senza rompere il delicato equilibrio tra le istituzioni. Vedremo come si comporterà nel giudicare una legge elettorale nettamente inferiore alla sua.
Quanto durerà la ritrovata unità nel Pd?
Il premier ha fatto bene a ricompattare il partito su una scelta importante come quella del capo dello Stato. Ora dipenderà dalle scelte del governo. Non credo che le diverse minoranze del Pd faranno sconti a Renzi perché è stato eletto Mattarella…
Professore, il suo giudizio su Renzi è migliorato?
Io rimango antropologicamente anti renziano. Non mi piace il suo modo di fare e non mi piace il lessico mediocre. Ho sempre apprezzato, invece, la sua sfida alla vecchia classe dirigente del Pd. Alla cosiddetta “ditta”. Il premier è un abile equilibrista. Bisogna però dargli atto che finora è riuscito a ottenere tutto quello che voleva e ha inanellato una serie di successi non marginali. Tra cui l’elezione di Mattarella.

La Stampa 2.2.15
Boschi: avanti col decreto fiscale, non è salva-Silvio ma per tutti
Il ministro annuncia che il tema verrà riproposto:
di Fabio Martini
qui

il Fatto 2.2.15
Regali in arrivo
Silviostaisereno: “Il 3% per tutti gli italiani”
Boschi consola B. “La Salva Silvio serve all’Italia”
Favori fiscali post-Quirinale: mentre Renzi prova a smentire il Patto del Nazareno, la sua ministra confessa
“Non si può fare o non fare una norma che riguarda tutti i cittadini perché riguarda anche B.”
di Wanda Marra

La norma inserita nel decreto fiscale non è a favore di Berlusconi, ma riguarda tutti. Il 20 febbraio riaffronteremo il tema. Ma che non sia una norma per B. lo dimostra il fatto che in Francia hanno una norma uguale, con una soglia più alta, non del 3% ma del 10% di non punibilità dell’evasione fiscale ai fini penali”. Il giorno dopo la “grande vittoria” con la quale Renzi ha portato Mattarella al Colle, Maria Elena Boschi, a L’Arena chiarisce che la questione Salva Berlusconi è ancora sul tavolo. Peraltro, la Boschi sembra dimenticare che la legge francese mette una doppia soglia: o il 10% dell’imponibile o 153 euro. Il Ministro torna dunque sulla norma che cancella i reati di evasione e frode fiscale se le tasse sottratte al fisco sono inferiori al 3% del reddito dichiarato. Come primo effetto l’ex Cavaliere potrebbe chiedere la revoca della sentenza di condanna per frode fiscale nel processo Mediaset, quella che lo ha fatto decadere da senatore per la legge Severino, cancellando così anche la pena accessoria e l’interdizione che gli avrebbe impedito la ricandidatura fino al 2018.“Non credo si possa fare o non fare una norma che riguarda 60 milioni di italiani perché riguarda anche Berlusconi”, sottolinea la Boschi. Prima dell’inizio della partita per il Colle, il premier aveva rimandato tutto a dopo. Al 20 appunto. Adesso dovrà decidere cosa fare. Tra i punti “attenzionati” proprio la soglia del 3%: difficile però che il premier possa decidere di alzarla, visto che è stata fatta e modulata per i grandi gruppi industriali. Da capire se cambieranno i reati: una delle ipotesi è cancellare la frode fiscale, tagliata appositamente sull’ex Cav. Nessuna marcia indietro ufficiale per ora: il 20 è la prima data utile per capire quanto ancora Renzi abbia intenzione (ma soprattutto necessità) di rinsaldare il Patto del Nazareno. Si vedrà se ha ragione Bersani, secondo il quale l’elezione di Mattarella è stata “un colpetto” al Patto. Mentre Alfano prova ad avvertire: “Al governo, faremo sentire la nostra voce”.
IN QUESTA PARTITA c’è un nuovo protagonista: il neo presidente della Repubblica. Che ieri, non a caso, ha passato un’ora con Napolitano: si è fatto spiegare e raccontare quali ostacoli il Quirinale deve affrontare, come sono i rapporti con Palazzo Chigi, a che punto è il percorso delle riforme. I decreti attuativi della delega fiscale arriveranno presto sulla sua scrivania: firmerà? Chi lo conosce bene lo racconta come un uomo molto preciso, anzi pignolo, molto attento agli equilibri politici, ma anche agli aspetti istituzionali e costituzionali. Vedremo. In arrivo prossimamente i decreti attuativi del jobs act e il milleproroghe. E poi, c’è tutta la partita delle riforme. L’Italicum deve tornare alla Camera: in Senato è passata la versione dei capilista bloccati nei collegi, nonostante l’opposizione della minoranza bersaniana. Ringalluzziti dal ruolo giocato nella partita per il Colle, Bersani & co. annunciano battaglia a Montecitorio. Anche qui, da vedere come si comporterà il nuovo Presidente, che peraltro è il padre del Mattarellum, legge da molti rimpianta, che prevedeva i collegi uninominali e una quota proporzionale. Renzi nella presentazione della candidatura ai Grandi elettori Pd l’ha quasi presentato come un antesignano della nuova legge elettorale. In realtà, la filosofia era diversa. Infine, le riforme costituzionali, adesso alla seconda lettura alla Camera. Come si comporterà il costituzionalista Mattarella di fronte ad alcune evidenti forzature?

Repubblica 2.2.15
Un premier liquido per tempi liquidi
di Ilvo Diamanti

SERGIO Mattarella e Matteo Renzi. I due Presidenti. Formano una strana coppia, tanto sono diversi e lontani. Anche se, fra i due, c’è un filo politico e culturale comune.
MATTARELLA è stato e resta un democristiano — di sinistra. Uno di quelli che si definiscono — e vengono definiti — cattolici democratici. Renzi, invece, è post-democristiano. Interpreta un modello di (post) democrazia personalizzata e mediatizzata. Dove i partiti contano meno perché, in fondo, si sono liquefatti. Per questo l’elezione di Mattarella permette di precisare il tipo di leadership e di democrazia interpretati da Renzi. Leader dei tempi liquidi, al tempo della democrazia liquida. Secondo la nota formula di Zygmunt Bauman. Cioè: senza appigli stabili e senza riferimenti coerenti. In continua evoluzione e ri-definizione. Renzi ne ha fatto un ambiente amico. Dove agisce e decide, perlopiù, da solo.
Il confronto con la precedente elezione presidenziale, nell’aprile 2013, risulta, al proposito, esemplare. Allora, le elezioni politiche avevano fatto emergere un Parlamento diviso in tre grandi minoranze politiche. In-comunicanti e divise anche al loro interno. Pd, Pdl e M5s. L’elezione del Presidente ne ha fornito una prova decisiva. Ha, infatti, dimostrato che si era alla fine di una stagione in-finita. Il Berlusconismo. Una storia chiusa, ancora nel 2011. Senza che ancora se ne fosse preso atto. Riproponendo gli stessi riti e le stesse procedure. Come se il mondo fosse lo stesso di prima. Diviso in due. Pro oppure contro. Berlusconi. Come non fosse avvenuta l’irruzione del M5s. Veicolo della frattura fra società, politica e istituzioni. Così è stata bruciata la candidatura di Franco Marini, ex leader della Cisl e della Sinistra Dc. Ma, soprattutto, si è consumata la candidatura di Romano Prodi. Padre dell’Ulivo e del Pd. In aula. Per mano dei franchi tiratori del Pd. Molti più dei 101 di cui si è parlato. In questo modo è finita la finzione. Che si potesse continuare come prima. Con le stesse logiche di “partito”. Quando i partiti erano finiti, insieme ai loro riferimenti. Crollati, insieme al muro di Arcore. La “proroga” di Napolitano al Colle segna questo passaggio in-compiuto. Perché è una nondecisione . In attesa di tempi diversi. Leader diversi.
Due anni dopo, quei tempi sono maturati. Tempi liquidi. Segnati da partiti liquidi. Le tre grandi minoranze, uscite dal voto del 2013 non esistono più. Non sono più grandi come prima. Due di loro, almeno. Il Popolo delle Libertà, si è diviso in diversi popoli. Forza Italia, guidata da Berlusconi. Il Nuovo Centro Destra guidato da Alfano. Entrambi, peraltro, proprio in questa fase si sono scomposti ulteriormente. Mentre il M5s si è, a sua volta, frazionato, in Parlamento. Ormai non è chiaro quanti siano i “fedeli” a Grillo e Casaleggio. E quanti parlamentari abbiano defezionato. Quel che resta del Centro, infine, si è riunito in un’altra sigla: Alleanza Popolare. Ma, in effetti, appare una periferia del PdR. Il Pd di Renzi. Il principale, se non unico, vero “partito” di governo. Sfidato, solamente, da partiti anti-europei e anti-politici. M5s e la Lega di Salvini, per primi. Tuttavia, lo stesso Pd non si presenta unito. È “geneticamente” diviso. Negli ultimi mesi, minacciato dalla tentazione della sinistra interna di integrarsi con Sel. Per formare una sorta di Tsipras all’italiana.
Ripercorro fatti e avvenimenti noti. In modo disordinato e superficiale. Ma in grado, anche così, di rendere più evidente il segno di questa Repubblica. Di questa democrazia. Liquida. Senza schemi né riferimenti stabili. in questo ambiente immateriale e frammentario Matteo Renzi ha affermato la propria leadership. In Parlamento e fra gli elettori. Renzi, come si è detto fin dal suo esordio, è “veloce”. Mimetico. Spregiudicato. Spietato, se necessario. Ha stabilito, da subito, un dialogo con il Nemico. Berlusconi. Un Patto, si è detto, intorno alle riforme istituzionali e alla riforma elettorale. Ma poi ha proceduto diritto al “suo” scopo. Scegliendosi di volta in volta i nemici prima ancora degli amici. A Destra e a Sinistra. Il Centro l’ha assorbito subito.
Così, ha avviato e impostato le riforme con alleati diversi. Il Jobs act e l’abolizione del Senato elettivo. Fino alla riforma elettorale. L’Italicum. Di cui è difficile delineare i contorni, dopo tante mediazioni e riscritture. Modellando, di volta in volta, maggioranze à la carte. Di volta in volta diverse, a seconda dei casi e degli obiettivi. Primo alleato: Berlusconi. Formalmente all’opposizione ma, puntualmente, a sostegno delle maggioranza, nelle occasioni che contano. Fino a ieri. Cioè, fino all’elezione del Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella. Che non piace a Silvio Berlusconi. Per ragioni “storiche”, trattandosi di un “cattocomunista”. A suo tempo, ostile alla legge Mammì. Ma anche per ragioni “politiche” legate al presente. Anzi, al “momento”. Perché Renzi l’ha scelto senza consultarlo. Senza accordarsi con lui. E, in fondo, senza consultare nessuno. Così ha “liquefatto” ulteriormente Fi, Ncd e M5S. Ma ha riunito — e solidificato — il Pd. E la Sinistra, con cui il Pd si era alleato alle elezioni politiche del 2013.
Da ciò la differenza rispetto al 2013, quando l’elezione del Presidente aveva sancito l’impotenza del Pd e della sua leadership. Avviandone la crisi. La scelta di Mattarella, invece, oltre che al Paese, è utile a Renzi. Perché lo rafforza. Lo àncora alla storia politica del Centrosinistra, mentre lo dis-àncora da ogni alleanza stabile. Fuori e dentro il partito.
Renzi: è il premier dei tempi liquidi. Un “premier liquido”. Capace di cambiare forma. E di adattarsi a un sistema politico liquefatto. Renzi. Solo e veloce. Senza veri amici (politici). Questa è la sua forza. Ma anche il suo problema. Perché non ha vincoli. Ma neppure appigli e approdi stabili. Non ha neppure futuro. In questi tempi liquidi: esiste solo il presente. Ogni giorno: un porto nuovo. Un equipaggio diverso. E nuove insidie, nuovi nemici. Il viaggio potrebbe diventare faticoso. E rischioso. Anche per un navigatore liquido.

