l’Unità 16.4.14
Senato, sì del Pd al testo del governo. Ma Chiti va avanti
di M. Ze.
Adesso c’è chi sostiene che l’Italicum è morto? Non capisco davvero questo disfattismo». Giorgio Tonini getta acqua sul fuoco e dice che dopo l’incontro tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, il percorso delle riforme si è consolidato. Ma ieri, giornata cruciale a Palazzo Madama per la riforma del Senato e il Titolo V della Costituzione, la sensazione più diffusa tra i democratici era proprio questa: dopo le elezioni europee non è detto che l’Italicum resti in vita, o quanto meno non è detto che conservi quell’impianto puntellato dai paletti dell’accordo del Nazareno. Fi è destinata a piazzarsi come terzo partito, a meno che non avvenga l’ennesima resurrezione del già Cavaliere e del suo partito allo stato in evaporazione lenta ma costante, il Pd a consolidarsi come primo.
Renzi però è preoccupato, la legge elettorale resta un punto fondamentale, quel patto fatto con gli elettori che intende rispettare. «La legge elettorale bisogna farla - dice infatti un suo fedelissimo, il sottosegretario Angelo Rughetti - sia perché dobbiamo dimostrare all’Europa che facciamo le riforme, sia perché è questa la mission del governo: tenere fede agli annunci fatti. Ne va della nostra credibilità». Angelino Alfano twitta parecchio sul tema. Prima per dire: «Nel processo delle riforme abbiamo avuto un ruolo da protagonisti »; poi per ricordare che Ncd si batterà per restituire ai cittadini la possibilità di eleggere i propri parlamentari.
Ma l’allontanarsi dell’Italicum sembra rendere meno nebuloso il futuro del superamento del bicameralismo perfetto. Il primo risultato che il presidente del Consiglio incassa a fine mattinata è l’ok da parte del gruppo Pd al ddl del governo che con un ordine del giorno approvato con 53 sì, 11 no e 4 astensioni, definisce quel testo un punto di riferimento a cui è comunque possibile apportare dei miglioramenti. Non ritirerà il suo ddl Vannino Chiti, che ha raccolto 33 adesioni comprese quelle dei 12 dissidenti del M5S, che arriverà in Commissione Affari Costituzionali, «per convinzione e perché io sono il primo firmatario, ma ce ne sono diversi, che mi pare siano 34. Penso che sia un contributo alla discussione. Poi la presidente farà un testo base, vediamo se ci convince ed eventualmente presenteremo degli emendamenti». Chiti non chiude al confronto, e lo ripete anche durante l’assemblea del gruppo, ma vuole coerenza tra la legge elettorale, che è centrata su una Camera ipermaggioritaria, la riforma della Costituzione che avoca a sé molte competenze oggi trasferite alle Regioni, e un Senato composto da sindaci e Regioni. Anche Tonini, che condivide l’impianto generale delle riforme presentate dal governo, e lo difende, pone l’accento sulle criticità che restano. «Dobbiamo guardare al microscopio le garanzie e i contrappesi - spiega -. Si deve evitare, cioè, che chi vince le elezioni abbia nelle mani anche le elezioni degli organi di garanzia, dal presidente della Repubblica, al Csm, alla Corte costituzionale. Dobbiamo introdurre dei correttivi ». Una delle modifiche potrebbe riguardare proprio la composizione del Senato delle Autonomie (che Zanda con un suo emendamento proporrà di continuare a chiamare semplicemente Senato), allargata in caso di elezione del presidente della Repubblica e degli altri organi di garanzia. Altro punto critico: le competenze. Secondo molti dem non può essere lasciata nella sola competenza della Camera la legislazione su legge elettorale e modifica della Carta costituzionale. Ma uno dei nodi messi sul piatto l’altra sera da Silvio Berlusconi ha riguardato anche il numero di senatori per Regione: inaccettabile che la Lombardia abbia sei senatori e il Trentino Alto Adige (grazie alle due province autonome) se ne assegni otto. I ventuno senatori nominati dal presidente della Repubblica (su cui è sembrato freddo anche Napolitano durante l’incontro con Renzi lunedì scorso) potrebbero invece, questa è l’ipotesi che avanza Tonini, essere distribuiti tra le Regioni a seconda della loro grandezza. «La necessità che il processo riformatore sia rapido è condivisa da tutti i senatori del Pd - dice il capogruppo Luigi Zanda - e il Pd illustrerà le sue proposte di modifica durante la discussione generale in Commissione al termine della quale si sceglierà un testo base». Sarà la presidente della Commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro a cercare la sintesi fra le varie proposte e produrre dunque il testo base. «Il lavoro in Commissione dovrà essere un lavoro in cui ciascuna opinione dovrà essere espressa nei tempi e nei modi opportuni, ma non si debbono utilizzare i tempi per manovre altre - avverte Finocchiaro che punta ad una riforma ampiamente condivisa - se non per l’approfondimento dei temi». Al più tardi entro dieci giorni il testo base dovrebbe arrivare in Commissione per essere poi approvato in prima lettura dall’Aula entro il 25 maggio, data delle elezioni. E ieri è rientrato anche l’ostruzionismo targato Fi, non quello del M5S: in commissione erano iscritti a parlare oltre 140 senatori. Poi, dopo l’incontro di Palazzo Chigi dell’altra sera, gli azzurri hanno annunciato che i loro interventi non saranno più di cinque o sei.
il Fatto 16.4.14
Italicum all’ultimo respiro
Sul Sentato regge l’accordo con Forza Italia. E il PD farà battaglia sugli emendamenti
di Wanda Marra
La Commissione Affari Costituzionali del Senato esaminerà l’Italicum, quando avremo finito l’esame delle riforme costituzionali”. Anna Finocchiaro ufficializza quello che Renzi e Berlusconi hanno deciso nell’incontro di lunedì sera. Che poi nella convinzione di molti senatori del Pd (anche renziani) si traduce nel fatto che l’Italicum è morto. Affermazione che tornava ieri durante la riunione del gruppo democrat a Palazzo Madama. Perché poi dopo le europee se FI crolla come dicono i sondaggi perché B. dovrebbe votare una legge che lo penalizza? “Se non facciamo questo sistema elettorale, ha tutto da perdere. A quel punto passiamo ai collegi uninominali , che lui non ha mai voluto”, ragiona un renziano doc alla Camera, sostenendo che “se il Pd stravince alle europee non c’è nessuna ragione di fare una legge diversa da quella”. Renzi, insomma, proverà ad andare avanti sull’Italicum, ma oggettivamente nessuno può dire cosa succederà dopo le europee. Peraltro, le previsioni (scritte anche nel Def) sono che slitti a settembre. Nei colloqui tra il premier e Napolitano è stata registrata anche la sua disponibilità a fare modifiche. Intanto, quello che Renzi vuole e deve fare a tutti i costi è arrivare al 25 maggio con una approvazione in prima lettura della riforma del Senato. Obiettivo di per sè non facile, visti i tempi strettissimi e i numeri risicatissimi. Chiti non ha ritirato il suo ddl, ma si è detto positivo rispetto al testo del governo. “Il problema della revisione del Senato pensata dal governo sta nel fatto che si poggia sull’Italicum, che assegna troppi poteri a chi vince le elezioni e per giunta in una sola Camera”. Accantonato l’Italicum, la strada del Senato è più semplice. Solo 11 senatori hanno votato contro la decisione di assegnare alla Finocchiaro il mandato di stendere emendamenti condivisi, partendo dal testo del governo. Lo dice bene Francesco Russo, lettiano: “Finocchiaro lavorerà ad un testo di sintesi per un Senato di garanzia”. Sarà comunque battaglia sugli emendamenti. Per la questione dell’elettività, si ragiona su una sorta di listino per il Senato di accompagnamento alle liste per l’elezione dei consiglieri regionali. Poi, dovrebbero entrare le modifiche chieste da B.: via i 21 senatori nominati dal Colle e equilibrio nella rappresentanza delle varie Regioni. Rimane il fatto che sul Titolo V le idee del governo sembrano confuse. Ma da parte del Pd almeno (al netto dei civatiani) la volontà politica di andare avanti c’è. E FI ha registrato il patto ritirando gli interventi di 50 senatori.
INTANTO , domani arriva sia a Palazzo Madama che a Montecitorio il Def. In questa occasione alcuni “renziani adulti” (definizione di un deputato lombardo) hanno deciso di presentare un documento, scritto da Matteo Richetti, uno dei volti di punta del renzismo della primissima ora. E promosso, tra gli altri, dal sottosegretario alla Funzione Pubblica, Angelo Rughetti. Con l’assenso di Delrio, che è non solo il braccio destro di Renzi, ma anche uno dei pochi che può mettere in discussione le idee del premier. Il documento parte da un assunto di fondo molto forte in sostegno dell’esecutivo (“si fa portatore di un intervento ad alto valore re-distributivo”, “prescrive che ciascuno contribuisce alla vita delle comunità in ragione delle risorse e del patrimonio di cui dispone”) e ribadisce con forza la centralità del Parlamento. Non a caso in 24 ore ha raggiunto oltre 100 firme. Se fosse una corrente, sarebbe la più numerosa del Pd, viste le divisioni nella minoranza. Ci sono molti renziani doc, da Ernesto Carbone a Davide Faraone, da Ermini a Cociancich. Ma anche molti di altre correnti (anche la super bersaniana Valeria Fedeli, per dire) o restati di fatto senza una vera corrente di appartenenza. Per molti in questi primi mesi il lavoro parlamentare si è ridotto solo a spingere bottoni per far passare leggi decise da altri. Una condizione vissuta sempre più come intollerabile. Insomma, l’obiettivo - sia pure nel nome di Matteo Renzi - è tornare a fare politica. Partendo anche dal fatto che il cammino parlamentare del governo non è stato facile, anche visto il fatto che i gruppi non li ha scelti lui. Spiegava Richetti, presentando il documento ai colleghi: “Su certi temi non si può lasciar parlare solo Fassina”. D’altra parte l’ha ribadito pure D’Alema: “Sulle riforme Renzi ha dato l’impulso, ma è il Parlamento che decide. E non ci sono né lui, né Berlusconi”.
La Stampa 16.4.14
Pd, scatta la corsa a essere “diversamente renziani”
Un documento di 70 parlamentari per benedire il Def E i quarantenni ex Ds lanciano la corrente di Speranza
di Carlo Bertini
Matteo Renzi è convinto che riuscirà a portare a casa entrambi i risultati, riforma del Senato entro le europee e Italicum entro l’estate: sì, perché il premier non crede che l’esito del voto possa mettere a rischio l’impianto della legge elettorale. Lo ripetono i suoi uomini e lo spiega bene Paolo Gentiloni, quando dice che «l’Italicum prevede il ballottaggio tra coalizioni, il centrodestra nei sondaggi è avanti di sei-sette punti su Grillo, quindi anche se M5S esce come secondo partito alle europee non cambia molto». Renzi si è persuaso che Berlusconi voglia tenere fede all’impegno e confida di avere saldamente in mano le redini del Pd. Dove ormai sembra scattata la corsa a presentarsi «diversamente renziani», nelle forme più varie: su impulso di renziani della prim’ora come Richetti, Rughetti, di veltroniani ma soprattutto di ex Ppi alla Fioroni, oggi verrà presentato un documento firmato da una settantina di parlamentari per benedire lo spirito riformatore del Def. Il 28 aprile, i quarantenni ex Ds ma pro-governo di Area Riformista, terranno a battesimo all’Eliseo la nuova corrente guidata da Roberto Speranza, con buona pace di Cuperlo.
I «giovani turchi» fanno notare che «c’è un fiorire di iniziative, ma noi le nostre le facciamo dopo le europee, ora bisogna fare campagna elettorale», nota polemico Matteo Orfini. Insomma, la minoranza Pd è frantumata e si sta ricomponendo ma non certo per provare a riprendersi a breve il partito o fare le scarpe al leader.
Il quale sente di avere il primo risultato a portata di mano: la scommessa di riuscire ad approvare entro il 25 maggio, malgrado le resistenze, la prima lettura della riforma del Senato, è alta ma la fiducia di farcela poggia su vari elementi. Il primo: Berlusconi gli ha assicurato che sosterrà questo sforzo, il suo capogruppo Paolo Romani si è subito allineato e gli azzurri iscritti a parlare in commissione Affari Costituzionali passano da 60 a 10. Secondo: la presidente della Commissione, Anna Finocchiaro, sembra impegnata a centrare il target di un primo voto entro le europee, conta di esaurire i 90 interventi previsti la prossima settimana e di presentare alla fine del mese un testo base per poi votare gli emendamenti. Insomma vuole andare spedita. Terzo: la fronda dei 22 dissidenti che caldeggiano un altro disegno di legge per un Senato di eletti, guidata da Vannino Chiti, non arretra ma ieri si è dimezzata al momento della conta interna al gruppo Pd voluta da Zanda: che ha blindato con un voto (53 sì, 11 no, 4 astenuti) un percorso mirato a far confluire le obiezioni in emendamenti, ma senza strappi. «Io non chiedo disciplina, garantiremo tutti, ma nel solco dei pronunciamenti della Direzione Pd».
Lo stesso Bersani va dicendo che «l’iniziativa di Chiti va ricondotta in un alveo di emendamenti di gruppo». Dunque più che sul Senato, sulla cui composizione e sulle cui funzioni ci saranno aggiustamenti, senza toccare il caposaldo della riforma del governo (niente senatori eletti), la battaglia delle minoranze si concentrerà sulla legge elettorale, sperando nel potere dirompente del risultato delle europee...
Francesco Bei su La Repubblica:
Certo, resta un’area importante di dissenso dentro al Pd che nemmeno la riunione dei senatori dem (la quinta sulle riforme) ha potuto obliterare del tutto. Ma i numeri si stanno assottigliando.
Nell’assemblea Vannino Chiti, presentatore del ddl alternativo a quello del governo, ha insistito sull’eleggibilità dei futuri senatori.
Messo ai voti il voto il testo del governo è risultato largamente maggioritario: 53 sì, 11 no e 4 astenuti (in totale i senatori Pd sono 107).
Dino Martirano sul Corsera:
Vannino Chiti e gli altri 22 senatori del Pd fuori linea hanno annunciato che non ritireranno il loro testo che conferma l’eleggibilità a suffragio universale del Senato, aggirando così uno dei quattro punti fermi posti da Palazzo Chigi. Se Chiti e gli altri disobbedienti del Pd dovessero insistere potrebbero, comunque, presentare solo i loro emendamenti al testo base. Nel dibattito, poi, è intervenuto Massimo D’Alema con un messaggio ruvido inviato a Renzi e a Berlusconi: «Non possono dire che “vanno avanti sulle riforme” perché chi sta andando avanti è il Parlamento e loro non ne fanno parte”».
