il Fatto 1.2.15
Emergenza droga anche in Vaticano
Via all’anno giudiziario della Santa Sede
Scoperti tre carichi di stupefacentidi Caterina Minnucci
Tre carichi di sostanze stupefacenti erano destinati al Vaticano. Non solo pedofilia e riciclaggio nella relazione di apertura dell’86° anno giudiziario del Tribunale della Città del Vaticano, esposta ieri da Gian Piero Milano, il promotore di giustizia vaticano (una sorta di procuratore generale). Contiene i reati commessi all’ombra del Cupolone dal 1° ottobre 2013 al 30 settembre 2014. L’avvocato Milano ha ricordato “l’impegno della Gendarmeria nel 2014 relativo al monitoraggio del traffico di droga da Stati esteri verso lo Stato vaticano”.
IL RIFERIMENTO è al 19 gennaio scorso quando furono intercettati all’aeroporto di Lipsia 14 profilattici pieni di cocaina liquida contenuti in un pacco postale, proveniente dal Sud America e indirizzato all’ufficio postale della Santa Sede. La notizia venne diffusa a metà marzo dal giornale tedesco Bild. Erano 340 grammi per circa 40.000 euro di valore. La droga fu spedita normalmente. La polizia tedesca e l’Interpol in Vaticano speravano che il destinatario del pacchetto andasse a ritirarlo, ma evidentemente era stato avvertito e non si è presentato.
Le novità nel sistema giudiziario della Santa Sede nascono dalla riforma voluta da papa Francesco. In base a questa linea ieri il professor Milano ha sollecitato “protocolli comuni e uniformi parametri informativi” in materia di rogatorie (tra queste la richiesta di informazioni su monsignor Scarano imputato per truffa, riciclaggio, corruzione) e indicato le intercettazioni come “strumento di indagine imprescindibile”. Specie per il contrasto dei reati finanziari e di riciclaggio. Scarano non è l’unico caso di truffa in Vaticano: è finito nei guai anche Bronislaw Morawiec, economo della Basilica pontificia, condannato in primo grado dal tribunale vaticano per “truffa aggravata”; attende l’appello.
Ma se nel caso di monsignor Scarano il Vaticano ha risposto alla rogatoria della Procura di Roma, diversamente si è comportato in relazione ai documenti sui conti correnti dello Ior chiesti dai magistrati italiani in Svizzera. Come ha documentato il Fatto, quando a dicembre scorso le autorità elvetiche hanno risposto positivamente alla rogatoria su un conto Ubs di Lugano, lo Ior, tramite l’avvocato Bernasconi, ha fatto opposizione. Vana, perché il tribunale federale alla fine ha inviato la documentazione a Roma, con una sconfitta per il Vaticano.
IL PROMOTORE Milano ha parlato anche di Emanuela Orlandi, riferendo della “definizione di un procedimento in materia di volontaria giurisdizione, con il quale è stata chiesta al Tribunale la nomina di un curatore dello scomparso, relativamente ad una cittadina vaticana”.
La Gendarmeria Vaticana ha compiuto inoltre “attività di analisi forense ed info-investigativa per alcuni delicati casi di pedofilia”. Uno è quello dell’arcivescovo polacco Jozef Wesolowski agli arresti domiciliari, in attesa di un processo per pedofilia che potrebbe costargli fino a 7 anni di carcere. Senza dimenticare casi più conosciuti, come quello di don Mauro Inzoli, uomo di Cl, indagato per pedofilia: solo a luglio scorso, papa Francesco ha obbligato il prete a ritirarsi a vita privata.
Insomma aumentano i fascicoli in mano alla magistratura vaticana: attualmente sono in corso 7 istruttorie, ci sono 3 richieste di rinvio a giudizio e un ordine di cattura pendenti. E nel 2014 sono aumentati gli arresti con un sovraffollamento delle celle a Natale. Oltre a Wesolowski, è stato arrestato in quei giorni Marcello Di Finizio, un imprenditore già protagonista di questo tipo di azioni che si era arrampicato sulla facciata della Basilica di San Pietro. Pochi giorni dopo, a Santo Stefano, è stata arrestata anche una “femen” che manifestava a seno nudo.
Repubblica 1.2.15
“Traffico di droga anche in Vaticano”
La relazione del Promotore di giustizia: “In una circostanza i narcos sfuggiti alla cattura per colpa della stampa tedesca” Nel 2014 due casi di pedopornografia e 6 arresti. Nominato un curatore per la scomparsa di Emanuela Orlandi
di Marco Ansaldo
CITTA’ DEL VATICANO .
Traffico di droga, detenzione di materiale pedopornografico, truffe, furti. Solo mezzo chilometro quadrato di superficie, e reati tutt’altro che consoni a uno Stato santo per definizione. Anzi, proprio di nome. Il Vaticano, la Santa Sede. Crimini però, a quel che si afferma, in gran parte sventati dalla Gendarmeria.
Eppure, a leggere la relazione di apertura dell’anno giudiziario del Tribunale vaticano, presentata ieri dal promotore di giustizia, il professor Gian Piero Milano, i reati «sono purtroppo statisticamente in crescita». Nel 2014 le decisioni del giudice unico in materia penale sono state 62 (6 gli arresti), e il rapporto con il numero dei cittadini vaticani è, ovviamente, impressionante. In uno Stato dove i residenti sono 800 e meno di 600 possiedono la cittadinanza, le decisioni in materia penale sono numericamente superiori al 10 per cento. Anche se, in realtà, i reati sono commessi soprattutto da borseggiatori italiani e stranieri.
Ma quella fatta in occasione del nuovo anno giudiziario è un’analisi rivelatrice del mondo a volte oscuro che si cela in Vaticano. Con un’apertura, ieri del tutto a sorpresa, sul caso Orlandi il quale è stata chiesta la nomina di un curatore. Il promotore di giustizia ha voluto ricordare il dramma della famiglia di Emanuela, la cittadina vaticana di 16 anni scomparsa il 22 giugno 1983, con grande rispetto. Ha parlato di «un caso delicato, dai tratti in larga parte irrisolti, che ha suscitato negli anni l’attenzione dei mass-media e dell’opinione pubblica per le sconcertanti modalità con cui è avvenuto ».
È la prima volta che, con un atto ufficiale, il papato di Francesco si occupa del caso. Più volte il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, si è battuto scendendo anche in piazza e chiedendo al Pontefice un aiuto. E Bergoglio si è infine mosso, mostrando sensibilità. «Dubito che Papa Francesco sia rimasto indifferente — dice Orlandi — forse queste poche righe del pg vaticano sono un segnale di interessamento. Si parper la di caso irrisolto, quindi di un mistero. I misteri si risolvono. Questo accenno lo considero un fatto positivo».
Molti sono poi gli spunti citati dal promotore sui reati del 2014. E la piaga del traffico di droga non ha risparmiato il Vaticano. «Tentativi isolati» — si legge — non hanno «purtroppo lasciato indenne il nostro piccolo Stato» ma sono stati «neutralizzati sul nascere». Un caso è stato rimarcato. Quello di una «consegna controllata della sostanza stupefacente » transitata attraverso uno Stato comunitario. Ma «l’improvvida divulgazione della notizia da parte di un quotidiano straniero — così dice la relazione — ha reso vana l’operazione congiunta tra forze di polizia di diverse nazionalità, non essendosi presentato alcuno per il ritiro del plico contenente la sostanza stupefacente ». Secondo lo scoop della Bild am Sonntag , il 19 gennaio 2014, all’aeroporto di Leipzig la Polizia di frontiera tedesca scoprì 340 grammi di cocaina avvolti in 14 preservativi, in un pacchetto proveniente dalla Colombia con indirizzo finale in Vaticano. Prezzo al mercato nero: 40.000 euro.
Uno dei due casi di pedopornografia affrontati dal procuratore, ha poi spiegato il portavoce della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, «riguarda monsignor Wesolowski », l’ex nunzio polacco. E un’altra indagine è quella su monsignor Bronislaw Morawiec, l’economo polacco di Santa Maria Maggiore, la basilica dove spesso il Papa va a pregare prima e dopo i suoi viaggi, già condannato per «truffa aggravata» per aver tentato di appropriarsi di 210 mila euro appoggiati in un conto Ior.
Il pg vaticano ha infine rimarcato «l’importanza delle intercettazioni come vero strumento di indagine «. E sul caso di monsignor Nunzio Scarano, imputato per truffa, riciclaggio e corruzione, ha accusato l’Italia di aver trasmesso materiali «non solo risultati lacunosi», ma con «modalità di acquisizione di alcune prove, che si possono definire improprie e non in linea con i vigenti protocolli internazionali».
il Fatto 1.2.15
I vescovi minacciano la famiglia
risponde Furio Colombo
CARO FURIO COLOMBO, ancora una volta i vescovi riprovano con la frase insensata: le unioni civili (che vuol dire coppie di fatto e gay) minacciano la famiglia. L’offesa al senso comune è grande.
Ottavio
ASCOLTARE IL VESCOVO Bagnasco è imbarazzante, perché senti ripetere una frase insensata. Una famiglia non può minacciarne un’altra per il solo fatto che, nella vita privata, ha messo i mobili in un altro modo. È possibile che un pittore, solo o con prole, sia una minaccia per la famiglia di un ingegnere, che sta sullo stesso pianerottolo, ma con orari e momenti di vita e di esperienza molto diversi? Credereste a qualcuno che vi dice che una famiglia di sportivi è una minaccia ai coinquilini che si alzano tardi, mangiano molto e non credono nella palestra? Se restiamo sul lato del senso comune e della quotidiana esperienza di vita, sappiamo tutti che, almeno in teoria, ognuno di noi è una minaccia per l’altro. Per esempio avere un vicino di casa che fuma sull’ascensore e non vuole sentire ragioni non sarà forse una minaccia, ma è un disturbo non da poco. Così come l’eccessivo amore per il rock a pieno volume o l’abitudine di appendere quadri a mezzanotte (succede, vi prego di credere). Ma che per una famiglia con moglie e bambini con matrimonio in Chiesa e regolarmente trascritto in municipio, un’altra famiglia dello stesso caseggiato in cui due persone (magari due uomini o due donne) si vogliono bene, vivono insieme, stanno bene insieme, costituirebbe una minaccia (che vuol dire un pericolo) per l’altra famiglia (e guai se il loro legame venisse trascritto in municipio) non vi sembra una affermazione un po’ squilibrata? Un conto è il credere fermamente che questa o quella cosa sia un peccato. Un conto è disprezzare e discriminare il tuo prossimo, privandolo di alcuni essenziali diritti civili, per il fatto che, nella sua vita privata, ha uno stile di vita diverso e non tiene conto della tua religione. Né legge né diritto (salvo la Sharìa) mi permette di dire a un altro essere libero come deve vivere la sua vita personale e privata, e con chi, e secondo quali modalità. L’affermazione (le coppie di fatto e gay sono una minaccia per le altre famiglie) è bugiarda, perché non corrisponde a nulla di vero o di accaduto. Meglio se un vescovo non dice bugie, no? Infatti, in questo modo sono i vescovi che minacciano la famiglia, e la pace, il rispetto fra le famiglie.
La Stampa 1.2.15
Denuncia il parroco
“Mi ha violentata quando avevo 13 anni”
Un sacerdote è stato arrestato nel Palermitano per violenza sessuale e atti sessuali con minorenne. L’indagine dei carabinieri di Termini Imerese è partita dopo la denuncia di una ventunenne, all’epoca dei fatti minorenne.
La giovane ha riferito che quando aveva 13 anni, durante gli incontri organizzati dalla parrocchia, era stata avvicinata dal prete - parroco in due Comuni delle Madonie - che avrebbe approfittato della sua condizione di fragilità psicologica. A distanza di otto anni la donna, grazie al sostegno dei familiari, ha trovato infine il coraggio di denunciare l’accaduto.
Gli accertamenti, spiegano i carabinieri, hanno consentito di costruire «un solido quadro indiziario a carico del religioso». Pertanto i militari, coordinati dalla Procura di Termini Imerese, hanno notificato al prete un’ordinanza di custodia cautelare degli arresti domiciliari.
Il sacerdote arrestato, informa l’Arma, è don Paolino Marchese, cinquantenne, nato a Cefalù e residente a Pollina, nel Palermitano, dove aveva celebrato l’ultima messa. La sua pagina Facebook si apre con la scritta: «Non lasciatevi scoraggiare da coloro che, delusi dalla vita, sono diventati sordi ai desideri più profondi».
Qualcuno, ex parrocchiano di Pollina, in occasione della festa del patrono, appena una settimana fa aveva postato un messaggio affettuoso: «Qui è la festa di San Giuliano e non sono tanto felice perché manca una persona speciale per me, cioè lei, ma la vita deve andare avanti. Ci manchi tantissimo don Paolino».
Repubblica 1.2.15
Rossana Rossanda
“È stata la bellezza del mondo a salvarmi dal fallimento politico”
Nella sua casa di Parigi la fondatrice del “Manifesto” ricorda incontri e incomprensioni,
amici ed avversari, delusioni e grandi sogni
vissuti con il partito comunista
intervista di Antonio Gnoli
SOMMERSI
come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a
distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della
vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l’avere il
sopravvento sull’immagine ben più mesta di una decadenza che provoca
dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo.
La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le
ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel
palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato
importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche
parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma
un massacro. La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili
che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della
nostra storia comune. Legata al partito comunista, fu radiata nel 1969 e
insieme, tra gli altri, a Pintor, Parlato, Magri, Natoli e Castellina,
contribuì a fondare Il manifesto. Mi guarda un po’ rassegnata e un po’
incuriosita. Qualche mese fa ha perso il compagno K. S. Karol. «Per una
donna come me, che ha avuto la fortuna di vivere anni interessanti,
l’amore è stato un’esperienza particolare. Non avevo modelli. Non mi ero
consegnata alle aspirazioni delle zie e della mamma. Non volevo essere
come loro. Con Karol siamo stati assieme a lungo. Io a Roma e lui a
Parigi. Poi ci siamo riuniti. Quando ha perso la vista mi sono
trasferita definitivamente a Parigi. Siamo diventati come due vecchi
coniugi con il loro alfabeto privato », dice.
Quando vi siete conosciuti esattamente?
«Nel
1964. Venne a una riunione del partito comunista italiano come
giornalista del Nouvel Observateur . Quell’anno morì Togliatti. Lasciò
un memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi al
giornale Le Monde, suscitando la collera del partito comunista
francese».
Collera perché?
«Era un partito chiuso,
ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò con me
del fatto che dovuto dare a lui quello scritto. Lui si sarebbe fatto
carico di una bella discussione in seno al partito. Per poi non
concludere nulla. Era tipico».
Cosa?
«Vedere questi personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai propri interessi».
Ma non era comunista?
«Era
prima di tutto insopportabile. Rivestito della fatua certezza di essere
“Louis Aragon”! Ne conservo un ricordo fastidioso. La casa stupenda in
rue Varenne. I ritratti di Matisse e Picasso che lo omaggiavano come un
principe rinascimentale. Che dire? Provavo sgomento. E fastidio».
Lei come è diventata comunista?
«Scegliendo
di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio
professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e
incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò,
incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una lista di libri
da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista
all’insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si
rivolse a me con durezza. Gli dissi che l’avrei rifatto cento volte.
Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò
freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo
».
E lei?
«Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare
da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo
lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito».
Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse?
«Oggi
parliamo di stalinismo. Allora non c’era questo riferimento. Il partito
aveva una struttura verticale. E non è che si faceva quello che si
voleva. Ma ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho
fatto la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella
segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la casa
della cultura».
Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti.
«Quale egemonia? Nelle università non ci facevano entrare».
Ma avevate le case editrici, il cinema, il teatro.
«Avevamo soprattutto dei rapporti personali».
Ma anche una linea da osservare.
«Togliatti
era mentalmente molto più libero di quanto non si sia poi detto. A me
il realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso dirle? Non credo di
essere stata mai stalinista. Non ho mai calpestato il prossimo. A volte
ci sono stati rapporti complicati. Ma fanno parte della vita».
Con chi si è complicata la vita?
«Con
Anna Maria Ortese, per esempio. L’aiutai a realizzare un viaggio in
Unione Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne
fui contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una
rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione.
Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato. Poi,
improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangeavrei re».
Pensava di essere nel giusto?
«Pensavo che l’Urss fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato ».
Quell’anno alcuni restituirono la tessera.
«E
altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu
mai seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci
fossero scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per
Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche
di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come
ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il
più intollerante».
Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti italiani.
«Per
un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir
venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all’Hotel
Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche
con Togliatti».
Dove?
«In una trattoria romana. Era il 1963.
Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest’ultimo guardava
al capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente
più interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono
l’un l’altro. La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività,
era Simone. Quanto a Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando
gli nominai Michel Foucault. Reagì con durezza».
Foucault aveva sparato a zero contro l’esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre.
«Avevano
due visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo
strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l’erba sotto i
piedi».
Ha conosciuto Foucault personalmente?
«Benissimo: un
uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E
certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che
abitavamo con Karol sul Quai Voltaire. Era un’intelligenza di primordine
e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere l’Aids, mi
commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno».
Un altro destino tragico fu quello di Louis Althusser.
«Ero
a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva
spesso. Un’amica comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era
morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in
tutt’altro modo».
Le cronache dicono che la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto.
«Helene venne qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la malattia di Louis».
Quale malattia?
«Althusser
soffriva di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui
fosse diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse
uccidere Helene. Penso piuttosto all’incidente. Alla confusione mentale,
generata dai farmaci».
Era stato uno dei grandi innovatori del marxismo.
«Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto».
A
proposito di depressione vorrei chiederle di Lucio Magri che qualche
anno fa, era il 2011, scelse di morire. Lei ebbe un ruolo in questa
vicenda. Come la ricorda oggi?
«Lucio non era affatto un depresso.
Era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sé un fallimento
politico e pensava di aver sbagliato tutto. O meglio: di aver ragione,
ma anche di aver perso. Dopo aver litigato tante volte con lui, lo
accompagnai a morire in Svizzera. Non mi pento di quel gesto. E credo
anzi che sia stata una delle scelte più difficili, ma anche
profondamente umane».
Tra le figure importanti nella sua vita c’è stata anche quella di Luigi Pintor.
«Lui,
ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non
si sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli
insieme».
Parlava di fallimento politico. Come ha vissuto il suo?
«Con
la stessa intensa drammaticità di Lucio. Quello che mi ha salvato è
stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura. Quando Karol
era bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina
e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e
della campagna e tornare la sera. Godevo della bellezza dei luoghi che
diversamente dall’Italia non sono stati rovinati».
Se non avesse fatto la funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?
«Ho
una certa invidia per le mie amiche — come Margarethe von Trotta — che
hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il
mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso,
quando si fa una cosa non se ne fa un’altra».
Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede?
«Non
ho più un’idea di Dio dall’età di 15 anni. Ma le religioni sono una
grande cosa. Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono
pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo
magistero. E il suo sacrificio».
Si accetta più facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre?
«I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri no».
Il rapporto con suo padre come è stato?
«Era
un uomo all’antica. Parlava greco e latino. Si laureò a Vienna. C’era
molta apprensione economica in famiglia. La crisi del 1929 colpì anche
noi che eravamo parte dell’impero austro-ungarico. Il nostro rapporto,
bello, lo rovinai con parole inutili. Con mia madre, più giovane di
vent’anni, eravamo in sintonia. Sembravamo quasi sorelle. Si scappava in
bicicletta per le stradine di Pola».
Dove lei è nata?
«Sì, siamo gente di confine. Gente istriana, un po’ strana».
Si riconosce un lato romantico?
«Se
c’è si ha paura di tirarlo fuori. Non c’è donna che non senta forte la
passione. Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità
dell’innamoramento. E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti,
passabilmente spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare.
Ho condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte
remano contro».
Come vive il presente, questo presente?
«Come
vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri
le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e
penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da
questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri
che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che
non ho più nessun attaccamento alla vita».
Ha mai pensato di tornare in Italia?
«No. Qui in Francia non mi dispiace non essere più nessuna. In Italia la cosa mi infastidirebbe».
È l’orgoglio che glielo impedisce?
«È una componente. Ma poi che Paese siamo? Boh».
E le sue radici: Pola? L’Istria?
«Cosa
vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la
sceglie, il resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni
che non riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni
isolotti con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare
e perdermi nel sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna
nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria.
Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio
padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di
loro come loro sono una parte di me».
il Fatto 1.2.15
Il nuovo Capo dello Stato
Colle, Panda e Ardeatine
di Carlo Tecce
Il primo avvistamento di Sergio Mattarella, ancora non proclamato Capo dello Stato, è segnalato tra le dieci e trequarti e le undici: un’utilitaria proveniente dal palazzo della Consulta, forse una Panda e neanche ultimo modello, trasporta il giudice costituzionale verso piazza Venezia. I grandi elettori, muniti di valigie per l’esodo, si scambiano grandi domande: va a rendere omaggio al Milite Ignoto, non sarà troppo presto? O si scambiano piccole ironie: il politico siciliano, che viene descritto un po’ grigio, ha scelto un’automobile grigia. Mattarella va a casa di Laura, sua figlia, lì assiste al quarto scrutinio e lì riceve la telefonata, a spoglio non finito, di Pietro Grasso. Il presidente del Senato che fu il magistrato di turno che aprì le indagini sull’omicidio mafioso del governatore siciliano Pier-santi Mattarella, il fratello di Sergio, il 6 gennaio di 35 anni fa. Con la stessa macchina, Mattarella rientra verso il Quirinale. Non varca il portone che ha accolto anche trenta pontefici, ma aspetta Laura Boldrini e Valeria Fedeli per le comunicazioni ufficiali. Il vestito è di un blu scuro che richiama il grigio. Per non essere un renziano, le misure sono corrette: “Il pensiero va soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini”. Così inizia il settennato di Mattarella, una dichiarazione con la forma di un telegramma che rispetta perfettamente i 140 caratteri per un cinguettio su Twitter. Il siciliano non è abituato al muro di giornalisti, non più da tempo. Marco Damilano (Espresso) racconta che venerdì , a pallottoliere ormai in sicurezza, il protocollo quirinalizio voleva convincere il compìto Mattarella a sottoporsi a un servizio fotografico nel centro di Roma, perché i circuiti internazionali aspettavano immagini del nuovo Capo dello Stato. Dopo la Panda rossa di Ignazio Marino che, sciagurata, finiva sempre in divieto di sosta, ieri pomeriggio a Roma c’era la caccia a una Panda grigia. Sfuggito ai cronisti, Mattarella è riapparso alle Fosse Ardeatine, dove i tedeschi trucidarono 335 italiani fra militari e civili: “L’alleanza tra nazioni e popolo seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario di cui questo luogo è simbolo doloroso. La stessa unità in Europa e nel mondo saprà battere chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore”.
IL MESSAGGIO non richiede traduzioni: la dolorosa memoria contro i rigurgiti fascisti o estremisti. Il luogo d’esordio, per chi assume una carica, lo caratterizza. Jorge Mario Bergoglio, appena nominato papa Francesco, andò a pregare nella Basilica di Santa Maria Maggiore. I cattolici di destra, che temono la retorica di un Mattarella francescano e morigerato, non l’hanno votato. Mattarella è un ex democristiano di sinistra, come Giovanni Burtone, deputato dem di Catania: “Quando Pier Ferdinando Casini e Rocco Buttiglione lasciarono i Popolari per sostenere Silvio Berlusconi, in Sicilia c’eravamo soltanto io e Sergio, andavamo in giro a distribuire i volantini”. Il c’eravamo io e Sergio è un classico di queste ore. Burtone c’era. E poi vennero i Dario Franceschini e i Francesco Saverio Garofani (caso raro di “mattarelliano”), che ieri hanno festeggiato al ristorante “Settimio”, vicino al Senato, un vecchio covo per i democristiani in epoca Ciriaco De Mita.
La Stampa 1.2.15
Mite ma intransigente
Il nuovo Capo dello Stato non sarà solo un notaio
Sergio Mattarella è pignolo e rigoroso. E non tratta sui principi
di Marcello Sorgi
Il momento degli applausi, dei sorrisi, dei sospiri di sollievo è appena passato, e tutti si chiedono che presidente sarà Sergio Mattarella. Laconico, ieri lo è stato anche più del solito, quando gli hanno passato il microfono dopo la comunicazione ufficiale dell’avvenuta elezione da parte della Boldrini. «Il pensiero va alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini»; non ha voluto aggiungere altro, una stretta di mano e la voglia di ritirarsi dipinta sul viso. La Panda grigia guidata dalla figlia, il vestito grigio, i capelli grigi che incorniciano il volto mai abbronzato, e l’approccio timido e riservato che è da sempre il suo segno di distinzione. Stop, fine degli indizi. Basta questo per dire che diventerà un Presidente notaio, come già si legge sui giornali? O non sarà veramente così?
Defilato dal 2008
Se è vero che la curiosità sull’eletto e sul modo di comportarsi accompagna ogni nuovo Capo dello Stato, nel Paese in cui ormai da quasi quarant’anni, da Pertini in poi, il Quirinale è diventato il baricentro del sistema instabile e della transizione infinita, stavolta, è inutile negarlo, c’è una ragione in più per interrogarsi. Mattarella è fuori dalla vita politica dal 2008, ma anche prima aveva preferito appartarsi; e non ha mai amato ruoli da protagonista. Tra i 665 che lo hanno votato, molti, lasciando Montecitorio, confessavano di non averlo mai conosciuto, incontrato, sentito parlare. Scherzando sulla novità di un eletto tutto da scoprire, una senatrice emiliana con il gusto della battuta sosteneva che bisognerebbe dire alla Rai di mandare in onda un “tutorial”, un filmato pedagogico, per spiegare il decalogo, il vocabolario, la filosofia di un certo modo di essere siciliano. Un tentativo di far chiarezza, di rivalutare termini come “rispetto”, “garbo”, “persona”, “famiglia”, “amicizia”, “educazione”, “solidarietà”: parole, queste, che coniugate con la Sicilia hanno avuto per troppi anni significati ambigui, mafiosi o semi-mafiosi, e adesso invece si capirà che non è più così. «Finora la Sicilia, nella percezione della gente, è stata quasi solo mafia, pizzini, sprechi, sottosviluppo, intrecci clientelari. Se magari a sorpresa usciva qualcosa di buono, lo scrittore, il regista, il bravo imprenditore, non a caso si parlava dell’ “altra Sicilia” - spiega l’ex-ministro siciliano Salvatore Cardinale -. Con Mattarella, finalmente si capirà che non è così». Mattarella infatti è siciliano, non un altro modo di essere siciliano.
L’omicidio di Piersanti
La sua storia, segnata dall’assassinio del fratello Piersanti da parte della mafia il 6 gennaio 1980, era stata fino a quel momento assolutamente normale. Sergio aveva vissuto l’infanzia e l’adolescenza tra Roma e Palermo, studiando dai gesuiti, al “San Leone Magno” e al “Gonzaga”, scuole di una borghesia sobria e civile, educata all’understatement e selezionata attentamente anche per affacciarsi alla vita pubblica. «A un certo punto però se n’è andato - dice un altro ex-ministro palermitano, Vito Riggio -. Ha compreso che se vuoi cambiare la Sicilia devi farlo da lontano, non restare lì, perché altrimenti, o ti becchi due pallottole o un avviso di garanzia». Qualcuno, è inevitabile, si aspetta dal Presidente un ritorno di meridionalismo piagnone e assistenziale, o più esplicitamente si domanda cosa farà per la Sicilia. La risposta è semplice: purtroppo, nulla di concreto. È difficile far capire che il Capo dello Stato non ha alcun potere diretto per farlo. Lui troverà certamente il modo di dirlo, ma anche di parlare della sua terra, della sua gente, dei suoi problemi, sollecitando il governo e chi di dovere a occuparsene. Mafia e collusioni mafiose con la politica resteranno, manco a dirlo, al centro del suo impegno: la battaglia di tutta una vita troverà posto nel discorso di insediamento martedì alla Camera.