La Stampa 2.2.15
Geloni: “Grazie Renzi, è abile. Al limite moriremo popolari”
L’ex direttrice di YouDem “riabilita” il premier
intervista di Francesco Maesano

Un pranzo al ristorante a due passi dal Pantheon, cinque minuti a piedi da Montecitorio; Mattarella è stato appena eletto Presidente. Una foto dei commensali ritrae un pugno di ex-popolari, raccolti nel ritrovo storico della sinistra Dc alla fine degli anni ’80. Da Pistelli a Franceschini. E Chiara Geloni.
Geloni, di che avete parlato?
«Niente di programmato. Era ora di pranzo. Qualcuno ha detto: “Andiamo da Settimio, come avrebbero fatto quelli della sinistra Dc”. Un brindisi e un piatto di pasta per festeggiare».
Un pranzo di corrente?
«Ma quale corrente, a tavola c’erano persone che hanno fatto scelte molto diverse come Renzo Lusetti. Altri, anche interni al Pd, che appartengono a correnti diverse. Quando capita che un amico diventi presidente della Repubblica fa piacere, mi creda».
“Amico” alla democristiana?
«Esatto, (ride ndr) anche perché più che amica io, come altri a quel tavolo, mi considero una figlia di Mattarella».
Quando vi siete incontrati la prima volta?
«L’ho conosciuto che ero volontaria all’ufficio stampa dei Popolari e lui era capogruppo. Da allora era ed è rimasto un punto di riferimento».
E ora se lo ritrova al Quirinale.
«Già, ed è un risultato del quale sono riconoscente a Renzi».
Ha cambiato giudizio su Renzi che lei ha attaccato sistematicamente su twitter?
«In questa vicenda trovo che sia stato molto abile. Ha costruito un risultato che per me è bellissimo. Parliamo di un uomo dallo straordinario valore, rigore, umanità, che sarà un ottimo Presidente».
Il Pd ora è più unito?
«Ha dimostrato che in questa legislatura, quando è unito, può fare tutto ciò che vuole».
Anche smettere di litigare?
«Stavolta la minoranza Pd è riuscita a farsi riconoscere un ruolo».
È come dice Rosy Bindi, questa volta Renzi si è fatto aiutare?
«Mattarella era la prima scelta di Bersani due anni fa, quindi quando lo ha riproposto non ha incontrato difficoltà con la minoranza Pd. È stato lo stesso Renzi a rimarcare una continuità con le decisioni prese in passato».
Improvvisamente Renzi le piace. Cambieranno davvero le cose tra Renzi e la minoranza?
«Se Renzi avesse sempre parlato in questo modo, sottolineando l’importanza di ripartire da dove si era arrivati in precedenza, parlando di pluralismo, autonomia del partito e centralità del Parlamento, oggi non avrei difficoltà ad essere più renziana di come sono».
Nessuna paura di morire democristiani?
«Non è stata una vittoria dei democristiani. Mattarella è un democratico a tutti gli effetti. Un protagonista della seconda repubblica».
E un prodotto della prima.
«Si ma è nella seconda che ha inciso: dalla riforma elettorale che ha costruito il bipolarismo alla nascita del Ppi. Al limite moriremo Popolari. Però è bello, ed è sempre meglio che essere impopolari».

La Stampa 2.2.15
Bersani in tv da Fazio
«Matteo ha tempo per migliorare»

«Renzi è spregiudicato o fuoriclasse? È molto agile, ha delle grandissime capacità e ha anche tempo per migliorare». Lo ha detto Pier Luigi Bersani a Che tempo che fa rispondendo a una domanda di Fazio sulle caratteristiche del premier. «Questi passaggi - ha poi aggiunto riferendosi all’elezione del capo dello Stato - lo aiuteranno a migliorare le sue capacità». Bersani ha anche spiegato che «bisogna avere le ambizioni proporzionate alle capacità e non sempre è così».

il Fatto 2.2.15
Pier Luigi Bersani
L’Italicum si può cambiare

Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd e a capo di una pattuglia parlamentare che non ha fatto scherzi a Renzi per l’elezione al Colle di Sergio Mattarella, ieri era ospite di Che tempo che fa e si è detto convinto di poter modificare la legge elettorale approvata al Senato con i voti di Fi e senza quelli di una parte del Pd. “Alla Camera già l’altra volta fu approvata ed il nostro capogruppo disse che noi chiedevamo che si riflettesse su due o tre questioni. La riflessione è stata tranne che sul tema base dei capilista bloccati: una cosa che per per molti di noi è ingiusta, e anche squilibrata. Sono fiducioso che si possa correggere".

Repubblica 2.2.15
Guglielmo Epifani
“Il premier cerchi l’unità sulla legge elettorale, la sinistra non trama con Fi”
intervista di Giovanna Casadio

ROMA . «Prendiamoci una tregua nel Pd, dopo il successo sul Quirinale. Sulla riforma elettorale ci sono le frizioni più forti, ma riflettiamo senza fretta, perché il tempo c’è. Renzi utilizzi sempre il “metodo Mattarella”». Gugliemo Epifani, ex capo della Cgil, ex segretario dem e leader della minoranza, mette in guardia anche da un altro rischio: che Forza Italia usi strumentalmente il dissenso della sinistra del Pd per sgambettare il premier: «Noi non ci faremo strumentalizzare, i forzisti lo sappiano...».
Epifani, la ministra delle Riforme Maria Elena Boschi chiede una moratoria delle polemiche nel partito di almeno una settimana. La minoranza dem ci sta?
«Se possibile anche più di una settimana. Proporrei che una settimana serva a tutti per riflettere su come, abbandonando un po’ di pregiudiziali, si continui con lo stesso “metodo Mattarella”. È il secondo grande momento di unità politica del Pd degli ultimi tempi: il primo fu il risultato eccezionale alle europee, l’altro è stato sabato con l’elezione di Mattarella al Colle».
Merito di Matteo Renzi?
«In entrambi i casi, fatto salvo il ruolo e la capacità di Matteo che sono fuori discussione e insieme l’alto profilo del presidente della Repubblica, è stata decisiva l’unità del partito. Quindi prendiamoci questa settimana per vedere come sia possibile evitare i punti di frizione nel Pd».
Però sulle riforme elettorale e costituzionale farete valere le vostre ragioni, ricomincerà lo scontro?
«Il punto più delicato che vedo davanti a noi è quello della legge elettorale. Però abbiamo un po’ di tempo per ragionarci sopra e vedere se riusciamo a trovare una via d‘uscita che eviti di nuovo polemiche e contrapposizioni. Nessuno oggi potrebbe capirle. Anche perché nessuno oggi sa quale sarà l’atteggiamento di Forza Italia sul cammino delle riforme».
Se viene meno il Patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, la sinistra dem avrà più voce in capitolo?
«Era evidente che del Patto del Nazareno c’erano due letture. Renzi ha sempre detto che si trattava di un accordo per allargare il fronte delle riforme. Mentre Berlusconi e FI, l’altro contraente del Patto, forzavano in termini più politici. Fino a qualche giorno fa, il centrodestra lasciava filtrare la possibilità di un governo con ministri forzisti. Ora si è visto cos’è davvero il Patto del Nazareno. Noi minoranza al Senato abbiamo rimproverato Renzi sulla legge elettorale, ma non uniremmo mai i nostri voti a quelli dei forzisti per fare trabocchetti. Così come bisogna che la maggioranza di governo resti quella definita».
È scoppiata la pace nel Pd?
«L’indicazione di Mattarella per il Quirinale ha avuto quasi i due terzi dei voti, malgrado le prese di posizione dell’opposizione. E ha avuto la sostanziale unanimità dei Grandi Elettori del Pd. Un fatto mai accaduto perché erano 444 e credo che non sia mancato un voto a Mattarella. Anche le reazioni dei nostri circoli, della base sono di soddisfazione e contentezza. L’Ita- lia aveva gli occhi della comunità internazionale addosso. Questa prova di maturità il paese l’ha vinta».
Quale è il dividendo che incassa la sinistra del Pd?
«Direi piuttosto che quanto è accaduto con l’elezione del presidente della Repubblica è la conferma che in un grande partito il pluralismo è insopprimibile. È la ricchezza del Pd. Quando ci si ascolta davvero, il Pd è più forte e il paese, in una fase come questa, è rassicurato».
Anche lei insomma è diventato renziano?
«Le qualità e le capacità di Renzi sono fuori discussione. Il problema è che il Pd deve sapere interpretare, oltre la spinta al rinnovamento, anche le ragioni e i valori della sinistra riformista ».
Ma quali sono i problemi sul tavolo, su cui la sinistra dem batterà un colpo?
«Ora si deve rilanciare l’azione di governo sulle questioni sociali e economiche aperte. Penso alla situazione dell’Ilva, delle tante crisi aziendali, ai contraccolpi della vicenda greca sui mercati finanziari, alla capacità di far davvero ripartire in Italia e in Europa un ciclo di investimenti. Infine la crisi ha allargato la fascia di povertà e di esclusione sociale e questo tema deve diventare centrale nell’azione del Pd».

Corriere 2.2.15
Guerini: era il voto sul Colle, non il congresso pd
Nessuno avrà contropartite da incassare
intervista di Monica Guerzoni

ROMA Diamo a Guerini quel che è di Guerini?
«Nessun merito, l’idea di Mattarella è di Renzi. Abbiamo eletto alla quarta votazione, come ci eravamo prefissati, una figura prestigiosa, saggia e autorevole, riscattando le pagine del 2013 sia come Parlamento, sia come Pd».
Vicesegretario, la ferita dei 101 è chiusa?
«Si è rimarginata e credo lo si debba al lavoro di capacità e intelligenza che ha condotto Renzi e che è stato poi sostenuto da tutto il Pd».
Enrico Letta ha sottolineato il ruolo di Bersani, che «ha giocato per il Paese e non per se stesso».
«Non personalizzerei. Tutto il partito e tutto il gruppo dirigente hanno ben lavorato per costruire la massima unità accompagnando il lavoro più importante, che è stato compiuto da Renzi. Se traduciamo questo passaggio dentro le dinamiche interne del Pd rischiamo interpretazioni fuorvianti».
La minoranza vuole cambiare i capilista bloccati. Con Mattarella certe «sciocchezze incostituzionali» non passeranno, avverte Bersani.
«Non è stata una frase molto felice, se pronunciata».
Togliamo il «se», lo ha detto al Corriere .
«Non è stata fatta alcuna sciocchezza incostituzionale. All’Italicum il Pd ha dedicato ore di confronto in tutte le sedi, formali e informali. Possiamo approvare una legge con il doppio turno, le soglie di accesso e i collegi piccoli, il risultato è alla nostra portata».
Senza cambiarla alla Camera?
«Non voglio comprimere il dibattito, ma l’impianto su cui abbiamo costruito con tanti sforzi un accordo va salvaguardato. Voglio essere chiaro. Non abbiamo fatto il congresso del Pd, abbiamo eletto il capo dello Stato. Un risultato straordinario che deve essere riconosciuto a chi ha guidato questo processo dentro il Pd, Renzi».
Mattarella userà i «superpoteri» di Napolitano?
«Non ci sono state fasi di eccezionalità, né forzature. Mattarella sarà chiamato a confrontarsi con una fase che può avere dinamiche diverse e saprà usare sapientemente le funzioni che la Costituzione gli attribuisce».
Il voto del Quirinale cambia la maggioranza?
«La maggioranza resta quella che è, io non vedo cambiamenti all’orizzonte rispetto all’elezione del presidente della Repubblica. Sul metodo, che pure era noto, c’è stata probabilmente qualche incomprensione, ma sul merito il voto del Parlamento ha mostrato una condivisione ampia».
Il Ncd di Alfano invoca una verifica di governo.
«La verifica è un rito antico. Abbiamo messo in campo una stagione di riforme e ci sono tutte le condizioni per andare avanti insieme fino al 2018, con ancora più forza. La verifica si fa confrontandosi sul merito delle questioni».
Il rimpasto coinvolgerà la minoranza del Pd?
«Il Pd nella sua unità sostiene il governo, non inventiamoci cose che non ci sono».
Finocchiaro nuovo ministro agli Affari Regionali?
«Non so, è una scelta che compete al premier. Non sta a me valutare ipotesi che non sono state ancora manifestate».
L’apporto di Sel verrà ripagato sul piano dei diritti?
«Assolutamente no, non c’è niente da ripagare. Sel è un partito di opposizione con il quale c’è un confronto importante. Il tema dei diritti è nell’agenda del governo assieme ad altre questioni come l’attuazione della delega lavoro, la riforma fiscale, le politiche per la crescita... Non ci sono contropartite da incassare».
Il tetto del 3% alla frode fiscale per Berlusconi?
«Assolutamente no».
E il Patto del Nazareno?
«Per noi va avanti, chiarendo che l’accordo riguarda riforma costituzionale e legge elettorale. L’elezione di Mattarella ha dimostrato che non esiste nessuna ipotesi maliziosamente avanzata in questi mesi».
E se Forza Italia farà mancare i voti sulle riforme?
«Con il contributo sostanziale di Forza Italia abbiamo fatto passi importanti per rendere più moderno il sistema istituzionale. Far saltare quel tavolo ora che le riforme sono alla portata sarebbe contro l’interesse del Paese».