Maria Teresa Meli sul Corsera:
Come Renzi ha ricordato anche ieri a Berlusconi la «riforma piace molto pure all’elettorato di centrodestra». Quanto a Vannino Chiti e ai suoi compagni dell’ala civatiana di Palazzo Madama, poco male, Renzi se ne è «fatto una «ragione». Formalmente manterranno la loro proposta di legge, come ha sottolineato anche ieri Chiti, in realtà sanno già che quel testo è destinato a sparire nelle more dei lavori della Commissione.
Repubblica 16.4.14
La crisi di Forza Italia mette a rischio la corsa dell’Italicum
di Goffredo De Marchis
ROMA. «Tanto non si vota ora, non c’è da preoccuparsi». Per tenere vivo l’accordo sul Senato nei tempi previsti, ovvero entro il giorno delle Europee, Matteo Renzi ha dovuto tranquillizzare Berlusconi sulla legge elettorale. Che così com’è, con Forza Italia in caduta libera, piace meno di due mesi fa dalle parti di Arcore. Il Cavaliere dunque preferirebbe prendere tempo, non “correre” troppo, verificare prima il risultato del 25 maggio e vedere dove si ferma il declino di Fi per capire se la formula del ballottaggio è ancora valida. Non è più detto che sia il centrodestra il primo o il secondo polo. Se diventa il terzo, l’Italicum non è più una legge conveniente.
Le parole di Renzi sono state interpretate da Berlusconi come la garanzia di non essere messo ai margini delle riforme anche in caso di ripensamento. Non significano però che il premier abbia cambiato idea su una scaletta immaginaria che fissa a giugno l’approvazione definitiva della norma sul voto. «Il dato delle Europee - ha spiegato nella notte del vertice - non può essere paragonato a quello delle politiche. Grillo non ha la capacità di creare una coalizione. La destra, sì. E sono le coalizioni a correre per il voto politico ». Renzi dice anche, raccontando ai collaboratori l’esito del colloquio, che «i sondaggi non possono condizionare le riforme». Insomma, l’Italicum non deve saltare.
L’intenzione del governo è non mancare alla promessa di costruire l’architettura istituzionale con l’opposizione. Ma uno stop vero e proprio è difficile da immaginare. «Berlusconi non conti sulle divisioni del Pd. I numeri ce li abbiamo, com’è avvenuto alla Camera la legge può passare anche a Palazzo Madama». Fra l’altro, la novità delle ultime settimane è la «profonda sintonia» creata nell’esecutivo con Angelino Alfano. «Ncd sarà meno bellicosa di quanto si è visto a Montecitorio. Non farà più le barricate. I loro voti sono blindati, stavolta».
Berlusconi è stretto tra la pena da scontare ai servizi sociali, il margine di manovra ridotto e il crollo del suo partito. Aspetta il 25 maggio come la data della resa dei conti. Non chiede la cancellazione del patto sulla legge elettorale. Ma il tempo di verificarne l’utilità alla luce dei voti presi nelle urne. A quel punto, se l’esito per Fi, fosse disastroso, la resistenza dei berlusconiani potrebbe saldarsi con i dissensi del Partito democratico. La minoranza del Pd, con Bersani e D’Alema, ha fatto capire che lascerà via libera sul Senato e il Titolo V, ma darà battaglia contro l’Italicum. Stavolta senza più il condizionamento legato alle Europee e all’affermazione del Pd. «Oggi il piatto è questo - è stata la risposta di Renzi l’altra sera - e non dimenticate che nel nostro accordo abbiamo escluso le preferenze e la parità di genere. Sono clausole che io sono in grado di rispettare, ma che mi pare siano in cima alla lista dei vostri paletti». Un avvertimento.
L’ex sindaco dunque non sembra intenzionato a rinunciare alla legge elettorale, magari votandola in tempi meno brevi del previsto ma nemmeno allungati all’infinito. È la sua polizza assicurativa sul governo, è lo strumento con cui far avanzare il suo progetto avendo in mano l’ipotesi di elezioni anticipate. Ed è anche quello che gli ha chiesto Giorgio Napolitano. Ogni ritardo o leggero slittamento può diventare una bomba a orologeria sotto il cammino delle riforme. Il presidente della Repubblica chiede al governo, alla maggioranza e ai partiti dell’opposizione di arrivare alla fine del cammino, stavolta. È esattamente lo stesso obiettivo di Renzi. Che intanto incassa il passo rapido sulla riforma del Senato confermato dal ritiro di tutti gli emendanti forzisti, ieri mattina. Poi, dopo il 25 maggio, si vedrà.
Repubblica 16.4.14
D’Alimonte: “Un errore far saltare la legge elettorale”
«Sarebbe un errore se l’Italicum finisse insabbiato»
intervista di Giovanna Casadio
ROMA . «Sarebbe un errore se l’Italicum finisse insabbiato. Berlusconi non pensi alla convenienza, peraltro se la può ancora giocare. Risolva piuttosto il problema della leadership di Forza Italia». Roberto D’Alimonte, politologo della Luiss, è tra gli autori della legge elettorale approvata alla Camera e in stand by al Senato. «Ma non sono il padre - precisa - casomai lo zio...i due protagonisti assoluti dell’Italicum sono Renzi e Berlusconi; poi Verdini, Maria Elena Boschi hanno avuto la loro parte. Anche il presidente Napolitano con discrezione ma con determinazione ha voluto far presente alcune priorità».
Tuttavia professor D’Alimonte, ora l’Italicum sta per finire su un binario morto?
«Sarebbe sbagliato se finisse su un binario morto. Non si fanno le riforme elettorali valutando di mese in mese la convenienza ».
A Berlusconi non converrebbe più perché arriverebbe terzo, dopo Grillo, visto lo sfarinamento di Forza Italia?
«Chi dice questo alla luce dei sondaggi di oggi, dimentica che il ballottaggio previsto dall’Italicum avviene non tra partiti bensì tra coalizioni. E mettendo insieme le stime di voto di Forza Italia, Nuovo centrodestra e Lega, la coalizione di destra è ancora seconda, anche dal punto di vista dell’analisi delle convenienze del momento. Comunque l’Italicum conviene a Renzi perché potrebbe arrivare al 37% dei voti».
Dopo le europee l’Italicum va quindi semplicemente scongelato?
«Considero questa legge un buon compromesso, pur con alcuni difetti. Dal mio punto di vista è un “second best”, a cui andrebbero fatte delle correzioni: va introdotta l’alternanza di genere, va abbassata la soglia dell’8% per le liste single e ridotta al 4% quella per le liste “sposate”. Meglio ancora se ci fosse una soglia unica per “single e sposate”. Un correttivo ci vuole per escludere le mini liste civetta, tipo “Forza Milan” o “Forza Fiorentina: dovrebbero concorrere al conseguimento del premio di maggioranza solo se raggiungono l’1%. Avrei anche voluto che si portasse al 40% la soglia per fare scattare il premio di maggioranza».
Il 25 maggio si inaugurerà probabilmente un’altra era politica?
«Mi dispiacerebbe se l’esito delle europee mettesse in discussione il compromesso rappresentato dall’Italicum. Il rischio è che ci teniamo il sistema proporzionale che non fa bene all’Italia di oggi».
Le sta bene la riforma del Senato voluta da Renzi?
«Io sono addirittura monocameralista, qui abbiamo un bicameralismo differenziato. È una proposta equilibrata, terrei ferma la non eleggibilità dei senatori. Nei 15 paesi dell’Europa occidentale, 7 non hanno il Senato e negli altri 8 è elettivo solo in Spagna. Non ho invece capito perché la Valle d’Aosta debba avere gli stessi senatori della Lombardia: è da correggere».
E le critiche dei professori, da Rodotà a Zagrebelsky?
«Fanno parte di un conservatorismo provinciale».
Corriere 16.4.14
Boschi e quello spot surreale tra Zalone e grillismo
di Aldo Grasso
Lo spot elettorale di Antonio Decaro, deputato pd e candidato sindaco di Bari, con la ministra Maria Elena Boschi sembra una scena scartata dal filmAmici come noidi Pio e Amedeo. Scartata perché non funzionava, perché non faceva ridere, perché la comicità pugliese è altra cosa. La panchina in mezzo al verde, l’ambientazione bucolica, il candidato sindaco che parla di «rottamazione gentile», la comicità involontaria sempre in agguato. Quando la ministra, con l’aria da principessa delle favole, dice «Ma ti immagini qualche mese fa se ci avessero detto che io avrei fatto il ministro e tu il sindaco», ecco, uno è subito portato a fare un notevole sforzo di immaginazione. Guardando il candidato sindaco, poi, viene in mente Checco Zalone: «Tutti i veri cantanti all’inizio della carriera vivono nella miseria». Chissà, sarà per la barba, per l’abbigliamento, per quell’invito ad andare a mangiare la focaccia, ma Decaro non ha l’aria da primo cittadino. Sembra pescato dal mazzo, come un grillino qualsiasi. Poi, però, all’improvviso, si raggiunge il clou dello spot. Decaro: «Credo sia arrivato il momento di andare a mangiare un po’ di focaccia. Come la chiami tu? Fohaccia? (simula l’accento toscano)». Boschi: «Focaccia o schiaccia». Poi, in dialetto barese, «E allora che ti devo dire, sciamaninn». È una scena completamente surreale, priva di ogni logica, uno «scarto», appunto. Non è che per essere pop i ministri debbano per forza imitare Totò e Peppino; né le qualità recitativa di Boschi e Decaro sembrano eccelse, ma ormai questo video è diventato virale e l’hashtag #Sciamaninn sta già facendo il suo corso, forse porterà i suoi frutti. Oggi la comunicazione funziona così, in maniera indiretta, attraverso la trasfigurazione accidentale del banale, dove immagini e parole non fanno più attrito con la realtà ma l’assecondano senza l’ombra del ridicolo. Sempre Zalone: «È inconcepito che non vediate la Puglia!». È inconcepito che Decaro non diventi sindaco!
il Fatto 16.4.14
Spending Review
Il premier cerca coperture disperatamente
Renzi scippa il canone Rai per finanziare gli 80 euro
Il governo toglie alla Rai 170 milioni dal canone di abbonamento
di Carlo Tecce
Cottarelli scrive a Gubitosi e gli annuncia un prelievo di 170 milioni (il 10 per cento del gettito dell’imposta sulla tv) per coprire gli aumenti in busta paga dei lavoratori meno abbienti. Un’a l t ra mazzata per Viale Mazzini sul bilancio 2014 che già prevedeva tagli e i 100 milioni per i diritti sportivi Tecce.
Da un paio di giorni, una lettera spedita da Palazzo Chigi fa tremare le scrivanie di Viale Mazzini. Il governo chiede ai vertici Rai di contribuire al taglio di spesa pubblica con 170 milioni di euro che verranno succhiati dal canone di abbonamento 2014. Il meccanismo è semplice: il Tesoro trattiene circa il 10 per cento di oltre 1,7 miliardi di euro anni, la tassa che gli italiani pagano e in tanti evadono. Occorrono risorse per mantenere le promesse di Matteo Renzi, risorse che il ministro Pier Carlo Padoan deve garantire. I 170 milioni di euro trasformano in un buco nero il bilancio 2014, che già sarà appesantito dai diritti televisivi sportivi (Mondiali di calcio, soprattutto), 100 milioni abbondanti di costi. Il direttore generale Luigi Gubitosi, neanche una settimana fa, aveva illustrato i risultati 2013: dopo un passivo di 245 milioni, viale Mazzini è tornata in utile di 5,3, uno spiraglio , un sintomo di guarigione, nulla di più. Adesso la richiesta di Palazzo Chigi – che si presume ispirata anche dal signor spending review Carlo Cottarelli – non crea soltanto panico, ma costringe viale Mazzini a una lotta per la sopravvivenza.
Il debito consolidato Rai, ristrutturato da Gubitosi con le banche creditrici, s’è fermato a 441 milioni di euro, ma sarà destinato a crescere ancora dopo un bilancio 2014 con 300 milioni di perdite. Più che un risparmio fra gli sprechi di viale Mazzini, l’obolo che pretende il governo spingerebbe le finanze Rai al collasso. La questione non è affrontata in questa recente missiva, ma il governo vuole che l’azienda riduca anche gli stipendi di dirigenti e giornalisti che non rispettano il tetto di 238.000 euro (la retribuzione di Giorgio Napolitano), fissato per le società compartecipate (incluse le presidenze delle quotate): scelta legittima e necessaria dopo lunghe stagioni senza regole. E saranno ridotte anche le buste paghe di capiredattori e funzionari ben lontani dai 238.000 euro.
I ricavi di viale Mazzini si reggono sul canone di abbonamento, che ha apportato 1,756 miliardi su 2,748 nel 2013: la pubblicità è bloccata sotto i 700 milioni (ha perso il 30 per cento in un biennio) e gli introiti commerciali non superano i 300 milioni. Non è la prima volta che si prefigura uno scontro tra viale Mazzini e palazzo Chigi. Già lo scorso novembre, il Consiglio d’amministrazione aveva criticato l’allora ministro Flavio Zanonato per il mancato adeguamento del canone all’inflazione, un palliativo per assorbire un pezzo di evasione (mai realmente contrastata e calcolata in 500 milioni di euro). Poi venne il momento di Cottarelli, che paventò la chiusura di qualche sede regionale, appena rimpolpate da decine di giornalisti che hanno partecipato a un concorso interno e che restano un simulacro del servizio pubblico. Era sono un avviso. Ma la lettera spaventa davvero.
il Fatto 16.4.14
Province, addio col trucco. Aumentano le poltrone: 25 mila in più
Sorpresa: la legge dell’abolizione appena approvata avrà come effetto collaterale che ci saranno più consiglieri comunali e assessori
di Tommaso Rodano
La grande infornata è pronta. Il "regalino" del sottosegretario Graziano Delrio sarà scartato il 25 maggio, giorno delle elezioni amministrative che riguardano 4.106 comuni italiani (di cui 3.908 appartenenti a regioni a statuto ordinario). Da quel giorno, in attesa di svuotare le Province, il governo Renzi comincerà a gonfiare i piccoli Comuni. Il ddl Delrio prevede l'incremento dei consiglieri e degli assessori eletti in tutte le cittadine e i paesi con meno di 10 mila abitanti. La prima tranche arriva con il rinnovo dei consigli comunali di fine maggio. Le poltrone sono così distribuite: 13.488 nuovi seggi per consiglieri comunali, 2.612 per assessori. L'opera sarà completata mano a mano che anche le altre città torneranno al voto. Alla fine in Italia ci saranno circa 25mila consiglieri e 5500 assessori comunali in più.