La legge elettorale
Mattarella, si sa, è un giurista: costituzionalista, ha insegnato diritto parlamentare all’Università. È l’autore del Mattarellum, la legge che insieme all’impianto maggioritario conteneva una serie di specifiche, subordinate e meccanismi volti a garantire la rappresentanza delle minoranze, e la sopravvivenza, poi fallita, dei partiti come strumenti di democrazia. Sa scrivere e leggere una norma, è pignolo e rigoroso, riconosce subito un pasticcio o un groviglio di interessi in un testo di legge: l’esperienza alla Camera e al governo, però, gli ha insegnato che mai la soluzione giuridica di un problema dev’essere arida o oscura.
È cattolico: un cattolico laico, democristiano, alla De Gasperi, non un baciapile. Ora che il Vaticano ha quasi smesso di intromettersi negli affari della politica, c’è da aspettarsi che costruirà un buon rapporto con Papa Francesco, saprà essere attento ai contenuti sociali della Chiesa rinnovata del pontefice. A modo suo cercherà di tradurli, usarli, mescolarli ai doveri quotidiani del suo ufficio, perché li condivide. Sergio ha un forte senso della famiglia, ha sofferto moltissimo per la morte della moglie, Marisa, tre anni fa, e le ore più liete della vita le trascorre con figli e nipoti: anche ieri, era con loro a guardare la tv quando ha detto che era diventato Presidente della Repubblica. Fuori dalla politica ha pochi amici, a cui è molto affezionato. «Diffidate di quelli, e sono già in tanti, che verranno a dirvi che erano suoi compagni di banco o studiavano con lui al liceo», ironizza la terza ex-ministra Prestigiacomo, ammettendo lealmente di conoscerlo poco e non aver votato per lui.
La Corte Costituzionale
Uno fatto così difficilmente diverrà il notaio che tutti pronosticano, guardandolo senza conoscerlo. Sui principi, sui valori, sulla Costituzione, che conosce a memoria e ha illustrato con passione a migliaia di studenti quando ancora insegnava, non transige. Del resto, per capire come sarà, non occorrerà attendere molto. Con la sua uscita dalla Corte, salgono a due i giudici costituzionali che dovranno essere eletti dal Parlamento: lo stesso Parlamento che è riuscito, sì, a riscattarsi dalla brutta figura del 2013 eleggendo il nuovo Presidente, ma fino a due mesi fa mise in scena per 23 sedute lo spettacolo vergognoso della lite infinita tra senatori e deputati e il falò di candidati, uno dopo l’altro. Se Napolitano, esasperato, arrivò a minacciare di sciogliere le Camere, dopo una serie di appelli inascoltati, è difficile pensare che Mattarella possa essere più clemente, di fronte all’incapacità di completare il collegio della Consulta.
Il nodo dell’Italicum
Un problema simile potrebbe verificarsi tra poco, quando l’Italicum arriverà alla Camera. Secondo Vizzini, presidente del Psi, un altro della “primavera palermitana” Anni 80, che con Mattarella ha una consuetudine ultratrentennale - e nella scorsa legislatura, al Senato, aveva l’ingrato compito di coordinare ben 42 progetti di legge elettorale -, la minoranza Pd tornerà alla carica. E anche il centrodestra, dopo la sconfitta sul Quirinale, sarà meno disponibile. Se dovessero chiedere udienza per chiarire le riserve sul nuovo sistema, Mattarella come si comporterà? «Li ascolterà e poi cercherà di esercitare la sua moral suasion sul premier», prevede Vizzini. Sottinteso, se Matteo dovesse fare orecchie da mercante, per andare subito all’approvazione definitiva dell’Italicum, evitando di farlo tornare al Senato, Mattarella, come Ciampi e Napolitano prima di lui, potrebbe anche non firmare la legge, se non lo convince.
La Stampa 1.2.15
De Mita: “Mattarella un cattolico vero. Altro che Scalfaro: paragone assurdo”
L’ex segretario della Dc: leggo con disappunto le stupidità di chi dice che questa elezione è il ritorno del passato
intervista di Amedeo La Mattina
Ciriaco De Mita è rimasto a Nusco mentre Sergio Mattarella, uno dei suoi «figliocci politici», veniva eletto presidente della Repubblica. È tornato a fare il sindaco del suo paese in Irpinia, l’ex leader della Dc che negli anni Ottanta mandò il nuovo capo dello Stato a ripulire liste e partito dagli uomini di Ciancimino. L’ex premier ha uno scatto quando gli chiediamo se è sostenibile il paragone fatto a destra tra Mattarella e l’ex capo dello Stato Scalfaro. «Per amor di Dio. Sergio è un cattolico vero, siciliano, coerente. Scalfaro era un ipocrita, un clericale del nord. Essere cattolici non dice niente in politica. E poi non è vero che Sergio sia grigio e cupo: è una persona riservata ma vera, che si arrabbia e tiene il punto. Non è una maschera».
Mattarella a chi può essere paragonato?
«A Einaudi, anche lui piemontese, ma liberale. Mattarella sarà come è sempre stato, con quel senso del diritto che hanno alcuni siciliani. Santi Romano era siciliano. Non sarà invasivo, ma eserciterà un controllo continuo del rispetto della Costituzione. La funzione del capo dello Stato è duttile: nei momenti di difficoltà interviene, quando c’è ordine si ritira. Mi auguro che si esca dalla straordinarietà e si rientri nell’ordinarietà».
Renzi ha scelto Mattarella: come sarà la convivenza tra due personalità così diverse?
«Stiamo parlando delle funzioni del capo dello Stato che sono sempre di sollecitazione positiva. Il personaggio eletto trova la sua misura nel ruolo: Mattarella è stato per anni un militante di un grande partito popolare. Leggo con disappunto le stupidità di chi dice che questo è il ritorno del passato, senza sapere cosa sia il nuovo e senza avere la capacità di creare le condizioni del nuovo. La politica senza cultura ha mostrato la sua debolezza».
Dica la verità, non si aspettava questa mossa di Renzi: lo ha rivalutato?
«Non l’ho mai sottovalutato. Tra i tanti candidati Renzi ha scelto il migliore. Renzi è bravo. È stato descritto come un politico spregiudicato, tutto immagine, invece ha realizzato un fatto di grande serietà. È partito dalla preoccupazione di ritrovare l’unità del Pd e ha colto l’obiettivo: spero ne tragga esperienza per il futuro.
Ha agito con l’abilità dei democristiani?
«I democristiani sono solo i vecchi. Ha agito come un democristiano, ponendosi un problema e costruendo una soluzione».
E come giudica l’atteggiamento di Berlusconi che ha fatto votare scheda bianca?
«Da tempo quella di Berlusconi è una posizione che si scioglie. È una storia finita, legata a una esperienza personale, una grande recita con un capo comico. Non c’è mai stata tanta separatezza tra politica e parole quanto in questi ultimi 20 anni. Berlusconi si è paragonato a De Gasperi, anzi ha detto di essere più bravo, ma la storia dice che De Gasperi ha avviato la trasformazione del paese nel dopoguerra, ha fatto quella riforma agricola che un grande comunista come Amedola definì un fatto enorme. La scheda bianca di Berlusconi è una specie di terzo sesso...». Il riferimento al transgender Luxuria che il Cav ha invitato ad Arcore non è casuale.
il Fatto 1.2.15
Maxi-pensioni e altri redditi di san Sergio, detto Il Sobrio
Il vitalizio e la liquidazione da parlamentare, l’assegno da professore universitario e lo stipendio della Consulta: dal 2008 fanno quasi tre milioni
di Marco Palombi
San Mattarella stilita. San Sergio penitente. A leggere i ritratti pubblicati sui giornali o declamati in tv il nostro nuovo presidente della Repubblica vive in tale stato di astrazione - non disgiunto da frugale sprezzo dei piaceri mondani - da conservare a malapena rapporto con l’umano essendo già in procinto di assunzione al cielo. La sobrietà, l’appartamentino da 50 metri quadri nella foresteria della Consulta, ovviamente arredato con modestia, la Panda, l’assenza del pur minimo particolare di colore indizio sicuro di vita pia e morigerata. Alcune “vite dei santi” sono un capolavoro di dialettica a confronto delle agiografie che stanno ricoprendo il Mattarella vero con questa sorta di beato penitente incapace di sorriso.
EPPURE L’ETERNA Quaresima del nostro avrebbe di che essere interrotta, almeno a stare ai suoi guadagni degli ultimi anni. Li contiamo da quando ha lasciato il Parlamento, cioè dalla fine di aprile del 2008, 25 anni dopo la prima volta che ci era entrato da deputato (era il 1983). Certo i soldi non danno la felicità - e si presume che il capo dello Stato sia stato costretto ad accettarli contro la sua volontà, data la sua proverbiale sobrietà - ma fare due conti è sempre utile. Dopo 25 anni di carriera parlamentare onesta e non priva di soddisfazioni, infatti, Sergio Mattarella s’è portato a casa una “liquidazione” da 234mila euro e da quel momento percepisce un vitalizio parlamentare da 9.363 euro al mese.
Dal maggio 2008 dovrebbe averlo ricevuto fino all’ottobre 2011, quando il nostro è stato eletto alla Corte costituzionale: in tutto fanno circa 400mila euro di vitalizio incassati (viene sospeso durante il mandato alla Consulta e pure al Colle). Nel frattempo il nuovo capo dello Stato non è stato con le mani in mano: dall’aprile 2009 all’ottobre 2011 era infatti membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Csm dei Tar. A palazzo Spada, come d’altronde alla Consulta, non hanno l’abitudine di mettere online i loro compensi: comunque a stare ai bilanci, il gettone di presenza per il Consiglio di presidenza vale circa 65mila euro l’anno in media a testa, più i benefit ed eventuali compensi per gli altri incarichi interni.
Da tre anni e qualche mese, poi, Mattarella - anche se sicuramente lui non ha dato peso alla cosa, sobrio com’è - è arrivato nel paradiso terrestre della Consulta. Ecco come si compone la retribuzione media di un giudice costituzionale: il compenso del primo giudice della Cassazione - cioè il magistrato che guadagna più di tutti gli altri - aumentato del 50% (il presidente si becca anche un altro 20%). Allo stipendio la legge aggiunge “una indennità giornaliera di presenza pari a un trentesimo della retribuzione mensile spettante ai giudici ordinari”.
NEGLI ANNI SCORSI, quelli in cui Mattarella è stato giudice delle leggi, faceva circa 470mila euro l’anno: da giugno per i normali togati è in vigore il tetto a 240mila euro che dovrebbe aver portato il totale dell’Eden poco sotto i 400mila. Piccolo particolare: le tasse si pagano solo sul 70% dello stipendio. Facendo un conto spannometrico gli emolumenti incassati - al netto dei benefit come l’auto con autista che il sobrio presidente ha sicuramente evitato di utilizzare - ammontano più o meno a un milione e mezzo di euro.
Non manca, al penitente Mattarella, nemmeno la sobria pensione di professore universitario. Assistente di diritto costituzionale all’università di Palermo dal lontano 1965 - quando aveva 24 anni, un anno appena dopo essersi laureato - nel capoluogo siciliano è diventato docente insegnando diritto parlamentare fino al 1983: da quella data fa il politico e i contributi per la pensione gli sono stati giustamente versati lo stesso. Non si sa quale sia la cifra, ma se stiamo alla media si tratta - più o meno - di 80mila euro l’anno. Insomma, a fare la somma dal 2008 a oggi Sergio Mattarella di riffa o di raffa ha sobriamente messo da parte per la beneficenza - visto che praticamente, a stare ai media, nemmeno si nutre - una sommetta di 2,8 milioni di euro circa. Ora si dovrà accontentare di 239mila euro l’anno, lo stipendio del capo dello Stato fissato da Napolitano: forse è per questo che pare triste.
il Fatto 1.2.15
Il Piccolo Cesare
di Antonio Padellaro
Sarà visibile (forse) tra qualche tempo la reale toponomastica del voto di scambio che ha consentito l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella con 160 voti in più dei necessari 505. Perché nella notte tra venerdì e sabato di cambiali politiche (e non) devono esserne state firmate parecchie in qualche dependance di Palazzo Chigi. Il tutto in cambio del soccorso di Area popolare, che ad Alfano è costata una mezza scissione nel partitino azzurrino, senza contare il plotone di ascari reclutati tra le macerie di Forza Italia, qualche “spontaneo” contributo degli ex grillini, oltre naturalmente alle residue fronde pd ed ex montiane che, adeguatamente placate, hanno battuto un colpo firmando anch’esse le schede(“S.Mattarella”,“Mattarella Sergio”ecc.) come da accordi. Sia come sia, con il silente palermitano assiso sul Colle ha inizio il settennato di Matteo Renzi che, giunto alla prova più insidiosa, è apparso un gigante della politica in rapporto agli gnomi che hanno cercato di intralciarlo e sono stati rapidamente liquidati. Non ha dovuto faticare molto, se non nell’identikit del candidato ideale che servisse a tacitare la chiassosa e confusionaria opposizione interna al Pd. Bisogna dirlo: il premier è stato bravo a tenersi, come dicono a Roma, il cecio in bocca mentre i suoi spargevano il panico dentro e fuori il partito, diffondendo possibili candidature che rinfocolavano mai sopite ostilità politiche o ruggini personali. Cancellata così, giorno dopo giorno l’intera generazione dei Prodi, Fassino, Veltroni, Finocchiaro, Casini, Rutelli, Chiamparino, occorreva riesumare un nome dal pleistocene della Repubblica, qualcuno di cui si fosse persa memoria, ma non troppo in disarmo, meglio se parcheggiato in qualche prestigioso sinedrio. Non a caso la scelta era caduta su due giudici costituzionali, il primo dei quali Giuliano Amato era gravato tuttavia da un handicap decisivo: essere Giuliano Amato con tutto ciò che ne consegue.
No, il “nome” giusto doveva evocare antiche e dimenticate virtù (i galantuomini di una volta), ma anche rappresentare un simbolo condiviso (il fratello Piersanti ucciso dalla mafia). Bene perfino le radici democristiane che hanno smesso da tempo di costituire un colpa per suscitare, di fronte agli scempi dell’attuale politica, i rimpianti di una perduta età dell’oro. Un tale prodigio, insomma, che quando il Fatto ha scritto che Mattarella non era il cognome di una divinità, ma di una famiglia con un capostipite Bernardo, ministro ed esponente di quella Dc sicula che non disdegnava di chiedere voti ai mafiosi, e con un altro fratello del nuovo capo dello Stato, Antonino, in rapporti d’affari con il boss Nicoletti, è stato come bestemmiare in chiesa, ma pazienza. Conclusione: la presidenza Mattarella, per la storia del prescelto, suscita speranze in chi vorrebbe un ritorno alla Costituzione, quella del 1948, e un ruolo di arbitro e non di giocatore del capo dello Stato. Ma essa è servita anche a tacitare la sinistra Pd, che d’ora in poi difficilmente potrà demonizzare il Nazareno come luogo di patti occulti e di comitati d’affari, cosa che temiamo continuerà a essere. Dopodiché per Renzi è stato facile andare a dama contando sugli autogol di ciò che rimane della destra e sull’inconsistenza dimostrata in questa partita dal M5S. Giulio Cesare sottomise le Gallie con una campagna militare. Il piccolo Cesare, con la campagna acquisti. Ma è destinato a durare di più.
La Stampa 1.2.15
Le illusioni degli avversari del premier
di Giovanni Orsina
Che ci fosse un uomo solo al comando, lo sapevamo da mesi. Ma che quell’uomo solo al comando sia a tal punto solo che a tutti gli altri converrebbe smontar dalle biciclette, spiegare una bella tovaglia su un prato assolato, tirar fuori i fiaschi di rosso e farsi una bella mangiata – questo lo scopriamo solo adesso.
Renzi ha compiuto un capolavoro, dando prova ancora una volta d’avere un talento politico eccezionale, quale in Italia non si vedeva dai tempi di Craxi. È vero che Sergio Mattarella non era la sua prima scelta – avrebbe preferito qualcuno di molto più vicino a lui, e da lui più controllabile. Ma la sua intelligenza politica è consistita proprio nell’aver capito che la sua prima scelta non sarebbe mai passata, e nel ripiegare subito su quella fra le opzioni possibili che gli era meno sgradita. Così facendo, può intestarsi oggi una vittoria rotonda.
In questo capolavoro, certo, c’è tanto di molto fastidioso: cinismo, spregiudicatezza, dissimulazione. Questa è la politica, però – «sempre uno spettacolo sgradevole», come scriveva più di mezzo secolo fa il grande filosofo inglese Michael Oakeshott: «l’oscurità, la confusione, l’eccesso, il compromesso, il senso indelebile di disonestà, la pietà bugiarda, il moralismo e l’immoralità, la corruzione, l’intrigo, la negligenza, l’invadenza, la vanità, l’autoinganno, e infine la futilità». Né è impossibile sostenere per altro, magari reprimendo un po’ di nausea, che l’Italia oggi abbia bisogno proprio di iniziative politiche spregiudicate. O qualcuno ancora si illude che una situazione incancrenita come la nostra la si possa sbloccare senza alcuna forzatura?
Come sempre accade, la sapienza politica di Renzi si specchia nell’insipienza dei suoi avversari. Un’insipienza tale da lasciar pensare che non sia fortuita – che tutti gli altri siano strutturalmente inabili perché appartengono a una stagione politica ormai superata. L’ala antirenziana del Pd, così, ha regalato al presidente del Consiglio un trionfo nel nome dell’unità del partito e dell’antiberlusconismo: questo un riflesso vecchio al tal punto da apparire maramaldesco; quello un principio che, avendo Renzi modificato in profondità il rapporto fra leader e partito, andrebbe per lo meno ripensato.
La sinistra democratica festeggia l’elezione di Mattarella come un proprio successo. Nell’immediato, non c’è dubbio che lo sia. Pregusta poi un mutamento di linea – lo suggeriva ieri Bersani in un’intervista – per il quale Renzi romperebbe infine il patto del Nazareno per ricollocarsi saldamente e definitivamente a sinistra. E questa invece, sbaglierò, mi sembra una pia illusione. Rinforzato da questo successo, ancor di più che nel passato il presidente del Consiglio proporrà se stesso come misura di tutte le cose, appoggiandosi ora da una parte ora dall’altra a seconda della propria personale convenienza politica. Se oggi è il tempo del #silviostaisereno, insomma, possiamo esser sicuri che ben presto tornerà il momento del #pierluigistaisereno.
Le illusioni che nutrono gli antirenziani del Pd, a ogni modo, sono nulla di fronte alla Caporetto del centro destra. Intento a perseguire obiettivi non politici, ondivago e poco lucido, Berlusconi ha commesso un errore elementare concedendo a Renzi il voto sulla legge elettorale prima dell’elezione del Capo dello Stato. Poi, quando il Partito democratico ha indicato un solo nome, sia a lui sia ad Alfano è mancato l’acume politico che, come si diceva sopra, ha invece avuto il presidente del Consiglio: se non sei forte abbastanza da impedire una soluzione che non gradisci, può convenirti far subito buon viso a cattivo gioco, e fingere di non aver mai desiderato altro. Infine il Nuovo centro destra ha ceduto alle pressioni e fatto dietrofront.
I due partiti, Ncd e FI, ne escono non soltanto del tutto divaricati l’uno dall’altro, ma profondamente e forse irrimediabilmente lacerati al proprio interno. Ora minacciano entrambi – almeno attraverso alcuni loro esponenti – di vendicarsi della sberla che Renzi ha dato loro. Sbaglierò ancora una volta, ma non mi pare che ne abbiano la forza: non cadrà il governo, non si andrà al voto, non si fermeranno le riforme. A meno che non sia il presidente del Consiglio a volerlo, e alle proprie condizioni.
Dei grillini, che si sono consegnati una volta di più alla completa irrilevanza politica, non val la pena parlare. Meritano una menzione invece, in conclusione, gli altri che pure ne escono con una vittoria, seppure incomparabile con quella di Renzi: la Lega e Fratelli d’Italia. È presumibile che – per la sua biografia, ma anche per come è stato eletto – il nuovo Capo dello Stato non entusiasmi quell’elettorato di destra e centro destra che, ere politiche fa, costituiva la base del berlusconismo. Questi elettori non troveranno uno sfogo alla propria insoddisfazione né in Ncd né in FI. E non mi sorprenderebbe perciò se già dai prossimi sondaggi Salvini facesse un altro balzo in avanti. Ma quanta forza abbiano costoro nell’opporsi a Renzi lo dicono i numeri, brutali come soltanto i numeri sanno essere: Mattarella 665 voti, Feltri 46.
il Fatto 1.2.15
Come si fa un Presidente nell’Italia dell’era Renzi
di Furio Colombo
A cose fatte si può dire. Tutto è avvenuto in stanze chiuse. Schede bianche, centinaia, per due giorni. Sono state come grandi tendoni calati di fronte a una scena che non è pronta. Dicono con chiarezza una cosa: nessuno deve sapere. O meglio pochi. Ma chi? Nessun estraneo comunque deve metter bocca, o avere o proporre opinioni su un delicato lavoro in corso, che è la costruzione del nuovo presidente della Repubblica.
Se siete estranei ai lavori, guardatevi i vostri programmi tv, ricchi di ipotesi e di pareri di chi non sa, o state lontani dall’argomento. Il dovere civico non è più “partecipare”. Il dovere civico è di non ingombrare. A certe cose pensano alcuni. Mentre scrivo non posso fare a meno di pensare a un celebre libro americano (1962) a cui ho rubato il titolo di questo articolo. Era la storia di come era diventato presidente John Fitzgerald Kennedy, e la fama, prima giornalistica e poi accademica di quel libro era dovuta (lo è ancora, nell’insegnamento di Scienze politiche o di “scuole di governo”, nelle Università americane) alla quantità ed esattezza di dettagli e notizie precise, e alla valutazione critica di tutti i passaggi e sviluppi, da quando Kennedy è un giovanotto gradevole e ignoto, fino all’insediamento alla Casa Bianca.
Da noi non è così. Noi non sappiamo e non dobbiamo sapere nulla. In due sensi, che vale la pena di esaminare. Il primo è che la vita politica è chiusa in una camera stagna in cui si entra con uno strano meccanismo elettorale (una sorta di cooptazione attraverso liste che erano e che restano bloccate, anche dopo una presunta riforma) che interrompe, una volta eletti, ogni rapporto e ogni responsabilità con e verso gli elettori.
Il secondo è che, nel chiuso della camera stagna non credere di sapere e non credere di contare. Teoricamente vieni eletto a far parte di un organo sovrano, che è il Parlamento, uno delle tre colonne portanti della democrazia. Nei fatti sei una frazione selezionata (più che altro secondo criteri di probabile obbedienza) che ascolta, tace ed esegue, senza alcuna autonomia o possibilità di azione indipendente. Ogni accenno a fare di testa tua viene redarguito come indisciplina non tollerabile. La pena, nell’immediato, è l’isolamento. E, appena possibile, l’esclusione da ogni altra elezione.
MA ANCHE se resti e fai il bravo, salvo cooptazione nel cerchio interno (che cosa è il cerchio interno e come ci arrivi?) non sai e non fai nulla, tranne approvare cose che non sai, oppure essere la folla giusta che applaude al momento giusto.
Guardando l’Italia mentre elegge il suo prossimo presidente della Repubblica, non puoi non vedere che tu, cittadino, non sai e non conti. Ma anche le persone che hai eletto perché siano il tuo Parlamento non sanno e non contano. E possono solo mettere, in proprio, un volenteroso entusiasmo. Oppure vendicarsi con il voto segreto. Come abbiamo visto prevale l’obbedienza. Essa non ha niente a che fare con il condividere una scelta. Per esempio, in questa situazione italiana non è mai stata in discussione la scelta di Sergio Mattarella for President. La discussione è stata (o meglio: sarebbe stata, se qualcuno l’avesse permessa) solo una domanda: la scelta di chi? Questo è il punto su cui si concentra il grande indovinello della vita pubblica italiana: chi comanda, chi decide? In una bella giornata di gennaio, alle due di un pomeriggio, il primo ministro del Paese Italia, in cui c’è il vuoto della più alta carica dello Stato, che spetta al Parlamento eleggere, si presenta ai deputati e senatori che rappresentano il Partito democratico in Parlamento, per annunciare loro che, compatti e disciplinati, voteranno una persona che non hanno mai incontrato o sentito parlare e che adesso è giudice della Corte Costituzionale: Sergio Mattarella. L’annuncio non è fatto per aprire il dibattito. È una comunicazione di servizio. Infatti il Primo ministro è anche segretario del Partito democratico, e sta parlando alla rappresentanza parlamentare del suo partito. E qui, come vedete, ci sarebbero due seri problemi. Renzi, come primo ministro, può proporre ma non imporre un candidato a una delegazione parlamentare, per giunta del partito numericamente più grande alle Camere. Renzi, come Segretario dei parlamentari del suo partito, può dire la sua convinzione (vi assicuro, Mattarella è la scelta giusta).
MA POI si suppone che apra la discussione. Non la apre. Come ho detto, si tratta di una comunicazione di servizio. È stabilito e deciso che questa persona, di ottima reputazione e di integerrimo passato, sarà il nuovo presidente della Repubblica. Tocca a voi fare in modo che neppure uno dei vostri voti vada disperso. È un ordine, non una proposta. Come si vede, i problemi (o le domande senza risposta) si depositano a strati l’uno sull’altro. Il potere esecutivo non può far cantare e ballare il potere legislativo. Può solo proporre. Il segretario di un partito ha autorità ma non dominio. Per quanto forte sia il suo carisma e la sua credibilità, riunisce i suoi per dibattere e persino per ascoltare, non per diramare istruzioni.
Ma tutto avviene al di là di una barriera impenetrabile che separa politica e popolo. Da questa parte della barriera non potete neppure chiedere chi ha deciso o perché. Manca l’interlocutore. E da tempo i media, invece di schierarsi con l’opinione pubblica che non sa e vorrebbe sapere, si addossa alle istituzioni per fare da volenteroso portavoce. Un portavoce ti ripete doti e pregi ed esemplare passato di Mattarella, che del resto potevi trovare in rete. Ma non ti dice perché Mattarella, e a confronto con chi. Attenzione alla camera stagna della politica che decide in isolamento, non si sa perché e non si sa per rispondere a chi. Ci darà altre sorprese.
il Fatto 1.2.15
Matteo ordina, le Camere obbediscono “Signorsì”
Dal Jobs Act alle riforme, il “Partito della Nazione” del premier non trova ostacoli in un parlamento terrorizzato dalle urne
di Wanda Marra
“Quattro... tre... due... ”. In Aula, tra i Grandi elettori del Pd scatta il conto alla rovescia dei voti mancanti al quorum, che pare Capodanno. L’applauso scatta per la prima volta quando di voti ne mancano ancora una decina. Sulla stessa fila ci sono Matteo Orfini, Roberto Speranza e Lorenzo Guerini. Parte della delegazione che ha trattato. In piedi, sugli scalini, si intravedono Luca Lotti, Maria Elena Boschi. E il vicecapo-gruppo, Ettore Rosato con Marco Di Maio, uno dei giovani che ha tenuto il pallottoliere. Un Pd che vince non s’era mai visto prima di Renzi. E così al raggiungimento del fatidico 505 è tutto un abbraccio, una hola. È tutto un tweet. E non fa niente se gli ex Ds più che puntare su una loro candidatura si sono fatti la guerra a vicenda. Nel giorno del grande happening democratico giocano tutti a fare i vincitori. Con un Beppe Fioroni che rivendica la prima cena “ufficial-ufficiosa” per il neo Presidente e Simone Valiante, che la mette così: “Si scrive Mattarella, si legge Guerini”. Non fa niente, insomma, soprattutto che alla fine abbia vinto davvero uno solo, e si chiami, come al solito, Matteo Renzi. Il quale voleva un Presidente presentabile e spendibile per gli italiani e soprattutto poco ingombrante politicamente e mediaticamente. E poi, voleva il risultato. Subito e sorprendente. L’ha avuto, con il Pd praticamente senza franchi tiratori, Alfano costretto al voltafaccia e Berlusconi piegato. A Romani che ieri in Transatlantico lo rimproverava (“Ci hai fottuto”) rispondeva spietato (“No siete voi che l’avete gestita male”). E poi al Tg1 chiariva il ruolo ridimensionato degli alleati del Nazareno: “Le riforme andranno avanti comunque ma io scommetto anche con l’apporto di Fi”.