Corriere 2.2.15
La maggioranza degli italiani resta scettica sulle chance di uno Tsipras in casa nostra
di Nando Pagnoncelli

La vittoria di Tsipras alle elezioni greche di domenica scorsa ha suscitato reazioni molto diversificate nell’opinione pubblica italiana a seconda della prospettiva con cui si guarda al risultato. In una prospettiva europea l’affermazione della sinistra radicale di Syriza è considerata in termini positivi da oltre la metà degli italiani (per il 24% un’ottima notizia e per il 30% una buona notizia) perché indurrà l’Europa a ridiscutere le proprie regole, così che, insieme ai provvedimenti recentemente adottati (piano di investimenti) e alle scelte della Banca centrale (Quantitative easing), si pongano le basi per una ripresa; un italiano su tre è di parere opposto e ritiene che i Paesi indebitati non debbano allentare la politica del rigore e siano tenuti a mettere in ordine nei conti pubblici.
La possibilità di ridiscutere il debito greco potrebbe mettere in difficoltà anche l’Italia che ha prestato alla Grecia 40 miliardi di euro e questa eventualità suscita, comprensibilmente, più dissenso (59%) che consenso (30%) tra tutti i cittadini, anche tra coloro che hanno giudicato positivamente la prospettiva di un cambiamento europeo. Come a dire: è bene che l’Europa cambi le regole ma non vogliamo che l’Italia ci rimetta. Insomma, è l’eterno effetto NIMBY (non nel mio cortile). Piuttosto desta sorpresa il fatto che quasi un italiano su tre sia favorevole alla ridiscussione del debito greco anche se l’Italia, che non versa certamente in buone condizioni di salute, ci rimetterà. È molto probabile che costoro si attendano una sorta di effetto domino e, dopo quello greco, auspichino la ridiscussione anche del debito italiano nei confronti degli altri Paesi, incuranti del fatto che qualcuno rimarrà con il cerino acceso in mano.
Quali ripercussioni potrebbe avere il risultato ellenico sulla politica italiana e in particolare sul Pd, nel quale è sempre più evidente il dissenso della minoranza nei confronti di Renzi dopo la discussione sulla nuova legge elettorale e quella sulla politica del lavoro con l’approvazione del Jobs act? Solo il 15% ritiene che l’effetto Tsipras possa galvanizzare la minoranza favorendo una scissione del Pd che dia vita ad una forza di sinistra; il 31% ritiene probabile l’uscita dal partito di qualche esponente che sostanzialmente non indebolirà il Pd, mentre la maggioranza relativa dei rispondenti (41%) prevede che le divergenze verranno ricomposte e il partito rimarrà unito. Sono di questo parere soprattutto gli elettori del centrosinistra (51%). Solamente i giovanissimi e gli studenti sono maggiormente convinti della possibile scissione.
La possibilità che in Italia nasca una forza politica simile a Syriza che unisca le forze di sinistra come Sel e Rifondazione comunista insieme ad eventuali esponenti usciti da Pd e possa contare sul sostegno delle aree sindacali di Cgil e Fiom viene vista con un certo scetticismo: il 37% pensa che sarà un flop (in diminuzione del 3% rispetto al novembre scorso), il 27% ritiene che otterrebbe poco più del consenso attuale delle forze di sinistra (alle Europee la lista L’altra Europa con Tsipras ha ottenuto il 4% e 3 parlamentari) mentre il 22% prefigura un risultato positivo (+2% su novembre).
Da ultimo, sull’onda del successo greco e dell’insoddisfazione per la situazione italiana, l’interesse per questa nuova forza politica appare in crescita rispetto a novembre: il 12% guarderebbe ad essa con molta simpatia, il 31% con qualche simpatia mentre il 42% non avrebbe alcuna simpatia. Va ricordato che non si deve confondere la simpatia con il comportamento di voto. Cionondimeno il consenso convinto o almeno tiepido sale dal 32% al 43% in poco meno di tre mesi. A differenza di quel che accadeva in novembre, quando la simpatia risultava più elevata tra i certi più esposti alla crisi (disoccupati, casalinghe, anziani), oggi i picchi di attenzione per questa nuova formazione si registrano tra i giovanissimi, i ceti medi, gli studenti, cioè tra i ceti storicamente più propensi al voto a sinistra.
Il voto greco ci restituisce un’opinione pubblica fiduciosa rispetto alla ridefinizione delle politiche comunitarie, al futuro rapporto tra Stati membri e alla possibilità di attenuare l’austerità per favorire la crescita. Ma è un’opinione pubblica ambivalente sulla possibile scorciatoia della ridefinizione dei debiti tra gli Stati, soprattutto se a rimetterci sarà l’Italia.
Pur aumentando l’attenzione e la simpatia per una forza di sinistra italiana che si ispiri a Syriza, lo scenario politico non sembra destinato a modificarsi: il Pd, sebbene in flessione rispetto ai risultati delle europee, rimane in testa nelle preferenze degli italiani. Sarà interessante capire quali saranno le conseguenze dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica in termini di orientamenti di voto e di fiducia nei leader politici, a partire da Matteo Renzi.

La Stampa 2.2.15
L’ira di Nunzia De Girolamo: “Noi maggiordomi di Renzi”
“Dovremmo fare come la Lega con Berlusconi”
di Francesca Schianchi

Tra loro, lo chiamano «l’incubo di diventare Scelta civica». La paura di precipitare allo zero virgola, fagocitati da Renzi. Ne hanno discusso in una riunione l’altra sera. E sono soprattutto quattro, tra i vertici di Ncd, a voler arrivare in fondo alla questione, pronti a chiedere ad Alfano di dimettersi da ministro dell’Interno per avere mani libere nel rapporto di alleanza col Pd: non solo l’ex capogruppo al Senato Maurizio Sacconi, ma anche Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello e soprattutto Nunzia De Girolamo.
E’ lei, la capogruppo alla Camera, a essere così infuriata per i fatti degli ultimi giorni da aver fatto pensare a un suo possibile passaggio alla Lega. Una «fantasia giornalistica», smentisce, ma chi ieri l’ha sentita, ritirata in una domenica in famiglia, la descrive furibonda. Se possibile, ancora più di sabato, dopo aver letto il colloquio con Renzi pubblicato ieri dalla «Stampa»: «Ma come – è sbottata al telefono con un’amica – Renzi dice che facciamo confusione, fa riferimento a vicende territoriali come il sindaco di Milano, e Angelino e Lupi stanno zitti? Così la nostra gente pensa che siamo solo attaccati alla poltrona!».
E’ stata gestita male tutta la partita del Colle, secondo lei. Non per il nome di Mattarella, ma perché la sensazione, alla fine, è di una subordinazione di Ncd a Renzi. E lei l’ha detto ad Alfano: «Dobbiamo essere un partito di lotta e di governo, com’era la Lega nel governo Berlusconi del 2008. Dobbiamo ricostruire il centrodestra e riempire lo spazio che c’è tra la Lega di Salvini e il Pd del premier. Ma non possiamo farlo se facciamo i maggiordomi di Renzi!». Al premier, in questo passaggio, lei e gli altri in sofferenza in Ncd riconoscono la bravura, «ma non si può andare avanti così», masticavano amaro sabato a Montecitorio.
E infatti, prima ancora di una verifica di governo, ne chiedono una nel partito. Dove vogliano arrivare, lo fa capire Cicchitto in un’intervista a «Libero», quando parla di una «verifica dei ruoli» di Alfano: cioè che possa dimettersi dal Viminale per «esercitare pienamente la sua leadership». Il che fa il paio con la riflessione fatta dalla De Girolamo: «Dovremmo essere come la Lega per Berlusconi: ma come fa Alfano a fare da pungolo mentre è ministro dell’Interno?».
Un malumore tale da portarla fuori dal partito? Lei ha un buon rapporto con Berlusconi, e più volte è stata data vicina al ritorno in Fi. Per ora, però, garantisce chi le ha parlato, non si muoverà da Ncd. In attesa di un chiarimento con Alfano.

La Stampa 2.2.15
Nel centrodestra tutti in fila verso la Lega
Calderoli: “C’è la coda per entrare ”. Smottamenti nel Ncd, ma anche in Forza Italia. Salvini avvisa: no ai riciclati
di Amedeo La Mattina

«Tendenza Matteo» e il cognome è quello di Salvini. La crisi e le divisioni di Ncd e Fi all’indomani dell’elezione di Mattarella al Colle creano panico, abbandoni, tentativi di passare con il partito emergente. C’è chi bussa alla porta dei capigruppo leghisti Centinaio e Fedriga perché deluso da Berlusconi o da Alfano e anche «per passione e non per le poltrone». Secondo Salvini è il caso di Barbara Saltamartini, la portavoce Ncd. Il Carroccio non è «il tram “salva riciclati”», avverte Salvini. «Non mi interessano quelli che hanno passato cinque partiti. Conosco la Saltamartini e non è una di queste». Si era già dimesso il capogruppo al Senato Sacconi, ieri ha annunciato il suo addio Giuliano Cazzola, ex parlamentare Pdl ed esperto di previdenza, candidato Fi alle Europee lo scorso anno. Rimane invece l’altro capogruppo, Nunzia De Girolamo (« Io alla Lega? fantasia giornalistica»). Gasparri liquida tutto come «patetico turismo politico» mentre la «tendenza Matteo» rischia di divorargli il partito. Sorvegliati speciali alcuni parlamenti azzurri ex An del Centro e del Sud dove il Carroccio sta facendo più scouting. Occhi puntati sui senatori Augello, Aracri e Fazzone, ma per il momento si tratta solo di sospetti senza alcuna conferma.
Calderoli, «c’è la fila»
Ci potrebbe essere tanta millanteria nelle parole dei leghisti che parlano di parlamentari a decine pronti al salto sul Carroccio. Ma la crescita elettorale e gli spazi di rielezione che può garantire Salvini (a parte la solita «passione politica» tutta da dimostrare) portano a credere a quello che dice Calderoli. «C’è la fila. Non facciamo campagna acquisti, non abbiamo interesse a fare da scialuppa ai naufraghi. Se oggi dovessimo di dire di sì a tutti quelli che ci hanno chiesto di passare con noi, si potrebbe fare un gruppo parlamentare sia alla Camera sia al Senato». In sostanza, 20 a Montecitorio e 10 a Palazzo Madama. Trenta pronti a lasciare il loro partito. «Ho avuto contatti con senatori di Fi, Ncd, con ex grillini e grillini in carica». Calderoli spiega che i nuovi arrivati non entreranno nel gruppi della Lega, dove rimangono solo gli eletti del Carroccio: dovranno formare un gruppo autonomo denominato «per Salvini».
Alfano, «chi ci sta ci sta».
Il ministro dell’Interno prende atto del «forte malumore», si assume la responsabilità di avere deciso il voto a favore di Mattarella. Detto questo, Alfano sostiene che ora farà sentire la sua voce nel governo, ma non intende trattenere nessuno. Enrico Costa, viceministro della Giustizia è critico sui cambi di casacca, come quello della Saltamartini. «Dopo avere fatto un percorso politico accanto ad Alfano, come si fa a passare con Salvini che vede in Alfano il suo peggiore nemico?».

Corriere 2.2.15
Un tramonto doloroso
La dissoluzione del centrodestra
Lo spettacolo umiliante di questi giorni ne rivela l’insipienza tattica e la confusione. L’unico in partita è Salvini, ma è l’opposto di una cultura di governo
di Pierluigi Battista
qui

Corriere 2.2.15
Centrodestra al bivio
Mattarella, lo sgarbo e il futuro del patto del Nazareno
di Angelo Panebianco
qui

Repubblica 2.2.15
L’andirivieni tra Matteo e Silvio che porta Alfano in un vicolo cieco
Con la marcia indietro sul Quirinale si salvano i posti nel governo, ma svanisce il quid politico
L’idea di riunire i moderati extra-Berlusconi si coltiva fuori dalle astuzie
Occorre slancio sui temi liberali. L’alternativa è una nicchia del 3 per cento
di Stefano Folli