LA RIFORMA riguarda proprio tutti. Anche i paesi con meno di 1000 abitanti. Figurarsi quelli con meno di 100. Valerio Maxenti è il sindaco di Pedesina, il comune più piccolo d'Italia: la bellezza di 33 anime, in una manciata di case stipate sulle pendici del Monte Rotondo, in provincia di Sondrio. Con lo "Svuota province", il Comune non dovrà più accontentarsi di 6 consiglieri (come stabilito dopo i tagli di Monti) ma potrà eleggerne fino a 10 (con due assessori, prima erano zero). Il sindaco, artigiano del legno prestato al servizio della sua cittadina, non benedice le nuove poltrone. Dei nuovi consiglieri non sa che farsene: "Ne bastavano sei, non capisco perché il governo viene a rompere le scatole pure qui". Oltretutto, sarà un caso, l'aumento delle poltrone ha portato la competizione politica pure a Pedesina. Nel 2009 Maxenti era l'unico candidato, ora si parla di due, forse tre liste (una ogni 10 abitanti!). "Vengono da fuori - si lamenta il sindaco - e lo fanno per interessi personali".
La lievitazione dei seggi di Del-rio cancella la parsimonia del governo Monti. Le manovre del professore del 2011 e 2012, in piena ansia da spread e spending review, avevano tagliato i numeri dei rappresentanti dei piccoli comuni: al massimo 6 (e senza assessori) per i centri con meno di 1.000 abitanti, al massimo 10 (e non più di 3 assessori) per quelli con più di 5000 e meno di 10.000 abitanti. La riforma di Delrio semplifica e moltiplica. Solo due categorie per i piccoli comuni: meno di 3.000 e meno di 10.000 abitanti. I primi possono eleggere 10 consiglieri e 3 assessori, i secondi 12 consiglieri e 4 assessori. Il risultato finale è nei numeri citati sopra. Oltre 30 mila poltrone in più, per una riforma che Renzi aveva presentato con queste parole: "Dobbiamo dare un segnale chiaro, forte e netto, con 3 mila posti per i politici in meno. Tremila persone smetteranno di fare politica e proveranno l'ebbrezza di trovare un lavoro".
LE PROVINCE, come noto, non saranno abolite. Non prima, per lo meno, della riforma del titolo V della Costituzione. Saranno cancellate le cariche elettive (i tremila posti politici a cui si riferisce Renzi, tralasciando l'aumento degli altri) ma non le strutture di governo, che conserveranno diverse funzioni. I nuovi consigli provinciali saranno eletti e composti dai sindaci e i consiglieri dei comuni da loro rappresentati. Gli eletti, quindi, dovranno lavorare sia per il comune che per la relativa provincia, con uno stipendio solo. La promessa del governo, infatti, è che l'infornata di poltrone nei piccoli comuni non porti un euro di spesa in più: ogni centro dovrà rivedere gli importi di indennità e gettoni. Difficile, però, immaginare che un consiglio comunale con 6 dipendenti abbia le stesse spese di uno con 10 consiglieri e 2 assessori (non fosse altro che per la dimensione dei nuovi uffici e per l'acquisto di beni e servizi per un numero maggiore di persone). L'impatto complessivo della riforma, in ogni caso, non dovrebbe essere trascendentale: la Corte dei Conti ha stimato i risparmi in non più di 35 milioni di euro.
il Fatto 16.4.14
Sprechi e risorse
Giustizia, quei 2 miliardi di euro fermi nelle casse di Equitalia
Si tagliano le pattuglie della Polstrada, ma non si utilizzano i soldi del Fondo Unico Giustizia
Milioni di euro spesi dal Viminale per gli affitti
di Silvia D’Onghia
Quanta benzina si potrebbe acquistare con 2 miliardi di euro? O quante ‘volanti’ della polizia si potrebbero riparare? O, ancora meglio, quanti immobili si potrebbero ristrutturare e, magari, smettere di pagare esorbitanti affitti ai privati? Due miliardi di euro è la cifra, stimata dal neo sindacato di polizia Sed (Sicurezza e diritti), che giace immobile nelle casse di Equitalia, provento di confische alle organizzazioni criminali.
Confische, non sequestri: quindi beni che non potranno tornare nelle mani di mafiosi, camorristi o ‘ndranghetisti. Si tratta di un miliardo di euro in contanti e di un altro miliardo in titoli. Equitalia amministra per conto dello Stato il Fug, Fondo unico Giustizia, in cui confluiscono appunto denaro o proventi di sequestri e confische, e ha l’obbligo di versare le risorse nelle casse dello Stato. Basterebbe, dunque, che il ministero del Tesoro li esigesse, e quei 2 miliardi sarebbero a sua disposizione.
NON È DUNQUE, A DIFFERENZA di quanto detto ieri dalla presidente della commissione nazionale Antimafia, Rosy Bindi, solo una questione di tempi: “Noi ci siamo resi conto che se i mafiosi riescono a tenere per molto tempo alcuni beni è perché qualcuno si è girato dall’altra parte, è perché qualcuno gli ha dato una mano. Adesso noi – ha sostenuto la Bindi – chiediamo a tutti, dopo aver tolto i beni ai mafiosi, di dare una mano alle istituzioni per restituire questi beni alla comunità. Il procedimento di questi anni tra sequestro, confisca e assegnazione dura anche dieci anni, ma ci sono state buone pratiche che ci sono riuscite in cinque. Noi ci auguriamo di dimezzare questi tempi”. Sì, ma poi? – si chiedono i poliziotti del Sed – Perché tutto rimane fermo?”.
Al di là del denaro, infatti, c’è un elenco lunghissimo di immobili confiscati, parliamo di undicimila strutture. La legge imporrebbe al Tesoro di venderli dopo 180 giorni dal provvedimento giudiziario e dopo aver verificato la possibilità che vengano utilizzati dalle Regioni e dallo Stato. “Il problema è che si tratta di edifici non destinati all’uso pubblico. Ci dicono dunque che non possono essere destinati a ospitare la polizia – commenta il Sed –. Come la mettiamo con il 70 per cento dei commissariati d’Italia, che si trova in immobili privati? Il ministero dell’Interno – cioè lo Stato, cioè noi – paga milioni di euro di affitto ai proprietari degli stabili, quando potrebbe decidere di destinare un bene confiscato a questo utilizzo”. Qualche esempio? Il commissariato “Libertà” di Palermo costa ai cittadini 300 mila euro l’anno. Frascati e Marino, due dei Comuni dei Castelli Romani, hanno un commissariato ciascuno per cui il Viminale paga oltre 450 mila euro ai privati. A metà strada tra l’uno e l’altro, a Grottaferrata, esiste un ristorante, “La Bazzica”, sottratto all’usura una decina di anni fa e affidato poi al ministero per “finalità sociali”. In tutti questi anni nessuno ci ha più fatto nulla e la struttura, che è grande circa mille metri quadri, oggi cade a pezzi. Si continua a parlare di tavoli di confronto e non si è riuscito neanche a sfruttare un finanziamento di 150 mila euro da parte della Regione Lazio.
“Ristrutturarlo costerebbe un milione di euro– sostiene ancora il Sed – ma se poi accorpassero i due commissariati in due anni la cifra sarebbe ripagata”. Un caso ancora più paradossale è quello del commissariato Mondello, la località balneare vicina a Palermo. I poliziotti sono ospitati all’interno di Villa Elena, una struttura di pregio di proprietà del Fondo edifici di culto.
CHI GESTISCE il Fondo, circa 700 chiese di grande interesse storico-artistico e tutto le opere in esse conservate? Il ministero dell’Interno . “Il Dipartimento della pubblica sicurezza paga l’affitto al Fondo edifici di culto. Quindi il Vi-minale paga l’affitto a se stesso – conclude il sindacato di polizia –. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie indebolisce il consenso nei confronti delle grandi organizzazioni criminali, rafforzando la fiducia nelle istituzioni e instillando nella società civile l’idea che vivere nell’illegalità è una scelta che non paga. Oltre tutto siamo in un periodo in cui la coperta è troppo corta e si chiede al comparto sicurezza di stringere ulteriormente la cinghia, arrivando a ipotizzare tagli lineari alla Polstrada o alla polizia postale. Quei 2 miliardi reinvestiti sarebbero un ottimo segnale da parte del governo Renzi”.
il Fatto 16.4.14
Piombino affonda, così Renzi lascia spegnere l’acciaieria
In crisi. Dopo Pasqua lo storico altoforno verrà spento Il governo, tavolo dopo tavolo, rinvia. Il sospetto in città è che voglia dare l’azienda ai gruppi italiani della siderurgia
di Salvatore Cannavò
Il giorno dello spegnimento dell'altoforno mi sembrerà di tradire mio padre”. Lorenzo Fusco lavora alla Lucchini di Piombino, la storica acciaieria toscana, da quando era ragazzo. Prima di lui ci lavorava suo padre, arrivato da Napoli e contento di crescere la famiglia in quell'avamposto di classe operaia. Il 23 aprile, però, l'altoforno che rifornisce di linfa il gigantesco stabilimento, lungo più di 7 chilometri, una città accanto alla città, sarà spento. Non c'è più abbastanza produzione, la crisi, che dura dal 2008, non è stata superata e il commissario straordinario, Piero Nardi, ha dietro di sé le banche che reclamano i crediti. Per ora la rete di protezione stesa attorno allo stabilimento si riassume in un “Accordo di programma” impostato due giorni fa al ministero dello Sviluppo economico, alla presenza del viceministro Claudio De Vincenti, e che presuppone una serie di ipotesi. Ma la prospettiva vera, la ripresa della produzione e il lavoro garantito per i 2.000 dipendenti della Lucchini, che diventano circa 4.000 se si considera la Val Cornia tutt'attorno, il cui Pil dipende in larga parte dall'acciaio, ancora non c'è. Lo spegnimento di quell'altoforno rappresenta uno spartiacque. Tra quello che c'era prima e quello che ci sarà dopo. A Sergio Cardellini, delegato della Fim-Cisl, quando gli chiedi che impressione gli fa quell'evento gli si incrina la voce e i 34 anni passati dentro “La Fabbrica”, come è sempre stata chiamata da queste parti, si sentono tutti.
Gli interessi della lobby dell'acciaio
Per il momento, la storia operaia che viene fuori da Piombino non è una storia di recriminazioni. Il sindacato è unito, cosa rara di questi tempi, ed è convinto di aver fatto finora il proprio dovere. Ha mantenuto tutti i posti di lavoro e anche il salario, nonostante ora ci siano i contratti di solidarietà. E l'obiettivo che si è dato è ambizioso: “Vogliamo realizzare l'Accordo Piombino, la solidarietà per tutti, interni e indotto, senza differenza alcuna”. Non sarà facile perché, come notano diversi operai, riuniti qui nella storica sala del Consiglio di fabbrica, a mettere in discussione il futuro di Piombino c'è soprattutto “la lobby dell'acciaio”. Il riferimento è alle imprese italiane, come Duferco, Feralpi o la stessa Marcegaglia, che “sperano nella chiusura per potersi poi prendere i bocconi migliori”. Un progetto, ipotizzato dai sindacati locali, che avrebbe trovato nel governo una sponda di fatto. “Come mai, nota Rinaldi della Fiom, sono cambiati tre governi ma allo Sviluppo economico c'è sempre, come sottosegretario e ora come viceministro Claudio De Vincenti?”. E Piero Nardi, il commissario, era lo stesso che lavorava alla Lucchini prima della privatizzazione da parte di Italsider e che ha come responsabile commerciale Giovanni Bajetta che ricopre un ruolo analogo alla Duferco. Insomma, la tesi prevalente è che ci sia un piano per ridurre la capacità produttiva dell'acciaio italiano e permettere ai produttori più in forma, tutti del Nord, di recuperare quote di mercato.
La crisi della Lucchini ha radici antiche. La storica famiglia dell'acciaio fece un buon affare acquistando gli stabilimenti ex Italsider – oltre a Piombino, Trieste e Lecco – ma agli inizi del Duemila macinava perdite milionarie. La vendita alla russa Severstal, del magnate Alexei Mordashov, completata nel 2005, sembrava la soluzione. Ma la Severstal, nonostante le dimensioni, nel 2008 avviò la dismissione che ha portato all'impasse dello stabilimento toscano. Nel 2010, l'inserto immobiliare del Sole 24 Ore dava la notizia di un clamoroso shopping da parte di Mordashov in Costa Smeralda alla caccia di ville milionarie. “Nessuno, in tutti questi anni – fa notare Cardellini – ha mai controllato Mordashov e la Severstal, nessuno ha fatto una verifica. È normale?”. Non lo è.
Anche perché, e veniamo a oggi, controlli e rilievi meticolosi sono stati invece effettuati dal commissario Nardi e dal governo, nei confronti dell'unico acquirente che si è fatto avanti. La Smc del giordano-tunisino Kkaled al Habahbeh che continua a dichiarare di volersi prendere tutto, altoforno compreso, ma a cui vengono contestati scarsi mezzi. Anche per questo il polmone di Piombino sarà spento il 23 ma caricato “in bianco”, cioè con la possibilità di poter essere riavviato in 20 giorni se nel frattempo si materializzerà un nuovo acquirente. Gli operai sperano apertamente “nell'arabo”, come lo chiamano, ma denunciano gli intralci e gli intoppi frapposti finora da governo e commissario. E c'è chi pensa a un esposto alla magistratura proprio contro il commissario Nardi.
Un futuro tra i rottami
Al ministero, lunedì scorso, è stato impostato l'accordo di programma che è basato sull'ipotesi di impiantare un nuovo forno elettrico unitamente alla tecnologia Corex per riprendere la produzione sia pure a livelli ridotti. L'altra ipotesi, sponsorizzata dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, è quella dell'ampliamento del porto – già avviato – per permettere l'attività di refitting, lo smantellamento e il recupero dei rottami di vecchie navi. La seconda speranza, così, è che il rottame della Concordia venga a morire a Piombino. Tutto questo, però, ha bisogno di una “mano pubblica” che finora non si è vista. “Sembrano voler stare tutti alla larga da Piombino”, dice Gabrielli, segretario provinciale della Fiom, “a volte anche gli stessi sindacati nazionali”. E soprattutto Renzi. “Io l'ho votato– dice il delegato della Fiom, Rinaldi – Mi piacerebbe vedere se ha le palle di venire qui e parlare con noi”. Magari prima del 23 aprile.