NONOSTANTE riunioni sediziose, e dichiarazioni di guerra, in quasi un anno di governo Renzi, il Parlamento gli ha votato tutto. Pure le deleghe in bianco. Come quella al jobs act, con i decreti attuativi ancora non completati. Come le parti in bianco lasciate passare nella Finanziaria. “Il Patto del Nazareno? Ci lavoreremo, lo registreremo. Rotto? No”. Per dirla con Guerini. Sull’Italicum e le riforme i voti a Matteo servono. Ma chi è in grado di farglieli mancare a questo punto dalla minoranza Pd o da FI? Neanche nella partita più ghiotta, quella per il Colle, si sono consumate vendette. Renzi minaccia: “Sciolgo la legislatura”. E tutti obbediscono. I deputati renziani da mesi pronosticano che arriveranno tutti i parlamentari, uno dopo l’altro, dagli altri gruppi. Il voto di ieri è la rappresentazione del Partito della Nazione che sarà.
Rimpasto di governo? Non serve. Solo la ricompensa per i bersaniani, con il ministero degli Affari regionali pronto per Vasco Errani. Così, per consolidare un asse di potere vero, quello in Emilia. Adesso, c’è la questione spinosa del 3% e della delega fiscale. “Matteo non ha ancora deciso”, spiega un renzianissimo. Appuntamento al 20 febbraio: difficile pensare che torni indietro, visto che quella norma serve soprattutto ai grandi gruppi industriali. I cui interessi Renzi tutela con attenzione. E a quel punto, magari sarà pure magnanimo con B.
“Renzi ha una marcia in più: ha capito che serviva una personalità anche in grado di dirgli di no”, spiega Andrea Giorgis, uno tra i bersaniani che a Mattarella ci ha creduto di più (e in effetti il premier declama questo pensiero al Tg1). “Sarà un buon Presidente”, sorride Enrico Letta. La Dc che si è rimaterializzata negli ultimi giorni crede di poter far squadra e di condizionare il premier, con un proprio uomo al Colle. Si racconta che Mattarella è uno con la schiena diritta e il senso delle istituzioni. Per capire come andrà, si aspetta l’arrivo del primo decreto (dovrebbe essere il Milleproroghe) e si immaginano resistenze e correzioni di rotta dal Quirinale proprio sulle riforme. Si vedrà. Ma per com’è andata con Napolitano la correzione di rotta è stata tutta a vantaggio del giovane premier. Il quale ieri non s’è fatto mancare la foto con l’ex Presidente, definitivamente assurto nell’immaginario parlamentare (se non in quello collettivo) a eroe popolare. La prossima photo opportunity già c’è: quella con Tsipras che Renzi incontra il 3 febbraio a Roma. Il vento in Europa sta cambiando, il rigore è impopolare: di certo Renzi non ha intenzione di stare un passo indietro. Ed è convinto che l’elezione in men che non si dica del Presidente rafforzi la sua immagine pure in Europa. Certo, c’è l’Italia da governare. “Avanti tutta”, ha detto ieri ai suoi, durante il pranzo di festeggiamento. Vedremo come.
il Fatto 1.2.15
Vince il Mattarenzi
Le schede firmate banda per banda, voti segnati per il Quirinale
Gruppi e correnti si fanno contare dal primo ministro eleggendo l’ex Dc con nomi diversi e a larga maggioranza
di Gianluca Roselli
Sergio Mattarella eletto 12° presidente della Repubblica con 655 sì: Pd, Sel, Ncd, centristi e almeno 50 forzisti anti-B. Voto di scambio con partiti e correnti che lasciano 6 diverse impronte (“On. Mattarella”, “Mattarella S” etc.). Trionfa il leader dem, tracolla il Caimano, si sfasciano gli alfaniani Caporale, Feltri, Liuzzi, Marra, Ranieri, Roselli, Zanca e Tecce
Sergio Mattarella è diventato il tredicesimo presidente della Repubblica al quarto scrutinio, con molti più voti del previsto. Il superamento del quorum è avvenuto alle 12.58, quando i consensi in suo favore hanno superato il numero di 505 grandi elettori, fermandosi a soli 7 voti dalla maggioranza dei due terzi. Alla fine le preferenze per l’ex ministro Dc sono state 665, 37 in più rispetto alle previsioni, visto che poteva contare su 630 voti certi. 127 voti, poi, li ha presi poi il candidato del M5S Ferdinando Imposimato, 46 sono andati a Vittorio Feltri indicato da Lega e Fratelli d’Italia, 17 a Stefano Rodotà scelto dagli ex grillini (che però sono almeno il doppio). Infine 2 voti nell’ordine a Emma Bonino, Antonio Martino, Giorgio Napolitano e Romano Prodi. Tredici sono le schede nulle, mentre le bianche, ovvero il non voto di Forza Italia, si sono fermate a 105. Contro i 142 elettori azzurri. Segno che 37 grandi elettori forzisti hanno contravvenuto alle indicazioni di Silvio Berlusconi. E portato soccorso a Mattarella. Sul banco degli imputati, naturalmente, ci sono i 38 parlamentari fittiani: alcuni di loro potrebbero aver votato Mattarella, addirittura marchiando il loro voto con una formula precisa. Ma a complicare il sudoku del Quirinale c’è anche la voce secondo cui Denis Verdini, che fino all’ultimo ha fatto pressione su Berlusconi per Mattarella, abbia indicato ai suoi fedelissimi di votare per il candidato renziano. Anche loro contandosi, con l’uso della formula “on. Mattarella Sergio”, letta per una decina di volte da Laura Boldrini. Ma sulle formule usate per contarsi torneremo tra poco. Il dato politico è che a Mattarella sono arrivati 37 voti in più del previsto, ovvero dei voti delle forze ufficialmente in suo favore: Pd, Area popolare (Ncd e Udc), Sel, Per l’Italia, Scelta civica, Gruppo Autonomie e Gal. Ma anche in questo caso il conteggio si fa fluido. Innanzitutto perché un margine di disobbedienza del 10 per cento rispetto alle direttive dei partiti va sempre messo in conto. Perché, si sa, in un’elezione contano anche le antipatie personali, le frustrazioni dei delusi, le ripicche politiche contro i leader. In secondo luogo, se l’Udc di Casini dovrebbe aver votato compatto Mattarella, ciò non è accaduto con Ncd, dove diversi esponenti hanno lasciato intendere di aver votato scheda bianca. Voti che si sono andati a mischiare, o “mascariare”, con quelli di Forza Italia. Altro dato politico da non sottovalutare è che Mattarella sarebbe stato eletto anche senza i voti di Area popolare: meno quei 75 sì, il capo dello Stato avrebbe ottenuto 590 consensi, ben oltre il quorum richiesto.
MA TORNIAMO alla “marchiatura” del voto, fatta per contarsi non solo tra partiti, ma pure tra le correnti. Renzi, per esempio, sembra l’abbia pretesa da tutto il Pd. E infatti ieri a Montecitorio il nome del futuro presidente è stato declinato in tutte le salse. Così ecco che i deputati Pd hanno usato la formula “Mattarella”, i senatori “Sergio Mattarella”, i giovani turchi invece “Mattarella S. ”, mentre i bersaniani “on. prof. Sergio Mattarella”. Sel, invece, ha usato la formula “on. Sergio Mattarella”. Ma anche Ncd e Udc si sono contati, specie il partito di Alfano (dove il rischio franchi tiratori era alto) utilizzando la formula “on. Mattarella”, i primi, e “Mattarella Sergio”, i secondi. Ma proprio su questo non sono mancate le polemiche. Nell’ufficio di presidenza di giovedì mattina, infatti, i Cinque Stelle, insieme all’azzurro Lucio Malan, avevano chiesto alla Boldrini di leggere solo il cognome del candidato, in qualsiasi maniera fosse stato scritto, proprio per evitare il fenomeno della conta. Ricevendo un no come risposta “perché per prassi si è sempre letto il nome per esteso”. Così, a fine votazione, ieri sono arrivati altri attacchi. “Indecente e vergognoso che si consenta alle correnti del Pd di pesarsi in questo modo”, l’affondo di Mauro Pili, deputato del gruppo misto. Ma nessuno sembra aver intenzione di cambiare il regolamento. Perché la conta fa comodo a (quasi) tutti.
Repubblica 1.2.15
Il vecchio trucco dei fanfaniani
Torna anche stavolta nell’elezione del presidente della Repubblica
Per rendere il voto riconoscibile basta una sigla
I deputati Pd hanno scritto Mattarella i Giovani Turchi Mattarella S.
Iniziali, punti, On e prof ecco il codice enigma per riconoscere i voti e smascherare i cecchini
di Sebastiano Messina
Sabato 3-1 gennaio, san Giovanni Bosco
ALL’INIZIO nessuno ci ha fatto caso. La presidente Boldrini leggeva la scheda e annunciava, come una notaia zelante: «Mattarella Sergio», «Mattarella», «Sergio Mattarella». E sembrava un disordine casuale, come quando si vota per il capoclasse e ogni studente scrive il nome del compagno come gli pare. Poi però, alla decima volta che ripeteva con precisione quasi puntigliosa «Esse punto Mattarella» o «Mattarella Esse», «onorevole professor Sergio Mattarella», o «onorevole Mattarella» - come se ci fossero in lizza altri Mattarella da non confondere con il candidato di Renzi, magari un ragionier Mattarella, un architetto Mattarella o un geometra Mattarella - qualcuno ha notato che il caso non c’entrava nulla. Quelli erano voti targati e firmati, scritti così affinché fossero riconosciuti da qualcuno che – chissà dove: magari a casa, con il taccuino in mano – doveva avere la prova che Tizio, Caio e Sempronio avevano votato per il nuovo Presidente.
Il primo ad alzare la manina per dirlo è stato il grillino Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera. Non in aula (non poteva: è un seggio elettorale) ma sulla sua pagina Facebook: «I partiti oggi conteranno i voti per evitare franchi tiratori, ma soprattutto per farli “pesare” in futuro. Sembra che quelli di Sel scriveranno “prof. Sergio Mattarella” mentre la minoranza Pd “Mattarella Sergio”…». Si poteva evitare, accusava Di Maio: «Sarebbe bastato che la presidente Boldrini si fosse rifiutata di leggere il nome sulle schede durante lo spoglio, leggendo solo il cognome». Però giovedì i suoi compagni di partito Barbara Lezzi e Matteo Dell’Osso hanno pubblicato su Internet la foto scattata col telefonino del loro voto per Imposimato, mentre l’ex grillina Alessandra Bencini mostrava la sua scheda con il nome di Rodotà e il trionfante commento «Detto/ fatto!».
Eppure non era l’unico, il vicepresidente dei Cinquestelle, a protestare contro le schede targate. Gridava allo scandalo anche il deputato sardo Mauro Pili (ex governatore berlusconiano, ora indipendentista sardo) che però prima urlava «Vergogna Boldrini, che legge punti e virgole!» e poi postava su Facebook la foto della sua scheda appena votata, con uno slogan al posto del nome: «Sardegna libera!».
Diciamo la verità: è un vecchio trucco, quello di rendere riconoscibili i voti. L’inventarono i fanfaniani nel 1971. Per individuare i franchi tiratori, ad alcuni venne chiesto di scrivere «Fanfani» in rosso, ad altri in verde, ad altri ancora con la stilografica o con la matita. I parlamentari vennero divisi in gruppi, e ogni gruppo doveva aggiungere un titolo diverso («professore », «senatore», «presidente») o premettere il cognome al nome o scrivere solo l’iniziale del nome. Non bastò. L’allora senatore Lino Jannuzzi commentò, perfido: «Per eleggere Fanfani ci vorrebbero le schede trasparenti, come in Cecoslovacchia». E un cecchino, perfido, invece del nome scrisse sulla scheda: «Nano maledetto, non sarai mai eletto».
Ma chi erano, stamattina, i grandi elettori che hanno voluto farsi riconoscere? E perché l’hanno fatto? Il Partito democratico, si capisce, stavolta voleva mettere paura ai franchi tiratori. Voleva sapere se qualcuno tradiva, e quanti. Così alle nove del mattino so- no partiti gli sms per tutti i parlamentari. I deputati hanno ricevuto sul telefonino l’indicazione di scrivere semplicemente «Mattarella», mentre ai senatori è stato chiesto di aggiungere anche il nome: «Sergio Mattarella». E già così si sarebbe potuto fare un primo controllo. Troppo generico, però.
E se ci fosse stata una pattuglia di franchi tiratori, magari determinante per il fallimento dell’operazione? C’è stato un momento, venerdì sera, in cui i “giovani turchi” si sono sentiti guardati con sospetto. Come se qualcuno dubitasse ancora che avrebbero potuto impiombare persino Mattarella, per dare un’ultima disperata chance ai loro candidati, Giuliano Amato e Anna Finocchiaro. E il sospetto doveva essere diventato insopportabile, perché a un certo punto Matteo Orfini ha perso la pazienza: «Basta, noi renderemo riconoscibili i nostri voti: così la facciamo finita». Oggi i 66 voti dei “giovani turchi” sono spuntati tutti dalle urne: erano quelli con la scritta «Mattarella S.». Anche Vendola ha voluto targare le schede di Sel, a scanso di equivoci: i suoi 33 grandi elettori hanno votato tutti allo stesso modo, «on. Sergio Mattarella». Dopo il disastro di due anni fa, il governatore della Puglia voleva assolutamente rimanere un alleato al di sopra di ogni sospetto.
E le altre schede? Chi ha dato ordine di scrivere «onorevole Mattarella», «Mattarella Sergio», «on. prof. Sergio Mattarella» e «S. Mattarella»? Nel Pd, tutti negano che quelli fossero voti loro. E quando chiedo ai grandi elettori di Alfano, con una domanda a trabocchetto, quale fosse il loro codice di riconoscimento nelle urne, li vedo cadere dalle nuvole. «I nostri voti non erano targati» assicurano, e sembrano sinceri. I sospetti, piuttosto, si addensano sui grandi elettori di Gal (Grandi Autonomie e Libertà) che hanno promesso i loro voti. Sarebbero loro gli autori delle schede «Mattarella Sergio», una trentina di voti che al momento opportuno potranno essere messi sul tavolo di Renzi, e usati come una cambiale da mettere all’incasso. Che poi il presidente del Consiglio riconosca quella cambiale, è un altro discorso.
Repubblica 1.2.15
Bene Renzi e bene il Pd, il presidente è quello giusto
Gli effetti positivi dell’iniziativa del premier non riguardano
soltanto la scelta di Mattarella ma anche la compattezza del Partito
democratico
di Eugenio Scalfari
QUELLA di ieri è stata una grande giornata politica: un nuovo presidente della Repubblica che ha tutte le qualità necessarie per essere l’arbitro della partita quotidiana tra i tre poteri costituzionali (legislativo, esecutivo, giudiziario) e tra le parti politiche, ciascuna con una propria visione del bene comune.
Oltre questo ruolo arbitrale il Capo dello Stato ne ha anche un altro di uguale importanza: garante della Costituzione, che può certamente essere emendata dal Parlamento ma non stravolta; emendata nelle leggi di attuazione, ma non nei principi, per cambiare i quali sarebbe necessaria una nuova Costituente o un organo straordinario del tipo della Bicamerale, capace di considerare nel loro complesso i mutamenti proposti.
Infine rispetta anche una funzione paternale di tutela dei deboli, dei poveri, degli esclusi e delle minoranze culturali e politiche affinché la battaglia anch’essa quotidiana che si svolge sia adeguata ad una democrazia e non si trasformi in regime autocratico in cui chi conquista il potere lo esercita di solito con l’unico intento di mantenerlo e di rafforzarlo.
Questi sono gli elementi principali che configurano nel nostro Paese il ruolo del presidente della Repubblica.
IL PASSATO e il carattere di Sergio Mattarella confermano che il nuovo Presidente corrisponde perfettamente al ruolo che la Costituzione gli assegna, come testimonia la visita alle Fosse Ardeatine come primo atto del nuovo settennato. Esser stato eletto con il voto di due terzi dei “grandi elettori” conferma che la figura di Mattarella è stata apprezzata da un’ampia maggioranza dei rappresentanti del popolo sovrano e fa emergere in modo inconfutabile le qualità del Partito democratico e del suo leader. Matteo Renzi che ne ha deciso la candidatura e ne ha guidato il percorso fino alla vittoria finale.
Renzi era consapevole che il suo candidato non sarebbe stato un suo burattino insediato al Quirinale solo per assecondare le sue finalità politiche, ma una persona dotata dell’autonomia necessaria a far rispettare le prerogative che la carica gli attribuisce. Un Capo dello Stato insomma che proseguirà al vertice delle istituzioni l’esempio dato da Einaudi, Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano e in particolare degli ultimi due che si sono trovati al vertice della struttura istituzionale in una fase particolarmente agitata della vita pubblica ed economica italiana, europea e internazionale.
Quella fase purtroppo è ancora in corso e quindi questa scelta era ancor più necessaria. Un Presidente sopra le parti e mai sopra le righe: così l’ha definito Mario Monti e così sarà. Domenica scorsa, anticipando le previsioni sul voto di ieri, scrissi che se la scelta del candidato al Quirinale (che Renzi non aveva in quel giorno ancora compiuta) fosse stata sbagliata, la colpa sarebbe ricaduta sulle sue spalle, se fosse stata giusta suo sarebbe stato il merito. Il risultato è sotto gli occhi di tutti ed anche il merito di Matteo Renzi e del Partito democratico che ha compattamente seguito.
* * * Gli effetti positivi dell’iniziativa di Renzi non riguardano soltanto la scelta di Mattarella, una candidatura che non sarebbe stata cambiata in nessun caso, ma anche la compattezza del Pd, obiettivo non facile da realizzare. In numerose precedenti occasioni Renzi aveva trascurato di perseguire quella compattezza, anzi aveva pubblicamente screditato i dissidenti alimentandone l’animosità nei suoi confronti. Questa volta invece ha scelto contemporaneamente due obiettivi: la vittoria di Mattarella e la compattezza del Pd. È anche vero che se quella compattezza non ci fosse stata la vittoria di Mattarella sarebbe diventata molto aleatoria, il che significa che i due obiettivi erano interconnessi. L’intelligenza politica di Renzi è stata quella di capire quella interconnessione e di agire in conseguenza.
I dissidenti si sentivano non già una corrente di minoranza del partito, quale numericamente erano; bensì come “separati in casa”, quindi con uno statuto del tutto diverso. I separati in casa sono due coniugi con vite e finalità diverse ma che non hanno però cessato di convivere in parità di diritti tra loro. E Renzi in questa vicenda così li ha trattati; sapeva che la convivenza sarebbe durata solo scegliendo un candidato di loro gradimento. L’elenco dei graditi (anche a Vendola e agli altri gruppi di sinistra) erano Prodi e Mattarella. Altri candidati non li avrebbero accettati ed avrebbero fatto il possibile per farli fallire.
Non si trattava di negoziare, queste posizioni dell’una e dell’altra parte erano state pubblicamente dichiarate e hanno portato alla vittoria di Mattarella, di Renzi e della sua sinistra.
La domanda che ora si pone è: restano “separati in casa” o la compattezza si estenderà ad altri campi, a cominciare dalle riforme? E da quali riforme?
La risposta a tale quesito a mio parere è questa: l’elezione del Capo dello Stato è un evento particolare, le riforme debbono essere messe su un altro piano. È dunque probabile che sulle riforme il dissenso tornerà, ma il comportamento delle parti in causa sarà diverso, si parleranno, cercheranno di gettar ponti tra loro e arrivare a compromessi condivisi. Se non ci riusciranno, terranno comunque comportamenti prudenti che non mettano in discussione la rottura del partito. In pratica non si può ignorare che c’è stato in questa occasione uno spostamento politico del Pd verso sinistra; ora si tratta di consolidarlo. In che modo?
Personalmente penso che il terreno di verifica dovrà essere non soltanto ma soprattutto l’Europa. * * * Man mano che il tempo passa si rende sempre più evidente la necessità d’arrivare ad un’Europa federata, con un bilancio unico, un debito sovrano unico, una politica estera e della difesa uniche, una politica dell’immigrazione unica. Questa deve essere l’Europa del domani, che del resto il trattato di Lisbona esplicitamente indica come indispensabile meta in una società globale dove le parti a confronto non sono più gli Stati nazionali ma interi continenti.
Questo obiettivo si scontra con molti ostacoli, il primo dei quali è un ritorno di fiamma dei nazionalismi e il secondo è il malanimo dei governanti che non vogliono spogliarsi di poteri essenziali come quelli sopra elencati e preferiscono esser protagonisti d’una confederazione piuttosto che scendere di rango in una federazione.
Renzi finora non ha fatto alcun passo verso la federazione, ha la scusante d’essere sulla stessa linea degli altri governanti a cominciare dalla Germania e dalla Francia, e non parliamo della Gran Bretagna.
Ma questa dovrebbe essere appunto l’azione della sinistra italiana a cominciare da quella del Pd: cambiare la sinistra europea per cambiare l’Europa.
Da questo punto di vista paradossalmente Tsipras può essere un elemento d’una partita estremamente complessa, della quale la colonna portante è Mario Draghi.
C’è però un altro obiettivo della sinistra che sta dentro e anche fuori del Pd: impedire l’abolizione del Senato sia nel ruolo sia nel reclutamento. Anche questa è una battaglia di fondo che deve impedire che il potere esecutivo, cioè il governo, indebolisca a proprio favore le capacità di controllo del potere legislativo. Che l’esecutivo debba essere rafforzato e che la Camera abbia da sola il potere di esprimere la fiducia al governo, questo va benissimo; ma fare del Senato una sorta di supporto non del federalismo ma dei consigli regionali, è uno scherzo di natura della divisione dei poteri, cioè dello Stato di diritto. * * * Il patto del Nazareno esiste ancora, Renzi ne ha bisogno, ma fino a un certo punto. Per fare le riforme? Dovrebbe e potrebbe farle con una sinistra di nuovo e più moderno conio. Ma c’è anche Alfano da considerare, che aveva riscoperto i suoi legami con Forza Italia.
È strano: Alfano ha fondato un partito per dare rappresentanza a una destra nuova, liberale ma non demagogica e populista. Purtroppo non è un trascinatore, forse dovrebbe allearsi con Passera e cercar di attrarre quella parte di elettori berlusconiani che vorrebbero appunto una destra “repubblicana”.
L’alleanza con Renzi finora Alfano l’ha vista attribuendosi un ruolo conservatore, non liberale. Questo è stato il suo errore. In realtà è ormai in un vicolo cieco come anche Berlusconi. Vicoli ciechi, strade senza sbocco e senza elettori.
Il Pd ha dinanzi a sé una prateria: creare una nuova sinistra riformatrice in Italia e in Europa, un socialismo liberale. La vera cultura — l’ho scritto molte volte ma ancora lo ripeto perché oggi è il giorno adatto — è quella del socialismo liberale che è stato il lascito culturale e politico del partito d’Azione. Se avessi la bacchetta magica farei sì che il Pd fosse un partito d’Azione di massa. Vi sembrerà strano, a voi che mi leggete, ma questo negli ultimi anni della sua vita breve fu anche l’idea di Enrico Berlinguer.
È stato eletto al Colle un antico democristiano di sinistra. Ebbene, è con Aldo Moro che si accordò Berlinguer. Pensateci bene e pensateci tutti.
Repubblica 1.2.15
Walter Veltroni
Mattarella è una figura di garanzia e sarà il presidente di tutti, anche della Lega e del M5S Il fatto che sia circolato il mio nome mi ha fatto piacere, ma io non ho sollecitato nessuno
“Dal premier scelta perfetta ora avanti con le riforme sbaglia chi nel Pd vuol frenare”
intervista di Goffredo De Marchis
ROMA Per tanti motivi Walter Veltroni giudica perfetta l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. «Per le sue qualità umane e politiche», dice. «Per il consenso largo che ha avuto la forza di ottenere e di cui è necessario che goda il presidente della Repubblica. Nella stessa stanza dove siamo noi adesso è nata la candidatura di Carlo Azeglio Ciampi. In tempi ben più aspri di questi unimmo, intorno a Ciampi, destra e sinistra. Come è giusto che sia quando si indica una figura istituzionale». Anche Veltroni era in corsa, infilato da giorni nel toto-Quirinale dentro la pattuglia di candidati ex segretari. In quel gruppo, il suo nome era l’unico con delle chance concrete. «Ho sempre detto a quelli che ho sentito «il presidente sarà Mattarella». Però mi ha fatto piacere essere preso in considerazione ».
L’altro ieri è stato il primo a twittare i complimenti per la scelta di Mattarella. Era l’omaggio dello sconfitto al vincitore?.
«Assolutamente no. Era il riconoscimento sincero verso una persona che conosco da molti anni, dai tempi della battaglia contro la legge Mammì e per la quale ho un affetto personale. Una figura di garanzia che sarà davvero il presidente di tutti, anche della Lega e del Movimento 5stelle. Le istituzioni che non hanno carattere esecutivo o il sindaco chiamato a guidare una comunità, e io lo so bene, devono diventare i garanti di ciascuno e in particolare delle minoranze».
Quanto è stata vera la sua candidatura?
«A me ha fatto molto piacere che sia circolato il mio nome. Mi hanno fatto piacere l’accoglienza della gente per strada, i messaggi, i sondaggi delle tv e dei giornali. Ma mi fa ancora più piacere che sia Mattarella a ricoprire quella carica».
Sul serio?
«Certo. Dal mio telefono infatti non è partita alcuna telefonata ».
Ha sentito Renzi?
«No. Non ho parlato con nessuno, non ho sollecitato nessuno. Tanti anni fa andai da Fabio Fazio e dissi che il mio impegno politico sarebbe finito molto presto. Infatti ho rinunciato a candidarmi, cosa non frequente, e mi sono costruito una vita diversa fatta dei miei film, dei romanzi, dello scrivere. Non ho incarichi di alcun tipo, non ho avanzato richieste a qualcuno per ruoli nazionali o internazionali come legittimamente hanno fatto altri. Proprio per questo sono stato felice che sia nata, non certo da me, l’ipotesi di una mia elezione al Quirinale, ipotesi che ho sempre considerato tale. È stata una soddisfazione personale».
È stato Renzi a stoppare l’ipotesi di una sua elezione al Colle?
«Renzi ha ritenuto di indicare Mattarella e non ha avuto torto. Anzi, ha fatto la scelta giusta e costruito un’operazione riuscita. Aveva bisogno del profilo di un uomo lontano dalle vicende politiche di tutti i giorni. Mattarella lo è. Lui da 7 anni, io solo da 2. Aggiungo che grazie al fatto che questa scelta è stata fatta presto e bene il riformismo democratico è nelle condizioni ora di lavorare per garantire al paese quella uscita dalla recessione che grazie alla iniziativa di Draghi e alle misure del governo ora appare possibile. Sarebbe un fatto storico».
Bersani sostiene che non si poteva fare un nome degli ex segretari Ds e Pd per le beghe e le rivalità interne. È vero?
«Non vedo questo problema. Per quanto mi riguarda non ho aspirazioni né rancori. Non ho sentito questo clima di rivalità ».
Fatto sta che gli ex Dc festeggiano mentre gli ex Ds non sanno fare quadrato e sono fuori da Palazzo Chigi e Colle.
«Sono il meno adatto a entrare in questo tipo di discorso. Ho sempre detto che il Pd non doveva nascere dalla somma delle culture del ‘900, ma sulla base di un vero pensiero democratico rivolto ai diritti, alla giustizia sociale, all’innovazione. In una fusione non ideologica. Per me non esistono né gli ex Dc né gli ex Pci. Sono partiti finiti 20 anni fa, molti ragazzi già in età di voto li trovano solo sui libri di scuola. Per me, è cosa nota, la storia del partito di Berlinguer e di quello di Moro sono molto importanti. Ma poi contano le idee di oggi. Contano i programmi, i comportamenti, la capacità di armonizzare crescita e giustizia sociale, libertà e opportunità. Non è che la sinistra esiste solo se c’è uno di sinistra al vertice delle istituzioni. Le persone che fanno volontariato coniugando fede e ragione possono essere, per me, più di sinistra di chi fa politica solo per la carriera. «.