IL PARADOSSO del centrodestra, uscito disintegrato dalle grandi manovre di Renzi, è tutto in una circostanza: il vicolo cieco di Alfano, capo del piccolo partito centrista che avrebbe dovuto costruire l’alternativa «moderata» a Renzi e al Pd. È facile parlare di dissesto complessivo di Forza Italia e dell’ultimo Berlusconi, ma la crisi parte dalla tenaglia che ha imprigionato l’Ncd-Udc dopo l’andirivieni intorno alla candidatura Mattarella. Si è creata una di quelle situazioni, rare e maledette, in cui si perde comunque, quale che sia la mossa compiuta. Inutile dire che i politici accorti fanno il contrario: si tengono una porta aperta, in modo da apparire vincitori in ogni caso. Alfano e i suoi hanno fatto l’opposto. Scenario uno: se fossero rimasti ancorati al «no», in sintonia con Berlusconi, avrebbero dovuto uscire dal governo. Come è noto, Alfano è ministro dell’Interno; Lupi dei Trasporti e delle Infrastrutture; Beatrice Lorenzin della Sanità; Casini è presidente della commissione Esteri del Senato. Una compagine ben rappresentata, perfino troppo rispetto alla forza elettorale e al peso politico. Se avessero rifiutato di eleggere il cattolico Mattarella per restare a fianco di Berlusconi, avrebbero perso tutto.
Viceversa — scenario due — con il ritorno sotto l’ombrello di Renzi i centristi hanno salvato gli incarichi, ma non la loro ragion d’essere. Oggi sono diventati un «cespuglio » del renzismo, o se si vuole del «partito della nazione» vagheggiato dal premier con argomenti convincenti. La prospettiva strategica (costruire tassello dopo tassello una nuova area moderata post- Berlusconi) appare ormai archiviata: o meglio, diventa un generico progetto buono per i «talk show», quando si tratteggiano le «vaste praterie » del consenso che si aprirebbero al di là di Renzi e prima di arrivare all’anti-Europa di Salvini.
La permanenza nel governo è consolatoria, ma — come è ovvio — non serve a costruire un’alternativa a Renzi. Anzi, dopo la marcia indietro su Mattarella, Alfano dovrà stare attento a non alzare troppo la voce con il presidente del Consiglio. Certi ministeri di peso sono a rischio e non a caso anche all’interno del Ncd si avvertono mormorii critici. È quindi uno scomodo paradosso. I centristi avrebbero perso in ogni modo, ma oggi è la loro prospettiva politica che si è disfatta. Per mascherare le difficoltà, avrebbero avuto bisogno che il «patto del Nazareno » resistesse secondo l’interpretazione iniziale: un condominio Renzi-Berlusconi per la gestione della legislatura, una vera e propria diarchia. Il primo alla guida del governo, il secondo come semi-alleato debole ma utile. Dentro tale cornice, Alfano e Casini avrebbero legittimato un ruolo di cerniera. Ne sarebbero derivati riconoscimenti pubblici e istituzionali, anche se forse la presidenza della Repubblica era troppo pretendere.
Oggi il mondo si è capovolto e i centristi sono di fronte all’alternativa: o essere irrilevanti nel governo Renzi o abbandonare presto o tardi la vita di rendita per cominciare una traversata del deserto (nel vero senso del termine). In fondo l’idea del «partito della nazione» in origine era di Casini, il quale però, a differenza di Renzi, non ha saputo o voluto svilupparla. Può darsi che esista ancora lo spazio per un secondo partito «nazionale », secondo la teoria di Parisi, ma allora bisogna prepararsi a edificarlo al di fuori del piccolo cabotaggio quotidiano e delle piccole astuzie tattiche. Occorrono temi e proposte di natura liberale; un progetto per le istituzioni che non sia solo la clausola del 3 per cento nella riforma elettorale; un europeismo che non ricalchi i vecchi, collaudati modelli.
Senza dubbio un simile disegno va al di là di Berlusconi, anzi tende a superare Forza Italia e i suoi tormenti. In fondo Salvini e la sua Lega nazionalista dimostrano che è possibile farlo, sia pure da un posizione incompatibile con una prospettiva di governo. C’è anche un’altra strada: limitarsi agli accordi di sopravvivenza in vista delle elezioni regionali. Ma allora occorre rassegnarsi a lasciare a Renzi tutto il campo, accontentandosi di una nicchia del 3 per cento.

Il Sole 2.2.15
Il dilemma di Alfano e i numeri del governo che ballano al Senato
di Lina Palmerini

Il rischio di scissioni nel partito di Alfano rimane la vera incognita per la tenuta del Governo che al Senato ha un margine di voti di maggioranza ridotto. Dunque, un chiarimento servirà ma le accuse che Ncd fa a Renzi di aver spostato l’asse a sinistra non reggono.
Non c’è nulla di più mobile di Matteo Renzi, soprattutto sull’asse destra-sinistra. Quindi l’indice puntato contro di lui dal partito di Alfano - e soprattutto da chi sta per lasciare - di aver spostato il baricentro verso la sinistra Pd e addirittura verso Sel è una falsa accusa. Nel senso che è chiaro a tutte le forze politiche come la linea del premier possa cambiare spesso e velocemente prospettiva. Ha scelto politiche più di sinistra come il bonus di 80 euro in busta paga ma ha anche virato su gesti più tradizionalmente di destra come la rottura con la Cgil - e anche con la Uil - e poi con la scelta di intervenire per modificare l’articolo 18. Lo spiegava molto bene Luca Ricolfi nel suo primo editoriale di quanto Renzi sia capace di occupare entrambi questi campi tradizionali sia pure trascurandone un terzo che invece è cresciuto – molto e in fretta - in questi ultimi anni e che rappresenta la società degli esclusi, degli outsiders. E, così, spiegano anche politologi come Antonio Marraffi che nella sua mappa socio-economica del partito di Renzi lo definisce catch-all, “pigliatutto”, proprio per la capacità di non puntare su un solo segmento elettorale, targato politicamente, ma su tutti.
Dunque, se la battaglia del Nuovo centro-destra parte da questa base o è pretestuosa oppure alcuni non hanno ancora chiaro il profilo politico del premier che non può essere incasellato in un’identità più di sinistra o di destra ma su entrambe. Il leader del Pd sembra aver superato questa barriera che separa il confine delle due storie politiche, la valica e quasi la ignora perché non ce l’ha come punto di riferimento. E lo stesso dovrebbe accadere anche a un partito moderato che intendesse fare opposizione a Renzi. Non è più quello lo spartiacque come dimostra anche il caso “estremo” della Grecia.
Chi in Italia stava già festeggiando la vittoria di Syriza e di Tsipras si è ritrovato qualche ora dopo a dover commentare quell’alleanza con un partito che nasce dalla destra e che ha preso voti per posizioni politiche che somigliano più alla Lega - le proposte contro gli immigrati e i diritti civili - che ai 5 Stelle. Dunque quella alleanza contro l’Europa del rigore nasce da una fusione, anche piuttosto fragile come si vede dai primi passi, tra opposte culture legate solo da un obiettivo concreto che è quello di piegare Bruxelles e non pagare il debito. Obiettivo ambizioso, probabilmente non realizzabile, ma questo diventa il primo caso di una coalizione tra forze agli antipodi, una alleanza congiunturale fatta ad hoc contro l’Europa: insomma, una versione hard delle nostre larghe intese, anche se con un obiettivo diverso e opposto.
Il bivio di Angelino Alfano ora è tutto qui. Se scegliere quella permanenza del Governo in nome di un obiettivo - la crescita economica dentro il sentiero dell’euro - oppure abbandonarlo e passare all’opposizione per conquistare un’alleanza con Berlusconi alle elezioni regionali. Con una complicazione in più: che a spingerlo su questo bivio e obbligarlo a una scelta c’è Matteo Salvini che non lo vuole nelle coalizioni regionali se resta in maggioranza con Renzi. È vero che i territori e il ceto politico locale è vitale per Ncd ma una scelta è inevitabile. Una scelta che potrebbe costare alcune perdite tra i senatori (36 in tutto con l’Udc), già molto vicini a Forza Italia o alla Lega. E allora i numeri al Senato cominceranno a ballare anche per il Governo di Renzi.

Il Sole 2.2.15
Dopo il Colle
Adesso Renzi si gioca tutto sull’economia, no retromarce
di Fabrizio Forquet

Con l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, Matteo Renzi e il suo governo hanno superato indenni un passaggio a triplo coefficiente di difficoltà. L’Italia può contare oggi su un capo dello Stato di solida competenza e affidabilità. Non era scontato e va a merito di Renzi. Secondo un’espressione in voga di questi tempi, si direbbe che nel sistema politico la chiesa è stata rimessa al centro del villaggio.
Adesso però il villaggio ha bisogno di tornare a crescere, ha necessità urgente di grano e farina, di olio, di vino e di legna da ardere, perché è troppo tempo che i suoi abitanti – per dirla con il capo dello Stato – sono in difficoltà ed è tempo di ridare loro speranza. Anche perché è nella crisi del Paese e nella sofferenza di ciascuno che si fanno largo gli illusionismi pericolosi dei demagoghi cinici a caccia di facili consensi.
Mai come oggi le circostanze esterne consentono di “vedere” la ripresa: la crescita Usa a livelli record, l’iniezione di 60 miliardi al mese nell’economia europea attraverso il Quantitative easing, il basso prezzo del petrolio, il cambio favorevole con il dollaro di cui possono avvantaggiarsi le nostre imprese esportatrici (senza bisogno di vagheggiare impraticabili e dannose uscite dall’euro). Dalla Banca d’Italia al Centro studi di Confindustria, passando per la gran parte dei report delle banche internazionali, per la prima volta da anni la sequenza delle previsioni favorevoli è univoca. Anche i consumi danno segnali di risveglio, così come l’occupazione, con le imprese che sembrano pronte a creare lavoro più stabile.
Non mancano però gli elementi di preoccupazione. Dall’involuzione della situazione politica e finanziaria greca, che solo alcuni fatui cantori nostrani di Tsipras possono leggere come un’opportunità per l’Italia (il nostro Paese tra le altre cose è creditore netto della Grecia per almeno 36 miliardi di euro); agli scenari internazionali - la Russia, la Libia - che stanno mettendo in ginocchio aree economiche di stretto interesse per l’Italia.
Preoccupano, poi, i tanti nodi irrisolti di un’economia che continua ad avere il record di pressione fiscale sulle imprese, pochi investimenti, alto debito e una burocrazia che toglie ogni fiducia nella libera iniziativa.
Per queste ragioni, positive e negative, Renzi non può fermarsi. Non perda un attimo con i “tormenti” dell’Ncd, lasci perdere la mappa esatta dei contenuti del Patto del Nazareno, di Civati se ne faccia una ragione. Risolta al meglio la questione del Quirinale, il premier deve tornare immediatamente a occuparsi a pieno regime dell’economia, per cogliere le spinte esterne e rafforzare la fiducia interna che è l’unica vera benzina della ripresa. La stessa salute del suo governo alla fine dipenderà da questo, dal rilancio dell’economia. Ma soprattutto da questo dipenderà la salute dell’Italia e degli italiani.
La telefonata di Draghi a Mattarella subito dopo il voto del Parlamento la dice lunga sull’ordine delle priorità. Economia, economia, economia. Deve riprendere a correre Renzi. E deve cominciare da tre urgenze: investimenti, prima di tutto, Jobs Act e decreti fiscali.
Sugli investimenti pubblici la partita deve giocarla tutta in campo europeo e tra le strette linee dei vincoli di bilancio. Ma è nel rilancio degli investimenti privati che in queste settimane il governo e il Parlamento possono e devono fare di più, rafforzando l’Investment Act che è arrivato in Parlamento senza parti importanti come le tutele per gli investimenti, gli incentivi fiscali alle reti d’impresa, gli industrial bond. Ma anche dando più spazio alla legge Sabatini per il rinnovo dei macchinari e allargando il più possibile i confini del credito di imposta.
Sull’attuazione del Jobs Act e della delega fiscale siamo alle battute decisive. Sarebbe davvero un delitto se sull’altare della rinnovata unità del Pd si facessero passi indietro sul terreno del riformismo. L’introduzione senza ulteriori indugi del contratto a tutele crescenti può contribuire, insieme agli sgravi contributivi e fiscali già in vigore, a dare una spinta alle assunzioni e alle stabilizzazioni, rendendo strutturale la tendenza positiva avviata a dicembre scorso. Ma il Consiglio dei ministri del 20 febbraio (non è possibile anticipare?) potrebbe varare almeno altri due decreti attuativi della legge 183: quello di riordino dei contratti, dove vanno evitate tentazioni di nuovi irrigidimenti che vanificherebbero quanto di buono è stato fatto finora, e quello della revisione degli incentivi.
Il 20 febbraio è previsto anche l’appuntamento con i decreti legislativi sul fisco. Renzi tolga dal terreno la norma salva-Berlusconi sul 3% di franchigia nel caso di evasione e frode fiscale. Ma introduca una vera certezza del diritto per tutte le imprese che rispettano le leggi, con una soglia ragionevole di tolleranza sui veri errori materiali, senza l’assurda vessazione di chi oggi subisce la concorrenza dei veri evasori e fatica a districarsi nel labirinto delle norme e degli adempimenti.
C’è poi la delega sulla pubblica amministrazione che deve recuperare il tempo perduto in Parlamento, senza dimenticare i delicatissimi dossier della giustizia civile e penale e della scuola.
Non c’è tempo insomma per compiacersi della vittoria nella battaglia del Quirinale. Rust never sleeps. Le riforme non aspettano. E se sul riassetto costituzionale dovrà essere ancora Berlusconi l’interlocutore di Renzi, su tutto il resto la maggioranza dovrà dimostrare di non perdere la sua spinta innovatrice. Chi nel Pd dovesse in queste ore pensare il contrario, contando magari su un’inedita sponda sul Colle, vuol dire che non conosce davvero Sergio Mattarella.