Corriere 16.4.14
Scambi di poltrone nella lunga notte dei lottizzati
Quel candidato nella lista cambiato all’ultimo momento E Mancuso andò all’Enel
di Sergio Rizzo
La spiegazione ufficiale dello scambio di persona è quella di un banale errore materiale. Il nome di Salvatore Mancuso sarebbe scivolato nella lista sbagliata, quella dell’Eni, al posto di un altro protetto di Angelino Alfano, Andrea Gemma: difficile da credere. Infatti non è andata così. Raccontano che all’idea di trovarsi in un consiglio di amministrazione con presidente Emma Marcegaglia, Mancuso abbia piantato una grana notturna colossale. Finendo per venire accontentato: lui andrà all’Enel, sembra addirittura con l’incarico di vicepresidente, e Gemma all’Eni. Se il buongiorno si vede dal mattino, questo è il mattino. E non è tutto. C’è già chi ha sollevato il problema di possibili conflitti d’interessi tanto per la ex presidente di Confindustria quanto per Luisa Todini, esponente di una famiglia di costruttori, designata al vertice delle Poste.
Non bastasse, c’è pure chi ha colto la palla al balzo per tirare fuori una storia di cinque anni fa, quando il fratello di Emma, Antonio Marcegaglia, patteggiò una condanna a 11 mesi per una tangente pagata a un manager di Enipower: patteggiamento al quale aderì anche l’azienda di famiglia, Marcegaglia spa.Questo solo per dire quanto rischi di risultare ancora indigesta una tornata delle nomine pubbliche che se ha riservato sorprese non è soltanto per le donne arrivate alle presidenze, e neppure per il ricambio totale degli amministratori delegati.
Quello che è successo lì sotto, infatti, è assai simile a quanto si è verificato con la scelta dei sottosegretari del governo di Matteo Renzi. Che i partiti abbiano voluto dire la loro, non c’è alcun dubbio. La dimostrazione? Dei 14 nomi proposti da uno dei due cacciatori di teste per i consigli di Eni, Enel e Finmeccanica, ne è stato preso in considerazione uno soltanto. Per non parlare della girandola di nomi che ha gettato nello sconcerto il comitato dei saggi di Cesare Mirabelli. Con risultati finali tutti da decifrare.
Colpisce, tanto per fare un caso, che nella pattuglia dei consiglieri di amministrazione ci siano ben tre azionisti dell’Alitalia. Sono il patron del fondo Equinox Mancuso, Emma Marcegaglia e l’aretina Diva Moriani, designata per l’Enel e consigliere di amministrazione di i2 Capital partners sgr. Una società che fa parte di Kme Intek, l’ex gruppo metallurgico fiorentino Orlando guidato dall’amico e sostenitore di Renzi, Vincenzo Manes. E meno male che nessuno di loro è stato spedito alle Poste, che dell’Alitalia è l’azionista di riferimento. Dove l’arrivo di Luisa Todini ha messo fine a una storica regola non scritta: quella per cui i presidenti venivano scelti con l’accordo del sindacato più influente in azienda, la Cisl. Basta dire che il suo predecessore, Giovanni Ialongo, ne era stato il segretario. Certo, Luisa Todini non viene da Marte: vent’anni fa entrò nel parlamento europeo per Forza Italia e ora è nel consiglio di amministrazione della Rai in quota centrodestra. Ma del resto, come si diceva, certe scelte hanno obbedito a logiche precise.
All’Enel, per esempio, c’è l’ex commissario dell’Efim Alberto Bianchi, pistoiese: che soprattutto è il presidente della renziana Fondazione Open. Nel consiglio di amministrazione della Finmeccanica è invece arrivato l’ex amministratore della Esaote (azienda un tempo appartenuta a quel gruppo pubblico), il senese Fabrizio Landi. Fra i finanziatori della Fondazione Open c’è anche lui, con un versamento da 10 mila euro. E alle Poste non manca, sia pure con una cifra assolutamente simbolica (250 euro), un altro nome contenuto nel lungo elenco dei sostenitori della medesima Fondazione. Ossia, il guru televisivo Antonio Campo Dall’Orto: ex vice direttore di Canale 5, poi a capo di Mtv Italia e de La7, quindi manager di Viacom.
Per non parlare di quell’aroma della politica che non deve mai mancare. Così sempre nel consiglio di amministrazione delle Poste si è trovato un posto per Roberto Rao. Già portavoce di Pier Ferdinando Casini quando questi era presidente della Camera, è stato per cinque anni fino al 2013 deputato dell’Udc. Avrà accanto la fiorentina Elisabetta Fabri, proprietaria della catena Starhotels. La milanese Marta Dassù, invece, potrà mettere la propria esperienza internazionale al servizio della Finmeccanica. E’ stata consigliere per la politica estera del presidente del Consiglio quando a palazzo Chigi c’era Massimo D’Alema, per assumere l’incarico di viceministro alla Farnesina nel governo di Mario Monti.
Né potevano restare vuote le caselle alfaniane. Ecco allora Mancuso all’Enel. Nonché il giovane avvocato Andrea Gemma all’Eni, posto che inizialmente era destinato come detto a Mancuso. Avvocato specializzato in liquidazioni, Gemma insegna all’università di Palermo e pochi giorni prima che l’ultimo governo Berlusconi spirasse ha avuto dall’ex ministro dello Sviluppo Paolo Romani l’incarico di commissario straordinario della Valtur. Impresa turistica travolta da un crac finanziario che doveva conoscere già piuttosto bene per via familiare. Suo padre Sergio Gemma aveva infatti ricoperto fino al 2002 l’incarico di presidente del collegio sindacale della stessa Valtur, che nel 1998 era stata rilevata da Carmelo Patti. Del quale, due anni fa, la procura antimafia ha chiesto il sequestro di tutti i beni. L’accusa, aver fatto affari con Cosa nostra…
l’Unità 16.4.14
Marcegaglia promossa all’Eni chiude la fabbrica di Sesto San Giovanni
La neo-presidente ferma la Buildtech e «invita» i 167 operai a trasferirsi in provincia di Alessandria
Il gruppo aveva già chiuso lo stabilimento di Taranto
Esplode la protesta
di Giuseppe Vespo
Mentre cala il gelo della Borsa sulle società pubbliche all’indomani del cambio dei vertici, si apre un nuovo caso Marcegaglia. La fabbrica di Sesto San Giovanni della presidente designata Eni va verso la chiusura, anche se la direzione minimizza: sarà trasferita.
«Potevano annunciare la chiusura anche un anno e mezzo fa, quando Marcegaglia era presidente di Confindustria. Non gliene frega niente: noi siamo solo formiche, anzi, com’è che si dice?, risorse umane». Cristian ha 35 anni, gli ultimi undici li ha passati alla Marcegaglia Buildtech di viale Sarca, al confine tra Sesto San Giovanni e Milano. All’indomani della nomina di Emma Marcegaglia alla presidenza dell’Eni, l’azienda ha comunicato la decisione di chiudere lo stabilimento milanese e di trasferire tutti i dipendenti a Pozzolo Formigaro, in provincia di Alessandria.
Appresa la notizia gli operai sono usciti dalla fabbrica e hanno manifestato bloccando viale Sarca. Poi si sono riuniti in assemblea davanti al cancello della Buildtech. Hanno deciso di presidiare l’ingresso dello stabilimento e di fermare l’attività fino a questa mattina. Oggi vedranno come continuare. Ovviamente sono contrari alla chiusura della fabbrica, ma durante l’assemblea non tutti sembravano d’accordo su come manifestare il loro dissenso. «Non siamo tutti uniti», dice Franco, dal ‘97 dipendente Marcegaglia. «È sempre stato il gioco dell’azienda: premiano i più vicini alla dirigenza, tentano di dividerci. Ma se non ci opponiamo, abbiamo perso in partenza».
Alla Buildtech di viale Sarca lavorano 167 persone. L’età media è sui 45/50 anni. Qui si producono profilati e soprattutto pannelli per l’edilizia, attività che impiega tre linee di produzione e la maggior parte degli operai. L’azienda intende chiudere lo stabilimento e trasferire due di queste linee di produzione a Pozzolo Formigaro, in provincia di Alessandria, a poco meno di cento chilometri di distanza. Un’altra linea potrebbe arrivare - secondo i sindacati - da Taranto, dove è stato dismesso un altro sito con 132 operai. «Una decisione, quella di trasferirci e di non chiudere - fa sapere in una nota il presidente della società Fabrizio Prete - che l’azienda ha preso con grande senso di responsabilità sociale proprio per garantire l’occupazione in un momento di grande crisi per il settore della siderurgia e dell’edilizia industriale, in particolare».
«BREDA»INSEGNASBIADITA Ma per i sindacati, e per molti operai, il trasferimento equivale alla perdita del posto di lavoro. Per questo si oppongono. La delegazione che ha partecipato all’incontro con i vertici aziendali racconta che il gruppo lamenta perdite tra i 5 e i 10 di euro rispetto al 2012. Invece a sentire gli operai sembra che il lavoro non manchi, anzi. Quando si chiede loro il perché della cassa integrazione ordinaria, in vigore da mesi, alcuni pensano che faccia parte di una sorta di strategia che servirebbe a giustificare la chiusura. «Lavoro in bollettazione, registriamo i prodotti che entrano e quelli che escono dalla fabbrica - dice Massimo, dal 2005 alla Buildtech - Per me l’azienda va bene. Ci sono giorni in cui non riusciamo a respirare per quanto lavoriamo. Dicono che l’azienda vada male, non ci credo, ci prendono in giro».
La brutta notizia era nell’aria. E in ogni caso, questi operai sapevano che prima o poi avrebbero dovuto lasciare i loro capannoni. Basta guardarsi intorno per capirlo: al cancello della fabbrica si arriva da viale Sarca, varcando un ingresso sul quale campeggia ancora, sbiadita, la scritta «Breda». Un tempo qui sorgevano molte fabbriche, l’ultima ad andarsene è stata qualche anno fa la Magiarotti Nuclear. Oggi rimane solo la Marcegaglia. Tutt’attorno si alzano palazzi appena costruiti e un albergo che sta per essere terminato. «Il dubbio è che vogliano vendere l’area per fare speculazione edilizia», dice Gianluca Tartaglia della Fim. «L’azienda si dice pronta a fare investimenti per trasferire le linee di produzione a Pozzolo Formigaro - sostiene Mirco Rota, coordinatore del gruppo per la Fiom-Cgil - li faccia in provincia di Milano, trasferisca la fabbrica da un’altra parte nello stesso territorio». È quello che sperano in molti, e per questo si stanno cercando contatti con i sindaci di Milano e Sesto San Giovanni. Chiesto anche un intervento del ministero. «Vogliamo restare qui», dice all’assemblea il delegato Massimiliano Murgo, intervenuto insieme a Luciano Bruschi, funzionario Fiom: «Che andiamo a fare a Pozzolo, lì hanno già dichiarato 40 esuberi». Nessun commento dalla nuova presidente dell’Eni.
il Fatto 16.4.14
Emma, Bisignani e il cerchio magico
Nomine/1 Raccomandata ai renziani dall’amica Mansi, il nuovo presidente dell’Eni mandava il fido Arpisella a trattare con l’amico di Scaroni
di Giorgio Meletti
Ci sono flash intriganti nel day after di Emma Marcegaglia alla presidenza dell’Eni. Il primo è la gioia di Antonella Man-si, presidente della Fondazione Mps: “Sono felicissima. È stata la mia presidente in Confindustria ed è una persona con cui non ho mai perso i contatti”. Nel 2008 furono incoronate insieme, Antonella alla presidenza di Confindustria Toscana, Emma al vertice nazionale. Qualcuno è convinto che proprio la banchiera di Siena abbia aperto per l’amica di Mantova le porte del cerchio magico renziano, al quale è legata.
Il secondo flash è datato 9 ottobre 2010. Mansi dichiara “piena solidarietà e fiducia a Emma Marcegaglia”, che, sintetizzava Repubblica, “si sospetta fosse oggetto di ricatto da parte del Giornale di Vittorio Feltri per avere attaccato il governo”.
ERA USCITA la famigerata intercettazione tra il vicedirettore del quotidiano berlusconiano, Nicola Porro, e il portavoce di Marcegaglia, Rinaldo Arpisella. Il giornalista minacciava con tono paradossale una sorta di “trattamento Boffo” come ritorsione per un’intervista mancata. Arpisella reagiva con una lezione di vita: “Ti parlo da amico... Ci sono sovrastrutture che passano sopra la mia testa, la tua testa, (...) che ci pisciano in testa, non ci considerano neanche. Ma tu non sai che cazzo c'è altro in giro (...) il cerchio sovrastrutturale”.
Tenete a mente il “cerchio sovrastrutturale” e passiamo al terzo flash. Il giornalista e senatore Massimo Mucchetti dice sul Corriere della Sera a proposito dell’Eni: “Il rinnovamento è nelle mani del presidente Marcegaglia. Forza Emma, fatti dare il riporto dell’audit negato al tuo predecessore Giuseppe Recchi. La responsabilità sull'audit serve ad aprire i cassetti. Per esempio quelli della sede di Mosca”. Difficile dire se questa attesa di Emma giustiziera dei rapporti passati tra il silurato Paolo Scaroni e il regime di Vladimir Putin sia convinta o ironica. In ogni caso impone una ricognizione dei rapporti tra Marcegaglia e il mondo di Scaroni e del suo sodale Luigi Bisignani.
QUARTO FLASH. Il suddetto Arpisella, un mese prima della telefonata con Porro, chiama Bisignani che lo sgrida con autorevolezza - quasi fosse al centro del “cerchio sovrastrutturale” - per una lettera scritta malamente dalla presidente di Confindustria per raccomandare qualcuno presso un’istituzione di Londra. Bisignani sentenzia che la manager mantovana “assieme a quello di Siena ha fatto una cacata pazzesca”.
Lo stesso Arpisella ha raccontato ai magistrati napoletani, che avevano arrestato Bisignani per l’inchiesta P4, di averlo incontrato “agli inizi del 2010 per risolvere una diatriba interna a Confindustria tra le grandi aziende pubbliche del settore energetico fornitrici (e quindi chiamate monopoliste come Eni ed Enel) e le altre aziende associate fruitrici. Ne parlai con Bisignani per favorire una ricomposizione delle tensioni in atto e lui si riservò di parlarne con Scaroni, cosa che avvenne in quanto la cosa rientrò”.