Cosa cambia nella politica con Mattarella capo dello Stato?
«Le riforme istituzionali devono andare avanti. Sbaglierebbe il centrodestra a fermarle e sbaglia, nel Pd, chi pensa che l’elezione di Mattarella sia lo strumento per cambiarle o ricominciare daccapo. La società ha bisogno di velocità e di decisione. Alla richiesta di un potere semplificato, che contiene un germe autoritario, si risponde con più stabilità di governo, più forza al governo e più capacità di controllo del Parlamento».
Il Pd è più forte?
«Il Pd è più forte perché Renzi ha imboccato la strada della vocazione maggioritaria. Una strada con cui riuscimmo già nel 2008 ad avere una percentuale mai raggiunta a sinistra e a battere il record di voti in termini assoluti. La vicenda di questi giorni apre anche un problema della destra italiana: la nascita di un centro moderato, di un’alternativa come nelle democrazie occidentali.
Se ne deve occupare il Pd?
«Per carità, è un problema loro. Ma evitare derive populistiche a destra è un problema del sistema. Penso alla strage di Charlie Hebdo. Tutto faceva pensare a un’uscita a destra dopo la tragedia, invece la politica, con la marcia di Parigi, si è ripresa la scena. A me non passa mai, più ancora della passione, l’ammirazione per la politica. È una cosa meravigliosa, quella vera.”
Repubblica 1.2.15
Bersani: “Uniti si vince, archiviati i 101”
intervista di G. C.
ROMA Nell’aula di Montecitorio al momento del quorum, i Dem si abbracciano e si stringono la mano l’uno con l’altro: sembra che si scambiano il segno della pace. Il partito è compatto. E Renzi può commentare: «Il Pd ha dato una risposta all’altezza ed è bello anche per gli iscritti e i militanti». La ferita del 2013 quando 101 “franchi tiratori” impallinarono la candidatura di Prodi al Quirinale è superata. Il vice segretario Lorenzo Guerini dice che è «suturata, grazie alla ritrovata unità». La soddisfazione per l’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica mette d’accordo tutti. Non trova voci di dissenso nel partito. Il segretario della “ditta”, Pier Luigi Bersani ne è stato uno dei convinti sostenitori e sulla riuscita dell’operazione non ha dubbi: «È la dimostrazione che quando il Pd è unito e coeso trova buone soluzioni. Rispetto al 2013 è diverso il clima, oggi la chiudiamo quella storia...». S’intende, il tradimento.
Si commuove Roberto Speranza, il capogruppo. Le parole che vanno per la maggiore nei commenti dei Democratici sono “orgoglio” e “capolavoro”. Orgoglio per l’unità raggiunta dal Pd. Dalla delegazione dem che ha tessuto il risultato arriva ai Grandi Elettori, mentre lo spoglio è in corso, l’sms: «Grazie per la serietà. Siamo orgogliosi del Pd e di ciascuno di voi». Firmato: Renzi, Orfini, Speranza, Zanda, Serracchiani e Guerini. «Capolavoro» è l’operazione politica compiuta da Renzi nei tweet di Stefano Bonaccini e Andrea Marcucci.
L’ex premier Enrico Letta, che Renzi defenestrò da Palazzo Chigi, sottolinea con soddisfazione: «L’elezione di Mattarella con un così ampio consenso è un fatto che aiuta le riforme e allunga la legislatura». Ma gli preme anche rimarcare che «Bersani avrebbe potuto giocare una partita personale e invece come sempre ha ragionato in estrema lealtà». E la Sinistradem, corrente di Gianni Cuperlo detta una nota: «Auguri Presidente, è una bella giornata. Siamo contenti di avere contribuito all’elezione di un capo dello Stato garante della Costituzione, dell’equilibrio dei poteri, con un’attenzione vera all’etica pubblica e al contrasto di ogni illegalità ». Dalla minoranza dem non ci si avventura però a prevedere rapporti diversi ora nel partito. «Vedremo», è la risposta di Cuperlo. Stefano Fassina apprezza: «Mattarella è un servitore dello Stato», e ricorda che la Dc non fu tutta uguale, «c’è un giudizio storico e articolato, da cui emergono figure come Mattarella, che appunto votiamo».
Repubblica 1.2.15
Che cosa cambia nella nuova èra del post Nazareno
La destra è un cumulo di macerie. Ma la legislatura durerà a lungo anche se forse non fino al 2018
di Stefano Folli
FINO a che punto l’elezione di Sergio Mattarella («l’operazione politica perfetta », come dice la sua vecchia amica Maria Pia Garavaglia) cambierà il governo, la legislatura e i rapporti politici? Abbastanza, a condizione di non fermarsi a ragionare in forme ossessive intorno al destino del “patto del Nazareno”. C’è dell’altro, al di là del portone di Palazzo Grazioli.
In fondo il patto con Forza Italia non era una camicia di forza, bensì un accordo pragmatico per fare alcune riforme. Una di queste, la legge elettorale, dovrà al momento opportuno essere valutata anche dal nuovo presidente della Repubblica, l’uomo che come giudice costituzionale ha contribuito a bocciare il cosiddetto “Porcellum”, un testo che qualcuno — magari esagerando — vede come il progenitore dell’attuale Italicum. In ogni caso le maglie del Nazareno erano piuttosto larghe, senza le clausole super-segrete immaginate da osservatori fantasiosi.
Al dunque, Renzi lo ha stracciato per mille ragioni, ma anche per dimostrare al mondo che l’accordo con Berlusconi non era né poteva essere una diarchia politica, una sorta di condominio. Era invece, e può essere ancora, un’intesa parlamentare in cui il centrodestra offre un contributo istituzionale e ne riceve in cambio il riconoscimento come interlocutore privilegiato. Se c’era una zona grigia, oggi potrebbe essersi rischiarata: forse nel cambio di passo del premier, che ha voluto scrollarsi di dosso i condizionamenti, hanno influito le polemiche sul decreto fiscale poi accantonato e rinviato. Da quel mezzo infortunio è cominciata un’altra storia. E oggi, dopo il Quirinale, Renzi appare un politico senza dubbio spregiudicato, ma anche maturato nella sua capacità di leadership. In grado di resistere alle pressioni e di non perdere di vista i suoi obiettivi.
Forse è maturato anche il Partito Democratico che è riuscito ad accantonare le divisioni interne: non è poco. La minoranza di Bersani ha salvato la sua dignità e oggi può riconoscersi in Mattarella, personalità della sinistra cattolica. È noto l’argomento polemico: si dice, fra il serio e il faceto, che sta rinascendo la Dc. Ma non è vero. È stato eletto un presidente della Repubblica, non un capo politico. Mattarella, come ieri Napolitano e l’altro ieri Ciampi, appartiene a uno dei filoni della cultura politica nazionale, ma il suo compito è garantire il rispetto delle regole costituzionali. Quanto a Renzi, il suo “partito della Nazione” si fonda sul bipolarismo, quindi tutt’altra storia rispetto alla Dc; al punto che Arturo Parisi osservava tempo fa che per l’equilibrio del sistema occorre averne due, di partiti “nazionali”.
Ma il caso vuole — a tale proposito — che a destra non ci sia un cantiere aperto, bensì un cumulo di macerie. Berlusconi, attirando a sé Alfano, ha tentato di farsi protagonista della scelta del capo dello Stato, ma ha fallito. Renzi si è divincolato dall’abbraccio e ha gettato lo scompiglio nel campo di Arcore. Nel 2013 fu il Pd a lacerarsi intorno al Quirinale, stavolta tutte le contraddizioni sono state esportate nel centrodestra. Ma è facile prevedere che Berlusconi resterà fedele a quel che resta del Nazareno perché non ha un altro gioco da tentare. Del resto, la legislatura durerà ancora a lungo, anche se forse non fino al 2018. E il frettoloso ritorno a casa dei centristi si spiega con il desiderio di sfruttare fino in fondo le posizioni di rendita ministeriale, essendo saltate le alternative. Non c’è all’orizzonte alcuna rinascita del centrodestra sotto la guida diretta o indiretta di Berlusconi. E infatti chi ricava il maggior vantaggio da questo anno zero è il solito Salvini, con la sua linea populista radicale e anti- europea.
Quanto al governo, le difficoltà di Renzi sono le stesse di una settimana fa, alleviate solo da alcuni segnali economici più incoraggianti. Certo, la “verifica” chiesta dal Ncd per nobilitare il rientro in maggioranza non va presa troppo sul serio. Ha il sapore, essa sì, di un vecchio rito democristiano. E poi gli alfaniani devono fare attenzione a non perdere un ministero o un paio di sottosegretari.
il Fatto 1.2.15
Tutti a casa
La resa degli ex comunisti “Non contiamo più nulla”
I rossi sconfitti nella partita del Quirinale
Dall’amaro Sposetti al Veltroni silente
E Giorgio Napolitano ammette: “La nostra storia è finita quando non aderimmo al Pse”
di Antonello Caporale
Restituiti al Novecento, al secolo che li ha visti nascere e morire. Oggi utili attaccapanni di Matteo Renzi. E anche imperdibili protagonisti dei retroscena, preziosi nelle rievocazioni storiche, inaffondabili fratelli coltelli. “Abbiate pietà di noi comunisti. Non contiamo più niente”, è la lapide che poggia sul petto il compagno Ugo Sposetti. Un valoroso ex. In quest’aula così plaudente, unanime, esagerata nel sorriso, di rosso (deviato però verso un fucsia di periferia) resiste solo la chioma bigodinata della sindacalista toscana della Cgil Valeria Fedeli che siede sull’alto scranno, alla destra della Boldrini, in qualità di vice presidente del Senato (il titolare è nelle funzioni di supplente del Capo dello Stato). Assiste e piange quando è proclamata la beatificazione di Sergio Mattarella, anzitutto e soprattutto democristiano.
Bianco di cuor e di capelli, il nuovo presidente trova casa alla Dc e riduce a clochard i figli e i nipoti di Botteghe oscure.
“Abbiamo sempre subìto le differenze personali, le diverse ambizioni, gli umori degli uni contro gli altri”, dice Andrea Orlando, il ministro della Giustizia. Vera e così tragica la sua riflessione che la corrente dei giovani turchi, di cui è azionista, ha voluto differenziarsi dagli altri Pd segnalando l’adesione al voto con l’aggiunta della sigla del nome di battesimo di Mattarella. Contarsi per contare almeno un po’. Tragica perchè il cognome vincente a Renzi l’ha dato l’ex comunista Bersani a dicembre. Lo stesso nome che Berlusconi aveva rifiutato due anni fa e che a capodanno sembrava invece di suo gradimento. Bersani, smacchiatore mancato, era consapevole che invece per lui la strada sarebbe stata storta. Come sempre. E il premier ha effettivamente verificato il traffico di sms confliggenti che accoglievano le proposte di Veltroni, Finocchiaro, Fassino e tutta l’allegra brigata.
RICORDA BENE David Ermini, avvocato fiorentino, vicino di casa di Matteo, perciò deputato, che i no, i distinguo, le perfidie si espandevano quando c’erano di mezzo gli ex comunisti.
Il colore del volto del sindaco di Torino Piero Fassino, ieri, era non a caso di una vivissima cenere e l’umore black, come al solito. Ha tolto di mezzo un cronista che gli chiedeva un commento sull’elezione e si è rifugiato in una palestra a festeggiare le giornate di sport sotto la Mole. Non una sillaba. Muto proprio, e lui in genere non si fa pregare. Crudele testimonianza che più si è fratelli e più si è coltelli. Moltissimo coltelli. Infatti Ileana Argentin commenta: “Le conflittualità battono sempre la realtà”.
Quali sono le conseguenze di questo amore tragico? “Devo dire la verità: mille volte meglio Mattarella di Napolitano. È più progressista, più netto, più limpido questo democristiano di tanti comunisti finti. Io mi fido più dei primi che dei secondi”, dice Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel. Le parole sono pietre, e di un bel granito è la frase di Rosy Bindi: “Forse noi della Dc siamo stati più di sinistra di quegli altri”. Forse sì. “Non voglio rovinare la festa”, concede il generoso Giorgio Tonini.
Il Transatlantico è divenuto l’appendice postuma della Balena bianca. Dc di ogni annata si sono ritrovati. Fossero solo i siciliani, nelle loro singolari declinazioni (bianchi, bianco-rossi, bianco-neri) ad esultare per il conterraneo! Arrivano dalla Puglia e dal Piemonte, dalle Marche. Di nuovo in armi.
Quegli altri, cioè i rossi, sono intanto spariti dal Transatlantico. Massimo D’Alema, da una legislatura fuori dalla porta del Parlamento, manda le congratulazioni, che sono anche sincere perchè Mattarella è stato il suo vice al tempo del governo da lui diretto. Veltroni non si sente e non si vede, di Fassino abbiamo detto, di Chiamparino abbiamo visto l’andatura storta, il passo laterale, il sorriso spento.
STEFANO FASSINA ha la postura del viandante e l’eloquio morigerato. Ha votato pure lui ed è contento. Basta così. Cesare Damiano: “Il fatto è che nel nostro partito esistono tante individualità”. Il veltroniano Walter Verini: “Il fatto è che il Pci fa parte del Novecento, è storia conclusa. Mi è indifferente che Mattarella venga dalla Dc, per me è un antesignano del Pd. Purtroppo c’è chi non ha metabolizzato”.
“L’errore madornale è stato quando al tempo della svolta non abbiamo fatto subito una scelta di campo aderendo al partito socialista europeo. La nostra storia è finita lì”, spiega ai reduci interdetti Giorgio Napolitano, il comunista uscente.
Napolitano? “Proprio lui che da migliorista, lo ricordo bene perchè guidavo la segreteria di Enrico Berlinguer, non perdeva occasione di una stilettata, una specificazione, una precisazione, una distinzione”. Dal salotto di casa, in piazza Farnese, Achille Occhetto scava nella memoria. E sempre sono pietre. Irriducibili, incomponibili, eterni coltelli.
Meno male che è finita dicono i banconisti della buvette. Frittelle, tramezzini e arancini sono andati a ruba, restano in vita tre macedonie, due piatti di melone, e poi prugne e mele cotte. La pietanza della terza età o del partito che fu.
il Fatto 1.2.15
Stava nel Pci: Claudio Petruccioli
“Renzi come Federer. Che gran colpo”
intervista di Paola Zanca
“Siamo morti democristiani? Ma basta con questa storia. È roba di un ventennio fa! ”. Claudio Petruccioli - iscritto al Pci dal 1959, ex direttore de l’Unità, ex presidente della Rai - si è stancato dell’annoso dibattito sulle due anime del partito democratico. E guai a riproporglielo a proposito dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale.
I democristiani vi hanno spazzato via.
Io ero nella segreteria del Pci 25 anni fa, quando cadde il Muro di Berlino. E che il Pci fosse morto, lo abbiamo deciso allora. Mi pare che la Dc si sia sciolta ufficialmente nel ‘94 quando Mino Martinazzoli fondò il Partito popolare... Sono passati vent’anni, smettiamo di menarla con questa storia. Non possiamo stare ancora fermi lì!
Mattarella, comunque, democristiano è.
Vabbè, ma dopo la Dc ci sono state tante cose: il partito popolare, la rottura con Buttiglione che voleva allearsi con Berlusconi...
E pure lei, resta un ex comunista.
Guardi, lo dice uno che si è fatto da parte perché considerato troppo “nuovista”: forse, se i dirigenti del Pci fossero stati un po’ più audaci, se ci fosse stato un po’ più di spirito innovativo...
Allora è colpa vostra?
Diciamo che abbiamo sbagliato tante di quelle cose... La verità, è che per trovare uno coraggioso, che avesse in testa l’idea che la sinistra potesse vincere, è dovuto arrivare Matteo Renzi.
Ex democristiano anch’egli.
Il Pd è un partito del tutto diverso. E poi, il Pd, non è mica un’idea che è venuta solo agli ex comunisti... C’erano persone come Pietro Scoppola (storico, esponente del cattolicesimo democratico, tra i fondatori de l’Ulivo, ndr)... Voi continuate a trattarlo come un’accozzaglia senza forma. Ma oggi, si è visto finalmente cos’è il partito democratico e con quale orgoglio esprime la sua identità.
Lei lo ha scritto su Twitter al momento dell’elezione a Montecitorio: “Matteo Renzi, chapeau”.
Ho scritto anche che seguire Matteo Renzi in questi giorni mi ha dato la stessa soddisfazione di guardare giocare Roger Federer quando è in forma.
Il nome di Mattarella è stato un colpo di genio? È riuscito a mettere praticamente tutti d’accordo.
Mah, a me sembra un ragionamento molto lineare. Fare politica è un po’ come guidare: devi restare in strada. Tra l’altro, io sono due mesi che lo dicevo: si va su Mattarella.
Lo conosce?
Sì, siamo coetanei: tutti e due nati nel ‘41. E tutti due siamo entrati in Parlamento nello stesso anno, il 1983. Diciamo che è un po’ come vedere al Quirinale un compagno di scuola.
Che presidente sarà?
A uno con una biografia come la sua, non si può proprio dire niente. E sono sicuro che interpreterà il suo ruolo con rigore. È uno che nella sua vita non ha mai travalicato, non vedo perché dovrebbe farlo ora.
La Stampa 1.2.15
La Sinistra “porta a casa la pelle” quasi felice di morire democristiana
Rangeri: certo, lo spazio politico resta quello che era Castellina: ma non possiamo sperare in un nostro Renzi
di Jacopo Iacoboni
Parlare di «vittoria della sinistra» per l’elezione di Mattarella è velleitario. Ma è anche vero che, con Mattarella, forse la sinistra italiana incassa il massimo che potesse incassare oggi: un democristiano di sinistra. E, forse, rientra in una qualche agibilità politica, dopo esser stata spazzata via da Renzi nella vicenda della legge elettorale e delle riforme.
«La sinistra porta a casa la pelle», sorride Norma Rangeri poco prima di iniziare la riunione del manifesto. «Se non fosse stato per i sondaggi in calo, le divisioni interne al Pd, l’ira della minoranza, Renzi non avrebbe certo scelto Mattarella. Cioè un uomo con una cultura un po’ più vicina alla sinistra». Naturalmente, ragioniamo con Rangeri, «lo spazio per un’ipotetica forza a sinistra di Renzi resta quello che era: non si riduce né si accresce. Anzi, da un certo punto di vista le cose si complicano: anche la fiammata Cofferati, avvenuta dopo le primarie Pd con i brogli in Liguria, «è ora più difficile, e molto più improbabile un’uscita della minoranza Pd».
Nondimeno, proprio nel giornale del grande Luigi Pintor, che scrisse il memorabile «Non moriremo democristiani» (28 giugno 1983, dopo la mediocre vittoria di misura della Dc di De Mita sul Pci), sanno - parole di Rangeri - che «spesso è meglio per la sinistra italiana un democristiano di sinistra che un comunista migliorista». Non è necessario dare i nomi a questi due eloquenti profili.
Vedremo. Certo di Pintor si ricorda sempre il «non moriremo democristiani», e poco l’ultimo editoriale, «La sinistra italiana che conosciamo è morta» corrosa dalla voglia di governare costi-quel-che-costi. La triste profezia del vincere-per-vincere. Meglio, riteneva Pintor, pensare il futuro tra movimenti, forze sociali, giovani. Un soggetto nuovo, non una somma di uscite dai partiti.
È la tesi di Stefano Rodotà su Micromega: «Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, ex Rifondazione e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre».
Con l’elezione di Mattarella, poco cambia. Anzi, la prospettiva guadagna sulla carta un sicuro difensore della Costituzione. Già, la Costituzione. Gustavo Zagrebelsky faceva notare che «questa è la prima elezione di un presidente della Repubblica gestita da un presidente del Consiglio. Nella Costituzione l’elezione è una vicenda indipendente, gestita dai gruppi parlamentari, cioè i partiti. Qui è diventata una vicenda interamente governativa». Rilevantissima critica; da sinistra ci si aspetta che Mattarella sia molto meno lord protettore del governo, e molto più della Carta. Anche qui, sarà il tempo a giudicare.
Luciana Castelina è contenta. Le parliamo alla fine di un seminario a Roma sulla sinistra dopo la vittoria di Tsipras, «siccome la sinistra è divisa - scherza la signora - c’è un seminario al giorno». Castellina è certa che «Mattarella sia una persona affidabile, difende la Costituzione, è stato uno dei pochi dc a schierarsi contro la Mammì. Da questo punto di vista io parlerei anche di una vittoria della sinistra Pd. Renzi ha capito che stava tirando troppo la corda. Naturalmente Mattarella è un democristiano, ma sappiamo che il presidente dev’essere una figura di mediazione». Paradossalmente, incassare un democristiano di sinistra sbollisce la rabbia della sinistra Pd, e allontana altre prospettive a sinistra? «Non sono mai stata per il tanto peggio tanto meglio. Non credo che dobbiamo sperare che Renzi faccia il peggio. Certo io Renzi continuerò a combatterlo fino in fondo per le sue politiche». Con chance, a breve, di rivedere una forza a Sinistra? Manca una personalità, anche; ma la signora la vede non come noi, «io non ho mai amato la politica delle personalità, preferisco la costruzione dei soggetti».
La Stampa 1.2.15
La minoranza Pd alla cassa
“Ci ascoltino anche sulle riforme”
Enrico Letta elogia Bersani: bisognerebbe ancora dargli atto della sua lealtà
Il numero due del partito Guerini: con Berlusconi si deve ricucire al più presto
di F. Schianchi-C. Bertini
Con il premier che passa a pochi metri da lui, Enrico Letta non scambia neanche uno sguardo. Renzi si infila nel corridoio dei ministri mentre l’ex premier resta algido e immobile sulle gambe. E se spende una parola è per il suo amico Pierluigi, «che ancora una volta ha dimostrato lealtà e bisognerebbe dargliene atto». Certo, le prime considerazioni di Letta sono nei riguardi di Mattarella, «con il quale ho un ottimo rapporto da anni» e la cui elezione «allungherà la legislatura», garantendone la durata fino al 2018. Insomma la presenza di Mattarella al Colle «farà di sicuro bene alle riforme», è la premonizione di Letta. Il quale sembra dare il merito a Bersani della compattezza del Pd, perché «poteva giocare una partita personale e invece come sempre ha ragionato in estrema lealtà».
Le prossime due curve
Mezz’ora dopo, due commessi corrono verso la sala del governo imbracciando vassoi di pizzette, rustici, grissini foderati di prosciutto e calici di prosecco. Che vengono alzati da Matteo Renzi insieme a Giorgio Napolitano, Andrea Orlando e pochi altri quando viene superata la fatidica soglia di 505 voti. L’atmosfera è quella dei grandi momenti, il tornante più delicato è superato alla grande. Ma ora bisognerà rimettersi all’opera per superare gli altri tornanti, quelli delle riforme più spinose che attendono il governo. Primo scoglio: l’Italicum, in arrivo alla Camera. Non sembrano avere speranze le pretese di Bersani e compagni di scardinare i capilista nominati: «Abbiamo i voti per farlo passare e non deve tornare ancora una volta al Senato», ragionano più tardi insieme al premier i protagonisti della partita. E’ proprio al Senato dove i numeri sono scarsi che si annidano le trappole, vista la frattura del patto del Nazareno, che come ammette Lorenzo Guerini, «si deve ricucire al più presto». Anche perché i berluscones stanno preparando la rappresaglia alla Camera sull’altra riforma cardine, quella costituzionale. Il relatore del Pd Emanuele Fiano è più tranquillo rispetto al giorno dello strappo, dopo aver parlato col plenipotenziario di Verdini, Massimo Parisi. Ma se Forza Italia sfornasse centinaia di emendamenti per rallentare la corsa sarebbe un bel problema.
La battaglia dei dissidenti
Pur sapendo che la strada è comunque in salita, la minoranza Pd non ha intenzione di fare un passo indietro sulle riforme. «Io non recederò dalle critiche fatte», conferma Rosy Bindi. Certo, però, il clima creato da questa elezione condivisa è diverso da pochi giorni fa, quando Stefano Fassina individuava Renzi come capo dei 101 contro Prodi: «L’aria è migliorata - dice ora - da parte nostra c’è maggiore disponibilità all’ascolto, speriamo anche da parte del governo». Il ministro Orlando è soddisfatto di vedere «un Pd unito come non lo era da tempo. Ora le contraddizioni esplodono nelle altre forze politiche: dev’essere una lezione anche per quello che abbiamo davanti». Ai prossimi passaggi critici ci si pensa da domani. Senza suggestioni di spostamenti a sinistra della maggioranza. «Non rinasce oggi il centrosinistra, perché non cambia l’agenda di governo», chiarisce Nichi Vendola. La collaborazione si ferma all’elezione di Mattarella, «un uomo limpido e di grande rigore morale, di cui non bisogna scambiare la mitezza per cedevolezza».
Corriere 1.2.15
Mattarella presidente, quei 70 franchi soccorritori che spaccano Forza Italia
I consensi in più al capo dello Stato, le scelte degli azzurri che non hanno votato scheda bianca
di Monica Guerzoni e Dino Martirano
qui
Corriere 1.2.15
Un tramonto doloroso
La dissoluzione del centrodestra
Lo spettacolo umiliante di questi giorni ne rivela l’insipienza tattica e la confusione. L’unico in partita è Salvini, ma è l’opposto di una cultura di governo
di Pierluigi Battista
qui
Corriere 1.2.15
Una scelta che segnala il declino di Berlusconi
di Massimo Franco
Dalle reazioni stizzite del centrodestra, viene da pensare che il tramonto del ventennio berlusconiano sia sancito non solo dal successo di Matteo Renzi, ma dall’elezione di Sergio Mattarella. Sono soprattutto il profilo politico e culturale del nuovo capo dello Stato e il modo in cui è stato scelto a sottolineare l’involuzione del partito-simbolo della Seconda Repubblica, Forza Italia. Parlare di resurrezione della Prima può servire come arma polemica. In realtà, è finita la finzione di una ricomposizione dell’area moderata plasmata nel 1994. Al suo posto ci sono tribù in lite, senza più leader né voti.
Il vicesegretario Lorenzo Guerini si spinge così ad affermare che ieri sono state «suturate le ferite» del Pd dopo il brutto spettacolo del 2013. Quelle del centrodestra, invece, sono apertissime; e destinate ad aggravarsi. L’insistenza con la quale i parlamentari di FI giurano di non essere stati «franchi tiratori» alla rovescia, votando per Mattarella, è la conferma della frantumazione: anche perché una cinquantina di schede sono arrivate da lì. E l’abbraccio del Nuovo centrodestra al presidente della Repubblica avviene dopo convulsioni e conati di rivolta contro Renzi, accusato di avere violato i patti; e dopo un simulacro di alleanza con Berlusconi.
Lega e Fratelli d’Italia parlano come se fossero usciti indenni. Forse, ma perdenti certamente: la loro ininfluenza è vistosa, e confermata dalla scelta di non presentare nessuna candidatura in grado di spostare i «grandi elettori». «Nulla sarà come prima», avverte Il Mattinale , bollettino del gruppo di FI alla Camera. Parla di «azzardo morale» e seppellisce il patto del Nazareno Renzi- Berlusconi del 18 gennaio 2014. È comprensibile. Eppure non si vede come FI possa rinunciare davvero alle riforme. L’unica spiegazione è che i problemi interni siano tali da imporre un temporaneo smarcamento da Palazzo Chigi.
L’accusa a Berlusconi, al suo plenipotenziario presso Renzi, Denis Verdini, e a Gianni Letta, è di essersi schiacciati su Palazzo Chigi, e poi fatti ingannare. FI esalta la «generosità» dell'ex Cavaliere, e sostiene che con lui non dimezzato dalle condanne sarebbe andata diversamente. Un ritorno all’opposizione dura sulla scia di una sconfitta resa cocente da una strategia sbagliata, potrebbe essere a doppio taglio; e magari accelerare la resa dei conti, perché un Pd ricompattato dall’esito del Quirinale ha meno bisogno di Berlusconi e del Ncd.