Corriere 2.2.15
Roma. Il buco nero dei servizi pubblici
In rosso anche le farmacie. Atac, gli autisti guidano la metà che a Milano
Quasi 200 milioni spesi in attività finanziarie. E Roma è l’unico Comune ad avere una compagnia assicurativa «in casa»
di Sergio Rizzo
qui

Corriere 2.2.15
Campidoglio, gli 11 «irriducibili» dei rimborsi “d’oro”
Il Comune continua a pagare i consiglieri per il lavoro privato. Il capogruppo Panecaldo «È ora di finirla»
Da Valentina Grippo (Pd) a Imma Battaglia (Sel), fino a Roberto Cantiani (Ncd) assunto nel bar di famiglia
di Alessandro Capponi
qui

Il Sole 2.2.15
Obama si schiera con Tsipras:
«Non si può continuare a spremere Paesi in profonda depressione»
qui

il Fatto 2.2.15
Israele, dipinti e parole sulla nuova barriera
Contro il muro con i colori della pace
Un nuovo muro di settecento chilometri divide israeliani e palestinesi
Ma contro la barriera di cemento alta dieci metri si sfogano i colori della pace e della speranza di giovani e artisti arrivati da tutto il mondo
di Serena Fiorletta

Questa strada non è più una strada. Non ci passa nessuno. Ci sono solo io e la mia pompa di benzina”, le parole di Mohammed risuonano nel vuoto e nella luce di una sera al tramonto, resa livida dai fari di una torretta di controllo. Non ci sono persone, non ci sono macchine, questa via si è trasformata, è uno spazio nuovo, un “non luogo” creato dal muro di divisione eretto tra Israele e i territori palestinesi in Cisgiordania. Nei dintorni non c’è praticamente nulla, i resti di negozi e ristoranti sono rintracciabili solo da vecchie insegne che testimoniano una vita chiusa in fretta, alla stessa velocità con cui è stata tirata su la famosa barriera di sicurezza o altrettanto noto muro della vergogna, dipende solo dalla prospettiva da cui si guarda.
Siamo a Betlemme, di fronte a una successione di pannelli alti dieci metri, che corrono oltre 500 chilometri tracciando confini, definendo spazi, levando il fiato. La barriera di separazione, che ultimata dovrebbe superare i 700 chilometri, è un insieme di cemento, filo spinato e fossati, intervallati da porte e corridoi, controllati dall’esercito israeliano per regolare l’accesso e l’uscita di persone da una zona all’altra. Il governo Sharon ha approvato e iniziato la costruzione di questa barriera nella primavera del 2002, nonostante nel 2004 la Corte internazionale di giustizia dell’Aia l’abbia dichiarata illegale, i lavori proseguono. “Il muro è ovunque, ti entra nella testa”, racconta Fathi, maestro alle elementari in un villaggio della West Bank. “La scuola dove insegno è praticamente circondata, apri la finestra e lo trovi a trenta centimetri dal tuo viso. I bambini lo disegnano in continuazione, fa parte della loro vita ormai”. E se i più piccoli lo disegnano sui quaderni gli adulti ci disegnano sopra.
Si srotola come una tela
Andare a piedi da Betlemme a Gerusalemme, il percorso raccontato dalle foto di Maia Galli, vuol dire seguire il tracciato del muro, che si srotola come una tela, lunga, bianca, a disposizione. Ma se non può essere bucata, squarciata come in note opere di arte contemporanea, poiché di cemento armato, può essere riempita di scritte, dipinti e graffiti. Sono diversi gli artisti che hanno preso parte a questa enorme insatallazione involontaria, a partire da Banksy, passando per Wisam Salsaa, fino ad arrivare all’italiano Blu, lasciando all’arte la capacità di esprimersi contro l’oppressione, come raccontato nel libro del giornalista William Perry, Contro il muro. L’arte della resistenza in Palestina. Ma ancora di più sono le scritte e la testimonianza della gente comune che con il muro ci convive, delle numerose persone, provenienti dalle parti più disparate del mondo, che hanno sentito la necessità di dire qualcosa, lasciando un segno e rendendolo, paradossalmente, un simbolo di libertà. Questa barriera di cemento infatti oggi può essere letta, racconta una storia e lo fa da diversi punti di vista, in lingue differenti e attraverso disegni che si trasformano in opere d'arte. Camminare tra queste due città, in un percorso antico di secoli, vuol dire farlo guardando in alto, perché se questa costruzione mette angoscia e fa paura, esercita anche un'incredibile attrazione attraverso la narrazione fatta da coloro che hanno percorso lo stesso tratto di strada. Tante le scritte che richiamano alla pace, alla fine del conflitto, ci sono colombe, bambini, una grande scritta in rosa dice che “la pace è più conveniente”. Moltissimi i disegni che vogliono andare oltre l’ostacolo, bambine che lanciano cuori, palloncini che ti sollevano oltre il muro, mongolfiere che si innalzano sull’ostilità, occhi che tentano di vedere cosa c’è al di là. Due bambine con le trecce sono rappresentate chine e con le mani nell'interstizio tra i pannelli nel tentativo di aprire un varco. Il muro infatti non è frontiera da passare, è invalicabile, taglia a metà case, vite, nega ogni quotidianità. È barriera fisica e culturale su cui si innesta la violenza che attraversa queste terre.
Un simbolo collettivo
Se in questi giorni, dopo gli attentati di Parigi, si è fatta fatica ad andare oltre le facili dicotomie che contrappongono buoni e cattivi, religioni giuste e sbagliate, noi e loro, di fronte a questa barriera diventa impossibile. Si vuole cancellare qualunque forma di comunicazione e ristabilire facili ruoli: il muro taglia, definisce, semplifica, dicotomizza, nega il dialogo. Lo stesso percorso che facciamo è tortuoso e in alcuni tratti si può proseguire solo in fila indiana, non c’è spazio per due persone che possano camminare vicine, la realtà fisica e quella simbolica si compenetrano costantemente. Eppure attraverso le opere fotografate una forma di comunicazione ha trovato spazio, il muro è diventato uno spazio di riappropriazione simbolica, un luogo fisico e ideale in cui si esprime il dolore collettivo, la rivendicazione e il diritto alla libertà.
Tra i disegni che segnano il tragitto c’è una Statua della libertà che piange mentre tra le braccia tiene un bambino, una sorta di Pietà contemporanea. Le lacrime della statua, simbolo condiviso in buona parte del mondo occidentale e non solo, parlano in modo esplicito della violazione e negazione di un bene prezioso quale è la libertà, mentre il bambino di spalle, esanime, non è solo la violazione condivisa del diritto all'infanzia, è anche un simbolo conosciuto in tutto il Medio oriente. È Handala, personaggio uscito dalla matita dell'artista palestinese Naji al-Ali, ucciso in un attentato a Londra nel 1987. Non mancano ovviamente scritte esplicite contro Israele, inviti alla lotta e alla resistenza. Il muro è lungo e la storia di queste terre lo è altrettanto, sarebbe sciocco descriverlo solo come un messaggio di pace, è una lunga narrazione di sofferenza e rivendicazioni.
Ma le frasi e i disegni sulla libertà sono la maggior parte lungo questo tratto e sembrano andare oltre il conflitto in questione, o meglio è facile pensare che le scritte che leggiamo possono essere adatte a qualunque dei numerosi muri ancora esistenti sul pianeta, eretti tutti dopo la creazione del più noto muro di Berlino, a dimostrazione che la contemporaneità ancora assomiglia al suo passato. Eppure l’abbattimento della barriera che divideva la Germania è raccontato come un momento di passaggio importante di giustizia e civilità del nostro presente, dimenticando con imbarazzante disinvoltura le morti di chi tenta di attraversare quelle esistenti ancora oggi, basti pensare al muro che separa il Messico dagli Stati Uniti in funzione anti immigrazione. Il crollo del confine di cemento tra Palestina e Israele resta per ora difficilmente immaginabile ma è rappresenato, in una sorta di metacomunicazione visiva, sul muro stesso. Vi è infatti un disegno molto grande in cui si vedono i pannelli che formano la barriera a terra, ridotti in pezzi, incrinati e che lasciano finalmente intravedere una Gerusalemme, stavolta davvero liberata, disegnata nei minimi particolari su cui si leva una colomba ma soprattutto una scala che va oltre le nuvole. Anche se abbassando lo sguardo, una scritta in fondo, in italiano, si augura “che la libertà non sia solo sognata con il naso all’insù ma riconosciuta negli occhi dei tuoi fratelli”.

il Fatto 2.2.15
“Due popoli richiedono due stati”
di Barack Obama*

“I LEGAMI TRA Stati Uniti e Israele sono ben noti, questo legame non si può spezzare perché è basato su vincoli storici e culturali e sul riconoscimento che l’aspirazione per una patria ebraica affondi le proprie radici in un passato tragico che non può essere negato. Il popolo ebreo ha subito persecuzioni nel corso dei secoli e in tutto il mondo e, in Europa, l’anti-semitismo è culminato in un Olocausto senza precedenti. (...) D’altro canto è innegabile che la popolazione palestinese abbia sofferto nella ricerca di una patria. Per più di 60 anni hanno sopportato il dolore dell’essere profughi, molti attendono nei campi per rifugiati della Cisgiordania, di Gaza e delle regioni vicine la vita di pace e sicurezza che non hanno mai potuto condurre. I palestinesi devono sopportare le grandi e piccole umiliazioni quotidiane causate dall’occupazione. Sia dunque chiaro che la situazione della popolazione palestinese è intollerabile, l’America non ignorerà le legittime aspirazioni dei palestinesi di dignità, opportunità future e di un proprio Stato. Per decenni siamo rimasti in una situazione di stallo: due popoli con aspirazioni legittime, entrambi con una storia dolorosa alle spalle che rende difficile il compromesso. È facile puntare il dito, (...) tuttavia, se osserviamo il conflitto da uno solo dei due punti di vista non riusciremo a riconoscere la verità: l’unica soluzione è che le aspirazioni di entrambi i popoli vengano soddisfatte con la creazione di due Stati dove sia israeliani che palestinesi possano vivere in pace e sicurezza. Questa soluzione è nell’interesse di Israele, dei palestinesi, degli Stati Uniti e del mondo intero e per questa ragione ho intenzione di impegnarmi per raggiungere quest’obiettivo. Gli impegni sottoscritti dalle due parti nella Road Map sono chiari e affinché ci sia pace è tempo per loro di dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità (...)”.
*Il Cairo, 4 giugno 2009

Corriere 2.2.14
Gli ombrelli di Occupy si riaprono a Hong Kong
La Cina non può spegnere un movimento rinato
di Guido Santevecchi

Gli ombrelli gialli si sono riaperti a Hong Kong. Per la prima volta dopo la fine, a dicembre, dei 79 giorni di Occupy Central che paralizzò la City, i manifestanti del fronte democratico sono tornati in strada. Nessuna occupazione, solo una marcia. Ieri erano in 13 mila, secondo gli organizzatori, non più di 6.600 nei calcoli della polizia, che per precauzione aveva schierato 2 mila agenti. I numeri non sono quelli delle settimane «gloriose» dell’autunno scorso, quando i giovani accampati sulle superstrade di Hong Kong erano cresciuti fino a centomila in un solo giorno. Però la richiesta non cambia: nelle elezioni per il governatore della città previste nel 2017 il movimento democratico non si accontenta del finto suffragio universale concesso dal governo centrale di Pechino, che in cambio pretende di controllare e circoscrivere la lista dei candidati a non più di due o tre, «amanti della madrepatria cinese» e quindi del partito comunista.
   Nei 79 giorni di Occupy Central i protagonisti sono stati gli studenti che avevano scavalcato i due professori universitari e il reverendo fondatori del movimento. Molte voci sagge si erano levate, dopo le prime settimane, per suggerire ai ragazzi di ritirarsi incassando un successo d’immagine inimmaginabile all’inizio. I più anziani non erano stati ascoltati e alla fine il movimento si era logorato perdendo parte del sostegno popolare. Lo sgombero dei blocchi stradali, su ingiunzione del tribunale (indipendente) di Hong Kong, era sembrato quasi una liberazione, per tutti. Ma il problema era solo rimandato.
   Ieri in testa al corteo c’erano di nuovo anche i professori, al fianco dei ragazzi. Promettono di usare tattiche «nuove e creative». Soprattutto sono tornati uniti, hanno mostrato la capacità di rigenerarsi e rilanciare la sfida. Dai 79 giorni di Occupy è sbocciata la consapevolezza di un’intera generazione che rappresenta il futuro di Hong Kong. E Pechino non può cancellarla.