Se proviamo a unire i puntini viene fuori che l’unica cosa vera che ci hanno raccontato sulla nomina di Marcegaglia alla presidenza dell’Eni è la sua appartenenza al genere femminile.
PER IL RESTO il suo profilo appare come l’ideale punto di compromesso tra le tre esigenze forti in campo. La prima, una caratura renziana, di cui sono garanti Mansi e i suoi amici. La seconda, una sufficiente affidabilità per Scaroni ed eventuali cerchi sovrastrutturali al suo fianco: hanno già subito un defenestra-mento a cui non hanno creduto fino all’ultimo (e di cui bisognerà dare merito a Matteo Renzi), gli è stato risparmiato un presidente con la tentazione di aprire i cassetti. La terza, contenuta nella seconda, non tirare troppo la corda con Silvio Berlusconi affidando i rapporti energetici con l’amico Putin a un presidente troppo innovativo.
Che Marcegaglia sia un’imprenditrice innovativa non lo sospetta nessuno. La sua azienda è stata condannata nel 2008 per aver pagato tangenti a un dirigente Eni in cambio di commesse, e suo fratello Antonio Marcegaglia ha patteggiato undici mesi di reclusione con la condizionale per corruzione. E proprio ieri è scoppiata la protesta dei lavoratori della stabilimento Build Tech di Milano.
I SIGNORI Marcegaglia hanno deciso di spostare la produzione a Pozzolo Formigaro, provincia di Alessandria, a 80 chilometri dalla sede attuale. Decisione presa “proprio per salvaguardare il posto di lavoro ai nostri 167 dipendenti”, ha detto l’azienda. La Fiom li considera licenziamenti mascherati, e prepara uno sciopero del gruppo nel quale da tempo denuncia un’incidenza degli infortuni quattro volte la media nazionale. L’ultima vittima è Lorenzo Petronici, facchino di 58 anni, morto l’8 aprile scorso nello stabilimento di Ravenna, forse con la soddisfazione di aver dato la vita per il successo di un’imprenditrice donna. E renziana.
il Fatto 16.4.14
Marcegaglia
Perché Emma piace pure a Renzi
di Pierfranco Pellizzetti
Emma Marcegaglia, neo presidente Eni, è organica al renzismo già prima ancora che il premier smart (e in Smart) comparisse all’orizzonte. Infatti, se la scaltra modalità argomentativa di Matteo Renzi si traduce nella teatralizzazione del cambiamento (vulgo rottamazione), lasciando – al tempo stesso – intendere chiaramente a chi di dovere la propria consapevolezza rispettosa di dove il potere sta e dei vincoli che ne derivano, l’imprenditrice mantovana è un’antemarcia del “rottamismo”.
La sua prima comparsa sulla scena pubblica risale al 1996, quando viene eletta presidente nazionale del Gruppo Giovani di Confindustria; l’antico nucleo di contestatori under 40 dell’immobilismo che affligge(va) l’organizzazione, presto normalizzato in una sorta di Rotaract (il Rotary junior per i figli dei rotariani senior) riservato agli eredi degli imprenditori associati.
TUTTAVIA – a quel tempo – degli antichi umori radicaloidi, nel movimento giovanile sopravviveva ancora un forte spirito di indipendenza dalla struttura burocratica di governo nel palazzo nero in viale dell’Astronomia all’Eur (la sede confindustriale). Sicché
– appena eletta – che fa Marcegaglia, prima donna a ricoprire una presidenza nella rappresentanza industriale? La propugnatrice di un profondo rinnovamento di sistema? Presto detto: si premura di andare a deporre le proprie insegne ai piedi dell’uomo forte della Confindustria di quel tempo: il direttore generale Innocenzo Cipolletta; pregato, per la prima volta nella storia del Movimento, di indicarne lui il segretario dei Giovani, nella persona di un funzionario di sua fiducia.
Messaggio chiarissimo: l’establishment si può fidare della fanciulla; la quale dimostra di aver capito subito tutto, mettendosi sulla scia del presidente dei senior del momento: il varesino Franco Fossa, che si era conquistato tale investitura da presidente della sezione Piccola Industria, con il bacio alla pantofola dell’allora leader dei Grandi Industriali, il presidente Fiat Cesare Romiti. Insomma, gli outsider fanno carriera proponendosi come “caporali”: i guardiani dell’ordine nelle zone più inquiete e scontente di un’organizzazione accusata di fare solo gli interessi dei soci di maggior peso contributivo.
Grazie alla propria abilità manovriera Marcegaglia farà un carrierone, fino ad arrivare pure lei alla suprema poltrona di presidente senior nel 2008. Da dove – anche in questo caso – dimostrerà l’attitudine al pompierismo dietro la rendita di immagine: l’innovazione apparente assicurata dal genere e dal generico progressismo verbale. Nel frattempo Confindustria scivolava nella più totale marginalizzazione politica e rappresentativa; una condizione da cui non riuscirà più a sollevarsi. Ma la presidentessa continua a volare proprio per la sua rassicurante arrendevolezza. L’innocuo progressismo da convegno che diventa condiscendenza nei confronti di chi è davvero potente: dalla partecipazione servizievole alla cordata dei presunti salvatori di Alitalia fino al far finta di niente quando il premier Silvio Berlusconi le rivolge apprezzamenti volgari da par suo.
MARCEGAGLIA è una che galleggia dando l’impressione di una forte volontà rinnovatrice, che resterà sempre a livello della dichiarazione di sentimenti. Anche perché innovare ha dei costi che un professionista del presenzialismo e delle cariche si guarda bene dal voler pagare.
Facile prevedere che alla presidenza dell’Eni, una delle pochissime grandi imprese nazionali sopravvissute alla mattanza degli ultimi decenni, la presunta manager ci regalerà pensose interviste e perentori interventi nei talk show. Difficile immaginarla mentre mette le mani in materie altamente rischiose come il core business di un Ente che opera nel settore energetico. Meglio dedicarsi a parate e defilé.
Del resto era una vecchia regola delle famiglie imprenditoriali italiane (specie mantovane) quella di mandare i propri figli a giocare nei corridoi di Confindustria perché non facessero danni in azienda.
il Fatto 16.4.14
Donne al vertice, ma non contano nulla
Nomine/2 Le neo presidenti avranno compiti istituzionali La gestione resta agli Ad. E gli stipendi saranno al minimo
di Carlo Di Foggia
Forza Emma fatti dare il riporto dell’audit negato al tuo predecessore”, esortava ieri il senatore Massimo Mucchetti (Pd). Nel messaggio alla neopresidente dell’Eni, Emma Marcegaglia, il numero uno della commissione Industria del Senato coglieva il punto critico della rottamazione renziana in versione quote rosa. Tanta immagine, pochi poteri e stipendi ridotti, ma solo per i nuovi volti.
QUATTRO donne alla presidenza delle aziende di Stato, non si erano mai viste. Oltre a Marcegaglia, Patrizia Grieco diventa presidente di Enel e Luisa Todini delle Poste. A giorni verrà ufficializzato l’arrivo di Catia Bastioli a Terna (la nomina formalmente spetta alla Cassa depositi e prestititi). Un colpo ad effetto, ma di funzioni operative manco a parlarne. Il presidente di queste società ha di norma un ruolo istituzionale di rappresentanza, tutt’al più ha il potere di condividere le scelte dell’ad. In Eni, la responsabilità sull'audit, cioè sulle funzioni di controllo interne all’azienda, serve ad aprire i cassetti, ad esempio quelli dell’ufficio di Mosca che custodisce gli onerosi contratti Take or pay, la cui rinegoziazione è stata finora gestita in prima persona dall’ex ad Paolo Scaroni. Vista la nomina del fido Claudio Descalzi la continuità nella gestione è assicurata. Ad oggi, le deleghe al presidente - che sono fissate dallo statuto e per cambiarle serve il voto dell’assemblea dei soci - si limitano “alla individuazione di progetti internazionali di rilevanza strategica”. L’unico barlume di operatività è dato dalla condivisione delle scelte sulla nomina e sui compensi del responsabile audit. In Enel questa funzione è affidata ad un collegio, dove siede anche il presidente . Un po’ poco, ma pur sempre meglio di Terna, dove alla presidenza non tocca alcuna delega ma solo “un ruolo istituzionale di raccordo tra gli organi sociali e di social responsability”. Stesso discorso per Poste: solo funzioni di garanzia.
L’ALTRO punto critico è il curriculum. Ad eccezione di Grieco, i nuovi presidenti hanno ereditato imperi familiari. Bastioli - che guida la Novamont, azienda novarese leader nella produzione di chimica - non ha competenze nel settore delle infrastrutture di rete, ma vanta un profilo da scienziato di fama: ha brevettato il Mater-Bi, la plastica pulita usata per i sacchetti della spesa. Marcegaglia, ex presidente di Confindustria, guida l’impresa di famiglia che produce tubi d’acciaio, ma si è sempre occupata delle attività collaterali, lasciando la gestione al fratello, preferendo coltivare la carriera all’interno dell’associazione degli industriali. Todini, membro del cda Rai (dal 2012, eletta in quota Lega/Pdl), è presidente della Todini Costruzioni Generali e di Todini Finanziaria. Grieco è dal 2013 presidente esecutivo di Olivetti, dove è arrivata nel 2008 prima come ad, poi diventando anche presidente e mantenendo entrambe le cariche fino al marzo 2013. Sedeva consigli di amministrazione di Fiat Industrial e Italgas. La competenza nei settori delle aziende di cui assumeranno la presidenza non sono il loro punto forte. Ma non lo era neanche dei loro predecessori, che però finora hanno portato a casa stipendi milionari. Finora, perchè insieme ai nomi Renzi ha voluto cambiare anche gli stipendi.
NON POTENDO tagliare quelli degli amministratori delegati delle società pubbliche quotate (e, come Poste, che collocano obbligazioni sul mercato), il premier ha puntato sugli assegni per i presidenti. Il Tesoro proporrà alle assemblee dei soci di fissare il tetto a 238 mila euro (l’assegno del presidente della Repubblica). Per dare l’idea, nel 2013 il predecessore della Marcegaglia in Eni, Giuseppe Recchi ha guadagnato 1,22 milioni di euro; il presidente di Enel, Paolo Andrea Colombo poco più di 1,2 milioni; Gianfranco Ialongo alle Poste ha portato a casa 900 mila euro. L’unico in linea con i nuovi piani del governo è Gianni De Gennaro (confermato a Finmeccanica): il suo assegno è sotto i 300 mila euro.
il Fatto 16.4.14
Le sentinelle del rottamatore in tutti i cda
Nomine/3 L’avvocato, il commercialista e il finanziatore: la gratitudine del premier
di Carlo Tecce
Per scovare la comitiva di amici di Matteo Renzi, ben infiltrata e non mimetizzata con l’infornata di nomine, non va osservata la prima fila, ma la seconda: non presidenti (che poi sono donne, e qui c’entrano gli uomini) e amministratori delegati, ma i consiglieri e il collegio sindacale. E non ci sono semplici amici, compagni di bisbocce o d’infanzia, ma strettissimi collaboratori. Origini di Pistoia, studio legale a Firenze, da sempre legato a Lapo Pistelli (mentore di Renzi, ora viceministro agli Esteri), Alberto Bianchi è l’avvocato (civilista) di Matteo e di Marco Carrai, la versione riservata, diplomatica di Renzi. Bianchi siederà nel Cda di Enel e, spiega, non ci sono motivi (né incompatibilità) per lasciare la Fondazione Open, la cassaforte renziana che gestisce le donazioni e organizza gli eventi.
Il pistoiese presiede la Fondazione, gestita assieme al medesimo Carrai, al sottosegretario Luca Lotti, al ministro Maria Elena Boschi. Bianchi non è un novizio, undici anni fa il Tesoro lo spedì a liquidare il pastrocchio Efim, il fondo per il finanziamento per l’industria meccanica, che già nel 1992 terrorizzava le banche creditrici.
Il commissario Bianchi s'è beccato una condanna di 4,7 milioni di euro dalla Corte dei conti (danno erariale) per avere saldato una parcella da 5,3 milioni per il patrocinio durante un procedimento che coinvolgeva una società controllata: pochi giorni dopo il pagamento (dicembre 2006), che Bianchi non voleva autorizzare e perciò ridusse da 10 a 5,3 milioni, entrò in vigore una legge che fissava il limite di 300.000 per prestazioni legali di Efim. Ora ci sarà l’appello e l’avvocato è convinto di avere ragione.
Il fratello, Francesco Bianchi, è commissario straordinario del Maggio Fiorentino da febbraio 2013, ministro Lorenzo Ornaghi, nonché membro del Consiglio di Sorveglianza di Intesa San Paolo. Oltre all’avvocato ereditato da Lapo Pistelli, Renzi ha premiato anche il commercialista, Marco Seracini, prossimo sindaco effettivo di Eni. Seracini non ha mai attraversato un periodo di redenzione – come Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi che non appoggiavano Renzi per le primarie di Firenze nel 2009 – ma s’è sempre preoccupato di sostenere l’avvento del giovane di Rignano sull’Arno e Renzi s’è sempre preoccupato di Seracini. L’associazione Noi Link, un prototipo della Fondazione Big Bang (Open), fu proprio un’iniziativa di Seracini che, appena Renzi divenne sindaco, fu catapultato al vertice di Montedomini, azienda pubblica di servizi alla persona.
Il finanziatore, tra gli apripista con 10.000 euro, si chiama Fabrizio Landi, designato consigliere di Finmeccanica. Il profilo di Landi, imprenditore, non fa pensare a un’esperienza nel settore della difesa, ma piuttosto in sanità, strumenti medici. Landi ha amministrato per tanti anni Esaote, un’azienda di respiro internazionale che produce apparecchi biomedicali. Quando Renzi perse il confronto con Pier Luigi Bersani per la corsa a Palazzo Chigi, Landi dichiarò: “Voterò Bersani perché sono nell’area Pd, per portare in Parlamento chi condivide Renzi. Se il Pd andrà al governo, darò il mio contributo su ciò che conosco: la sanità”. La sanità con Finmeccanica c’entra nulla. Dopo l’uscita da Esaote, Landi entrò nel cda di Banca Cassa di Risparmio di Firenze, il maggiore azionista è Intesa San Paolo, il 10% è di un’omonima fondazione (Marco Carrai è nel cda). Impegnato in svariate società nel settore medico, inclusa la A. Menarini Diagnostics, Landi fu presentato a Renzi da Dario Nardella, l’erede di Palazzo Vecchio. Antonio Campo dall’Orto, ex numero uno di Mtv e La7, già candidato a sostituire Luigi Gubitosi in Rai, ha seguito l’evoluzione renziana, anche se – a differenza di Landi – ha contribuito con pochi spiccioli, 250 euro. Il buon rapporto con il premier, manderà Campo dall’Orto, dotto di telecomunicazioni, nel cda di Poste accanto a Elisabetta Fabri, fiorentina, rampolla di una famiglia di albergatori, marca Starhotels.