Per questo l'ex Cavaliere invita a non forzare i toni. Sa che, per andare avanti, a Renzi basta un Angelino Alfano indebolito dal breve sodalizio con FI; e costretto a sostenere il governo e le riforme, visto il suo ruolo di ministro dell’Interno che il premier non ha mancato di ricordargli ruvidamente quando esitava a votare Mattarella. Insomma, in apparenza la maggioranza è intatta. Però sono cambiati i rapporti di forza. Ed è diventato evidente lo sbilanciamento di ciò che resta del patto del Nazareno. Per il centrodestra si profila un lungo tragitto tra macerie che nessuno ha voluto vedere. Dovrà affrontare una ricostruzione della propria identità, oltre che della leadership. Col pericolo di essere infilzata a metà strada.
il Sole 1.2.15
E ora il rischio implosione è dietro l’angolo
di Barbara Fiammeri
La proporzione della sconfitta subita dal centrodestra non può essere attribuita solo alle capacità di Matteo Renzi. Fi e Ncd (meno l’Udc), e quindi Silvio Berlusconi e Angelino Alfano, hanno dato un significativo contributo alla vittoria schiacciante del premier. Un insuccesso che probabilmente è anche l’unica eredità che resta della fugace riunificazione tra le due anime del centrodestra, entrambe dilaniate da lotte intestine, di cui i numeri dello scrutinio sono la testimonianza più trasparente, e che mette a repentaglio anche l’alleanza per le prossime regionali.
Le ragioni di questa débâcle hanno cause evidenti, che vanno rintracciate anzitutto nell’assenza di lucidità politica tanto di Berlusconi che di Alfano. E certo non può essere una scusante, anzi fa quasi sorridere, l’accusa di «spregiudicatezza», di «slealtà» del premier, visto che le manovre, i colpi bassi e i cambi di alleanze sono molteplici nella storia delle elezioni presidenziali.
L’harakiri del centrodestra sta soprattutto nella reazione tardiva e confusa. Fin da mercoledì pomeriggio era chiaro a tutti che il segretario del Pd, di lì a poche ore, avrebbe ufficializzato la candidatura al Quirinale di Sergio Mattarella. A Berlusconi il premier glielo aveva comunicato nel faccia a faccia tenutosi a Palazzo Chigi all’ora di pranzo. Smaltita la rabbia e preso atto della scelta del premier di procedere senza se e senza, c’erano ancora ventiquattr’ore per preparare una reazione, visto che l’assemblea del Pd era stata convocata per l’indomani, prima dell’avvio delle votazioni previsto per le 15. Ore invece trascorse nel velleitario tentativo di far tornare sui suoi passi il premier. Velleitario perché ormai la scelta di Renzi era chiara: puntare anzitutto sui 440 grandi elettori del Pd.
La strada era quindi obbligata: si doveva prendere atto della sconfitta per la mancata candidatura condivisa e attenuarla; anticipare Renzi, annunciando per primi la scelta di Mattarella, ex democristiano, giudice costituzionale, da tutti stimato e rispettato, come ci hanno tenuto a far sapere pubblicamente e ripetutamente tanto l’ex Cavaliere che il ministro dell’Interno. In questo modo avrebbero così posto il sigillo sul candidato per un’elezione al primo scrutinio, mettendo in difficoltà la sinistra Pd e Sel che nuovamente si sarebbero trovate di fronte al patto del Nazareno, alla maggioranza dell’Italicum. E se incautamente nuovi mal di pancia avessero preso la minoranza dem, impedendo il raggiungimento del quorum qualificato dei due terzi, Berlusconi e Alfano avrebbero potuto evidenziare le difficoltà del premier che, come avvenuto al Senato pochi giorni prima sull’Italicum, aveva raggiunto il risultato grazie all’appoggio decisivo di Ncd e Fi. Berlusconi e Alfano, con il “contributo” dei loro principali collaboratori, hanno invece dato vita a uno psicodramma, con gruppi parlamentari allo sbando e pronti all’ammutinamento. Ecco perché quel che più colpisce non è tanto la sconfitta, ma appunto le sue dimensioni, che vanno ben al di là del mancata elezione al Quirinale di un «candidato condiviso». Fi e Ncd sono ormai prossime all’implosione. La stagione della riunificazione del centrodestra è già al tramonto visto che i partiti al momento del voto si sono presentati divisi. Ma anche questo non poteva non essere messo in conto con largo anticipo. Fin dall’inizio di questa vicenda era infatti scontato che Ncd non poteva non votare Sergio Mattarella. A meno di non voler aprire una crisi di governo con le dimissioni dei ministri centristi a partire dal titolare del Viminale nonché leader di Ncd.
il Sole 1.2.15
Riforme avanti, la paura delle urne conta più dello «sgarbo»
di Emilia Patta
Con la fortunata operazione politica che ha portato all’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, elezione avvenuta a larga maggioranza anche senza l’apporto di Forza Italia, Matteo Renzi ha contemporaneamente compattato - almeno per il momento - il suo composito partito e dimostrato ai suoi detrattori interni ed esterni che il famoso “patto del Nazareno” non comprendeva scambi sulla successione a Giorgio Napolitano. L’accordo siglato un anno fa alla sede del Pd dal neo segretario non ancora premier con l’avversario storico del centrosinistra rientra dunque nei suoi confini: un patto per dare al Paese una nuova legge elettorale e un assetto istituzionale più moderno, basato sulla fine del bicameralismo perfetto. La delusione di Berlusconi, rimasto ferito e isolato nella partita più importante della legislatura, avrà ora ripercussioni sul cammino dell’Italicum e della riforma costituzionale?
Tutto porta a pensare che la convenienza di Berlusconi è quella di non strappare il filo con Renzi, a conti fatti l’unico vero interlocutore politico del domani per un partito come Forza Italia che vuole restare nell’ambito del popolarismo europeo. E i renziani più vicini al premier, così come lo stesso Renzi, ne sono convinti: ci saranno un paio di settimane di frizione e di dramma interno a Forza Italia - dicono - e poi tutto tornerà dentro i binari previsti. Ecco, i binari. Perché rispetto a un anno fa legge elettorale e riforma costituzionale hanno cominciato a viaggiare, e in entrambi i casi la strada che è davanti è in discesa: ed è qui,anche, il motivo della relativa tranquillità che si respira in tema di riforme tra Palazzo Chigi e Largo del Nazareno. Renzi è stato abile ad imporre il suo timing rifiutando la proposta di Berlusconi di eleggere prima il nuovo Capo dello Stato per poi dedicarsi all’Italicum in Senato. Ed è stato abile ad ottenere il sì di Fi anche al premio di lista una settimana fa, mentre la partita sul Colle era ancora aperta. Con l’approvazione dell’Italicum in Senato, mercoledì scorso, Renzi ha avviato alla conclusione la partita politica più delicata, quella alla quale teneva e tiene di più. Portando a casa una legge che oltre al pregio di garantire la governabilità ha ai suoi occhi anche il pregio di rafforzare il Pd con il premio alla lista, soluzione che toglie di mezzo d’un colpo la necessità di allearsi con i piccoli partiti della sinistra subendone i veti e i ricatti sul programma di governo. E ora l’ultimo passaggio alla Camera per l’Italicum si annuncia relativamente tranquillo, vista la maggioranza di cui il Pd gode a Montecitorio, nonostante la battaglia annunciata dalla minoranza dem sulla questione dei capilista bloccati. Dopodiché la pistola carica di una nuova legge elettorale sarà in qualche modo sul tavolo, anche se l’Italicum si applica solo alla Camera (per il Senato resterà in piedi il Consultellum fino ad approvazione definitiva della riforma costituzionale che abolisce il Senato elettivo).
Quanto alla riforma costituzionale, è vero che deve ripassare per almeno due volte in Senato, dove i numeri sono risicati e dove - come ha dimostrato la vicenda dell’emendamento Esposito - i voti di Forza Italia potrebbero essere determinanti a fronte della persistente dissidenza interna che si conta in una trentina di senatori. Ma è anche vero che il Senato in terza lettura dovrà esprimersi solo sulle parti modificate nel frattempo dalla Camera, e si tratta di parti che non mettono in discussione l’impianto della riforma, ossia la modalità di elezione dei nuovi senatori e l’iter legislativo. Va ricordato poi che alla seconda doppia lettura prevista dalla Costituzione dopo tre mesi le Camere saranno chiamate ad esprimersi a maggioranza assoluta con un sì o un no in blocco, senza possibilità di presentare emendamenti. Sicuramente non sarà una passeggiata, viste le molte perplessità sulla riforma della minoranza dem a partire da quelle più volte espresse da Pier Luigi Bersani. Ma è anche vero - come sostengono i renziani - che in un certo senso il grosso è stato fatto con la prima approvazione della riforma in Senato la scorsa estate. E se tutto dovesse incagliarsi c’è sempre, sul tavolo, la pistola carica delle possibili elezioni anticipate: basterebbe infatti un decreto per togliere la clausola di salvaguardia dell’Italicum che ne posticipa l’entrata in vigore al 1° luglio 2016 (decreto che non dovrebbe essere convertito dal Parlamento uscente in caso di voto). Ma la forza di Renzi, che non ha interesse a tornare presto alle urne se le sue riforme andranno avanti, è soprattutto politica. Il patto del Nazareno molto probabilmente reggerà, ma dopo la vicenda Mattarella c’è un solo azionista di maggioranza.
La Stampa 1.2.15
M5S, strategia fallita. Ora crescono i malumori
Il movimento esce con le ossa rotte e guarda a Podemos e Syriza
di Francesco Maesano
Immobili, quasi ipnotizzati dal battimani ritmico di due terzi dell’emiciclo. Nessun gesto plateale è consentito, neanche l’abbandono del posto: la fotografia dello stallo in cui versa il M5S è tutta lì. Sergio Mattarella è presidente della Repubblica e il Movimento non sa come spiegare, e come spiegarsi, il fatto di non essere mai sceso in campo nel corso di una partita che ha prodotto un ridimensionamento del patto del Nazareno.
«Merito nostro, abbiamo innalzato la qualità della politica», provano a declinare un po’ tutti, rispondendo agli input che arrivano da Milano. Ma la realtà dei due tentativi tattici, delle due incursioni nel campo avverso nel giro di pochi giorni, prima con la sinistra Pd e poi con i renziani, resta agli atti.
Strateghi della domenica
Un minuto dopo l’elezione il blog di Grillo tenta una clamorosa strambata. Il giorno prima Mattarella sembrava responsabile delle morti legate all’uranio impoverito, il giorno dopo diventa «una persona rispettabilissima e, per certi versi, migliore anche di Prodi». Carlo Sibilia segue tutto lo scrutinio in piedi come Alessandro Di Battista. L’idea di giocare di sponda col Pd passava soprattutto da loro. Quando l’aula si svuota il commento più gentile dei colleghi è «strateghi della domenica».
E gli ex gongolano
Alla fine, quando Laura Boldrini proclama eletto Mattarella, gli applausi arrivano anche da qualche Cinquestelle. Abbastanza pochi da poterli contare: Di Maio, Sibilia, Grande, Taverna, Ciprini, Grande, Cioffi, Baroni. Cecconi non s’arrende e in Transatlantico intona il grido dell’ultimo dei Mohicani: «Non moriremo democristiani». Intanto gli ex-M5S gongolano. «Nel Movimento sono arrivati alla sindrome bipolare - attacca Rizzetto - ieri crocefiggevano Mattarella, oggi lo esaltano».
La vittoria di Fico
Roberto Fico esce dall’aula con l’aria di chi aveva ragione dall’inizio. Nega divisioni all’interno del direttorio: «È normale che si discuta ma le decisione vanno prese insieme». Poi offre il benvenuto del Movimento al nuovo presidente: «Le parole ci piacciono, vediamo i fatti, a partire dalla legge elettorale». Dall’inizio contrario all’idea di cercare sponde, nell’elezione di Mattarella vede il riconoscimento di una ragione che sentiva di avere dall’inizio. Luigi Di Maio, che va ad abbracciare Imposimato nel suo appartamento all’Eur e si dice «fiero di non aver votato Prodi».
I modelli Podemos e Syriza
Ora le voci di dentro parlano di una fase di riorganizzazione imminente. I senatori chiedono di essere inclusi nei meccanismi decisionali e anche sull’idea di ricorrere a delle «strategie» molti chiedono che si passi dallo spontaneismo di questi giorni a una maggiore articolazione. Il blog sembra confermare: «D’ora in poi sarà bene adattarsi all’idea di un M5S meno prevedibile del passato». Un po’ meno schizzinosi, un po’ più aperti, sul modello di quanto succede con gli altri movimenti europei: se prima formazioni come i greci di Syriza e gli spagnoli di Podemos erano viste con sospetto, ora la linea sta cambiando, e il Movimento a corto di carburante potrebbe cercarne un po’ anche da loro.
La Stampa 1.2.15
Madrid, migliaia in piazza con Podemos per dire basta all’austerità
Grande corteo del partito in testa ai sondaggi in vista delle elezioni amministrative
qui
Corriere 1.2.14
L’eurosinistra radicale spodesta quella storica
di Luigi Ippolito
Il clamore che si è levato ieri dalle piazze di Madrid (e in altro modo dalle urne greche domenica scorsa), con l’imponente manifestazione della sinistra alternativa di Podemos , segnala di converso un’afasia speculare: quella della sinistra storica europea.
La prima controproposta organica — e di massa — alle ricette dell’austerità viene da formazioni politiche non tradizionali. Innanzitutto Syriza, fresca vincitrice delle elezioni ad Atene, formatasi poco più di due anni fa, e quindi lo spagnolo Podemos, costola del movimento anti casta degli indignados. Organizzazioni, per di più, che perseguono forme di mobilitazione diverse da quelle partitiche classiche: Syriza con la sua rete sociale di volontariato, Podemos con il suo appello alle piazze.
Una proposta che incontra il favore dell’elettorato nei Paesi più colpiti dalle politiche del rigore: dopo la vittoria di Syriza, anche Podemos risulta in testa ai sondaggi d’opinione in Spagna in vista delle elezioni di fine anno.
Una capacità di movimento a cui fa da contraltare, come si è detto, l’incapacità della sinistra storica di articolare una risposta all’ortodossia di marca germanica. Esempio principe il socialista francese François Hollande, eletto presidente con la parola d’ordine di cambiare verso alle politiche europee e che — complice il crescente affanno dell’economia transalpina — si è dovuto accomodare al verbo merkeliano, nominando un ex banchiere di Rotschild come Emmanuel Macron alla guida del ministero economico.
Ma anche la socialdemocrazia tedesca non è altro che la pallida ombra di Angela Merkel, con la quale peraltro governa in coalizione. Per non parlare dei socialisti spagnoli, mai veramente riavutisi dall’uscita di scena di Zapatero e ormai scavalcati in corsa da Podemos, o dei greci del Pasok, ridotti alle ultime elezioni a una percentuale risibile.
Il 2015 sarà probabilmente ricordato come l’anno in cui si è aperta un’altra stagione.
Corriere 1.2.15
Israele e le colonie che irritano gli americani
di Davide Frattini
Gli attivisti di Pace Adesso li chiamano «saldi prima delle elezioni». Per la Casa Bianca e la Farnesina rappresentano una decisione sbagliata. Per i palestinesi sono «mosse criminali». Il ministero dell’Edilizia li definisce «un provvedimento tecnico». Il governo israeliano ha reso pubblici i bandi per la costruzione di 450 nuovi alloggi in Cisgiordania. Da mesi il premier Benjamin Netanyahu aveva adottato — senza proclamarla — la strategia di evitare espansioni nelle colonie per non irritare gli americani. Adesso — lo accusano gli avversari politici — avrebbe ceduto alla tentazione di garantirsi i voti della destra oltranzista. Le aree scelte sono quelle più simboliche per i coloni: i sobborghi attorno alla città palestinese di Hebron, un insediamento vicino a Migron (l’avamposto che i giudici hanno imposto di evacuare perché sviluppato su terra privata araba), i quartieri nella parte est di Gerusalemme.
Washington avverte che i progetti «isoleranno ancora di più Israele nella comunità internazionale»: «Siamo molto preoccupati, contribuiranno a infiammare una situazione già tesa con i palestinesi», commenta Josh Earnest, il portavoce della Casa Bianca. Il ministero degli Esteri italiano chiede di rivedere la decisione perché «complica ulteriormente gli sforzi per il rilancio dei negoziati tra le parti e appare incompatibile con la volontà, più volte ribadita dal governo israeliano, di giungere a una pace basata sulla soluzione dei due Stati». I funzionari israeliani del ministero per l’Edilizia — guidato da Uri Ariel, tra i leader del partito dei coloni — spiegano che i bandi non sono nuovi ma «il rilancio di offerte per licenze che in passato nessun costruttore aveva accettato». La decisione è criticata anche dal centro-destra. Michael Oren, storico ed ex ambasciatore negli Stati Uniti, accusa Benjamin Netanyahu di incrinare (ancora di più) le relazioni diplomatiche con gli americani. «Piuttosto costruiamo nel Golan come risposta agli attacchi di questi giorni», proclama. Le alture — conquistate da Israele nel 1967 e annesse nel 1981 — sono diventate il nuovo fronte.
Corriere La Lettura 1.2.15
Razza
Un’invenzione nefasta senza valore scientifico
«Aboliamo il termine»
La proposta degli antropologi: eliminare la parola dal testo
della Costituzione perché alimenta ancora suggestioni pericolose
di Adriano Favole e Stefano Allovio
qui
Corriere La Lettura 1.2.15
La santa alleanza che verrà
La religione occupa i vuoti lasciati dallo Stato E il cattolicesimo, non l’islam, guida la riscossa
di Antonio Carioti
Lungi dall’essere irreversibile, la secolarizzazione è sulla via del tramonto, insieme allo Stato laico figlio dell’Illuminismo. Questo giudizio, da cui parte Manlio Graziano nel saggio di geopolitica Guerra santa e santa alleanza (Il Mulino), in apparenza ricorda lo scenario su cui si dipana il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq. Ma lo studioso italiano, pur vivendo e insegnando a Parigi, si distacca nettamente dallo scrittore francese. Non pensa affatto che l’islam dominerà in Europa, prevede piuttosto una riscossa della Chiesa cattolica su scala mondiale.
Gli intellettuali laici, spiega Graziano alla «Lettura», hanno preso in passato un grosso abbaglio: «Negli anni Settanta erano convinti che la fede in Dio stesse scomparendo. Ancora nel 1994 il lungo saggio di Henry Kissinger Diplomacy trascurava il fattore religioso e non citava neppure Khomeini. Lo stesso errore della sinistra iraniana, che nel 1979 aveva snobbato gli ayatollah come un’anticaglia e poi ne era stata travolta. Eppure Karl Marx ha chiarito che la religione è un prodotto delle condizioni sociali: se l’uomo vive nell’incertezza, è inevitabile che si rivolga a Dio per trovare conforto».
Fornire sicurezza, continua Graziano, sarebbe appunto il compito principale dello Stato, che però ci riesce sempre meno: «La sua sovranità è erosa dalla finanza globale e dalle organizzazioni internazionali. In più la crisi fiscale lo costringe a tagliare i servizi sociali su cui basa il consenso. Opprime i cittadini comuni con le tasse e non li aiuta a risolvere i problemi. Così si è creato un vuoto che le religioni tendono a colmare, offrendo un riferimento identitario, ma anche prestazioni assistenziali. La vita sociale non si può fondare solo sulla ricerca del profitto: le fede diventa così un correttivo rispetto all’individualismo esasperato».
Lascia però perplessi l’idea che sia la Chiesa cattolica la massima beneficiaria di questo processo. Non è la rinascita islamica il fenomeno più vistoso e purtroppo anche violento? «L’afflusso nelle grandi città di masse contadine legate al culto tradizionale ha alimentato il fondamentalismo musulmano, che vari apprendisti stregoni, leader locali e potenze straniere, hanno cercato di usare per i loro scopi, per poi magari ritrovarselo nemico. Un effetto boomerang di cui sono stati vittime, per esempio, lo statista egiziano Anwar al-Sadat e il pachistano Ali Bhutto. Non bisogna però sopravvalutare i fautori della guerra santa, le cui posizioni estreme non derivano dall’islam originario, ma piuttosto dall’imitazione di movimenti rivoluzionari moderni. L’imperversare del Califfato, in Siria e in Iraq, è un effetto della rivalità geopolitica tra Iran, Arabia Saudita e Turchia. Boko Haram, in Nigeria, è un gruppo tribale, che nobilita la sua sete di potere con il richiamo all’islam. E va ricordato che il fanatismo sanguinario s’incontra anche tra seguaci di altre religioni: in ambito musulmano ha più spazio perché l’islam sunnita, largamente maggioritario, manca di autorità religiose investite del compito di delimitare il perimetro della legge divina, la sharia , e condannare i devianti».
La forza della Chiesa cattolica, sostiene Graziano, risiede invece proprio nella sua struttura centralizzata e gerarchica, che ha ricominciato a far valere con Giovanni Paolo II: «Papa Wojtyla non si è limitato a combattere il comunismo (del resto lui stesso negava di aver fatto cadere l’impero sovietico) e a ridare prestigio al Vaticano. La sua opera va ben oltre la Guerra fredda, perché ha opposto allo “scontro di civiltà”, teorizzato da Samuel Huntington, il progetto una “santa alleanza” fra tutte le grandi religioni per far arretrare il secolarismo e riportare la fede al centro della sfera pubblica, contro chi vorrebbe ridurla a un fatto privato».
Ma il suo successore Benedetto XVI, con il discorso di Ratisbona, non ha aperto un conflitto con l’islam? «Credo semmai che abbia tentato di stanare le autorità religiose musulmane per trovare interlocutori con cui dialogare, non sul piano teologico, dove le posizioni sono inconciliabili, ma proprio sulla necessità di ridare alla religione un ruolo pubblico. D’altronde il confronto è difficile anche con i cristiani ortodossi, che sono divisi e diffidenti verso la Santa sede».
Per giunta non pare che la Chiesa cattolica stia mietendo successi. Le vocazioni calano e la gente non va più a messa. «In realtà su scala globale — replica Graziano — dal 1978 al 2012 i seminaristi sono raddoppiati e anche i sacerdoti sono aumentati, sia pure non di molto, mentre i diaconi sono passati da meno di 8 mila a 41 mila. E in diversi Paesi, persino in Gran Bretagna, si registra una crescita della pratica religiosa cattolica. Non bisogna confondere l’Europa con il mondo».
Tuttavia la battaglia di Ratzinger sui «valori non negoziabili» sembra fallita, tanto che papa Francesco l’ha accantonata. «Però in India la Corte suprema, con il plauso dei cattolici, ha ripristinato nel 2013 le sanzioni penali per gli omosessuali. E la campagna ratzingeriana è comunque servita a mobilitare gruppi militanti, le “minoranze creative”, che hanno ridato visibilità e influenza alla Chiesa. In Francia i vescovi non sono riusciti a bloccare le nozze gay, ma contro la legge hanno portato in piazza folle che nessun partito o sindacato riuscirebbe a smuovere. E hanno assunto una posizione egemonica nel consiglio dei responsabili di culto, che riunisce esponenti di tutte le confessioni ed è diventato interlocutore del Parlamento. Lo stesso Bergoglio ha smorzato i toni sulla bioetica, ma ha rilanciato lo spirito missionario, che consente ai cattolici di fronteggiare la concorrenza dei gruppi evangelici in America Latina. La Chiesa di Roma ha molti problemi, ma mi sembra l’istituzione religiosa più attrezzata per approfittare delle opportunità offerte dal deperimento dello Stato».
Corriere La Lettura 1.2.15
Il Dio dell’identità prevale sul Dio della fede
Il deputato slovacco rompe l’aria rarefatta del Parlamento europeo: «Ho avuto un’educazione atea comunista. Poi mi sono convertito. Gli uomini non c’entrano. Dio mi ha aperto gli occhi. Certi parlamentari si dicono cristiani per far parte del potente gruppo cristiano-democratico. Quelli come me si dicono cristiani perché stanno dalla parte di Gesù Cristo». Non si scompone François Foret. Il politologo dell’Université libre di Bruxelles presenta la sua ricerca sul Dio dei deputati europei ( Religion and Politics in the European Union , Cambridge University Press). In 167, circa il 20% del totale, hanno accettato di raccontare come vedono la religione. I «soldati di Dio» come il deputato slovacco sono in netta minoranza. Come del resto i «soldati dell’ateismo». Il 60% si definisce «persona religiosa», ma quasi il 70% dichiara di non curarsi di Dio nella propria attività parlamentare. La maggioranza è dunque composta da «cristiani culturali». La religione, per loro, è esperienza sociale, fattore di conservazione delle identità politiche e nazionali. Nell’Europa delle nazioni, il Dio dell’identità prevale sul Dio della fede.
Corriere La Lettura 1.2.15
Neutralità. Missione impossibile
di Daria Gorodisky
Si può pensare di essere neutrali senza pagarne le conseguenze? O meglio: si può davvero credere che predicare «equidistanza» politica o pacifismo garantisca immunità? Il libro più recente dell’olandese Arnon Grunberg è un buono strumento per capire quanto l’idea sia illusoria, ipocrita, vile, insomma perdente. Grunberg lo spiega in un romanzo ambientato tra Svizzera, Iraq e Dubai, e con forti richiami ai fatti di cronaca, al terrorismo e al rapporto fra Occidente e mondo islamico. Lo fa con quell’umorismo nero e quella capacità di rimestare nei meandri dell’animo umano tipicamente suoi. Del resto in Italia conosciamo da una decina di anni e di titoli (gli ultimi con Feltrinelli, prima con Instar Libri) questo quarantenne, che a volte si è firmato Marek van der Jagt. Un talentuoso ribelle: a 17 anni viene cacciato dal liceo e, in risposta, fonda una sua casa editrice «specializzata in letteratura tedesca non ariana». Poi comincia a scrivere e, a 23 anni, sforna il suo primo bestseller europeo, Lunedì blu . Da allora è successo internazionale, le sue opere sono tradotte in 27 lingue. L’ultimo lavoro (è del 2012, ma quant’è attuale) per adesso non è disponibile in italiano, però è appena uscito in francese per le Éditions Héloïse d’Ormesson con il titolo L’Homme sans maladie . E infatti il protagonista Samaranda Ambani — per tutti, guarda caso, semplicemente Sam — è proprio uomo senza «malattie»: niente emozioni forti, passionalità azzerata, è ordinato, disciplinato, architetto votato «a rendere la vita delle persone più facile e più bella». È indiano, ma ci tiene a negare ogni riferimento alle proprie radici dietro lo scudo di un passaporto svizzero. Così anche quando, chiamato a Bagdad per progettare un teatro dell’opera, viene rapito e torturato da miliziani, è soltanto se stesso che incolpa: «Me la sono cercata». E a Dubai, dove è condannato a morte con la falsa accusa di appartenere al Mossad e aver preso parte all’uccisione di un capo terrorista di Hamas, Sam è convinto che tanto non potrà accadergli nulla di male: «Sono svizzero, sono neutrale», ripete senza scomporsi ai suoi carcerieri. Quelli lo ascoltano. E ridono, ridono...
Corriere Salute 1.2.15
Più attenzione alla salute mentale
di Claudio Mencacci
Pochi giorni fa l’Agenzia italiana del farmaco ha indicato le cinque categorie di farmaci più prescritte nei primi nove mesi dello scorso anno: al quarto posto si collocano quelli per il sistema nervoso centrale e in particolare gli antidepressivi. Nulla di cui sorprenderci, visto che numerosi studi internazionali indicano che nel 2020 la depressione, dopo le malattie cardiovascolari, sarà la patologia responsabile della perdita del più elevato numero di anni di vita attiva e in buona salute.
Negli ultimi tempi, anche a seguito di una maggiore informazione e sensibilizzazione della popolazione, il consumo di antidepressivi è cresciuto. La strada è comunque ancora lunga, vanno superati pregiudizi e tabù.
Un ruolo strategico nell’avvicinare alle cure lo possono giocare le donne, sia perché la depressione ha una prevalenza più elevata nel genere femminile (il doppio) sia perché sono le donne che orientano le scelte in famiglia.