Il Sole 2.2.15
Valute globali. In aumento i centri di compensazione offshore
Il renminbi espande il raggio d’azione dal Qatar al Canada
di Rita Fatiguso

PECHINO Nel bel mezzo della tormenta scatenata dallo sganciamento del franco svizzero dall’euro e a un filo dal mega-quantitative easing della Banca centrale europea, la Svizzera ha siglato con la Cina un accordo da 8 miliardi di dollari Usa da impegnare in quote Rqfii (Renminbi qualified foreign institutional investors), un meccanismo che permetterà agli svizzeri di investire in Cina direttamente nella valuta di Pechino, dribblando euro o dollaro Usa.
Accordo con la Svizzera
Forte del free trade agreement Cina-Svizzera in vigore dallo scorso mese di luglio, il secondo in Europa dopo quello con l’Islanda, il premier Li Keqiang ha però creato le basi per qualcosa di più: vuol fare di Zurigo un hub per il clearing del renminbi, e tutto ciò proprio nel cuore dell’Europa. L’ok delle autorità svizzere all’operatività di una banca cinese in Svizzera è il prerequisito per un accordo swap bilaterale per fare di Zurigo un centro offshore sul renminbi che sarebbe l’ultimo, ma solo in ordine di tempo, rispetto a quello di Lussemburgo, Parigi, Londra, Francoforte. Finora ben 71 istituzioni finanziare hanno attinto alle quote Rqfii impegnando nel 2014 un totale di 250,3 miliardi di yuan.
Dietro le quinte del World economic forum di Davos la diplomazia economica cinese si è mossa con agilità, incassando un enorme dividendo e seguendo, per giunta, uno schema già visto in tutto il mondo. La strategia win-win, che è la stessa perseguita in mezzo mondo con un’enorme accelerazione nel 2014, è quella di ridurre i rischi di cambio per i cinesi nel trading con i Paesi coinvolti, fare business in renminbi è meglio che farlo in euro o dollari, ma anche per i Paesi coinvolti nel clearing c’è un potenziale benefit.
La Svizzera è buon ultima in questo processo di apertura della moneta di Pechino, nato nel 2003 con Hong Kong, ancora oggi la piazza numero uno per il clearing del renminbi, ma la strategia ormai è diffusa in tutti i continenti. Intanto Pechino internazionalizza la sua moneta ancora non convertibile. Il paradosso è proprio questo: la Cina ha una moneta formalmente non convertibile, il cambio di marcia si verificherà solo entro il 2020, almeno teoricamente. Intanto, come ha dichiarato al Sole 24 Ore il 22 gennaio il numero uno di Icbc, Jiang Jiangqing, il 90% nei traffici è già in renminbi, adesso bisognerà istituzionalizzare il processo e non è escluso che la data del 2020 possa essere anticipata.
La Cina, poi, ha appena incassato dalla Society for Worldwide Interbank Financial (Swift) la corona della quinta valuta più utilizzata al mondo, superando il dollaro canadese e quello australiano. A dicembre la moneta cinese ha raggiunto la quota elevata record del 2,17% dei pagamenti globali per valore, rispetto allo 0,63% del gennaio 2013 (tanto per capire, lo yen giapponese è a quota 2,69%).
Crescita a tre cifre
In tutto ciò un ruolo strategico l’hanno avuto proprio i centri di compensazione offshore del renminbi, ben otto con la Bank of China, 14 in tutto. I pagamenti in renminbi sono cresciuti in valore del 20,3% nel mese di dicembre, a fronte di un aumento del 14,9% per tutte le valute. Negli ultimi due anni il renminbi ha mostrato una crescita a tre cifre in linea con l’aumento del valore dei pagamenti del 321 per cento. La valuta cinese ha continuato la sua ascesa nel posizionamento come mezzo di pagamento globale, il commercio e gli investimenti di valuta, con il supporto di una rete in rapida espansione di centri di yuan offshore, che facilitano l’accesso diretto ai mercati finanziari onshore della Cina. Il trading offshore è cresciuto del 350%, il che dovrebbe incentivare anche l’emissione di obbligazioni dim sum (così si chiamano le obbligazioni denominate in yuan emesse offshore) da parte di cinesi e di altri governi, istituzioni finanziarie e società. Insomma, nel 2015, il futuro sarà ancora del renminbi.

La Stampa 2.2.15
Da Platone a Mendeleev: la chimica è filosofia
di Piero Bianucci

Nel 1976 Ermanno Bencivenga, calabrese laureato in filosofia a Milano, iniziava la sua carriera di cervello in fuga prendendo a Toronto (Canada) un dottorato che lo avrebbe portato in cattedra all’Università della California, dove ancora si trova. In quel tempo, alla domanda di che cosa si occupasse la ricerca chimica, la risposta era: di meccanica quantistica. Sembrava che, esaurita la ricerca a livello molecolare e atomico, lo studio della materia potesse procedere solo scendendo alla scala delle particelle elementari. In sostanza, la chimica, così cara a Primo Levi anche come scuola di vita, era scomparsa, assorbita nella fisica.
Per ridare uno status alla chimica, Bencivenga si è alleato con Alessandro Giuliani, uno statistico che lavora all’Istituto superiore di Sanità di Roma. Il risultato è un libro dal titolo spiazzante: Filosofia chimica (Editori Riuniti, pp. 138, € 15). Il sostantivo comanda l’aggettivo. Domina quindi la parola filosofia. Ma l’aggettivo non è ancillare. Il titolo significa che la chimica è una forma di pensiero, un approccio generale all’esperienza, dunque (una) filosofia.
Bencivenga e Giuliani lo dimostrano con richiami a Platone, Hegel, Kant, e ripercorrendo le tappe della conoscenza chimica: concetto di valenza, concetto di molecola (Avogadro), Tavola Periodica degli elementi (Mendeleev), stereochimica (con Giulio Natta in evidenza), scoperta che conta più la forma (della molecola) che il contenuto. Non solo. La chimica ha elaborato un linguaggio che con pochi suffissi descrive la struttura delle molecole e ha introdotto la distinzione tra ordine (cristalli) e caos (gas).
Tutto ciò porta a individuare la chimica come una «terra di mezzo» tra il mondo macroscopico che è il nostro e il mondo subatomico dei fisici delle particelle. La chimica ha pieno diritto di cittadinanza perché con i suoi 92 elementi e 4 livelli di organizzazione strutturale individua una scala mesoscopica che è solo sua. Una lezione contro gli eccessi sia del riduzionismo sia dell’olismo. Così come il libro ambisce a una terza via tra divulgazione becera e specialismo accademico.

Repubblica 2.2.15
Missione atomica, così la spia Philby fece scappare Pontecorvo in Urss
Lo scienziato e l’agente: un libro rivela i rapporti tra i due all’ombra dei sovietici
di Enrico Franceschini

UNO è il grande fisico italiano che aderì al comunismo, fuggì avventurosamente in Unione Sovietica con tutta la famiglia durante la guerra fredda e aiutò Mosca a sviluppare la sua prima bomba atomica. L’altro è il più famoso doppiogiochista britannico, la spia di Londra che passò all’Urss dopo avere rivelato al Kgb i nomi di decine di agenti e informatori del proprio paese. Su Bruno Pontecorvo e Kim Philby sono stati scritti abbastanza volumi da riempire una libreria. Adesso ne è uscito uno che aggiunge un segreto da romanzo alla storia di questi due marxisti occidentali: fu Philby a scoprire che l’Fbi indagava su Pontecorvo e a mettere in moto l’operazione che nel 1950 condusse lo scienziato a scomparire senza dare spiegazioni durante una vacanza in Italia, per riapparire soltanto cinque anni dopo all’ombra del Cremlino.
Di famiglia ebraica, fratello del regista Gillo e del genetista Guido, allievo di Enrico Fermi e membro del “gruppo di via Panisperna”, la squadra di scienziati italiani che avviò le ricerche sulla fissione atomica, Pontecorvo si trasferì in seguito a Parigi, che lasciò nel 1940 con una borsa di studio per gli Stati Uniti poco prima dell’arrivo dei nazisti. In America non partecipò al “Progetto Manhattan”, il piano per costruire la bomba atomica, perché già sospettato di simpatie per il comunismo, ma dopo la guerra lavorò ancora in campo nucleare in Canada e quindi prese parte allo sviluppo delle armi nucleari in Gran Bretagna.
Dopo la fuga a Mosca collaborò alla creazione dell’atomica di Stalin, vivendo isolato a Dubna, la “città della scienza” sovietica, dove morì nel 1993, due anni dopo il crollo dell’Urss. Molti ritengono che, se avesse lavorato in Occidente, prima o poi avrebbe vinto il premio Nobel per la fisica. Non si era mai scoperto che cosa avesse esattamente provocato la sua fuga improvvisa dall’Italia insieme alla moglie e ai tre figli nel bel mezzo di una vacanza estiva. Ora un nuovo libro, Half life: the divided life of Bruno Pontecorvo , di Frank Close, anche lui uno scienziato, offre la risposta a un mistero durato più di sessant’anni.
La “pistola fumante” è una lettera top secret che l’autore ha potuto declassificare negli archivi di stato di Londra, scritta il 13 luglio 1950, pochi giorni prima che Pontecorvo fuggisse a Mosca. Il messaggio venne trasmesso dall’ambasciata di Washington del Regno Unito al direttore dell’Mi5, il controspionaggio britannico. Il testo afferma: «L’Fbi ci chiede qualsiasi informazione che possa essere in nostro possesso sul fatto che Pontecorvo sia attualmente impegnato in attività comuniste o che lo sia stato negli anni in cui viveva in America». La missiva aggiunge che non si trovavano più tre precedenti comunicazioni sull’argomento inviate dall’Fbi all’agente dei servizi segreti presso l’ambasciata britannica di Washington. E chi era a quell’epoca l’agente britannico dell’ambasciata? Kim Philby. Due dei suoi colleghi, che a loro volta facevano il doppio gioco con Mosca, fuggirono in Urss in quegli stessi anni; Philby li avrebbe raggiunti nel ‘63, precipitosamente, quando si rese conto che stava per essere smascherato e arrestato.
Èevidente, scrive Close nel libro, che fu Philby a distruggere i messaggi dell’Fbi, per proteggere Pontecorvo, e che fu di nuovo lui ad avvertire Mosca della richiesta di informazioni dell’Fbi sul fisico italiano nel luglio del 1950. A quel punto è verosimile che Mosca avvertì lo scienziato e Pontecorvo scomparve, «così in fretta da non portare con sé neanche il cappotto », nota il libro. Secondo cui aveva cominciato già da anni a passare segreti nucleari ai russi.
Fu una fuga rocambolesca: in aereo da Roma a Stoccolma e da Stoccolma a Helsinki, poi in auto fino al confine sovietico. Nel libro, uno dei figli di Pontecorvo, Gil, che allora aveva 12 anni e vive tuttora in Russia, rivela che suo padre fu chiuso dentro il bagagliaio dell’auto per passare la frontiera tra Finlandia e Urss. L’autore ha ricostruito perfino l’assegnazione dei posti sull’aereo da Stoccolma ad Helsinki: la madre e i tre figli sedevano insieme; Pontecorvo tra altri due passeggeri, guarda caso gli unici che avevano volato con lui da Roma e poi cambiato volo a Stoccolma per Helsinki, quasi sicuramente gli agenti del Kgb che lo avevano preso in consegna alla partenza dall’Italia.
Chissà se in Urss incontrò mai Philby, la “talpa” che spifferò a Mosca le indagini dell’Fbi nei suoi confronti e che tredici anni più tardi avrebbe varcato anche lui, come Pontecorvo, la cortina di ferro in nome della fede nel comunismo.