Corriere 16.4.14
Donne al potere, i rischi di una politica
di Franco Venturini
Ammetto che ero quasi convinto dell’autenticità del riformismo del premier Renzi. Il criterio della discontinuità delle nomine pubbliche, più volte annunciato, sembrava caratterizzare il suo inizio mandato da una buona dose di coraggio. E anche di rottura nei confronti di un conformismo basato sulla conferma dei soliti noti. Ma la decisione dei nuovi vertici mi ha fatto ripiombare sull’originaria valutazione dubitativa. L’insistenza pop-femminista (abbiamo avuto prima le ministre, poi le capilista alle Europee e ora le presidenti) e l’aver privilegiato persone che già occupano posizione di elevato potere non mi hanno proprio convinto.
Ma come? Vogliamo rompere con la tradizione sul piano del gender e non rompiamo invece sul piano del background ? Vogliamo rendere dinamico l’ascensore sociale e scegliamo sulla base della presenza a «Ballarò» e alle riunioni di Confindustria? È chiaro che non parliamo di tutti gli individui selezionati, dove ci sono manager di razza e boiardi di usato sicuro, ma siamo certi che il nuovo che avanza non emerga dai consueti salotti di relazione? Proprio quelli che il giovane presidente del Consiglio voleva eliminare con la sua ruspa da rottamazione?
Chi scrive non è certo antagonista alle quote rosa, essendosi occupato in tempi non sospetti dello scarso potere manageriale delle donne in Italia (Quaderni di formazione Pirelli , numero 40, ottobre 1981), ma se si devono fare scelte evocative, almeno prendiamo le donne fuori dai giochi sociali consolidati. Infatti o vale il principio della competenza (e allora — come hanno prescritto i cacciatori di teste — varrebbe ricordare che la professionalità in queste posizioni di rango è di settore e non generica) oppure vale il principio d’inserire persone out of the box , in particolare proprio nelle aziende di proprietà pubblica, dove lo Stato dovrebbe dare un indirizzo anche simbolico e educativo.
Perché contaminare queste aziende con nomine provenienti dal privato, visto che sono tutte imprese già altamente competitive? Perché non includere talenti dal non profit o dalla cultura, visto che il presidente non operativo non si occupa di business, ma di governance e di sostenibilità («il presidente presiede, l’amministratore delegato comanda, per di più senza plafonamenti retributivi»)? Perché recuperare persone che hanno vissuto la loro crescita professionale nell’azienda di famiglia, quando ci sarebbe la possibilità di esaltare la carriera di chi non ha avuto il papà in ditta?
Che tutto poi si connoti di un sapore propagandistico, come se il giorno delle nomine fosse uno speciale Otto marzo da festeggiare, segna un punto a favore dell’abile strategia di marketing di Matteo Renzi, che nuovamente si contraddistingue per un risultato assai remunerativo sul piano della comunicazione politica. Ma ciò sottolinea anche, se ancora ce ne fosse bisogno, che sotto il claim delle donne al potere si nasconde un’incerta sostanza politica. E credo che alla lunga ciò finisca per danneggiare proprio il genere femminile. Quello serio, quello ancora oggi discriminato e quello basato sul sudore delle tappe faticose della vita.
Renzi nomina il responsabile dei pestaggi del G8 di Genova e della polizia che uccise Aldrovandi. Speriamo bene...
il Fatto 16.4.14
Gianni De Gennaro L’eterno protetto del capo dello Stato (che smentisce)
di Ste. Fel.
Ma che ci fa un poliziotto alla guida di Finmeccanica?”, diceva Matteo Renzi qualche mese fa, quando ancora era lontano da Palazzo Chigi. Poi ha capito che ci sono dei compromessi a cui bisogna cedere. E così l’unico manager che il premier ha confermato è stato proprio il superpoliziotto. Le ragioni sono tante. Primo: il nuovo Ad di Finmeccanica, Mauro Moretti, non sa niente di armi e difesa, al massimo può rilanciare quel settore trasporti che Finmeccanica voleva dismettere. De Gennaro, invece, ha la rete di conoscenze giuste per vendere armi, forte soprattutto di un rapporto storico con gli Stati Uniti, fin da quando lavorava con l’Fbi ai tempi di Giovanni Falcone. Oggi De Gennaro presiede il Centro studi americani, utile riferimento per gli statunitensi a Roma (domani, per esempio, c’è un incontro con la vice ambasciatrice Kathleen Doherty). Poi De Gennaro è il massimo esperto di servizi segreti, che ha guidato e poi vigilato come sottosegretario, e questo aiuta sempre. Ma soprattutto De Gennaro può contare su uno sponsor a cui neppure Renzi può opporsi: il capo dello Stato. Giorgio Napolitano stima De Gennaro da molti anni, in ogni polemica che ha coinvolto il 66enne super-poliziotto si trova sempre traccia di una dichiarazione a sua difesa di Napolitano: dalla gestione del pentito Tommaso Buscetta nel 1996, quando Napolitano era ministro dell’interno e l’altro vicecapo della polizia, al G8 di Genova alla gestione dell’emergenza rifiuti a Napoli, la città di Napolitano. Tra le tante cose che ha fatto De Gennaro, tra un incarico di vertice e l’a l t ro, c’è anche aver ricoperto il ruolo di capo di gabinetto di Giuliano Amato al Viminale, ed è nota la stima di Napolitano per Amato (che il capo dello Stato avrebbe gradito come successore e che, per il momento, ha mandato alla corte Costituzionale). Il ruolo di Napolitano nelle nome è stato esplicitato due giorni fa quando Renzi è andato al Quirinale prima di comporre ufficialmente le liste. Ma queste sono soltanto “ricostruzioni fantasiose” della stampa perchè da Napolitano non c’è stato “alcun intervento” sulle nomine, come ci ha tenuto a precisare una inusuale nota del Colle ieri mattina.
l’Unità 16.4.14
Buonuscite degli ex valgono 20 milioni
A. Bo.
Adesso c’è chi sostiene che l’Italicum è morto? Non capisco davvero questo disfattismo». Giorgio Tonini getta acqua sul fuoco e dice che dopo l’incontro tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, il percorso delle riforme si è consolidato. Ma ieri, giornata cruciale a Palazzo Madama per la riformadel Senato e il TitoloVdella Costituzione, la sensazione più diffusa tra i democratici era proprio questa: dopo le elezioni europee non è detto che l’Italicum resti in vita, o quanto meno non è detto che conservi quell’impianto puntellato dai paletti dell’accordo del Nazareno. Fi è destinata a piazzarsi come terzo partito, a meno che non avvenga l’ennesima resurrezione del già Cavaliere e del suo partito allo stato in evaporazione lenta ma costante, il Pd a consolidarsi come primo.
Renzi però è preoccupato, la legge elettorale resta un punto fondamentale, quel patto fatto con gli elettori che intende rispettare. «La legge elettorale bisogna farla - dice infatti un suo fedelissimo, il sottosegretario Angelo Rughetti - sia perché dobbiamo dimostrare all’Europa che facciamo le riforme, sia perché è questa la mission del governo: tenere fede agli annunci fatti. Ne va della nostra credibilità». Angelino Alfano twitta parecchio sul tema. Prima per dire: «Nel processo delle riforme abbiamo avuto un ruolo da protagonisti »; poi per ricordare che Ncd si batterà per restituire ai cittadini la possibilità di eleggere i propri parlamentari. Ma l’allontanarsi dell’Italicum sembra rendere meno nebuloso il futuro del superamento del bicameralismo perfetto. Il primo risultato che il presidente del Consiglio incassa a fine mattinata è l’ok da parte del gruppo Pd al ddl del governo che con un ordine del giorno approvato con 53 sì, 11 no e 4 astensioni, definisce quel testo un punto di riferimento a cui è comunque possibile apportare dei miglioramenti. Non ritirerà il suo ddl Vannino Chiti, che ha raccolto 33 adesioni comprese quelle dei 12 dissidenti del M5S, che arriverà in Commissione Affari Costituzionali, «per convinzione e perché io sono il primo firmatario, ma ce ne sono diversi, che mi pare siano 34. Penso che sia un contributo alla discussione. Poi la presidente farà un testo base, vediamo se ci convince ed eventualmente presenteremo degli emendamenti». Chiti non chiude al confronto, e lo ripete anche durante l’assemblea del gruppo, ma vuole coerenza tra la legge elettorale, che è centrata su una Camera ipermaggioritaria, la riforma della Costituzione che avoca a sé molte competenze oggi trasferite alle Regioni, e un Senato composto da sindaci e Regioni. Anche Tonini, che condivide l’impianto generale delle riforme presentate dal governo, e lo difende, pone l’accento sulle criticità che restano. «Dobbiamo guardare al microscopio le garanzie e i contrappesi - spiega -. Si deve evitare, cioè, che chi vince le elezioni abbia nelle mani anche le elezioni degli organi di garanzia, dal presidente della Repubblica, al Csm, alla Corte costituzionale. Dobbiamo introdurre dei correttivi ». Una delle modifiche potrebbe riguardare proprio la composizione del Senato delle Autonomie (che Zanda con un suo emendamento proporrà di continuare a chiamare semplicemente Senato), allargata in caso di elezione del presidente della Repubblica e degli altri organi di garanzia. Altro punto critico: le competenze. Secondo molti dem non può essere lasciata nella sola competenza della Camera la legislazione su legge elettorale e modifica della Carta costituzionale. Ma uno dei nodi messi sul piatto l’altra sera da Silvio Berlusconi ha riguardato anche il numero di senatori per Regione: inaccettabile che la Lombardia abbia sei senatori e il Trentino Alto Adige (grazie alle due province autonome) se ne assegni otto. I ventuno senatori nominati dal presidente della Repubblica (su cui è sembrato freddo anche Napolitano durante l’incontro con Renzi lunedì scorso) potrebbero invece, questa è l’ipotesi che avanza Tonini, essere distribuiti tra le Regioni a seconda della loro grandezza. «La necessità che il processo riformatore sia rapido è condivisa da tutti i senatori del Pd - dice il capogruppo Luigi Zanda - e il Pd illustrerà le sue proposte di modifica durante la discussione generale in Commissione al termine della quale si sceglierà un testo base». Sarà la presidente della Commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro a cercare la sintesi fra le varie proposte e produrre dunque il testo base. «Il lavoro in Commissione dovrà essere un lavoro in cui ciascuna opinione dovrà essere espressa nei tempi e nei modi opportuni, ma non si debbono utilizzare i tempi per manovre altre - avverte Finocchiaro che punta ad una riforma ampiamente condivisa - se non per l’approfondimento dei temi». Al più tardi entro dieci giorni il testo base dovrebbe arrivare in Commissione per essere poi approvato in prima lettura dall’Aula entro il 25 maggio, data delle elezioni. E ieri è rientrato anche l’ostruzionismo targato Fi, non quello del M5S: in commissione erano iscritti a parlare oltre 140 senatori. Poi, dopo l’incontro di Palazzo Chigi dell’altra sera, gli azzurri hanno annunciato che i loro interventi non saranno più di cinque o sei.
l’Unità 16.4.14
Qualche domanda a Renzi sulle nomine
di Massimo Mucchetti
Le nomine. Un amico mi ha chiesto: «Se ti fosse possibile, che cosa vorresti sapere dal presidente del Consiglio che lunedì sera ha presentato le liste del governo per i consigli di Eni, Enel, Finmeccanica e Poste?». Gli ho risposto: «Se potessi comincerei da un dettaglio».
«Vorrei chiedergli - ho aggiunto - se i nuovi presidenti potranno seguire anche altre attività o sedere in altri consigli di amministrazione e collegi sindacali, ovvero se siano obbligati al tempo pieno». È un dettaglio, ma fino a un certo punto: il tempo pieno è la mina su cui saltò Antonio Mastrapasqua, nonostante i buoni risultati ottenuti all'Inps. Da lui si pretendeva che non avesse altri lavori e altri incarichi. Dai nuovi presidenti di Eni, Enel, Poste eccetera, che prenderanno 238 mila euro lordi, un pò di più dei 172 mila del compenso presidenziale dell’Inps, che cosa si pretende? Sulla base delle risposte si ragionerà delle coerenze tra impegno professionale, risultati, remunerazione e meritocrazia. E poi si potrà continuare entrando nel cuore del ruolo presidenziale che, grazie all’indipendenza di chi lo ricopre, maschio o femmina poco importa, deve trovare la sua sostanza, anzitutto in certi no robusti.
Quando? Per esempio, quando il management proponga buyback così da proiettare le quotazioni del titolo oltre il prezzo d'esercizio delle proprie stock option o ancora quando il management porti affari o rinunci ad affari per compiacere gli sponsor politici ma non l’impresa e il suo ruolo nel Paese o quando si tenti di comprare il consenso dei soci a colpi di dividendi, incuranti del conseguente indebolimento dello stato patrimoniale. Ecco, nella loro vita precedente, quali no - e quanto robusti, e quanto rischiosi per le loro personali carriere - hanno saputo pronunciare gli attuali presidenti?
Sappiano che, se si troveranno sulle stesse frontiere in cui in questi anni si sono battuti un Roberto Poli (contro i buy back all'Eni) o un Paolo Andrea Colombo (contro gli affari con Gazprom, mediatore l'amico di Berlusconi e contro l'eccesso di dividendi all'Enel), i nuovi presidenti avranno l’appoggio di chi ha a cuore l’interesse di questi campioni nazionali. E ancor più convinti incoraggiamenti avranno, i nuovi presidenti, se useranno fino in fondo la forza gentile del loro sesso per esercitare la funzione di audit per aprire i cassetti e portare alla luce ciò che, in talune società, è rimasto in ombra, a cominciare dai rapporti bancari privilegiati, fonti, oltre ai normali finanziamenti, di relazioni di potere tra manager, oltre gli interessi degli azionisti. La storia dei padri di Emma Marcegaglia e Luisa Todini è una storia di selfmade man che si sono costruiti fuori dai vecchi circoli. Se l'impresa familiare può non essere una gran scuola di corporate governance, l’occhio del padrone può cogliere al volo i vizi del management. Dunque, wait and see. E se altrettanta trasparenza Marcegaglia, Todini e Grieco sapranno introdurre anche sulle spese per le relazioni esterne, che comprendono la pubblicità, le sponsorizzazioni e le liberalità, avranno un maggior controllo sui loro amministratori delegati che quelle spese gestiscono con pugno di ferro pro domo loro. Ma, se dai «dettagli» vogliamo passare alla «ciccia», Matteo Renzi o un suo rappresentante dovrebbero riferire in Parlamento delle ragioni e delle finalità di queste nomine, partendo dal giudizio sulle gestioni uscenti. Dovrebbero? Si, dovrebbero perché la Commissione Industria del Senato lo ha richiesto nella risoluzione sulle principali società a partecipazione statale, e il governo, per bocca del viceministro Enrico Morando, si è detto d’accordo. Capisco che molti, impazienti, vogliano credere alle favole belle senza fare la fatica di entrare nel merito. Cambiamento, cambiamento, le donne, la radice industriale, che altro si vuole? A che serve, chiedono gli entusiasti, perdere tempo per guardare al passato delle imprese?