Sono 340 milioni i depressi nel mondo, in Europa oltre 30 milioni, quasi 4 milioni gli italiani: numeri che impressionano, ma che soprattutto preoccupano per le cure di cui questi malati avrebbero bisogno. Si consideri che oggi solo una persona su tre riceve la terapia appropriata e i farmaci necessari, e che il ritardo diagnostico (spesso oltre i 2 anni) e l’inappropriatezza dei trattamenti fa sì che solo il 10% di questi soggetti venga curato correttamente, con l’utilizzo di farmaci e con psicoterapia. Cure adeguate riducono anche i giorni di assenza dal lavoro (assenze sette volte superiori in caso di diagnosi tardiva e cure inadeguate), migliorano i livelli d’occupazione, riducono il rischio di suicidio e di abuso di alcol. Tra le prime dieci cause di disabilità, quattro riguardano la salute mentale (depressione, disturbi da uso di alcol, schizofrenia, disturbo bipolare): è giunto il tempo che sia data la giusta attenzione e siano impiegate le risorse necessarie per affrontare bisogni così dirompenti. Da quest’anno l’ Organizzazione mondiale della sanità includerà la salute mentale nella sua agenda, al pari delle patologie cardiovascolari, del diabete, delle patologie bronco ostruttive e dei tumori.
Avvicinare le persone alle cure superando vergogna e false credenze sull’uso degli psicofarmaci, investire in salute mentale, puntare sul futuro delle persone e del Paese: queste sono priorità imprescindibili.
*Dir. Neuroscienze Osp. Fatebenefratelli, Milano, Past President Soc. it. di psichiatria
Corriere 1.2.14
Da Alessandria a Mosca
Cinismo guerre e incuria distruggono da secoli le grandi biblioteche
di Luciano Canfora
Nella Russia vessata dall’assedio euro-obamiano ed esposta più che mai a ferite impreviste, va a fuoco una parte — speriamo non grande — di una delle più importanti biblioteche. Si tratta della biblioteca dell’Istituto accademico dell’Informazione scientifica sulle Scienze sociali, sorta nel 1918, vanto dell’opera di alfabetizzazione di epoca sovietica. Al principio della «Grande Guerra», di cui si continua a celebrare l’anniversario, i cannoni di Guglielmo II distrussero la biblioteca dell’Università di Lovanio. Dopo la sconfitta, la Germania dovette risarcire l’irreparabile danno. Quando nel 1204 la Quarta Crociata, anziché puntare sulla Terrasanta, conquistò Costantinopoli, inflisse alle preziose raccolte librarie di quella città perdite tali da rimanere per sempre nel ricordo agghiacciato dei posteri. Una fonte narra di guerrieri occidentali che infilzano manoscritti preziosi nelle loro lance e li additano come simbolo della mollezza dei Greci. L’imperatore romano Aureliano, restitutore dell’impero traballante alla fine del III secolo, riconquistò Alessandria. E «coventrizzò» il quartiere del Palazzo Reale, che conteneva la «Grande biblioteca». Ironia della storia: quella biblioteca, patrimonio dell’umanità e vanto dell’Ellenismo, era stata per i Romani la fonte prima della loro acculturazione e fuoruscita dalla barbarie.
La biblioteca di Bagdad, sorta tra VIII e IX secolo, nel momento di massimo fulgore del Califfato (quello vero), fu distrutta dall’invasione turca. E il fiume Tigri, scrissero cronisti dell’epoca, divenne nero
di inchiostro: gli intolleranti Ottomani avevano preferito l’acqua al fuoco. Ma sulla Bagdad del tempo nostro l’azione distruttiva è stata affidata alle bombe intelligenti dell’armata Usa vocata alla liberazione dal tiranno. Acqua e fuoco furono storicamente i nemici dei libri, ma i nemici più pericolosi sono gli uomini: per incuria, per cinismo, per sadica volontà di vendetta.
Corriere 1.2.15
Yves Bonnefoy
«La poesia è verità, non sogno»
di Marisa Fumagalli
I l Premio Nonino ha quarant’anni. La cerimonia si svolge a Percoto (Udine), in una distilleria che per un giorno diventa palcoscenico di letterati, scienziati, filosofi. Anche ieri, l’evento non ha tradito le aspettative. I vincitori, rivolgendosi al pubblico (oltre 600 persone), hanno affrontato temi di attualità. Da Ariane Mnouchkine, direttrice del Theatre du Soleil, che ha ricevuto dal giurato Peter Brook il Premio Nonino 2015; al poeta francese Yves Bonnefoy («La poesia, la poesia vera, è più verità che sogno»), insignito da Adonis del Premio Internazionale Nonino 2015. Un discorso di grande respiro, articolato in cinque propositi («intelligenza, coerenza di principi, immaginazione, lavoro di squadra, speranza»), è stato quello della filosofa americana Martha C. Nussbaum, che ha invitato a sostituire la parola «tolleranza» (esplicito riferimento alla questione islamica di bruciante attualità) con «rispetto». «Tolleranza — ha detto — suggerisce una gerarchia, in cui una maggioranza accondiscende di vivere con persone che magari non le piacciono». Nussbaum ha ricevuto il Nonino 2015/Maestro del nostro tempo. Per lei parole di lode da Fabiola Gianotti, direttore del Cern, new entry in giuria. Claudio Magris ha consegnato il Nonino Risit d’Aur al musicista Roberto De Simone.
Corriere 1.2.14
La rischiosa avventura di Bonaparte in Egitto
risponde Sergio Romano
A distanza di oltre due secoli, ancora oggi non sono dissipati i dubbi sulla spedizione napoleonica in Egitto. Se, cioè, essa rappresenta il frutto di una smisurata ambizione personale, un’astuta manovra per colpire l’Inghilterra, o una tappa della spericolata idea di abbattere l’Impero ottomano e portare in India la guerra agli inglesi. Di certo vi furono un’affrettata preparazione e una scarsa consapevolezza della potenza della marina inglese. Degli storici hanno paragonato la campagna africana a quella di Russia, entrambe disastrose. Come andarono le cose?
Lorenzo Milanesi
Caro Milanesi,
La spedizione di Bonaparte in Egitto fu l’episodio più fantasioso e stravagante del lungo intervallo che separa la fine del Terrore dal ritorno all’ordine del regime imperiale. Quando tornò dall’Italia, dopo la campagna del 1797, il giovane generale corso fu accolto come un trionfatore. Aveva battuto gli austriaci, aveva distrutto vecchi Stati e creato nuove repubbliche, e aveva agito in totale autonomia senza tenere alcun conto delle istruzioni che gli giungevano dal Direttorio. Era troppo popolare perché gli uomini al potere non temessero le sue ambizioni. Cercarono di allontanarlo da Parigi proponendogli l’invasione dell’Inghilterra, ma Bonaparte studiò attentamente l’impresa e giunse alla conclusione che sarebbe stata un’operazione suicida. E poiché il Direttorio insisteva per allontanarlo dalla capitale, il generale sostenne che avrebbe colpito gli inglesi diversamente.
Sarebbe sbarcato in Egitto con 30.000 uomini, ne avrebbe reclutati altrettanti nel Paese dei Faraoni, li avrebbe guidati sino all’India, avrebbe aizzato le popolazioni del subcontinente indiano contro l’Inghilterra, avrebbe rivaleggiato con le gesta di Alessandro Magno. Quando gli fu detto che avrebbe dovuto finanziare la spedizione con i suoi mezzi, non esitò a saccheggiare i tesori del Vaticano, degli svizzeri, dell’Olanda e a requisire tutte le navi su cui poté mettere le mani. Ma la spedizione non sarebbe stata esclusivamente militare. Puntò sul fascino che l’Antico Egitto suscitava da qualche decennio nella società francese e creò, accanto a quello dei suoi soldati un secondo esercito composto da studiosi, archeologi, architetti, disegnatori, pittori. Le sue truppe avrebbero sconfitto i mammelucchi e i suoi intellettuali avrebbero conquistato per la Francia il passato dell’Egitto. Quella che partì dalle coste mediterranee francesi nella primavera del 1798 fu una sorta di variopinto circo per metà guerresco, per metà salottiero e intellettuale.
La spedizione, all’inizio, fu benedetta dalla fortuna. Riuscì a evitare la flotta inglese di Nelson, fece un solo boccone di Malta e dei suoi cavalieri, vinse la battaglia delle piramidi ed entrò al Cairo trionfalmente il 24 luglio e usò per l’Egitto il metodo di cui si era servito in Italia: creò un Senato a cui fu affidato il compito di scrivere una nuova Costituzione, istituì un comitato composto da notabili sotto la guida di un consigliere francese e mise al vertice dello Stato se stesso, Bonaparte, nella veste di “protettore dall’Islam”.
I tempi della buona fortuna furono brevi. Nelle settimane seguenti la flotta francese fu distrutta da Nelson nel porto di Alessandria, la peste bubbonica uccise 3.000 dei suoi soldati e alcune rivolte vennero spietatamente represse con massacri che, in altri tempi, avrebbero lasciato una macchia indelebile sul volto di colui che li aveva ordinati. Vi furono altre vittorie, ma le sue truppe si fermarono di fronte alle mura di Acri e Bonaparte capì che i suoi sogni indiani non si sarebbero avverati. Cinicamente sostenne che la Francia aveva bisogno della sua spada, abbandonò l’esercito, salì a bordo di una nave il 24 agosto 1799 e tornò in Francia. Nello stesso anno rovesciò il direttorio con un colpo di Stato e divenne Primo console. Meno di tre anni dopo sarebbe diventato console a vita e, nel dicembre del 1804, infine, avrebbe posto sulla sua testa la corona imperiale.
Eppure, come ha ricordato Paul Johnson in un bel profilo di Napoleone, la spedizione fallita divenne uno straordinario trionfo culturale, ebbe una grande influenza sulla moda europea, inaugurò una stagione di studi e ricerche, trasportò l’Egitto nella modernità.
Repubblica 1.2.15
Matematica come narrazione
La buona dimostrazione di un teorema ha molto in comune con la migliore letteratura. E chi assiste a essa proverà la stessa sensazione dell’autore È come la soluzione armonica di un brano musicale. O la rivelazione del colpevole in un giallo
di Marrcu Du Sautoy
Dopo il grande Fermat, la sfida per generazioni di studiosi è stata quella di trovare un sentiero che portasse da un territorio conosciuto a una terra nuova e misteriosa. Come la storia delle avventure di Frodo nel “Signore degli anelli”. Affermare la fondatezza di una tesi è una descrizione del viaggio dalla Contea a Mordor
IMATEMATICI sono cantastorie. I nostri personaggi sono i numeri e le geometrie. Le nostre storie sono le dimostrazioni che creiamo intorno a questi personaggi. Molte persone pensano che fare matematica consista nel documentare tutte le affermazioni esatte su numeri e geometria: l’irrazionalità della radice quadra di due, la formula per trovare il volume della sfera, un elenco dei gruppi semplici finiti. Secondo uno dei miei eroi matematici, Henri Poincaré, fare matematica è qualcosa di ben diverso: «Creare consiste precisamente nel non realizzare combinazioni inutili. La creazione è discernimento, scelta. […] Le combinazioni sterili non si affacciano nemmeno nella mente del creatore».
La matematica, proprio come la letteratura, consiste nel fare scelte. E allora, quali sono i criteri di uno degli articoli di matematica inclusi nelle riviste di settore che affollano la nostra biblioteca matematica? Perché l’ultimo teorema di Fermat è considerato come una delle grandi opere matematiche del secolo scorso, mentre un altro calcolo numerico altrettanto complicato è considerato banale e privo di interesse? Dopo tutto, che cosa c’è di così interessante nel sapere che un’equazione come xn+ yn= zn non ha nessuna soluzione intera quando n> 2 .
Secondo me, è la natura della dimostrazione del teorema di Fermat che innalza questa affermazione esatta sui numeri al rango di qualcosa che merita un posto nel pantheon della matematica. E le caratteristiche di una buona dimostrazione matematica hanno molto in comune con la migliore narrativa.
La mia congettura, se dovessi trasformarla in un’equazione matematica, è che: dimostrazione = narrazione Una dimostrazione è come il libro di viaggio del matematico. Fermat ha scrutato fuori dalla sua finestra matematica e ha visto in lontananza questa vetta matematica, l’affermazione che le sue equazioni non hanno soluzioni intere. La sfida per le generazioni di matematici successivi è stata trovare un sentiero che portasse dal territorio conosciuto, già esplorato dai matematici, a questa terra nuova e misteriosa. Come la storia delle avventure di Frodo nel Signore degli anelli, una dimostrazione è una descrizione del viaggio dalla Contea a Mordor.
All’interno dei confini della Contea, della terra conosciuta, ci sono gli assiomi della matematica, le verità conclamate sui numeri, insieme a quei teoremi che sono già stati dimostrati. È questo il contesto da cui dare inizio alla ricerca. Il viaggio che parte da questo territorio noto è vincolato dalle regole della deduzione matematica, come le mosse consentite per un pezzo degli scacchi, che stabiliscono i passi che si è autorizzati a fare attraverso questo mondo. Certe volte si finisce in quella che sembra un’impasse e bisogna fare quel tipico passo laterale, spostandosi di fianco o magari anche all’indietro per trovare un modo per girarci intorno. A volte bisogna aspettare che vengano creati nuovi personaggi matematici, come i numeri immaginari o il calcolo, per poter continuare il viaggio.
La dimostrazione è la storia del tragitto e la mappa che segna le coordinate del viaggio: il giornale di bordo del matematico.
Una dimostrazione riuscita è come una serie di cartelli stradali che consentono a tutti i matematici successivi di fare lo stesso viaggio. I lettori della dimostrazione proveranno la stessa, eccitante sensazione dell’autore nello scoprire che quel sentiero consente di arrivare a quella vetta lontana. Nella maggior parte dei casi una dimostrazione non cercherà di mettere tutti i puntini sulle I e tutte le stanghette sulle T, proprio come una storia non presenta ogni dettaglio della vita di un personaggio. È una descrizione del viaggio, e non necessariamente la ricostruzione di ogni singolo passo. Le argomentazioni che i matematici forniscono come elementi di prova sono pensate per accendere la fantasia del lettore. Il matematico Godfrey Harold Hardy le descrisse così: «Sciocchezze, ghirigori retorici pensati per influenzare la psicologia, immagini sulla lavagna durante la lezione, congegni per stimolare l’immaginazione degli allievi».
La gioia di leggere e creare matematica viene da quell’entusiasmante momento di rivelazione che proviamo quando tutti i tasselli sembrano andare al loro posto risolvendo il mistero matematico. È come il momento della soluzione armonica in un pezzo musicale o la rivelazione del colpevole in un romanzo giallo.
L’elemento sorpresa è una qualità chiave di una dimostrazione matematica accattivante. Sentite cosa dice il matematico Michael Atiyah a proposito delle caratteristiche della matematica che piace a lui: «Mi piace rimanere sorpreso. L’argomentazione che segue un percorso codificato, con pochi elementi nuovi, è noiosa e insulsa. Mi piace l’elemento inaspettato, un punto di vista nuovo, un collegamento con altre aree, una pestata di piede».
Quando creo una nuova opera matematica le scelte che faccio sono motivate dal desiderio di portare per mano i miei lettori in un viaggio matematico interessante, pieno di curve, svolte e sorprese. Voglio stimolare il pubblico con la sfida di capire perché due personaggi matematici apparentemente scollegati abbiano qualcosa a che fare l’uno con l’altro. E poi, man mano che la dimostrazione prende corpo, ci si rende gradualmente conto, o si capisce all’improvviso, che queste due idee in realtà sono lo stesso identico personaggio.
Questa capacità di trovare collegamenti inaspettati è una delle ragioni per cui amo parlare di uno dei miei contributi al canone matematico. Alcuni anni fa scoprii un nuovo oggetto simmetrico, nei cui contorni si celavano le complessità di soluzioni delle curve ellittiche, uno dei grandi problemi irrisolti della matematica. La dimostrazione che ricamo durante un seminario o nell’articolo che ho scritto per una rivista di settore dimostra come fare per collegare queste due aree apparentemente diversissime del mondo matematico. Scoprire nuovi oggetti simmetrici non è difficile. Il mio computer potrebbe sfornare a getto continuo nuovi esempi di oggetti simmetrici mai presi in considerazione prima. L’arte del matematico sta nel selezionare quelli che raccontano una storia sorprendente. Come diceva Poincaré, è questo il ruolo del matematico: fare scelte.
Questo articolo è un estratto del discorso di Marcus du Sautoy per il lancio del programma Humanities and Science, diretto dal Centro di ricerca in scienze umanistiche dell’Università di Oxford il 2-0 gennaio. www. torch. ox. ac. uk.
Traduzione di Fabio Galimberti
Repubblica 1.2.15
I viaggi, gli scacchi. Quante metafore parlano dei numeri
di Piergiorgio Odifreddi
SPESSO l’attività del matematico viene spiegata, a coloro che la ritengono misteriosa, attraverso metafore attinte da altri campi. La prima di queste metafore è antica, e risale a Pitagora: dopo aver scoperto descrizioni numeriche degli intervalli musicali, egli coniò per le leggi matematiche del cosmo categorie musicali quali «l’armonia del mondo» e «la musica delle sfere », popolari ancor oggi. E Leibniz, molto dopo, capovolse la metafora, affermando nel 1712: «La musica è un esercizio inconscio di aritmetica da parte della mente che non sa di calcolare ».
Una seconda metafora, più recente, tira in ballo gli scacchi. Che sono, effettivamente, un’attività parallela e analoga alla matematica. In entrambi i casi si parte da un punto iniziale ben prestabilito: gli assiomi, o le posizioni iniziali dei pezzi. Si procede imbrigliati da costrizioni ferree: le leggi della logica, o le regole del gioco. E si arriva a una fine ben definita: il teorema, o lo scacco matto.
Purtroppo, per la maggior parte della gente la musica e gli scacchi sono attività non meno misteriose della matematica. Le due metafore lasciano dunque il tempo che trovano, e si limitano a illustrare un’incomprensione con un’altra. Prima o poi si finisce allora a un paragone con la letteratura, che va però preso con le molle. La maggior parte della narrativa è infatti fantastica, e inventa soggettivamente le proprie storie. La matematica racconta invece storie oggettive, e volendone trovarne degli analoghi letterari bisogna rivolgersi al romanzo verista o al genere poliziesco.
O, più in generale, alla “letteratura deduttiva”: sia quella alta dei racconti di Calvino e dei romanzi di Saramago, sia quella popolare della fantascienza. In questi generi si inventano mondi alternativi, costituenti altrettanti “sistemi assiomatici”, che poi vengono analizzati al microscopio traendone le estreme conseguenze e mettendo la fantasia al servizio della deduzione, più che della libera invenzione.
Ma forse la metafora più comprensibile e istruttiva è quella del viaggio e del rispetti- vo reportage , perché permette di isolare due aspetti complementari dell’attività matematica: la costrizione deterministica fornita dal terreno sul quale ci si muove, e la libertà creativa necessaria per muovercisi e andare da un punto all’altro. Naturalmente, a seconda della difficoltà e della profondità di ciò che si dimostra, il viaggio può andare dalla tranquilla passeggiata in pianura su un terreno conosciuto, all’impervia arrampicata su una montagna o una parete incognita.
Per fare un esempio concreto, prendiamo un teorema che tutti conosciamo: quello di Pitagora, secondo cui in un triangolo rettangolo i quadrati costruiti sui cateti equivalgono al quadrato costruito sull’ipotenusa. L’enunciato è il punto d’arrivo del viaggio, che però deve avere un punto d’inizio: ad esempio, il sistema di assiomi per la geometria euclidea. Che comprende, in particolare il famoso “ postulato delle parallele”, secondo cui c’è unica parallela a una retta che passa per un punto fuori di essa.
Individuati i due punti, di partenza e di arrivo, un percorso matematico che li congiunge si chiama dimostrazione. A volte, come nella vita, questo percorso è obbligato, e allora c’è sostanzialmente un’unica dimostrazione possibile del teorema a partire dagli assiomi. Ma nel caso del teorema di Pitagora, si possono seguire innumerevoli vie. Nei suoi Elementi Euclide ne mostra due, una basata su concetti elementari (i criteri di uguaglianza dei triangoli) e una su concetti sofisticati (la teoria della similitudine). La via elementare è pianeggiante, ma più lunga, mentre quella sofisticata è una scorciatoia, ma impervia.
Nell’Ottocento Elisha Loomis pubblicò un libro, intitolato Il teorema di Pitagora , che di dimostrazioni ne riportava 367! Ma l’interessante è che, una volta arrivati al teorema di Pitagora, si può tornare indietro: il percorso non è a senso unico, e ci sono vie che riportano al postulato delle parallele. Mentre se si scelgono altri punti di partenza, ad esempio la geometria non euclidea, non c’è modo di arrivare al teorema di Pitagora, per quanta creatività e invenzione si abbia. I letterati possono inventare ciò che vogliono, ma i matematici devono scoprire ciò che c’è.
Repubblica 1.2.15
Quei modelli per rintracciare le rane naufraghe
di Piergiorgio Odifreddi
VENTITRÉ anni fa, nel gennaio 1992, un cargo proveniente dalla Cina e diretto negli Stati Uniti si imbatté in una tempesta nel Pacifico e perse tre containercon 28.000 animaletti di plastica: castori rossi, rane verdi, tartarughe blu e papere gialle. Gli animaletti andarono alla deriva in direzioni diverse: chi verso l’Alaska, chi verso l’Oceania e chi verso il Cile. I primi naufraghi furono avvistati sulle coste dell’Alaska in novembre, a 3.200 chilometri dal punto del naufragio, e nei mesi successivi ne furono trovati circa 400. La cosa allertò gli oceanografi, che misero alla prova i loro modelli matematici delle correnti e dei venti, cercando di prevedere dove e quando gli altri naufraghi sarebbero approdati. La previsione più interessante fu che alcune delle cosiddette Moby Duck (con un ovvio riferimento al capolavoro di Melville) si sarebbero infilate nello stretto di Bering e sarebbero riuscite ad approdare nell’Atlantico. Ci volle una decina d’anni, ma infine alcune effettivamente arrivarono sulla costa orientale degli Stati Uniti, e nel 2007 altre raggiunsero le spiagge dell’Irlanda e della Cornovaglia. L’Odissea degli animaletti di indistruttibile plastica non è ancora finita, nel miglior stile omerico. Forse un giorno qualcuna arriverà a Itaca?
La Stampa 1.2.15
Morto Djerassi, “la madre” della pillola anticoncezionale
Il chimico austriaco-statunitense aveva 91 anni, fu anche scrittore e drammaturgo
qui
il Sole Domenica 1.2.15
La nobile arte di persuadere
La «Retorica» di Aristotele: una tecnica per convincere un uditorio con buone ragioni ma evitando di scadere nella demagogia. Ecco perchè dovrebbe essere un riferimento nella formazione del buon cittadino
di Armando Massarenti
La Retorica di Aristotele è ancora oggi un punto di riferimento per chiunque abbia a cuore uno dei nodi cruciali per la formazione del buon cittadino. «La teoria dell’argomentazione - scriveva Norberto Bobbio nell’introduzione del Trattato dell’argomentazione di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca (1958), gli studiosi che nel ’900 compresero appieno la portata di quell’insegnamento – è lo studio metodico delle buone ragioni con cui gli uomini parlano e discutono di scelte che implicano il riferimento a valori quando hanno rinunciato a imporle con la violenza o a strapparle con la coazione psicologica, cioè alla sopraffazione e all’indottrinamento». È un’arte che studia cosa c’è di persuasivo in ogni discorso, una tecnica che si avvale sia del buon uso delle emozioni sia di strumenti di tipo logico. Detto ciò, ecco già bello e delineato, in poche sicure pennellate, un attualissimo programma per la scuola di oggi, che di queste competenze – sia a livello di chi insegna sia di chi apprende – avrebbe un enorme bisogno.
Ma tuffiamoci pure nel passato. Soffermiamoci sull’autore di quello straordinario manuale, togliamogli di dosso la polvere che ingiustamente immaginiamo lo ricopra, e pensiamolo giovane diciottenne alle prese con una materia, la retorica appunto, che egli intende rinnovare legandola strettamente alla necessità di trasmettere i saperi più fondati. Si è sempre pensato che la Retorica, di cui Carocci propone una splendida edizione curata da Silvia Gastaldi, fosse stata composta da Aristotele nel suo secondo periodo ateniese, quando egli era un maturo docente nel celebre Liceo. L’interpretazione di Ingemar Düring, che ha modificato l’intera cronologia delle opere dello Stagirita, invece, fa oggi risalire la stesura di questo testo al primo periodo ateniese, ovvero alla gioventù del filosofo e al successivo ventennio da lui trascorso in seno alla rinomata Accademia e accanto al maestro Platone.
In entrambi i casi, con la Retorica siamo di fronte a un testo per la scuola, un manuale – in tre libri - scritto appositamente per l’insegnamento. Ma è più affascinante immaginare, con Düring, un Aristotele ancora giovanissimo e fresco di studi il quale, nella stesura del trattato sull’arte della strutturazione dei discorsi, mette in pratica le raccomandazioni del maestro Platone – il quale sente, così come il suo allievo, il bisogno di un urgente rinnovamento della retorica ateniese - e ne critica diligentemente i presupposti. La novità della proposta aristotelica sta nella precisa volontà di trasformare la retorica da mera prassi (empeiria), atta a convincere chiunque di qualunque cosa - così come era stata consegnata dalla tradizione precedente nelle mani dei Sofisti -, a vera e propria techne, cioè al rango di ars – come la chiameranno i latini e poi gli scolastici medievali che la collocheranno tra le artes liberales sermocinales del Trivio – dotata di una teoria sua propria, e capace di radicare una volta per tutte le pratiche del logos nella dimensione razionale. È grazie ad Aristotele, dunque, che la retorica è divenuta quell’abilità normata, grazie alla quale «si è in grado di ragionare (syllogizesthai) intorno a qualsiasi problema proposto».
Che cosa insegnava, dunque, Aristotele? Il suo pensiero contribuì in maniera decisiva a restituire dignità a un’attività intellettuale che era stata declassata da molti Dialoghi platonici: nel Protagora e nel Gorgia, per esempio, i costruttori di discorsi, i Sofisti, sono presentati come parolai, demagoghi, adulatori dei politici. Quei giovani ateniesi, dunque, si trovarono di fronte a un modo del tutto nuovo di concepire i discorsi destinati a un pubblico: in pratica Aristotele li spinse a comprendere che, per strutturare un discorso convincente, su qualunque argomento, è necessario innanzitutto saper ragionare correttamente. Aristotele accomuna dialettica e retorica in quanto discipline “sorelle” che non possiedono un oggetto determinato – come accade ad esempio alla fisica o alla storia -, ma che di tutto possono discettare in modo convincente purché il ragionamento vi sia ben allestito e fondato su corretti presupposti. Sia la dialettica, arte del dibattimento speculativo, sia la retorica, arte della parola pubblica, rivolta a un uditorio – politico o giudiziario -, utilizzano nozioni generalmente accettate (endoxa), opinioni condivise che fanno leva sull’interlocutore, e aiutano a costruire o rafforzare i valori della comunità.
L’opinione (doxa) in Aristotele perde però il valore svalutativo conferitole precedentemente da Platone, e diviene la base dell’edificazione del discorso retorico mirato alla persuasione. Assai realisticamente egli tiene conto del fatto che nella vita associata non si fanno discorsi basati su verità inconfutabili, come quelle logiche o matematiche, ma che spesso dobbiamo argomentare a partire da premesse che sono vere per lo più, o confermate da testimoni autorevoli, e che questi discorsi hanno anch’essi diversi gradi di validità e diversa portata conoscitiva. Così egli insiste, oltre che sulla chiarezza (saphes) dello stile, sull’uso corretto della metafora, concepita non tanto come elegante figura di abbellimento, ma come strumento cognitivo capace di sollecitare la fantasia e quindi di favorire l’apprendimento.