Repubblica 2.2.15
Miei cari giovani americani ecco perché l’odio non serve più
“Un evento nella vita dei maschi ritenuto un rito di passaggio è la guerra. Se un maschio torna a casa dalla guerra, specie se ha riportato ferite, quello è un uomo“
di Kurt Vonnegut

La stampa, che si occupa di sapere e capire tutto, constata che i ragazzi sono apatici (specie quando gli opinionisti non trovano altro di cui parlare)
Nel 1978, rivolto agli studenti di un college, un irriverente Kurt Vonnegut metteva a nudo i vizi della sua generazione. Quello e altri testi ora raccolti in volume

OGNI società primitiva che sia mai stata studiata aveva un rito di passaggio all’età adulta, con il quale quelli che prima erano bambini diventavano indiscutibilmente uomini e donne. Alcune comunità ebraiche onorano tuttora questa antica pratica, come sappiamo, e secondo me ne traggono beneficio. Ma, in generale, le società ultramoderne e industrializzate come la nostra hanno deciso di sbarazzarsi dei riti di passaggio all’età adulta — a meno che non si voglia contare il rilascio della patente di guida a sedici anni. Se lo si vuole contare, va detto che come rito di passaggio ha comunque una caratteristica molto insolita: l’età adulta può essere successivamente revocata da un giudice, anche a una persona anziana come me.
Un altro evento nella vita dei maschi americani ed europei che potrebbe essere considerato un rito di passaggio è la guerra. Se un maschio torna a casa dalla guerra, specie se ha riportato ferite serie, tutti concordano: quello è indubbiamente un uomo.
Quando sono tornato a casa, a Indianapolis, dopo aver combattuto in Germania nella seconda guerra mondiale, un mio zio mi disse: «Perbacco, adesso sì che sembri un uomo». Avrei voluto strangolarlo. Se l’avessi fatto, sarebbe stato il primo tedesco che uccidevo. Ero un uomo anche prima di andare in guerra, ma lui col cavolo che l’avrebbe ammesso.
Io avanzo l’ipotesi che privare i giovani maschi di un rito di passaggio all’età adulta nella nostra società attuale sia un espediente, ideato in maniera astuta ma inconscia, per rendere quei maschi ansiosi di andare in guerra, per quanto possa essere terribile o ingiusta una guerra. Esistono anche guerre giuste, ovviamente. Si dà il caso che la guerra in cui ero ansioso di combattere io fosse giusta.
E quand’è che una femmina smette di essere una bambina e diventa una donna, con tutti i diritti e i privilegi che ne conseguono? La risposta la sappiamo tutti, istintivamente: quando fa un figlio all’interno del matrimonio, è chiaro. Se quel primo figlio lo fa al di fuori del matrimonio, è ancora una bambina. Cosa potrebbe esserci di più semplice, più naturale e più ovvio – o, al giorno d’oggi e in questa società, di più ingiusto, insignificante e semplicemente stupido?
Secondo me faremmo meglio, per il nostro stesso bene, a ripristinare i riti di passaggio all’età adulta. [...] Molti di voi sapranno senz’altro che tutti i bianchi di nome Clark discendono da abitanti delle Isole Britanniche che si distinguevano per la loro capacità di leggere e scrivere. Un nero di nome Clark, ovviamente, discende con ogni probabilità da qualcuno che era costretto a lavorare senza paga né diritti di alcun tipo per un bianco di nome Clark. Famiglia interessante, i Clark. [...] Imparare a leggere e scrivere è tremendamente difficile. Ci vuole un’eternità. Quando rimproveriamo i nostri insegnanti per i bassi punteggi dei loro studenti nelle prove di lettura, fingiamo che sia la cosa più facile del mondo, insegnare a qualcuno a leggere e scrivere. Provateci, qualche volta, e scoprirete che è quasi impossibile.
A che serve essere un Clark, adesso che abbiamo i computer, i film e la tv? Clarkeggiare, attività assolutamente umana, è qualcosa di sacro. La tecnologia no. Clarkeggiare è la forma di meditazione più profonda ed efficace praticata su questo pianeta, e supera di gran lunga qualunque sogno fatto da un guru indiano in cima a una montagna. Perché? Perché i Clark, leggendo bene, sono in grado di pensare i pensieri delle menti umane più sagge e più interessanti di tutti i tempi. Quando i Clark meditano, anche se personalmente hanno solo un intelletto mediocre, meditano con i pensieri degli angeli. Cosa potrebbe esserci di più sacro?
E questo è quanto, in fatto di età adulta e di Clark. Rimangono da trattare soltanto due altri argomenti fondamentali: la solitudine e la noia. Qualunque sia la nostra età in questo momento, è sicuro che durante il resto della nostra vita ci annoieremo e ci sentiremo soli.
Ci sentiamo così soli perché non abbiamo abbastanza amici e parenti. Gli esseri umani dovrebbero vivere in famiglie allargate stabili, di mentalità affine, composte almeno di cinquanta persone ciascuna. [...] Il matrimonio è in crisi perché le nostre famiglie sono troppo piccole. Un uomo non può rappresentare un’intera società per una donna, e una donna non può rappresentare un’intera società per un uomo. Ci proviamo, ma c’è poco da meravigliarsi se così tanti di noi non reggono.
Quindi consiglio a tutti i presenti di entrare a far parte di associazioni di ogni tipo, per quanto possano essere ridicole, semplicemente per avere più persone nella propria vita. Poco impor- ta se tutti gli altri membri sono dei coglioni. Quello che ci serve è un gran numero di parenti di qualunque tipo. Quanto alla noia, Friedrich Wilhelm Nietzsche aveva da dire questo: «Contro la noia perfino gli dei combattono invano». È normale annoiarsi. Fa parte della vita. Imparate a tollerarlo [...].
La stampa, che si occupa di sapere e capire tutto, spesso constata che i giovani sono apatici (specie quando gli opinionisti e i commentatori non trovano altro di cui parlare o scrivere). La nuova generazione di laureati forse non ha assunto un certo tipo di vitamine o di minerali, magari il ferro. Hanno il sangue stanco. Gli serve il Geritol.
Be’, in quanto membro di una generazione più vispa, con un luccichio negli occhi e il passo scattante, vi voglio dire cos’è che ci teneva belli carichi quasi tutto il tempo: l’odio.
Per tutta la vita ho avuto gente da odiare, da Hitler a Nixon – non che siano minimamente paragonabili nella loro malvagità. È tragico, forse, che gli esseri umani riescano a trarre così tanta energia ed entusiasmo dall’odio. Se vi volete sentire alti tre metri e capaci di correre per cento chilometri senza fermarvi, l’odio batte di gran lunga la cocaina pura. Hitler ha fatto risorgere un paese sconfitto, in bancarotta e mezzo morto di fame grazie all’odio e nient’altro. Pensate un po’.
Perciò a me sembra abbastanza probabile che i giovani di oggi negli Stati Uniti d’America non siano effettivamente apatici, ma lo sembrino soltanto alla gente che è abituata ad arrivare all’estasi attraverso l’odio, insieme ad altre cose ovviamente.
I ragazzi [...] oggi non sono sonnacchiosi, non sono indifferenti, non sono apatici. Stanno solo portando avanti l’esperimento di fare a meno dell’odio. È l’odio la vitamina, o il minerale, o come lo vogliamo chiamare, che manca nella loro dieta; si sono accorti giustamente che l’odio, a lungo andare, è nutritivo quanto il cianuro. Quella in cui si stanno cimentando è un’impresa molto esaltante, e gli faccio i miei migliori auguri.
©2-013, 2-014 by Kurt Vonnegut Jr. Copyright Trust - minimum fax 2-015. Pubblicato in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency ( P-NLA).
Traduzione di Martina Testa
IL LIBRO Il testo di Vonnegut che qui anticipiamo è compreso nel libro Quando siete felici, fateci caso ( minimun fax, pagg. 107, euro 13). Il volume raccoglie una serie di discorsi dello scrittore americano dal 1979 al 2004. A sinistra, “Homecoming” di Norman Rockwell Sotto, Kurt Vonnegut ( 1922- 2007)

il Fatto 2.2.15
Nonno Facebook
Questo non un social per giovani
Identità Il bisogno di esprimere se stessi
di Paola Porciello

Il social più popolare festeggia 1,5 miliardi di utenti. Ma sulla rete spopola un blog che annuncia: ormai è defunto, “è come stare a un pranzo di famiglia dove ti senti un po’ a disagio”. Chi ha ragione? Quali app sostituiranno la creatura di Mark Zuckerberg? Genitori e figli raccontano come ci si controlla e ci si evita su internet
DIBATTITI ONLINE
Alto, corpulento, capelli corti e con la faccia da ragazzino, qualche brufolo a ricordare che non ha ancora compiuto vent’anni, Andrew Watts un simile successo non se lo sarebbe aspettato. Una ricerca su Google con il titolo “A teenager’s view on social media” genera 37 milioni di risultati. L’articolo in cui racconta come lui e i suoi amici interagiscono con i principali social network nella vita quotidiana, pubblicato su medium.com , ha scatenato un putiferio. Facebook viene dato per morto, avete letto bene: defunto. Twitter, non pervenuto. Non ne afferrano ancora il senso. Vanno invece a gonfie vele Instagram e Snapchat. Quest’ultimo, un servizio di messaggistica istantanea simile a Whatsapp, è quello dove Andrew e i suoi amici passano più tempo.
Pur consapevoli che le opinioni di Watts non possono essere generalizzate a tutta la popolazione di adolescenti, americani e non - diversi tra loro per razza, estrazione sociale, cultura e grado d’istruzione – rimane il fatto che l’articolo di un ragazzo fino a pochi giorni fa sconosciuto sta suscitando un dibattito nel quale si sono sentiti obbligati a dire la loro anche i guru dei social media, inondati da mail di colleghi e amici contenenti il link del suddetto articolo.
In fuga I teenager migrano altrove
Il fatto che Facebook stia perdendo mordente tra i più giovani è un fatto noto agli addetti ai lavori da tempo. Lo stesso Zuckerberg aveva accennato alla questione l’anno scorso, durante una conferenza stampa sugli introiti della società. Ma in quell’occasione preferì soffermarsi sui numeri: nei primi tre mesi del 2014 i ricavi avevano raggiunto i 45,5 miliardi di dollari, di cui 10,2 di utili.
Secondo un rapporto di iStrategy Labs tra il 2011 e il 2013 Facebook ha perso 3.314.780 utenti di età compresa tra i 13 e i 17 anni mentre ha guadagnato terreno tra i più maturi. Lo stesso trend si registra anche in Italia dove, sui 24 milioni di iscritti, il 65% ha più di 35 anni (dato di gennaio 2014). La notizia portò molti a immaginare una prossima presunta scomparsa del più grande social network. Ma questo non è successo e anzi, grazie al boom della pubblicità sui dispositivi mobile nel quarto trimestre 2014 i ricavi di Facebook sono saliti del 49%.
La fuga dei teenager verso altre realtà virtuali non sembra infatti spaventare più di tanto Zuckerberg. In un’intervista al New York Times ha spiegato che l’acquisizione di altre applicazioni qualiInstagram e Whatsapp (quest’ultima al prezzo di 19 miliardi di dollari), molto più “cool” e “hip”, servono proprio a questo. La strategia di marketing della società californiana è cambiata: “Oggi siamo centrati sul consumatore - spiega una portavoce di Facebook Italia - e ci adattiamo alle sue esigenze seguendo la direzione deui venti milioni che, in media, vengono a trovarci quattordici volte al giorno”. Fra questi ci sono gli adulti che stanno rapidamente conquistando ul territorio prima appannaggio esclusivo dei figli, ma con una maggiore capacità economica. Per non parlare del valore generato dalle informazioni sugli iscritti raccolte in questi anni: a fine 2013 ciascun utente valeva circa 2,14 dollari. Moltiplicate questa cifra per il miliardo e mezzo di utenti disseminati in tutto il mondo e capirete come il problema dei teenager possa in effetti essere marginale per la società di Cupertino.
Identità Il bisogno di esprimere se stessi
Nonostante ciò, nel 2012 Zuckerberg tentò disperatamente di acquisire Snapchat, molto in voga tra i giovani americani, ma senza successo. L’articolo di Andrew Watts ci aiuta a capirne ancora di più il motivo: “Facebook ce l’abbiamo tutti ma lo usiamo pochissimo. Instagram ci piace molto, ma il nostro social è Snapchat: è qui che ci possiamo esprimere liberamente senza sentirci giudicati, rimanendo ancorati alla nostra identità sociale”. Facebook non è più il luogo naturale di ritrovo, anzi “è come stare a un pranzo di famiglia con tutti i tuoi parenti – scrive Watts – dove ti senti un po’ a disagio e non vedi l’ora di andartene”.
L’account su Facebook spesso si ha già nell’infanzia, anche se sarebbe vietato prima dei 13 anni. Con grande apprensione dei genitori, molti dei quali si sono iscritti sperando di controllare i figli, per poi scoprire che piaceva anche a loro. Per le esigenze di un adolescente, però, può non andare. Watts spiega: “Su Instagram non sono costretto a seguire tutti quelli che mi seguono. Così il mio feed contiene solo cose che mi interessano davvero e non un agglomerato multiforme di contenuti spesso di scarsa qualità; se ‘mi piace’ una foto o se la voglio commentare sono molto meno preoccupato delle reazioni degli altri utenti; Instagram ancora non è popolata dagli adulti e non ci sono i link, il che significa che non verrò sommerso dalla pubblicità, dallo spam o da qualche orribile articolo di gossip”.
In sostanza, almeno per Watts e il suo gruppo di amici, è ancora obbligatorio avere Facebook, ma solo per poche attività residuali come le chat istantanee e i gruppi tematici o per cercare qualcuno che hai conosciuto a una festa.
Sembra finito anche il tempo in cui si faceva a gara per chi aveva il maggiore numero di amici (motivo per cui ci ritroviamo tra i nostri contatti persone che conosciamo appena o che non conosciamo affatto). Snapchat ad esempio non contempla né follower né amici. Messaggi e foto inviati rimangono visibili solo per pochi secondi: “C’è molta meno pressione sociale rispetto a tutti gli altri social network. Puoi davvero essere te stesso e creare la Storia della tua giornata. Anche con immagini imbarazzanti che non ti sogneresti mai di postare su Facebook – afferma Watts”.
2020 I social media del futuro
Il nuovo Facebook, però, ancora non esiste. Il social del futuro dovrà verosimilmente andare incontro alle esigenze dell’ultima generazione di adolescenti, come stanno già facendo, fra i tanti, “Ello” e “This”: semplici e focalizzati sui contenuti, discreti, non invadenti, facilitano l’espressione di sé. E soprattutto, sono senza pubblicità. Le piattaforme di ultima generazione, per adesso, si propongono come anti-Facebook e anti-Twitter, luoghi dove le informazioni – assicurano i loro creatori – non verranno utilizzate per tracciare il vostro profilo di consumatori. Ma quanto può durare? Per sopravvivere, tutti prima o poi hanno dovuto introdurre una forma di introito, anche i più grandi: Wikipedia si è affidata alle donazioni volontarie e il colosso Google a un certo punto ha dovuto piegarsi agli ormai onnipresenti richiami pubblicitari tarati sulle preferenze degli utenti sferrando un colpo mortale alla sua immagine di azienda dalla mission altruistica e disinteressata.