Personalmente credo serva. I bilanci anno dopo anno, il confronto con i concorrenti, la verifica delle promesse, il rapporto tra la remunerazione totale dei manager e i risultati aziendali e le paghe dei lavoratori aiuterebbero a capire quale senso abbiano la nomina del più vicino collaboratore di Paolo Scaroni all’Eni e del rivale di Fulvio Conti all’Enel, la rimozione del presidente dell’Enel e quella di Alessandro Pansa a Finmeccanica. La Commissione Industria del Senato ha rischiato la propria reputazione mettendo i piedi nel piatto. Ha acceso un faro sui conti deludenti del cane a sei zampe che nel 2013 regge solo grazie alle partite straordinarie, e cioè alle plusvalenze nette realizzate in Russia e in Mozambico nonché sulla dinamica delle top compensation. Dov’erano i rappresentanti del Tesoro? Come si è articolato il rapporto tra la direzione partecipazioni e il ministro e tra questo e palazzo Chigi? E la Corte dei Conti, come li faceva i conti? La stessa impostazione critica è stata adottata dalla Commissione per le altre società. Sarebbe interessante il confronto di merito con le opinioni del governo. Ma nella società dello spettacolo forse questo è un approccio da secchioni. Certo, i capitalisti grandi e piccoli lo adottano quando si occupano delle loro aziende. Qui si preferisce il tweet, e tutto il resto è noia. Forse perché in questo Paese il rispetto della cosa pubblica evita l’esaltazione verbale ma non lo studio delle carte.
I nuovi amministratori delegati hanno tutti una lunga esperienza alle spalle, ma i criteri di scelta non sono omogenei su punti di fondo. Alcuni, De Scalzi e Starace, provengono dall’interno dell’Eni e dell’Enel. Altri, come Moretti e Caio, si sono formati in settori diversi, l’uno alle Ferrovie dello Stato e l’altro nelle telecomunicazioni e nella meccanica. Paradossalmente, i piani di Finmeccanica e di Poste hanno avuto il beneplacito del governo; quelli di Eni ed Enel presentano profili meno chiari a questo proposito. Perché in certi posti ci deve essere continuità di management e in altri no? Siamo sicuri che i piani di Finmeccanica resteranno quelli appena benedetti dai ministeri dell'Economia e dello Sviluppo economico o il governo ha cambiato idea, magari su Ansaldo Sts e Ansaldo Breda? Siamo sicuri che il South Stream, voluto essenzialmente da Putin e Berlusconi, pronubo Scaroni, sia ancora una buona idea? Ne sapremo di più quando il governo riferirà al Parlamento, meglio se con una relazione scritta ricca di grafici e tabelle che ciascuno potrà verificare.
Quest’ansia di chiarezza non deriva da pregiudizievole sospettosità. Essa è dettata dalla conoscenza dello stile di tanti manager che scommettono sull’incompetenza degli interlocutori, siano essi analisti finanziari che capiscono solo le medie mobili e nulla s’interessano di problemi industriali o siano politici o ministri che si riempiono la bocca della parola strategia senza distinguere i ricavi dai profitti al solo scopo di coprire i «santi maneggi» dei soliti noti. Il circuito di potere, che aveva in Luigi Bisignani il proprio segretario, non lo abbiamo inventato noi.
l’Unità 16.4.14
Austerità e lavoro svalutato. Tutti gli errori del Def
di Stefano Fassina
IL DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA E IL PROGRAMMA NAZIONALE DI RIFORME, PILASTRI DEL PROGRAMMA DI GOVERNO, NONOSTANTE GLI ANNUNCI, sono in continuità con la linea di politica economica mercantilista dominante nell’euro-zona: austerità e svalutazione del lavoro per cercare una competizione di costo sui mercati esteri. Oltre 20 miliardi di tagli alla spesa pubblica nel 2015 e oltre 30 dal 2016, in aggiunta ai tagli già realizzati. Un Jobs Act che punta a liberalizzare i contratti a temine senza causale, a introdurre un salario minimo anche per i lavoratori contrattualizzati e a generalizzare il «modello Fiat», secondo il preoccupante annuncio del vice-ministro Morando, mentre il contratto unico a tutele crescenti diventa aggiuntivo alla giungla in essere, previsto soltanto come eventuale sperimentazione.
Ha ragione il presidente del Consiglio: la sinistra che non cambia è destra. Ma a parte valutazioni etiche e politiche (la subalternità al neo-liberismo), la sinistra che non cambia è corresponsabile del naufragio dell'euro-zona e dell'Unione europea. Siamo sulla rotta del Titanic. È impossibile crescere tutti via export. I risultati alle nostre spalle sono chiari: oltre a enormi costi economici e sociali, il debito pubblico aumenta nell’euro-zona dal 65% del 2007 al 95% nel 2013, in Italia dal 104 al 129% (al netto delle risorse per i fondi «Salva Stati»). È inevitabile perché la svalutazione del lavoro deprime la domanda interna fino alla deflazione (ora incubo della Bce). E la domanda interna degli altri è export per noi e viceversa.
Nonostante i dati di realtà, perseveriamo. Fissiamo obiettivi insostenibili sul piano sociale e depressivi sul piano economico. I previsti tagli alla spesa implicano il cambio di connotati al nostro stato sociale: da universale a residuale, welfare povero per i poveri. Mentre si continua a ignorare che, in una fase di recessione-stagnazione e credit crunch, finanziare riduzioni di tasse con tagli di spesa è recessivo, si gonfiano con sfacciata ideologia gli effetti delle riforme strutturali, in particolare l'ulteriore precarizzazione del lavoro.
Va rilevato anche che, oltre a includere i tagli, le previsioni del Def escludono qualunque intervento migliorativo delle politiche sociali (misure anti-povertà, sostegno alla non autosufficienza, adeguati ammortizzatori sociali), la rianimazione della scuola pubblica, una soluzione dignitosa per gli «esodati », la flessibilizzazione del regime pensionistico e ogni rinnovo contrattuale o allentamento del blocco del turn-over nel pubblico impiego. Insomma, le scelte continuiste del Def e del Pnr determinano meno Pil, meno occupazione e maggior debito pubblico.
Che sarebbe utile fare? Una risposta emergenziale, nel quadro di un'offensiva condivisa per una correzione dei problemi sistemici dell'euro-zona: sostenere la domanda aggregata, in alternativa alla impossibile ricerca della crescita da esportazioni. In sintesi, per un triennio, utilizzo dello spazio finanziario disponibile al di sotto del 3% nel rapporto di deficit e Pil. Circa 6 miliardi per quest’anno per evitare di coprire l'Irpef. Nel prossimo biennio, oltre a evitare i tagli per coprire l'intervento sull'Irpef, attuazione della spending review come strategia di riqualificazione delle strutture pubbliche e di riallocazione delle risorse tra programmi di spesa, in particolare verso la scuola pubblica, il contrasto alla povertà e la riforma delle politiche attive per l'occupazione.
A integrazione delle risorse liberate dagli irrealistici obiettivi di deficit, andrebbero utilizzate anche le entrate da un ridotto programma di privatizzazioni per finanziare un piano straordinario per l’occupazione giovanile nell’ambito della «Youth Guarantee», un ventaglio di interventi per ridistribuite i tempi di lavoro e investimenti per il riassetto idrogeologico e la ristrutturazione delle scuole (nel Def gli investimenti si riducono del 12% e arrivano a meno della metà del 2008).
L’effetto di una politica macro-economica espansiva darebbe, anche in virtù dell’impatto distributivo, sostegno all'economia e di conseguenza minor deficit e minor debito effettivo e, soprattutto, minore sofferenza sociale e più speranza. Soltanto così possiamo evitare di contribuire a far naufragare l'euro e l'Unione europea contro l'iceberg dei populismi regressivi.
il Fatto 16.4.14
La tassa occulta delle società di Stato
Assurdità. A cosa servono le SpA controllate al cento per cento dal pubblico? In nome dell’efficienza si creano feudi per assunzioni clientelari e per aggirare le trasparenza
di Marco Ponti
Una società per azioni, secondo il codice civile, è un’organizzazione finalizzata al profitto, che va ripartito tra gli azionisti in funzione delle azioni possedute. Già questa constatazione giustifica perplessità: come mai lo Stato, che non ha fini di profitto, deve costituire società per azioni che possiede al 100 per cento? Queste non operano in mercati concorrenziali, quindi se fanno profitti verosimilmente si tratta di rendite di monopolio, cioè di risorse indebitamente sottratte agli utenti. Questo sembra confliggere con l’interesse pubblico.
Ma vi sono anche società per azioni pubbliche pesantemente sussidiate dallo Stato: producono servizi a cui lo Stato attribuisce utilità sociali, e quindi non vuole lasciarle al libero mercato, anche se notoriamente non vi sono nessi tra socialità e soggetto che produce il servizio, ma solo tra socialità e caratteristiche di prezzo e qualità dei servizi pubblici forniti ai cittadini. Altre società pubbliche gestiscono “monopoli naturali”, cioè infrastrutture, che non si possono mettere in concorrenza. Ma questo ruolo è affidato in alcuni casi a soggetti privati, con una logica mai esplicitata. Nel proliferare di SpA pubbliche negli anni passati, sono sorte anche società che svolgono funzioni di regolatori o di controllori o di stazioni appaltanti, un ruolo squisitamente ed esclusivamente pubblico.
I veri obiettivi dell’azionista
Le Ferrovie dello Stato sono una SpA pubblica, sussidiata con circa 7 miliardi all’anno. Dichiarano di fare modesti profitti a valle di questa erogazione di denaro, sostanzialmente arbitraria (nessuno ha mai spiegato perché non il doppio o la metà). Le autostrade sono affidate con contratti di lungo periodo sia a società pubbliche che a privati (la maggiore, Autostrade per I’Italia, fa capo ai fratelli Benetton), senza che se ne capisca il criterio. Lo stesso vale per gli aeroporti (la Sea del comune di Milano, Aeroporti di Roma sempre dei Benetton). Aeroporti e autostrade private in genere fanno profitti. E sono per la gran parte SpA pubbliche le aziende del trasporto locale, possedute da Comuni e Regioni e sussidiate con circa 5 miliardi l’anno dallo Stato e dagli enti locali, che presentano livelli di efficienza molto bassi.
Poi c’è il caso dell’Anas: controlla le concessioni autostradali e nello stesso tempo è concessionaria essa stessa di autostrade, con una duplicità di ruoli che non può che lasciare perplessi (in quanto SpA, stabilisce contratti di natura privatistica coi concessionari, basati su piani finanziari “segretati”, inaccessibili anche ai parlamentari che li richiedono). Nel settore aereo c'è l'Enac per il controllo di aeroporti e compagnie aeree, ed Enav per l’assistenza al volo, entrambe SpA con funzioni totalmente pubbliche. (Alitalia era anch’essa una SpA pubblica, con i risultati noti). Recentemente è stata costituita una SpA in Lombardia (Infrastrutture Lombarde) con il compito di concedente di autostrade nuove. Di recente ha avuto adesso gravi problemi con la giustizia, ma prima era un modello di grande successo, che altre Regioni volevano imitare .
Ma quali sono gli obiettivi sempre dichiarati all’atto della costituzione di SpA pubbliche? Sempre l’efficienza, ovvio, liberarsi di lacci e lacciuoli che paralizzano le attività dei ministeri. Ma è solo un velo che occulta obiettivi meno nobili. Innanzitutto perché la condizione di SpA consente totale disinvoltura sia nelle assunzioni del personale, a tutti i livelli, che nelle retribuzioni, in media nettamente più alte che nel pubblico. E spesso le SpA non hanno sostituito ma si sono sovrapposte a funzioni dello Stato. In terzo luogo, e probabilmente questa è la caratteristica più rilevante, consentono di aggirare grazie alla loro (solo formale!) natura privatistica, molti vincoli di bilancio o di trasparenza richiesti dall’Europa.
I guadagni di efficienza promessi non sono mai stati dimostrati: le evidenze sembrano indicare il contrario. Anche tecnicamente è molto difficile ottenere una esatta informazione sulla reale efficienza di imprese non esposte alla concorrenza.
Lo Stato faccia il suo mestiere
Che fare? La risposta sembra semplice: “Il pubblico faccia il pubblico, e il privato il privato”. Lo Stato smetta di produrre direttamente alcunché e si concentri sul garantire ai cittadini buoni servizi e infrastrutture a bassi costi, sottraendosi ai conflitti di interesse (“proteggo la mia impresa o gli utenti/contribuenti?”) che oggi dominano. Per ottenere produzioni efficienti, i privati, non certo per il loro buon cuore, sono molto più portati, e questa loro attitudine va usata sia attraverso l’affidamento periodico in gara delle concessioni, sia attraverso autorità di regolazione (come quella di recente istituita per i trasporti), realmente indipendenti e dotate di poteri adeguati. Anche nel difendere le imprese dalle interferenze indebite dalla politica nelle gestioni.
l’Unità 16.4.14
Pensionati Cgil
Un milione di cartoline al premier
Dal congresso Spi-Cgil un appello al confronto con il governo e al rispetto dei più deboli
Cantone: noi non rubiamo il futuro dei nostri figli e nipoti
di Massimo Franchi
Dal congresso della Spi Cgil un milione di cartoline indirizzate al capo del governo e un invito al confronto. Nella relazione la segretaria Carla Cantone ha ribadito: «Non rubiamo il futuro dei nostri figli e nipoti».