Su un aspetto però Aristotele concordava col suo maestro dell’Accademia: ovvero sul fatto che la retorica è capace di psychagogia, di condizionare psicologicamente l’ascoltatore ammaliandolo con le parole. Il filosofo è ben consapevole del potere immenso della parola, soprattutto quando essa è sulla bocca di politici dalle cattive intenzioni, ed è per questo che insiste, nel secondo libro, sull’importanza del carattere di chi parla (ethos tou legontos), sulla sua saggezza, sulla sua virtù etica (arete) e sulla credibilità che egli raccoglie presso l’uditorio cui si rivolge. E, d’altra parte, egli insiste anche molto sulla portata delle passioni (pathe) che possono essere suscitate da un discorso ben costruito, sul fatto che «tanto le qualità etiche del parlante, quanto le reazioni emotive di chi ascolta emergeranno dalla strutturazione impressa al discorso». Non stupisce, dunque, se egli pretende che l’oratore sia un profondo conoscitore della sensibilità umana, capace di comprendere la psicologia dell’uditorio e le passioni che lo animano: una sapienza che può diventare un’arma a doppio taglio se il retore capace è al soldo della demagogia.
In ambito cognitivista anglosassone, oggi si rivaluta enormemente lo «statuto psicologico delle passioni» di cui Aristotele dà prova nella Retorica. Martha Nussbaum afferma che per il filosofo «le passioni non sono cieche forze animali, ma elementi costitutivi della personalità, dotati di intelligenza e discernimento, strettamente correlati a convinzioni di un certo tipo e quindi sensibili a modificazioni cognitive».
La retorica aristotelica, dunque, intesa come apprendimento di una tecnica (theorein), si pone quale strumento virtuoso di educazione ed è per questo suo valore pedagogico che andava insegnata nelle scuole: non solo affinché fossero formati gli uomini politici del futuro democratico, ma anche e soprattutto perché tutti gli altri cittadini venissero dotati di strumenti cognitivi e speculativi utili allo smascheramento di quei camuffamenti tipici del linguaggio politico, che fa leva su opinioni sbagliate eppure largamente condivise e su passioni negative. Dell’estrema importanza dell’apprendimento della retorica – insieme alla logica – nella formazione dei giovani scolari erano ben consapevoli i docenti italiani già nel Medioevo e ne erano convinti i Gesuiti che la insegnavano nei loro collegi. Oggi che le giovani generazioni sono esposte più che mai alle conseguenze del caos affabulatorio e persuasivo della multimedialità, in Italia - a parte il timido tentativo dell’istituzione del “saggio argomentativo” tra le prove scritte di Italiano della scuola superiore, tuttavia non supportato da un’adeguata preparazione logico-retorica - non si è ancora pensato seriamente a quanto gioverebbe alle nostre giovani menti la reintroduzione della Logica e della Retorica nel curriculum scolastico?
Aristotele, Retorica , introduzione, traduzione e commento di Silvia Gastaldi, Carocci, Roma, pagg. 640, € 34,00
il Sole Domenica 1.2.15
I 500 anni di Manuzio
Aldo, inimitabile editore
di mondo moriva, credeva nei buoni libri.
di Nicola Gardini
Il prossimo 6 febbraio ricorre il quinto centenario della morte di Aldo Manuzio, uno dei più grandi editori di tutti i tempi. Alla sua grandezza contribuisce già la cronologia. Quando, infatti, sul finire del Quattrocento, Aldo comincia a mandar fuori libri, la stampa è ancora invenzione fresca. Ma, se il tempismo può essere un’abilità, non è di per sé un merito. Il merito di Aldo è stato questo: darsi un programma educativo e perseguirlo attraverso la produzione di libri, con fede, fiuto e abilità artistica, mettendoci dentro tutto se stesso e tutte le sue risorse. Cercò professatamente di innalzare l’umanità. Creò un mercato di lettori colti.
Era nato a Bassiano (nell’odierna provincia di Latina), nel 1449. Si educò negli ambienti romani, istruì il principe di Carpi, suo ideale uomo di cultura e continuo punto di riferimento, ed elesse Venezia a sede della sua impresa. Lì stesso concluse la sua vita. Formatosi come maestro o, secondo Carlo Dionisotti, «professore di scuola media» (e non, si badi, come professore universitario), arrivò all’editoria già adulto. Tra le sue pubblicazioni più rappresentative non a caso compaiono una grammatica latina e una greca, opere di Aldo stesso; gli Erotemata di Lascaris, altro testo grammaticale; e anche un trattato linguistico come l’ Orthographia di Giovanni Tortelli, il creatore della Biblioteca Vaticana.
Nell’arco di un ventennio Aldo produsse un centinaio di edizioni, molte delle quali rimangono capisaldi nella storia della filologia e della stampa. Era partito con l’idea di diffondere, in un’Italia dominata dal latino, la conoscenza della letteratura greca, che del latino era la fonte. Ecco, dunque, per cominciare, il monumentale Aristotele, ecco l’Aristofane. Ma ecco anche, nel 1499, uscire come nel giro di una notte un’isola dalle profondità dell’oceano l’Hypnetomachia Poliphili, ovvero un testo «volgare», con l’edizione del quale Aldo non solo offre a un largo pubblico uno straordinario, meraviglioso libro (un protoromanzo architettonico linguisticamente spericolato, che non è troppo oggi considerare una summa dell’umanesimo italiano), ma anche dà trionfale avvio alla tradizione del libro illustrato. Nella vetrina celebrativa che la Bodleian Library dell’Università di Oxford, dove sto scrivendo, ha allestito in questi giorni l’edizione dell’Hypnerotomachia ovviamente fa la parte del leone: la pagina su cui è aperto il volume mostra un elefantino che poggia su un basamento e sorregge sul dorso un obelisco. Un’immagine di altrettanto splendida foggia – il ritratto dell’autrice – distingue anche l’edizione di poco successiva di un’altra opera volgare, le epistole di santa Caterina da Siena, pure loro in bella mostra nella vetrina oxoniense, con alcuni altri gioielli minori, trascelti tra le decine di esemplari che la Bodleian Library acquisì in specie nel corso dell’Ottocento.
A un certo punto compaiono nel catalogo di Aldo anche Petrarca e Dante, due presenze tutt’altro che scontate, visti i presupposti iniziali; e pure i tanto evitati latini: Virgilio, Catullo e diversi altri, tra i quali giganteggia lo scomodo – dato il cristianesimo di Aldo – ma ineludibile Lucrezio. I greci, però, restano la passione di Aldo. Da non dimenticare, oltre all’Aristotele, il Platone. Ma anche la storia è rappresentata, con Tucidide. Compare, sì, pure qualche storico latino, Cesare, per esempio, ma non Livio, non Tacito. E si aggiungono anche le cose migliori del momento: le opere del rimpiantissimo Poliziano, l’Arcadia di Sannazaro, i carmi latini di Pontano, gli Asolani di Bembo. E gli Adagia di Erasmo!
Ho accennato all’introduzione delle immagini. Non vanno passate sotto silenzio altre due fondamentali scoperte tecniche di Aldo: il carattere corsivo, ideato dall’orefice Cesare Griffo (con il quale, poi, sarebbe nata una disputa sulla proprietà dell’idea) e – fisiologica derivazione di quello – il libro tascabile, il «libellus portatilis», come lo chiamava Aldo con termine latino non certo ciceroniano, ispirato da certi manoscritti della biblioteca di Bernardo Bembo, e utilizzato dapprincipio per la poesia e poi esteso anche alla prosa. In verità, ci sarebbe da ricordare e celebrare almeno un altro carattere, il «bembo», pure questo messo a punto dal portentoso Griffo (inventore anche di caratteri greci), cosiddetto perché introdotto per l’edizione del poemetto latino De Aetna del giovane Pietro Bembo: un carattere che avrà tanta fortuna nel corso dei secoli, anche attraverso le imitazioni, e che continua, specie in America, a simboleggiare eleganza e poesia.
Le bellezze dell’editoria aldina non si finirebbero di elencare, a cominciare dal suo marchio, un delfino avvolto intorno a un’ancora, desunto da una moneta romana. Nell’occasione di questo cinquecentenario, però, ritengo che occorra soprattutto riflettere sull’esempio intellettuale di Aldo: un esempio illustre che in tempi così tenebrosi per l’editoria come i nostri (e penso in particolare alla situazione italiana) insegna che non esiste editoria felice, neanche commercialmente, se l’editore non ha un piano pedagogico da perseguire. Aldo lo aveva, e lo portava avanti per mezzo di collaboratori eccellenti, una vera e propria accademia spirituale (non universitaria, torno a mettere la negazione davanti a quell’aggettivo), pubblicando ciò che secondo lui serviva, con l’evidente volontà di allargare la cerchia dei lettori, ma senza la disperata vocazione di consegnare i suoi sogni a un’indefinita maggioranza. E non si dica, per favore, che quelli erano tempi migliori, che quello era il Rinascimento e tutto si poteva. L’opera di Aldo è intrisa di malinconia e di ansia, come le sue prefazioni dichiarano (chi le volesse leggere tutte insieme si rivolga alla spettacolare raccolta del Polifilo, Aldo Manuzio editore). Concorrenti e nemici personali a parte, che non poco amareggiano in qualunque stagione, Aldo sapeva che l’Italia, la stessa Venezia, stavano andando in pezzi, che la libertà e la pace erano minacciate e rimedio non ci sarebbe stato: che qualcosa, davvero, stava finendo per la malvagità degli uomini. Si veda in particolare la prefazione al Lascaris, del 1495: un augurio che è un epicedio. Per questo, perché il
il Sole Domenica 1.2.15
Roland Barthes (1915-1980)
Sedotto dalla semiologia
Fu un intellettuale di grande successo. Ma, a vederlo dalla giusta distanza molte delle sue affascinanti idee sono ormai perse
di Alfonso Berardinelli
Dopo la metà del secolo scorso, la critica letteraria europea volle anzitutto diventare scientifica e su questa volontà edificò un nuovo mito. Fu un’avventura inebriante, il suo epicentro fu Parigi, e durò circa due decenni. Il Novecento, secolo della critica, incontrava per l’ultima volta se stesso celebrando la propria apoteosi finale.
Sembrò un nuovo inizio e di ogni inizio ebbe tutta l’euforia. Ma conteneva in sé il senso della fine, perché lavorava sulla fine, coltivava la fine. Vedeva il passato nella prospettiva del superamento, del distacco, dell’interruzione di continuità e della «decostruzione». Se il passato non era stato che ideologia, copertura, mito consunto, il presente non poteva che essere demolizione critica e rifondazione scientifica. La stessa letteratura, oggetto tradizionale e inevitabile dell’attività critica, veniva vista in una luce negativa: una seducente apparenza da violare e oltrepassare.
Si trattò di una vicenda sia epistemologica che politica in cui eccesso e oltranza, estremismo, essenzialismo e nichilismo facevano parte del programma. Fra Scienza e Rivoluzione, la letteratura sembrava superflua, non poteva che sparire. Narrativa e poesia diventavano testualità dedotte dalla teoria e alla stessa critica letteraria sembrò vietato essere semplicemente, tradizionalmente letteraria: doveva essere punto di vista scientifico e politico sulla letteratura. Se la borghesia e il capitale avevano preso in ostaggio e asservito arte e cultura, non si doveva cadere nella trappola, ma demolire criticamente tutta una costruzione sociale partendo dalle sue funzioni vitali: codici linguistici, miti di massa, istituzioni e trasmissione del sapere, meccanismi della riproduzione sociale, ideologia dell’arte: fino a colpire la metafisica occidentale dai Greci in poi, secondo alcuni responsabile di ogni alienazione.
Senza ricordare questo clima degli anni 1955-80 non credo che sia possibile capire un intellettuale e un critico letterario come Roland Barthes, di cui quest’anno cade il centenario della nascita, né il suo straordinario successo. Fu un protagonista e un maestro dei più amati. Fu lui, letterato com’era, cresciuto leggendo Proust, Gide e Valéry, a dire che ormai si doveva scrivere contro la letteratura, uscendo dalla letteratura, mettendo la letteratura contro se stessa. Alle spalle di Barthes, nonostante la suggestiva inventività delle sue formulazioni, c’era un intero passato novecentesco, culminato in due campioni dell’antiletteratura e della demistificazione critica come André Breton e Bertolt Brecht. Dunque: scrivere senza fare letteratura e fare critica letteraria facendo critica sociale.
Appartengo alla generazione che a vent’anni, tra il 1963 e il 1965, lesse uno dopo l’altro i due libri di esordio di Barthes, Le degré zéro de l’écriture e Mythologies, imparando dall’uno come si analizza e si smaschera un mito di massa e dall’altro come andare oltre la «scrittura borghese», come «mettere in questione l’esistenza stessa della letteratura» imparando da Mallarmé e Rimbaud, dai Surrealisti e da Camus. Alcuni degli ultimi capitoli del Degré zéro erano intitolati «Scrittura e rivoluzione», «La scrittura e il silenzio», «L’utopia del linguaggio». In quelle pagine si poteva leggere che compito all’ordine del giorno era creare «una scrittura immacolata, affrancata da ogni schiavitù a un ordine manifesto del linguaggio», sapendo che «un capolavoro moderno è impossibile».
Mythologies mi piacque di più. Lessi il libro accanto a Minima moralia di Adorno e all’Immaginazione sociologica di Charles Wright Mills, due classici di quegli anni, due vademecum di socioanalisi antiaccademica. Come mitologo credo che Barthes abbia trovato allora la sua forma più efficace. Per analizzare la società e l’odiata «norma borghese» non sentiva ancora il bisogno di mettere in campo la semiologia, che stava scoprendo allora e alla quale dedica uno scritto finale che non aggiunge nulla, anzi toglie vivacità, colore e divertimento alle singole analisi descrittive dei vari fenomeni: i giocattoli, il Tour de France, la plastica, il music-hall, il viso della Garbo, il cervello di Einstein. Meglio l’umorismo di allora che la successiva semiologia. Arrivai a pensare che quello era il solo tipo di letteratura che mi sarebbe piaciuto scrivere.
Poco più tardi anche il volume dei Essais critiques poteva essere letto come una miniera di spunti: ma era anche un libro dispersivo, uno spreco di intelligenza, una microteoria ogni dieci righe, un polverio di acutezze che sorprendevano, suggerivano estenuavano. Bella e crudele la diagnosi che Barthes faceva dell’avanguardia: «non è mai stata minacciata che da una sola forza, e non borghese: dalla coscienza politica (…) Parassita e proprietà della borghesia, è fatale che l’avanguardia ne segua l’evoluzione». Sono righe scritte nel 1956 e sembra che i nostri neoavanguadisti non le abbiano mai lette.
È certo che la semiologia, passepartout del critico letterario e del critico sociale, sedusse presto Barthes: prometteva di accrescere i suoi poteri analitici, ma soprattutto lo teneva in contatto con linguisti, teorici della letteratura, filosofi del linguaggio e tutta una serie di discipline, dall’antropologia (Lévi-Strauss) alla psicanalisi (Lacan) alla sociologia marxista (Althusser), che avevano adottato lo strutturalismo come guida. Ma fu proprio la semiologia a spegnere, limitare o paralizzare le capacità letterarie di Barthes, a sequestrare il suo talento (se c’era) e a depurare troppo la sua immaginazione di saggista.
Barthes studiò, escogitò, ipotizzò strategie e tattiche di evasione dalla prigione semiologica. Ma furono sempre evasioni parziali e momentanee. La semiologia era un’istituzione nuova e delle istituzioni Barthes non riusciva a fare a meno. Inoltre se si accetta, come lui fece, non solo che «la letteratura è fatta di parole» (solo di parole?) ma che l’intera realtà umana è anzitutto un sistema di segni e una catena di atti di significazione, il solo modo per averne conoscenza è presupporre come mediazione imprescindibile una scienza dei segni o semiologia, accantonando la quale si resta disarmati e intellettualmente impotenti.
C’era tuttavia in lui la tentazione di qualcos’altro. Pur usando una terminologia sua, Barthes recuperò di fatto antiche e classiche dicotomie che gli permettevano un certo andirivieni, un certo gioco: a partire dalla dicotomia di Pascal che oppone esprit de géométrie a esprit de finesse: e poi, da un lato istituzione e dall’altro autobiografia, strutture e processi, durata e slancio, metodo e intuizione, ordine e trasgressione. Più che scegliere, Barthes continuò a oscillare: universitario benché osteggiato dagli universitari, docente ma anche scrittore. Contro ogni mathesis universalis sognò una mathesis singularis o scienza paradossale del singolo oggetto.
In questa lotta, la lingua della sua saggistica soffrì di denutrizione, restò prigioniera in una rete di astrazioni. Il suo stile è cerebrale, smaterializzante, in fuga dalla corporeità, che riesce appena a nominare e subito dopo legge come segno.
Benchè sia stato uno dei critici dai quali all’inizio degli anni sessanta si poteva imparare di più nell’arte di nuotare dentro un testo letterario con tutte le sue implicazioni, oggi in Barthes sorprendono più le chiusure idiosincratiche che le aperture avventurose. Ignorò quasi del tutto le letterature straniere, soprattutto contemporanee, sia europee che americane, cosa che ha impoverito e reso piuttosto sterile e priva di contenuto buona parte della sua riflessione. Se si confronta la sua saggistica con quella di autori più anziani o più giovani, Eliot e Auerbach, Curtius e Ortega, Adorno e Wilson, Trilling e Steiner, il sofisticato orizzonte intellettuale di Barthes finisce per apparire ristretto, quasi provinciale, e il suo successo internazionale quasi inspiegabile.
il Sole Domenica 1.2.15
Arthur Rimbaud / 1
«Illuminazioni» di Nouveau?
di Armando Torno
Rimbaud sosteneva che dopo i greci la poesia si fosse dissolta in un gioco futile di versi e rime. Il vero poeta è chiamato a «farsi veggente con un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi, deve vivere ogni forma d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, assorbe in sé tutti i veleni per non serbarne che le quintessenze». Scrisse tali parole a sedici anni e qualche mese in una lettera a Paul Demeny, il 15 maggio 1871. Ora altre missive, riguardanti l’opera Illuminations, la cui composizione oscillerebbe tra la fine del 1872 e il 1874, entrano in gioco nel recente saggio di Eddie Breuil Du Nouveau chez Rimbaud e fanno da base a rinnovate indagini filologiche, grafologiche e testuali. La conclusione a cui lo studio giunge è sconvolgente: la celebra raccolta di poemi in prosa – pubblicata tra maggio e giugno 1886 sulla rivista «La Vogue», quindi in volume con la prefazione di Verlaine – si deve a Germain Nouveau.
La tesi di Eddie Breuil – svolge ricerche con Philippe Régnier nell’équipe di Lire (Umr 5611) – è discussa e ha già suscitato non poche reazioni; egli, comunque, ricorda che gli editori tendono a presentare Illuminations come un’opera compiuta, ma si tratta di una raccolta non autorizzata che ha riunito manoscritti non firmati di mano di Nouveau e Rimbaud, vergati tra il 1873 e il 1874: in essa nulla è sicuro, né il titolo, né il contenuto, né il «classement» dei testi (p. 15).
Propone un riesame completo dei manoscritti (dove rileva errori di trascrizione che un autore non avrebbe commesso), giacché la storia di quest’opera si basa su continue approssimazioni, su talune bugie di Henry de Bouillane de Lacoste (l’artigiano della versione attuale delle Illuminations), su tradimenti delle indicazioni di Verlaine (sovente, in tale materia, criptato o ignorato). Breuil riesamina le edizioni capillarmente, dalle due de «La Vogue» alla Vanier del 1895, dai nuovi elementi che emergono nel 1898 (Berrichon e Delahaye integrarono dei testi) a quella del 1914 del Mercure de France o all’apparsa nel 1949 («vers un statu quo») o alla Pléiade del 1971. Si chiede inoltre se le Illuminations siano veramente una raccolta di poemi in prosa o se tale sistemazione sia stata «forzata (p. 53). La parte centrale del saggio studia il ruolo di Rimbaud nella copie dell’opera, inoltre rilegge l’epistolario di Germain Nouveau. Le sue lettere sono la «sola testimonianza di prima mano» (p. 95).
È il caso di aggiungere che Nouveau (1852-1920), poeta che dopo la fase bohémien scelse di rinunciare a tutto e di vivere chiedendo la carità, è poco conosciuto in Italia.
Nel 1972 Einaudi pubblicò I baci e altre poesie, ora reperibile soltanto in antiquariato (la sua opera è leggibile in rete, in lingua originale: basta inserire in un motore di ricerca poèmes de germain nouveau en ligne). Eugenio Montale in un elzeviro del 1954 scrisse che Cézanne più volte negò l’elemosina al poeta mendicante, accovacciato sui gradini del Duomo di Aix-en-Provence. Il grande artista, probabilmente, soffriva di invidia per la sua libertà.
Eddie Breuil, Du Nouveau chez Rimbaud , Honoré Champion , Paris,
pagg. 200, € 29,00
il Sole Domenica 1.2.15
Arthur Rimbaud / 2
Piccolo genio infelice
di Giuseppe Scaraffia
Un ragazzo timido e fragile dall’aria sognante, che lo fissava dal primo banco coi grandi occhi chiari. La testa sotto i capelli domati dall’acqua, sembrava piccola rispetto al corpo dinoccolato. Questa fu la prima impressione del supplente, il giovane professor Izambard di ventidue anni, sei più di quel primo della classe che arrossiva se veniva interpellato inaspettatamente.
Benché fosse molto diverso dai suoi compagni, Arthur Rimbaud era riuscito a farsi rispettare aiutandoli durante i compiti in classe. E proprio in una di quelle occasioni Izambard assistette all’unico episodio di violenza di quel mite alunno. Quando un compagno gli aveva fatto la spia durante la prova di latino, Rimbaud si era alzato senza scomporsi e aveva tirato il dizionario in testa al suo accusatore, prima di sedersi di nuovo, rassegnato.
Il professore non sapeva ancora che dietro la timidezza di Arthur e il suo terrore di sporcare i modestissimi abiti c’era la madre. Abbandonata dal marito, atterrita all’idea che il figlio seguisse l’esempio dello zio che si era dato al vagabondaggio, madame Rimbaud era severissima con il figlio, malgrado tutti i suoi successi scolastici.
Quando Izambard, affascinato dalla sua non comune intelligenza e dalla sua illimitata capacità di apprendimento, cominciò a trattarlo alla pari, Arthur si aprì e iniziò a confidargli i suoi sogni e le sue letture. Ma soprattutto osò fare vedere a quello che gli sembrava una sorta di padre i suoi straordinari versi. Per quell’insegnante, isolato dalla sordità e dalla meschinità della provincia, quella strana amicizia era un conforto insperato.
Qualche anno prima Rimbaud aveva avuto una crisi mistica. Stravedeva per la religione. Un giorno, in chiesa, quando gli altri allievi, approfittando dell’assenza del sorvegliante, avevano cominciato a schizzarsi con l’acqua dell’acquasantiera, il dodicenne, furibondo, si era buttato sui sacrileghi, incurante della superiorità numerica. Arthur era fiero di essere stato soprannominato «lo sporco bigotto» dai compagni stupiti e irritati dalla sua reazione.
Ben presto lo stesso slancio con cui aveva creduto si era rivoltato contro la divinità. «Io credo, credo in te, divina madre! / Afrodite marina! – Oh la strada è amara / da quando l’altro dio ci aggioga alla sua croce. / Carne, marmo, fiore, Venere è in te che credo!». Era così iniziato un lavorio intenso, tutto interiore, di demolizione della morale vigente.
«Che fatica!», si lamentava con un amico, stupito dalla strana maturità di quel coetaneo.
Malgrado l’avesse intuita, la durezza di Madame Rimbaud fu una sorpresa per Izambard che aveva cominciato a prestare libri all’adolescente. «Non potrei approvare un libro come quello che gli avete dato giorni fa, I miserabili... sarebbe certamente pericoloso», scrisse la donna al professore del figlio. Nel suo terrore che Arthur diventasse un “miserabile”, non si era accorta che il libro sotto accusa era invece Notre-Dame de Paris.
Quell’incidente raddoppiò l’affetto di Izambard per lo sfortunato ragazzo. Da allora Arthur andò ogni pomeriggio a casa sua per leggere e discutere di poesia. Poi il lento ritmo della vita di Rimbaud era stato interrotto prima dalla guerra franco-prussiana e dalla Comune di Parigi. Era iniziato il periodo delle fughe. Le prime erano solo inconsapevoli prove generali, poi sarebbe arrivato il distacco, anche se il legame con la famiglia non sarebbe mai stato reciso.
L’incontro con i poeti parigini e gli amori con Verlaine, di dieci anni più anziano, accentuarono la vertiginosa precocità poetica di un genio destinato a restare solitario. Nei Poeti maledetti Verlaine evoca quello che ormai era diventato un uomo dall’aria atletica, con «occhi di un azzurro pallido inquietante» nell’ovale «da angelo in esilio». Quando lo scrisse anche la sua vita era stata travolta da quella meteora, ma insisteva a dire: «Abbiamo avuto la gioia di conoscere Arthur Rimbaud».
il Sole Domenica 1.2.15
La storia del Cnr
Vita dura per la scienza
Le vicende del nostro ente di ricerca dal 1923 a oggi: un emblema di scarsa lungimiranza politica con l’eccezione del ministro Ruberti
di Umberto Bottazzini
Per chi ha a cuore le sorti della ricerca scientifica e il suo ruolo per lo sviluppo del nostro paese, è illuminante la lettura di La ricerca e il Belpaese, un lunga intervista in cui Lucio Bianco, ex-presidente del Cnr, ripercorre la storia del principale ente di ricerca italiano dalle sue origini nell’immediato primo dopoguerra fino a oggi. Una storia emblematica dei rapporti tra scienza e politica.
Il Consiglio Nazionale delle Ricerche nasce nel 1923 per iniziativa di Vito Volterra, il grande matematico e senatore del Regno che rappresenta l’Italia nel comitato esecutivo del Consiglio Internazionale delle Ricerche, cui aderiscono gli scienziati dei paesi alleati, usciti vincitori dalla guerra. Già nel 1918 Volterra - che si era arruolato volontario (all’età di 55 anni!) - aveva trasformato l’Ufficio invenzioni, di cui era direttore, da struttura di carattere militare a Ufficio invenzioni e ricerca, con sede ancora presso il ministero della guerra ma lo scopo di sviluppare studi nel campo della fisica, della chimica e dell’ingegneria. Di fatto, il nucleo originario del futuro Cnr, che un decreto ministeriale del 1919 prefigura come l’organismo per promuovere «ricerche a scopo industriale e per la difesa nazionale». Ma dovranno passare ancora diversi anni di inerzia - per non dire dell’ostilità di Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione del successivo governo Giolitti - prima che il decreto istitutivo del Cnr trovi realizzazione, se pur con esigue risorse finanziarie. Del resto, osserva Bianco, il Cnr nasce orientato verso le cosiddette scienze “dure”, le scienze naturali, la fisica e la matematica, cui Croce e Gentile negano valore culturale - e uno dei primi provvedimenti di Gentile ministro dell’Istruzione nel governo Mussolini sarà proprio quello di un robusto taglio del trenta per cento dei fondi per l’università e la ricerca scientifica. Un’attitudine che, verrebbe da dire, da allora ha fatto scuola nei governi del nostro paese, con poche luminose eccezioni. La carenza delle risorse è infatti una costante anche nella storia del Cnr.
Nel 1927, alla scadenza del mandato di Volterra, noto e aperto antifascista, Mussolini chiama alla presidenza Guglielmo Marconi, premio Nobel e figura di prestigio internazionale, non ostile al regime, anzi. Marconi è iscritto al partito (sarà addirittura membro del Gran Consiglio) e nei dieci anni della sua presidenza il budget del Cnr riceve un sostanzioso, anche se ancora insufficiente, incremento e vengono creati i primi Istituti - per le applicazioni del calcolo, l’ottica, l’elettroacustica, le ricerche aereonautiche, la geofisica, la radiotecnica. Il prezzo è una progressiva perdita di rilevanza internazionale, esito della politica di autarchia perseguita dal regime e incrementata quando, alla morte di Marconi, alla presidenza viene nominato il maresciallo Badoglio, rientrato in patria dalla guerra d’Etiopia con l’aura del vincitore. Tuttavia, afferma Bianco, nonostante le aspettative di Mussolini il Cnr non ha un «ruolo bellico» ma «cerca di sopravvivere in quei tempi turbinosi».