il Fatto 2.2.15
Mark tocca 1,5 miliardi di utenti

LA MUTAZIONE Il 28 ottobre 2003 il diciannovenne Mark Zuckerberg lancia Facemash, predecessore di Facebook, inizialmente destinato ai soli studenti di Harvard. Nel febbraio 2004 nasce Facebook. Il 4 febbraio saranno passati 11 anni e il social network più popolato al mondo ha fatto molta strada. Il primo cambiamento importante avviene nel 2006 con il news-feed, l’aggregatore che modifica radicalmente la modalità di visualizzazione degli aggiornamenti. Nello stesso anno nasce la funzione “Note” che consente di pubblicare testi in modo simile a un blog, con tag e immagini. Nel 2010 arriva il famigerato tasto “mi piace”. L’anno dopo il servizio di videochiamate che utilizza la tecnologia Skype. Nel 2014 nasce l’applicazione Facebook Groups dedicata appunto ai gruppi, e di recente Messenger diventa un’applicazione a se stante per i messaggi istantanei. IL FILM Nel 2010 esce “The social network”, di David Fincher, che racconta i primi tumultuosi anni di Facebook caratterizzati dalle aspre vicende legali sulla paternità del progetto. Il film dividerà la critica ma alla fine incasserà più di 221 milioni di dollari in tutto il mondo e una valanga di nomination e premi, tra cui tre Oscar per miglior sceneggiatura non originale, montaggio e colonna sonora. Zuckerberg dichiarerà che sia il film che il libro da cui la pellicola è tratta, Accidental Billionaires di Ben Mezrich, non corrispondono per nulla alla realtà. Poco prima dell’uscita nelle sale il fondatore di Facebook partecipa al popolare show di Oprah Winfrey, e annuncia una donazione di 100 milioni di dollari alle scuole del New Jersey. Il gesto, invece di essere interpretato come un’opera di bene appare invece come un maldestro tentativo di distogliere l’attenzione dal film, nel quale peraltro Mark non viene certo dipinto in maniera lusinghiera. Zuckerberg, il più giovane milionario mai esistito, ha occupato per un certo periodo il primo posto nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi del mondo, soffiando la leadership a Bill Gates della concorrente Microsoft. Oggi, quasi trentenne, occupa “solo” l’undicesima posizione nella lista.

il Fatto 2.2.15
L’amore senza Facebook
Spegni il computer la verità è nel buio
di Thomas Beller

Le ultime settimane all’università le ho trascorse vagando per il campus in un deliquio di disperazione per la rottura con la mia ragazza. Stavamo insieme da oltre un anno. Da qualche tempo il mio interesse per lei si stava affievolendo. Poi lei decise che voleva lasciarmi e, d’improvviso, divenne il nettare che dava un senso alla mia vita. Il suo didietro, in particolare, divenne la pesca che avevo continuamente voglia di toccare. Per circa quattro mesi il nostro rapporto proseguì con questa dinamica nuova, rovesciata. Avevamo sempre avuto un forte legame fisico, ma non appena avvertii il rantolo della morte, il legame divenne un’ossessione. Se non le toccavo il culo o non la guardavo negli occhi, meglio le due cose contemporaneamente anche se ciascuna delle due bastava da sola, la vita smetteva di avere senso.
Poi lei decise di troncare. Non faceva più parte della mia vita pur continuando ad aggirarsi nei paraggi. In teoria la cosa avrebbe dovuto farmi desiderare di andarmene al più presto dall’università perché quell’ambiente era intrinsecamente legato al mio piacere e al mio desiderio. Prima me ne fossi andato, tanto meglio sarebbe stato.
A peggiorare le cose, in quel periodo mi ero immerso nella poesia di T. S. Eliot. Non facevo che ripetermi il suo verso “Aprile è il più crudele dei mesi”. Di notte, se vedevo che aveva la luce accesa, mi piazzavo ad una certa distanza dalla stanza del suo dormitorio e mi mettevo a fissare la sua finestra. Non so con certezza cosa sperassi. Di intravederla per un attimo? O di intravedere una sagoma sconosciuta – quella di un uomo che si godeva la pesca che non era più mia?
Qui debbo fare una pausa per spiegare che sto scrivendo tutto questo in inglese nella speranza che venga tradotto in italiano perché sono una sorta di inconsapevole italofilo. Non parlo italiano e, non di meno, amo l’Italia e la cultura italiana. Probabilmente senza conoscerne l’essenza, dal momento che mi sono formato sui film, sui libri e barcollando per il Paese in stato di infatuazione. Per qualche ragione trovo Ok descrivere l’ormai svanito culo della mia ex ragazza come una pesca se questo scritto verrà tradotto in italiano, mentre probabilmente in inglese non userei questa immagine. A complicare ulteriormente la faccenda, questa deliziosa ragazza con il suo incredibile culo aveva una madre nata e cresciuta in Italia e che il destino aveva condotto nei sobborghi della East Coast. La ragazza aveva un personale meraviglioso, ma davanti era piatta. Al contrario la mamma italiana aveva un seno enorme. È facile capire come l’entusiasmo, diciamo, per Fellini potrebbe ingigantire e distorcere una siffatta esperienza anche se l’esperienza l’avevo fatta quando non avevo ancora mai visto un film di Fellini. Quando nei fine settimana estivi andavo a trovare la mia ragazza a casa sua, mi intrattenevo in lunghissime conversazioni con la madre. Non che sua madre parlasse molto. Se ne stava seduta con il suo girocollo nero, i capelli accuratamente pettinati, il rossetto rosso e fumava nel salotto di quella casa di periferia mentre io cercavo di convincerla a permettere a sua figlia di venirmi a trovare da sola a New York e di passare la notte a casa mia. Erano tentativi inutili, ma da queste discussioni durante le quali imploravo e supplicavo ai piedi del trono, traevamo una sorta di ritualistico piacere. La mia ragazza, quando affrontavamo queste interminabili conversazioni, era sempre occupata da qualche altra parte della casa anche perché non aveva un buon rapporto con sua madre. Io sentivo di essere sempre dalla sua parte. Nel frattempo mi mettevano a dormire nella stanza di suo fratello. Una sistemazione assolutamente opportuna, capisco oggi, anche se all’epoca la cosa mi infastidiva. La mia ragazza ed io ci arrangiavamo reclinando il sedile posteriore del loro minivan, preso a prestito dalla madre per andare al cinema, e profanando la tappezzeria di quell’angusto spazio.
Quando da studente masochista fissavo la sua stanza illuminata, mi sentivo avvilito, ma oggi sono grato del fatto che all’epoca non esistesse Facebook. Sicuramente l’impulso che mi spingeva a fissare la sua finestra avrebbe trovato il suo sfogo su Facebook, la qual cosa non sarebbe servita né a me né alla mia ex ragazza, ma sarebbe stato uno spasso per qualcun altro.
Facebook è un mondo nel quale le luci sono sempre accese. All’epoca i miei sentimenti si esprimevano meglio al buio.
Questi appostamenti notturni erano un pessimo modo di usare il mio tempo. Era una cosa infantile. Intendo dire che da bambino, se ti fai male al polso o al dito, cominci immediatamente a toccartelo, a rigirartelo, a tormentarlo come se sentire il dolore ti consentisse di capirlo e di localizzarlo. Se lo puoi capire e localizzare, te ne puoi anche liberare. È un riflesso stupendamente umano, ma assolutamente controproducente. Ad un certo punto diventi abbastanza adulto da capire che se ti sei slogato un polso o ferito un dito, quello che devi fare è lasciarlo in pace. Devi immobilizzarlo, applicargli una stecca. Devi lasciarlo guarire. (E quando migliora devi ricominciare ad usarlo per impedire che si atrofizzi!)
Eppure ancora oggi quando mi faccio male al dito o al polso, il primo istinto è di strizzarlo o dimenarlo per sentire il dolore. Voglio localizzare il dolore per capirlo. È una sciocchezza, lo so bene, e allora mi trattengo. Ma l’impulso è lì e vale sia per le ferite emotive che per quelle fisiche.
Facebook ci consente di prendere la parte di noi che è in uno stato di disagio o di sofferenza e dimenarla, sbatterla sul tavolo come se volessimo provare dolore, come se volessimo localizzarlo. Facebook fa moltissime cose del tutto naturali per l’uomo. Non ho alcun interesse a demonizzarlo o ad auspicarne la morte; è una manifestazione degli impulsi più naturali: la curiosità di sapere come sono le vite degli altri. Il desiderio di scrivere racconti e commedie altro non è che il desiderio di fornire una testimonianza della nostra esperienza e Facebook consente a chi non fa lo scrittore di provare questa gratificazione. Perché Facebook dovrebbe essere un problema se permette a questo impulso di manifestarsi in tempo reale?
Il problema è che moltissime cose si fanno meglio al buio. Sognare, ad esempio. O piangere. Facebook è sempre acceso – l’elettricità dello schermo del computer splende come una insegna al neon di notte – e anche i pensieri, le immagini e le battute di spirito che postiamo su Facebook sono illuminati, assomigliano ad insegne al neon che pubblicizzano la nostra esistenza. Talvolta desideriamo agire nell’oscurità. Certamente questa è una delle ragioni della crescente migrazione verso altri social media, quali Snapchat e Whisper, che permettono un certo grado di anonimato. La loro popolarità ha qualcosa a che fare con il “ritorno del rimosso” di Freud e debbono affrontare un diluvio di desideri e manifestazioni primitivi. Questo è stato sempre il dono e la maledizione di Internet dove, per dirla con la folgorante concisione del più popolare cartoon del New Yorker, “nessuno sa che sei un cane”.
Ma il piacere, l’attrazione di questi scenari anonimizzanti, credo consista, specialmente per i giovani, nel fatto che hanno luogo al buio. Non sono tenebre fitte e impenetrabili in quanto nessuno crede davvero alla promessa di queste App di far svanire tutto per sempre. Ma quanto meno è garantito il buio dell’anonimato.
In quelle ultime settimane di università continuavano a tornarmi in mente altri versi di T. S. Eliot. A quei tempi mi sembrava uno scherzo crudele: “Tempo per te e tempo per me/ E tempo anche per cento indecisioni/ E per cento visioni e revisioni”. Avevamo attraversato le nostre indecisioni, pensavo, e il risultato era che la ragazza alla finestra, in quella stanza illuminata che un tempo avevo occupato, ora si trovava nel suo tempo e io mi trovavo nel mio.
Ora, tuttavia, mi sento attratto dai versi che precedono questi: “Ci sarà tempo, ci sarà tempo / Per prepararti una faccia per incontrare le facce che incontri”.
Come sappiamo tutti, è stancante preparare una faccia per incontrare le facce che incontriamo. È stancante nella vita quotidiana, ma questi preparativi sono anche il progetto di una vita intera. Non facciamo che accumulare pensieri, sentimenti ed esperienze per diventare ciò che siamo. Ho la sensazione che sia meglio fare questi preparativi in privato. E talvolta ci assale il desiderio di non preparare alcunché. Vogliamo indossare la nostra faccia senza scusarci, senza preparativi o pensieri. C’è come un accenno di scuse nei nostri post su Facebook, forse perché verranno letti sotto la luce abbagliante del luogo nel quale appariranno e nel quale continueranno a vivere per sempre. Questi post sono personali, ma non sono diretti a nessuno in particolare; di solito manca in essi l’autentica intimità di una lettera. Somigliano più ad una cartolina con quel vago alone di passiva aggressività contenuta nella trita frase: “vorrei che fossi qui”.
Non si nasconde un piccola menzogna in questa frase? Talvolta la verità ha bisogno della privacy del buio.