A guerra ancora in corso, una nuova stagione comincia nel 1944, dopo la liberazione di Roma, con la nomina del matematico Guido Castelnuovo a commissario seguita, qualche mese dopo, dalla chiamata di Gustavo Colonnetti, un ingegnere e matematico torinese che resterà alla guida del Cnr per dodici anni. È stato Colonnetti l’artefice della ricostruzione dell’ente nel dopoguerra: il Cnr diventa organo dello Stato, con personalità giuridica e posto alle dipendenze della presidenza del Consiglio. Nelle parole di Bianco, che nel Cnr è entrato come giovane ricercatore con un contratto a tempo determinato per poi trascorrervi l’intera carriera scientifica, rivivono le fasi cruciali attraversate dal mondo della ricerca nell’ultimo cinquantennio: negli anni Sessanta l’emblematico caso Ippolito che fa seguito alla morte di Mattei ed ha un forte impatto negativo sulla politica energetica del nostro paese, l’arresto di Domenico Marotta, direttore dell’Istituto superiore di sanità, alle dimissioni di Adriano Buzzati-Traverso dalla direzione del Laboratorio internazionale di genetica e biofisica di Napoli. E poi i “Progetti finalizzati” lanciati da Alessandro Faedo, il matematico che, alla guida del Cnr negli anni Settanta, raccoglie e sviluppa l’eredità di Giovanni Polvani e Vincenzo Caglioti, progetti poi ripresi dalle successive presidenze di Ernesto Quagliariello e Luigi Rossi-Bernardi. E, infine, la presidenza dello stesso Bianco con le vicende di ieri, la riforma Berlinguer-Zecchino e i contrasti con la ministra Moratti e la sua riforma, che portano alle sue dimissioni da presidente.
Nell’Italia repubblicana i rapporti tra scienza e politica sono stati a lungo caratterizzati, dice Bianco, dalla «mancanza di un reale interesse da parte della classe politica per la ricerca» con l’eccezione di Antonio Ruberti, sia perché restando cinque anni al ministero «ha avuto modo di dare una direzione alla politica della ricerca», sia perché era «un ministro esperto» e «sapeva di cosa parlava». Pur non essendo al centro degli interessi dei politici, qualche governo della cosiddetta prima Repubblica ha finanziato la ricerca scientifica in maniera significativa, anche se non al livello di altri paesi europei. Negli ultimi vent’anni invece è venuta meno «la disponibilità culturale verso la ricerca» cui si è accompagnata una politica di tagli dei finanziamenti. «È vero che siamo in un periodo di crisi finanziaria e di scarsa disponibilità economica», conclude Bianco. «Tuttavia, negli altri paesi non hanno toccato i fondi destinati all'università e alla ricerca. Anzi, in Germania Angela Merkel ha realizzato un’ampia spending review, tagliando in maniera incisiva il bilancio dello Stato, ma ha aumentato i fondi per l’università e la ricerca, perché li considera investimenti strategici per lo sviluppo del paese.
In Italia, per trovare un esempio simile di lungimiranza politica, bisogna ritornare indietro a Quintino Sella, mitico ministro delle Finanze del Regno subito dopo l’Unità d’Italia, che si diceva disposto a «tagliare qualsiasi cosa, ma non i fondi per la scuola”. Ma, appunto, erano altri tempi.
Lucio Bianco, La ricerca e il Belpaese. Conversazione con Pietro Greco. Prefazione di Raffaella Simili. Postfazione di Luciano Canfora, Donzelli editore, Roma, pagg. 150,
€ 18,50
il Sole Domenica 1.2.15
Tecnologie mediche
Salviamo anche la madre
Il taglio cesareo era un evento cruento e mortale per le donne Ma con le innovazioni del 1800 nell’ostetricia il rischio si è azzerato
di Gilberto Corbellini
Chi pensa che «naturale è meglio» o che «la medicina ha da esser dolce» o altre equivalenti amenità, trascura qualche banale fatto. Per esempio, che nel corso del Novecento la diminuzione della mortalità perinatale è scemata via via che diminuivano i parti domestici, cioè “naturali”. La gravidanza, il parto e il post-parto, con i rischi che comportano per la vita della donna e del bambino, sono fra gli esempi più eclatanti che la natura è tutt’altro che “buona” e “giusta”, e che è l’allontanamento dalla natura a migliorare la condizione materna e infantile. Oggi, i parti domestici nel mondo sviluppato sono più o meno l’1%. E in questo tipo di pratica “naturista”, nonostante tutte le precauzioni che vengono di solito prese per soddisfare questo capriccio, la mortalità perinatale e gli incidenti sono di gran lunga più frequenti rispetto alla nascita in ospedale. Se nascere in ospedale, è di molto più sicuro, esagerare con l’uso delle tecnologie mediche, per comodità soprattutto, espone a nuovi e diversi rischi. Come nel caso dei tagli cesarei che in alcuni paesi, tra cui l’Italia, sono largamente abusati, cioè usati al di là delle situazioni nelle quali sono indicati per far nascere in sicurezza madre e figlio. Con costi per la sanità e danni alle donne.
Se oggi fare un cesareo è quasi sempre una passeggiata per qualunque medico ostetrico, e con un modesto rischio per madre e bambino, prima del 1876 era regolarmente un intervento seguito dalla morte della madre. L’ultimo libro di Paolo Mazzarello racconta come si arrivò a capire e dimostrare quello che andava fatto per salvare anche la madre. È la storia del medico e della partoriente protagonisti dell’operazione che nel 1876 impresse una svolta storica alla chirurgia ostetrica; una storia contestualizzata geograficamente e culturalmente. Anche in questo libro Mazzarello trasforma con grande bravura storica e facilità di scrittura un’ampia e dettagliata documentazione in un affresco convincente della medicina del parto nella seconda metà dell’Ottocento.
Per larga parte dell’Ottocento i reparti di ostetricia erano un luogo pericoloso dove partorire, perché infestati dalla presenza della febbre puerperale, cioè setticemie dovute all’infezione delle ferite dovute al parto. Il parto è un evento cruento, anche perché l’evoluzione biologica ha trovato un compromesso rischioso tra la massima espansione possibile del cervello nell’utero materno, e l’apertura del canale del parto consentita dall’architettura e biomeccanica della pelvi femminile. Quando, per motivi diversi, la donna è portatrice di malformazioni pelviche o se la placenta e il feto sono disposti in modo svantaggioso, il bambino non può nascere e la vita di entrambi è a rischio.
Il taglio cosiddetto cesareo - che non viene da Giulio Cesare - fu usato spesso per aprire il ventre della madre dopo la morte ed estrarre il bambino, spesso cadavere. La tecnica del taglio cesareo fu proposta nel 1581 da François Rousset e il primo caso realmente documentato di una donna che rimase viva risale al 1610. In casi di pelvi malformata si preferiva l’embriotomia e la fetotomia, cioè la frantumazione del nascituro in utero e quindi l’estrazione dei pezzi usando un apposito e raccapricciante strumentario. Nell’influente testo di Francesco Emanuele Cangiamila, Embriologia sacra (1745), numerosi capitoli sono dedicati al taglio cesareo e vi si insisteva perché venisse usato regolarmente nei parti difficili, sia se la donna era morta, sia se era viva, allo scopo di estrarre vivo il nascituro e così battezzarlo.
Ma il taglio cesareo lasciava rarissimamente in vita la madre, a causa delle infezioni e delle emorragie che ne seguivano, dopo il taglio dell’utero, l’estrazione del feto e l’asportazione della placenta. Il primo a trovare una soluzione per tenere in vita anche la madre fu Edoardo Porro il ginecologo e ostetrico che prendeva nel 1875 la direzione della clinica universitaria di Pavia, preceduto dalla fama di persona laica, che era favorevole a privilegiare la madre rispetto al feto nei parti a rischio, all’aborto terapeutico e a dire la verità alle donne. Porro era anche affetto da sifilide contratta da una paziente nel corso di un intervento operatorio.
Dopo pochi mesi dall’arrivo a Pavia gli si presentò il caso di Giulia Cavallini, incinta e con lo scheletro talmente malformato da rendere necessario il cesareo. Per Porro era l’occasione per tentare un’operazione del tutto nuova, cioè l’asportazione dell’utero, in quanto aveva capito che lasciato in sede dava luogo alle emorragie e infezioni che uccidevano le puerpere sottoposte all’intervento. In 43 minuti, il 21 maggio 1876, Porro ribaltò «il tragico destino con l’astuzia operatoria». Come scrive ancora Mazzarello il successo fu il «risultato della conoscenza e del ragionamento», e apriva una nuova era all’ostetricia.
I medici, così come ma molto più degli scienziati, sono portati all’invidia e coltivano pregiudizi, per cui a Porro toccò prima di tutto affrontare la controversia sulla priorità - che non ebbe difficoltà a vincere mostrando che l’asportazione dell’utero era voluta per bloccare l’emorragia e non per altri motivi. Poi c’era la questione che così si lasciava la donna sterile. Alcuni colleghi sostenevano che questo non fosse eticamente lecito e quindi preferibile un’embriotomia alla sicura sterilità. Comunque la maggior parte dei chirurghi accettarono l’innovazione, richiamando lo stato di necessità. Rapidamente la tecnica venne perfezionata arrivando in soli sei anni a un metodo conservativo che suturava e lasciava in sede l’utero.
Negli anni che vedevano Porro innovare la tecnologia chirurgica ostetrica, il peso della chiesa cattolica nel sentenziare se un atto medico riguardante la riproduzione fosse moralmente accettabile o no, era, almeno in Italia, quasi assoluto. Anche se il Papa si era chiuso da qualche anno in Vaticano. Porro sottopose subito la questione, se fosse lecito asportate l’utero e rendere sterile la donna, al vescovo di Pavia che era un teologo dogmatico e strenuo difensore del dogma dell’Immacolata Concezione (1854). Il vescovo applicò il principio tomista del male minore e per giustificare l’uso dell’intervento di Porro fece il paragone con la castrazione dei fanciulli per farne artisti con voci angeliche.
Paolo Mazzarello, E si salvò anche la madre. L’evento che rivoluzionò il parto cesareo , Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 198, € 16,00
il Sole Domenica 1.2.15
Divulgare la medicina
Chirurghi tv e scrupoli filologici
di Gilberto Corbellini e Pino Donghi
Con una flacone di «Heroin» che appare in primo piano mentre,fuori fuoco, svanisce il volto di John Thackery-Clive Owen, si è conclusa la decima e ultima puntata della prima serie di «TheKnick». Stagione propizia per le serie televisive, dopo le fortune di «House of cards» e «True Detective». Rispetto alla raffinata spietatezza degli intrighi politici tra Congresso e Casa Bianca, o alla truce determinazione dei poliziotti della Lousiana, c’era da aspettarsi che le avventure di un gruppo di medici-chirurghi della New York del 1900 consigliasse prudenza: storia e medicina al posto di attualità politica e crimine era un confronto impegnativo. Pure la Cinemax non ha nemmeno atteso l’arrivo in tv e i primi dati d’ascolto prima di rinnovare l’impegno programmando le riprese della seconda serie per il prossimo maggio.
Merito certo della sapiente regia di Steven Soderbergh, degli sceneggiatori, di un gruppo di bravissimi attori capitanati da Clive Owen, nominato ai Golden Globe per la sua interpretazione di John W. Thackery, chirurgo geniale e cocainomane, talento e sregolatezza, intuizione e ambizione, tutto fuori misura. Ma merito anche di Stanley Burns, medico-oculista e custode, insieme alla figlia Elizabeth, del «Burns Archive». Burns ha lavorato sul set di «The Knick», mettendo a disposizione le 700.000 fotografie vintage della sua collezione che va dal 1840 al 1950, la maggior parte delle quali dedicate alla storia della medicina. Il set del «Knickerboker» è stato costruito seguendo scrupolosamente le sue indicazioni quasi maniacali, compreso l’ordine gerarchico con il quale gli “osservatori” assistevano ogni intervento chirurgico disponendosi nel “teatro operatorio”. Owen e tutti gli altri attori hanno imparato a suturare come lo si faceva nel 1900, o meglio in quel lasso di tempo, tra il 1890 e il 1910, in cui la chirurgia decollava grazie allo sviluppo degli strumenti, all’arrivo della corrente elettrica (ciò che accade giusto nella prima puntata) alla comprensione del valore degli ambienti e delle procedure asettiche in funzione del successo terapeutico. Si può discutere se nel 1900 alla rampolla di una famiglia capitalista, promossa dal padre alla guida dell’Ospedale, fosse concesso di innamorarsi di un chirurgo nero o se una suora potesse procurare aborti; si può storcere il naso di fronte a una giovanissima e virginale infermiera che, rapita dal fascino di Thackery, sperimenta con lui sesso e droga: licenze e forzature narrative come quelle che drammatizzano le vicende di «Downton Abbey». Ciò che non si può non apprezzare è però l’accuratezza della ricostruzione storica. Gli esempi sono veramente molti e tutti significativi: la trama delle puntate contiene l’invenzione della procedura chirurgica per il cesareo di una placenta previa centrale, la ricostruzione della scoperta e dell’uso dei gruppi sanguigni per rendere possibili le trasfusioni, l’identificazione di Typhoid Mary (al secolo Mary Mellon) come portatrice sana di febbre tifoide, etc. Senza scordare che la figura di Thackery è ispirata a William Halstead, che era effettivamentetanto geniale quanto cocainomane e che viene anche introdotto aThackery in una delle puntate.
La verità storica appesantisce la costruzione drammaturgica? Tutt’altro. «The Knick» è una produzione in linea con quelle classiche delle grandi Major hollywoodiane: la costruzione narrativa e le scelte della cinematografia non cedono di un millimetro alla tentazione didascalica. È fiction di mestiere più accuratezza filologica. Ma non solo. Tutti i personaggi principalisono colti e rappresentati nella loro complessità. A partite dal geniale Thackery, talentuoso e ambiziosissimo chirurgo ma cocainomane; Algernon Edwards, aiuto brillante quanto il suo primario ma nero, discriminato, e sempre pronto a bere e cacciarsi in risse pugilistiche da strada; Cornelia Robertson, erede biancadelle fortune del proprietario del Knickerbocker ma appassionata amante del nero Algernon, figlio della cuoca di famiglia; e senza dimenticare Suor Harriet che procura aborti e la candida infermiera Elkins pronta a farsi innaffiare il sesso di cocaina per compiacere Thackery. Paradossalmente, gli unici protagonisti che la sceneggiatura punisce sono il Dott. Gallinger, chirurgo wasp, marito e padre esemplare ma chiaramente opaco, che perde la figlia di meningite e la moglie di conseguente pazzia, e HermanBarrow, amministratore corrotto, costantemente ricattato dastrozzini e mafiosi. Come a dire: gli unici “semplicemente” buoni o cattivi. Perché il progresso non è frutto di situazioni e personaggi semplici. Nella fiction (solo nella fiction?) l’evoluzione delle conoscenze consegue da genialità e ambizione, intelligenza e alterazione, solidarietà ed egoismo, illuminazioni e bassezze. Viene da chiedersi se certe rappresentazioni dell'odierna realtà, in cui le ragioni vengono distribuite in modo manicheo, risultino così poco convincenti proprio per eccesso didascalico.
A chi scrive, insieme ad Armando Massarenti, è capitata l’avventura e la fortuna, nel 2006, di affiancare Luca Ronconi nella messa in scena di Bi(bli)oetica (Einaudi, 2006) un dizionarioutile a comprendere i dilemmi che lo sviluppo delle biotecnologie pongono alla riflessione etica. Ronconi era affascinato dall’idea di mettere in scena un dizionario, di trovare la soluzione drammaturgica utile a rendere l’idea della “consultabilità”. MaBi(bli)oetica, come già Infinities sulla matematica nel 2002, tutto era meno che uno spettacolo didascalico: nessun cedimento verso la divulgazione. La Scienza a Teatro non per divulgarla ma per capirla. Nelle parole di Ronconi: «Voglio essere chiaro su questo punto perché potrebbe sembrare legato al carattere scientifico del testo e invece è quello che faccio sempre, è il mio modo di lavorare a teatro. Io, una cosa che conosco troppo bene non mi va di farla, non ho alcuna necessità di farla. La necessità, al contrario, diventa tale proprio perché voglio conoscere una cosa che non so».
Grande teatro, fiction d’autore. Non divulgare in quanto già si conosce ma rappresentare per capire. Una strategia sulla quale riflettere.
il Sole Domenica 1.2.15
Oltre il mito della Comune
di David Bidussa
I settantun giorni della Comune di Parigi (18 marzo - 27 maggio 1871) sono rimasti nella memoria collettiva in poche scene che sono anche parte del suo mito: l’abbattimento della colonna a Place Vendome, come atto che indica il rifiuto di militarismo; la riforma del lavoro e l’abolizione di quello notturno; il muro dei Federati dove tra il 28 e il 31 maggio 1871 sono fucilati i capi della Comune e accumulati i corpi dei comunardi uccisi. Quel muro inavvicinabile fino al 1885, divenuto monumento nel 1909, e che prima di narrare la storia della Comune ne fonda il mito.
Alla definizione di quel mito hanno concorso anche le memorie di chi ha vissuto quei giorni della storia di Francia, come ricorda e ricostruisce Enrico Zanette. Testi talora opposti e redatti per fini diversi.
All’inizio scrivere la storia della Comune significa descrivere il “cittadino pericoloso”. La fisiognomica che emerge da quei testi (dove contano soprattutto i tratti del viso, i comportamenti) ricorda molto da vicino la costruzione dell’«uomo delinquente» che negli stessi anni caratterizza la scrittura sulla devianza di Cesare Lombroso.
Poi c’è un secondo tipo di testo, diffuso soprattutto fuori dalla Francia. Le biografie dei comunardi, soprattutto di quelli che sono riusciti a salvarsi (in Svizzera, in Italia, negli Stati Uniti) costituiscono un testo che consente di scrivere una storia di sé, darsi un programma, magari anche profondamente ripensato. A differenza degli esuli del ’48 quando a Londra si trovano tutte le diverse figure del ’48 a riflettere sulla possibilità di una rivoluzione democratica capace di mettere insieme le borghesie nazionali, gli operai urbani e i contadini, gli esuli del 1871 iniziano a riflettere su una rivoluzione che ormai veste solo gli “abiti operai”. Il futuro iniziava cioè a parlare quel linguaggio, si esprimeva attraverso le icone, le divisioni che attraverseranno tutto il Novecento.
Poi c’è l’uso del racconto autobiografico come riflessione su come si ripensa una proposta politica dopo quell’esperienza. Sono soprattutto le pagine de L’Insurgé di Jules Vallès (1832-1885) a costituire il cantiere di lavoro di Zanette. In particolare quelle dove Vallès s’interroga sull’uso e l’abuso della violenza da parte dei comunardi; di ciò che doveva rimanere come lezione politica di un’insurrezione sconfitta. L’obiettivo era non fare un’icona della rivoluzione sconfitta, bensì pensare un programma concreto. Ossia dare forma a un progetto e non coltivare un mito.
Infine l’autobiografia come rivendicazione del proprio agire utilizzando la propria posizione d’imputato, di figura che prende la parola, e racconta in controluce quello che il nuovo potere non vorrebbe ascoltare, quello che nessuno vuol raccontare: la scrittura autobiografica come il luogo e l’occasione in cui la rivoluzione si fissa in parola memorabile, in atto d’irriducibilità e di sfida. Sono le memorie di Louise Michel (1830-1905), figura dell’anarchismo francese che dopo quindici anni di carcere riprende la parola con le sue memorie (pubblicate nel 1886), in cui rivendica la propria autonomia di donna, compresa la propria verginità. L’obiettivo è rivendicare la forza delle proprie scelte, come atti di rivolta, come rifiuto, come non sottomissione allo stereotipo.
Il mito della Comune passa attraverso le molte parole che si condensano nelle autobiografie sottolinea Zanette, ma anche quelle storie, ricorda opportunamente Maria Grazia Meriggi, sono indizi per scavare nella ricostruzione di uno scenario in cui non conta il singolo eroe, ma il brulichio di uomini e donne che si muovono sulla scena della storia e che ci consegnano tanti testi il cui palinsesto sta a noi provare a costruire con pazienza e con competenza. Ma anche con curiosità.
Enrico Zanette, Criminali, martiri, refrattari. Usi pubblici del passato dei comunardi . Presentazione di Maria Grazia Meriggi, Edizioni di Storia
e Letteratura, Roma,
pagg. XX-172, € 24,00
il Sole Domenica 1.2.15
Franco Venturi (1914-1994)
Nel nome della democrazia
di Massimo Firpo
Militante antifascista e studioso del Settecento e del socialismo premarxista russo: la parabola umana e scientifica dello storico ricostruita da Adriano Viarengo attraverso carte d’archivio
Settecento riformatore è il titolo della più celebre opera di Franco Venturi, pubblicata tra il 1969 e il 1990, in 5 volumi e 7 tomi, per un totale di oltre 4mila pagine: opera peraltro rimasta incompiuta a causa della morte del grande storico romano di nascita e torinese d’elezione, scomparso ottantenne nel 1994. In essa era confluito il lungo, intenso, appassionato studio dell’età dei Lumi che lo aveva portato a diventare «uno dei più grandi storici del suo secolo», come ebbe a scrivere Bronislaw Baczko. Uno studio che era cominciato sin dagli anni universitari a Parigi con gli importanti libri su La jeunesse de Diderot (de 1713 à 1753) (1939) e Dalmazzo Francesco Vasco (1732-1794) (1940), quest’ultimo nato come tesi di laurea, che poté tuttavia essere discussa alla Sorbona solo nel ’46, a guerra finita. Figlio e nipote di due grandi storici dell’arte quali Lionello e Adolfo Venturi, infatti, all’inizio del ’32 – dopo aver sperimentato per qualche giorno le carceri fasciste – il giovane Franco aveva dovuto seguire nell’esilio francese suo padre, privato della cattedra torinese per il rifiuto di giurare fedeltà al regime mussoliniano. Qui si era subito legato a Giustizia e Libertà, ai fratelli Rosselli, a Gaetano Salvemini, e aveva rinsaldato una duratura amicizia con Aldo Garosci, che si sarebbe via via allargata ad altri esponenti della lotta antifascista, fino all’occupazione nazista della Francia nel 1940. Il fallimento del tentativo di passare in Spagna per poi raggiungere la famiglia negli Stati Uniti portò l’ancor giovanissimo studioso in una terribile galera franchista (ricordo di averlo sentito evocare la straordinaria astuzia dei pidocchi spagnoli, capaci di superare ogni difesa degli sventurati prigionieri). Consegnato alla polizia italiana, riuscì a evitare il tribunale speciale, ma fu mandato al confino in Lucania per oltre due anni, fino al crollo del Fascismo, quando non tardò ad assumere un ruolo politico di primissimo piano dapprima a Roma e poi in Piemonte nella lotta di liberazione, a fianco di personaggi che sarebbero stati i suoi amici più cari, come Giorgio Agosti, Sandro Galante Garrone, Vittorio Foa. Subito diventato con Leo Valiani la testa pensante dell’azione giellista e poi del Partito d’azione, fu un protagonista della Resistenza in Piemonte con il nome partigiano di Nada (in ricordo della desolazione carceraria spagnola), un instancabile organizzatore della stampa clandestina, un inesauribile animatore e ideologo del movimento e del suo impegno per una rivoluzione democratica.
Fu dunque nel cuore di una stagione drammatica, quella del dilagare del nazifascismo e poi degli orrori della guerra, che Franco Venturi sviluppò le sue prime ricerche, nutrite di fameliche letture anche nelle condizioni di vita più difficili, al punto di essere criticato come uno che talvolta «pensava solo a studiare e dimenticava che allora c’era da fare una rivoluzione». In realtà furono anni di cortocircuito permanente tra azione antifascista e riflessione storica, tra studio del passato e progettualità politica, sempre all’insegna di una cultura militante, che lo portò sin dal primo momento a concentrare le sue ricerche sul Settecento, sulle origini delle moderne idee di democrazia, libertà e socialismo per le quali combatteva e che proprio in quei decenni sembravano conoscere un’irrimediabile frattura. Un Settecento europeo, cosmopolita, esteso dalle Americhe alla Russia, animato da contraddittorie ma feconde tensioni utopistiche e riformatrici (Utopia e riforma nell’Illuminismo sarà il titolo di un suo densissimo libro, frutto dalle Trevelyan lectures di Cambridge nel 1969), sfociato infine nella crisi rivoluzionaria dell’Antico Regime.
Alquanto controvoglia nel 1950 Venturi sarebbe infine salito su una cattedra universitaria (a Cagliari, a Genova e infine dal ’57 a Torino), dopo essere stato per oltre due anni, tra il ’47 e il ’49 a Mosca, voluto da Manlio Brosio come addetto culturale dell’ambasciata, dove non tardò a sperimentare la difficoltà di allacciare autentici rapporti culturali con l’intelligencji a sovietica nel cupo tramonto dello stalinismo. Ma qui poté dedicarsi allo studio del socialismo premarxista in Russia, dai decabristi ai populisti, che la vittoria del bolscevismo aveva di fatto cancellato dalla memoria storica della rivoluzione. Ne sarebbe scaturito il grande libro sul Populismo russo, edito nel ’52, che avrebbe assicurato all’autore una fama internazionale e lo avrebbe portato a tenere corsi e lezioni nelle maggiori sedi universitarie del mondo e a inaugurare un nuovo cantiere di lavoro in cui l’indagine storica si intrecciava con la difesa della libertà anche attraverso una fitta rete di relazioni personali. Alcuni dei suoi numerosi saggi sulla storia presovietica sarebbero stati raccolti nel 1982 in un volume dal significativo titolo di Studies in free Russia.
Il delicato passaggio dalla lotta antifascista all’Italia democristiana, l’Italia dei «preti», come usava dire, e il rapido esaurimento politico del Partito d’azione consentirono dunque a Venturi di tornare alla storia, di dedicare tutto il suo tempo agli studi, affiancati peraltro dall’intensa collaborazione con la casa editrice Einaudi (interrotta a causa della sua risentita presa di distanze dalla “contestazione” sessantottina) e dalla direzione della «Rivista storica italiana», trasmessagli da Federico Chabod nel 1959. Studi ancora di ambito francese in un primo tempo – Le origini dell’Encyclopédie (1946), L’antichità svelata e l’idea di progresso in Nicolas-Antoine Boulanger (1947), Jean Jaurés e altri storici della Rivoluzione francese (1948) – ma poi concentratisi sul Settecento italiano, a cominciare dalla monografia su Alberto Radicati di Passerano (1954) e dalla ricchissima edizione di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1965), fino al tenace lavoro di scavo confluito nei volumi dedicati agli illuministi della Letteratura italiana edita da Ricciardi. Ne sarebbe infine scaturita la grande sintesi ricordata in apertura, tutta fondata sul ruolo degli intellettuali e del loro impegno politico, della loro continua mediazione tra progetto e realtà, tra idee e azione.
Una vita coraggiosa, intensa, feconda, quella di Franco Venturi, e un lascito storiografico di cui permane viva la vitalità, la passione politica, la vigorosa energia – usando una parola a lui cara – con cui fu progettato e realizzato un programma di ricerche di straordinario spessore. Le solide e nitide pagine di Adriano Viarengo, per la prima volta basate sulle carte conservate nel ricchissimo archivio privato, ricostruiscono con chiarezza origini, contesti e sviluppi del percorso biografico e intellettuale di un protagonista della cultura italiana del secolo scorso. Per parte mia, molto sommessamente, considero un privilegio esserne stato allievo e aver potuto fruire da vicino di quell’affascinante intreccio di intelligenza, sapere, esperienza politica, robustezza di carattere, rigore morale che contrassegnavano il lucido e partecipe sguardo sul presente e sul passato di un uomo che anche nel settembre del 1940, intrappolato nella Francia invasa dai nazisti, non esitava a dirsi «plein d’espoir et de certitude».
Adriano Viarengo, Franco Venturi, politica e storia nel Novecento, Carocci, Roma, pagg. 334, € 25,50