Un milione di cartoline, una decina di sms e tante punzecchiature. Carla Cantone e Matteo Renzi rappresentano i poli opposti: il segretario dei pensionati Cgil e il premier più giovane della storia italiana. La notizia però è che si parlano. Lo ha rivelato la stessa Carla Cantone durante la sua - al solito scoppiettante - relazione al diciannovesimo congresso dello Spi, aperto ieri a Rimini. Una relazione incentrata sulla concertazione - “Se non va bene chiamiamola Giuditta, ma confrontiamoci” - con il governo e sui temi interni alla Cgil con una richiesta “forte di unità”.
Certo, il rapporto Cantone-Renzi per ora è soltanto epistolare o telematico, mentre l'incontro vis a vis è ancora lontano. Partito al tempo delle primarie Pd - nelle quali Cantone ha appoggiato prima Bersani e poi Cuperlo – ha sempre viaggiato tramite messaggi di testo telefonico con gli auguri per la nomina a presidente del Consiglio e conseguente ringraziamento, diventando poi scambio di frecciatine su parecchi temi di attualità. Nelle quasi due ore di relazione – mezz'ora in meno del record stabilito e beffardamente sottolineato di Landini nello stesso luogo la settimana scorsa – il tema della “rottamazione della concertazione” e “del sindacato confederale” è stato preminente. Senza mai nominarlo, i messaggi a Matteo Renzi sono stati tanti. “Se qualcuno continuasse nel suo pensiero strategico di fare a meno del sindacato, noi con la nostra lunga storia gli faremmo cambiare idea. Non rinunciamo a svolgere il nostro ruolo di rappresentanza. Certo, ha ragione Susanna Camusso – seduta accanto a lei - a dire che non pietiamo alcun tavolo, ma posso pretendere il confronto da un premier che è anche il leader del più grande partito di sinistra? Altrimenti significa che il mondo è capovolto. E se si è capovolto occorre raddrizzarlo”. Anche perché “quando non si accetta il confronto è perché si vuole avere il controllo e il potere di decisione su tutto. Ma il decisionismo e la velocità fine a se stessa sono spesso destinate a cadere con un forte rumore”. E dunque a Renzi arriveranno “un milione di cartoline” mandate assieme a Fnp Cisl e Uilpa “per chiedere un confronto almeno con i ministri di Welfare e Sanità”. L'orgoglio della categoria più rappresentativa – quasi 3 milioni di iscritti su un totale Cgil poco inferiore ai 6milioni – viene dalla propria storia. “Siamo tutti stati lavoratori, abbiamo combattuto per i diritti e non ci stiamo a passare per i ladri di futuro dei nostri figli e nipoti!”. Il tutto in un Paese dove “l'ottanta per cento dei poveri ha più di 65 anni”. E allora la critica principale al governo è di perseguire “la giustizia sociale solo al 50 per cento, visto che gli 80 euro non sono previsti per noi pensionati, quasi fossimo dei cittadini svedesi”. La “promessa” di Renzi di alzare le pensioni nel 2015 viene considerato “positiva: speriamo che il 2014 passi in fretta”.
Enrico Berlinguer e Guido Rossa sono i nomi che emozionano i 750 delegati e i tanti ospiti – i segretari Cgil di categoria, la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Ciccio Ferrara ( Davide Faraone ha mandato un messaggio). Sui temi del congresso Cgil, Cantone ha puntato tutto su un richiamo alle radici dell'unità confederale: “Come Spi abbiamo ascoltato per scongiurare rotture”, d'altronde “l'unità è un bene importante da maneggiare con cura. Stare uniti non è una regola statutaria, ma un'esigenza” perché “la Cgil rimane anche dopo di noi”. L'appoggio al Testo unico sulla rappresentanza arriva con qualche distinguo - “sulle criticità”, compreso il ricorso alle sanzioni. Dopo la battuta su Berlusconi - “Speriamo che agli anziani racconti barzellette, ma non si iscriva allo Spi” - si chiude con “L'inno dei lavoratori” sulle parole di Filippo Turati, cantato all'unisono da Cantone e Camusso.
il Fatto 16.4.14
Europee, balli greci per la lista Tsipras in cinque città
UN FLASH MOB “greco” in cinque piazze italiane: Milano, Roma, Venezia, Napoli e Palermo. L’iniziativa è stata organizzata dai militanti di “L’altra Europa con Tsipras”, che ieri hanno consegnato presso le corti di appello gli scatoloni con le firme necessarie a partecipare alle prossime elezioni europee . In ogni città gli attivisti si sono esibiti in un Sirtaki, il ballo tradizionale greco, in omaggio Alexis Tsipras, il leader del partito greco Syriza al quale si ispira la lista italiana. Tra i candidati in lista si trovano i nomi della giornalista Barbara Spinelli, dello scrittore Ermanno Rea, del portavoce dei Forum per l’acqua pubblica Antonella Leto, dello storico attivista no global Luca Casarini e di uno dei cassintegrati della Fiat di Pomigliano Antonio Di Luca. Gli ultimi sondaggi danno però la lista in calo, in bilico intorno al 4 per cento, la soglia minima necessaria per superare lo sbarramento.
l’Unità 16.4.14
L’accordo tra Renzi e Berlusconi
risponde Luigi Cancrini
È un continuo parlare e/o malignare per l’accordo Renzi-Berlusconi. Pochi, anche all’interno del Pd, che superino questo fatto per andare a verificare nei fatti, se quanto sta proponendo il governo, se quanto sta facendo vada nella direzione giusta. Sembra che tutto sia vincolato all’accordo R-B. ELVIO BERALDIN
Lunedì 14 aprile. Berlusconi arriva da Renzi in serata e si accorge solo quando è già da lui che le nomine dei presidenti e degli ad negli enti pubblici sono state già fatte e già comunicate alla stampa. Si arrabbia, a questo punto, l’ex cavaliere e protesta ma è fermo Renzi nel segnalargli la differenza fra intesa istituzionale sulle riforme (le regole del gioco politico) e azione, discrezionale, di un governo che non è sostenuto da lui e da Forza Italia. Chiarendo, in un modo che a me sembra definitivo, il limite dell’intesa che lui ha cercato di stabilire con Berlusconi: che non è un inciucio anche se tanti malignamente hanno detto e scritto che Renzi lo ha «risuscitato» ridandogli una «credibilità politica» che Berlusconi aveva perso con il seggio di senatore. Il partito formato dalle persone che si riconoscono nelle idee di Berlusconi, dice a ragione Renzi, esiste ed è ancora oggi largamente rappresentato, nel Parlamento e nel Paese. Poteva e doveva dare dunque un contributo allo sviluppo delle riforme di cui l’Italia ha bisogno e di cui inutilmente si discute ormai da anni. Accordandosi con il premier di oggi sui testi della riforma elettorale e del Senato. Da migliorare in Parlamento, come è giusto che sia. Discutendone alla luce del sole, però, senza usare le accuse sull’accordo che Renzi avrebbe trovato con il «cattivo» per affossarli senza neppure prenderli in esame. Cercando vendette che sembrano rivolte, oggi, più al Pd di Renzi che alla destra di Berlusconi.
il Fatto 16.4.14
Parola all’esperto. Lo psichiatra Luigi Cancrini
“Così forse capirà di non essere immortale”
intervista di Beatrice Borromeo
Il narcisismo patologico, spiega lo psichiatra Luigi Cancrini, è un disturbo importante che porta a comportamenti anche perversi, al disprezzo di qualsiasi regola e rispetto umano. Per questo l’affidamento ai servizi sociali per il Cavaliere più che un’umiliazione potrebbero essere il primo passo verso un lento miglioramento: “Se davvero Silvio Berlusconi assisterà anziani e disabili dovrà rendersi conto che gli esseri umani hanno davvero dei limiti”.
E quindi, professore, realizzerà di essere anche lui mortale?
Coglierà meglio l’ineluttabilità del tempo. Questa è la speranza, perché le sue difese narcisistiche cercheranno di proteggerlo, facendogli leggere quell’esperienza come un martirio, un’ingiustizia, un’umiliazione. Ma forse, nel profondo, qualcosa accadrà.
Quattro ore alla settimana basteranno?
Dipende da molti fattori: incontrerà davvero chi soffre o starà dietro una scrivania come fece Previti? E i responsabili di questo istituto saranno compiacenti o inflessibili? Quel che è certo è che per uno come lui, che ha lottato tanto per nascondere la vecchiaia del suo corpo, sarà un’esperienza forte.
Che però sfrutterà per fini elettorali.
Un tempo metteva l’elmetto da operaio, ora sarà l’uomo che aiuta gli anziani. Ma dietro il suo narcisismo grave, che lo porta a usare ogni evento a vantaggio della sua immagine, c’è un bambino piccolo che ha difficoltà a relazionarsi con gli altri in modo empatico. L’augurio è che l’incontro con chi soffre parli a quel bambino. La sua grande corazza narcisistica tenterà di ripararlo dall’angoscia e quindi dal progredire. Attiene alla sua patologia: è malinconicamente prevedibile.
Quindi cosa si aspetta?
Adesso Berlusconi si è un po’ frenato rispetto a prima. Il fattore che più ha inciso sul declino , negli ultimi anni, è stato la morte della madre, seguita da disperazione e mancanza di controllo. Questa potrebbe essere un’occasione per elaborare il lutto e cercare un equilibrio.
E la campagna elettorale, così incentrata su di lui, non lo impedirà?
Berlusconi incontrerà grandi gruppi di persone entusiaste, che alimenteranno le sue tendenze narcisistiche. Credo che 20 anni di adulazione e servilismo abbiano reso la sua patologia drammatica. Ha ancora sprazzi di grandiosità ridicola, come quando sostiene di aver mandato Dell’Utri in Libano per conto di Putin, ma vedo anche segnali di miglioramento, come l’assenza di anatemi seguita all’addio di Bonaiuti.
Quindi concorda coi giudici sul fatto che la sua pericolosità sociale stia scemando?
Sì. Ho scritto in tempi non sospetti che la possibilità di star meglio, per Berlusconi, può passare solo attraverso le sconfitte. È la crisi che mette in discussione un narcisista patologico: o conducendolo alla depressione grave, magari al suicidio, oppure costringendolo a ridimensionarsi.
Repubblica 16.4.14
Gli altri processi ancora aperti
La spada di Damocle del Rubygate e il rischio di finire ai domiciliari
di Emilio Randacio
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Repubblica 16.4.14
Casson: “Giudici teneri, con un altro cittadino sarebbero stati più rigidi”
intervista di Liana Milella
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l’Unità 16.4.14
D’Alema: «Cittadini meno ricchi e potenti per reati meno gravi vanno dritti in prigione»
«Sono rispettoso delle sentenze dei magistrati. Berlusconi ha avuto una certa attenzione per il suo ruolo politico e pubblico... viene da pensare che cittadini meno fortunati, meno ricchi e potenti, per reati minori possono andare direttamente in prigione». A dirlo è Massimo D’Alema, intervistato da Bruno Vespa nel corso della trasmissione «Porta a Porta». Per il presidente della fondazione Italiani europei il caso Berlusconi dimostra che in Italia c’è una «giustizia a velocità variabile». In compenso, aggiunge, adesso che Silvio Berlusconi «pesa meno», il Paese
il Fatto 16.4.14
D’Alema “Chi è meno potente va in galera”
Nel salotto tv di Porta a Porta Massimo D’Alema è insolitamente duro con Silvio Berlusconi. L’affidamento ai servizi sociali “è una decisione presa dalla magistratura con particolare attenzione al ruolo politico di Berlusconi: è comprensibile”, dice. Poi avanza: “Certo viene da pensare che cittadini meno fortunati, meno ricchi e potenti per reati molto minori vanno semplicemente in prigione. È una giustizia a velocità variabili”. Non pago, l’ex presidente della Bicamerale, ne ha anche per la condotta politica dell’attuale alleato per le riforme del Pd di Renzi: “Detto questo non credo che Berlusconi debba essere messo fuori dalla giustizia, io credo che Berlusconi debba essere messo fuori dalla politica perché è sempre meno capace di tenere e organizzare il centrodestra”. Sul tema chiude: “Il Paese potrà finalmente fare le riforme anche perché Berlusconi pesa di meno”. E suggerisce: “Il presidente Berlusconi non deve imporre attraverso incontri privati il suo punto di vista”.
Il Sole 16.4.14
Le incognite del declino
di Stefano Folli
Socialmente pericoloso, ma sulla via del ravvedimento. Condannato, ma in sostanza "graziato", visto che la pena consiste in una visita di poche ore un giorno alla settimana in un centro per anziani. Per il resto libertà d'azione nella campagna elettorale. Come spesso accade, la soluzione del rebus Berlusconi è molto "all'italiana".
Giorni fa il politologo americano Edward Luttwak ricordava che negli Stati Uniti una condanna per frode fiscale si espìa in prigione perché il reato è molto grave. Da noi invece si ha l'impressione che la verità, anche quella processuale, sia sempre molto soggettiva. Dopo anni di accanimento giudiziario, la severità si trasforma all'improvviso in generoso lassismo. Buon per Berlusconi, naturalmente. Ma qualcuno si sentirà autorizzato a pensare che l'obiettivo del processo fosse soprattutto politico: una volta raggiunto lo scopo, l'espiazione della pena conta poco o nulla.
Resta, in ogni caso, il valore simbolico di questi servizi sociali comminati all'uomo che per vent'anni è stato il principale protagonista della scena politica. Difficile credere che l'evento possa restare senza conseguenze. Certo, Berlusconi si sforzerà di far intendere che non è cambiato nulla, tanto è vero che prosegue il rapporto di collaborazione dialettica, chiamiamola così, con il presidente del Consiglio. Un piede nella maggioranza e uno all'opposizione. Una cena a Palazzo Chigi per ribadire il famoso "patto" sulla riforma del Senato e la legge elettorale. E al tempo stesso critiche severe e mirate a Renzi, come si nota scorrendo il "Mattinale", la rassegna curata ogni giorno da Brunetta.
Berlusconi come Giano Bifronte. E c'è da chiedersi per quanto tempo l'anziano leader e i suoi collaboratori riusciranno a muoversi lungo il più classico doppio binario, all'insegna del partito "di lotta e di governo". È un film già visto più volte in passato, ma di solito non ha mai portato fortuna ai suoi vari interpreti. La realtà è che Berlusconi sta gestendo come può il suo personale declino. Ma non riesce più ad arginare l'involuzione politica di Forza Italia, nonostante l'impegno dei militanti più irriducibili. La stessa simbologia dei servizi sociali fotografa la fine di una stagione in cui l'assetto tripolare del sistema (Forza Italia, Pd, Cinque Stelle) rischia di trasformarsi in un bizzarro e squilibrato duopolio. Con un Renzi in ascesa e un Grillo che lo segue a una certa distanza, avendo lasciato al terzo posto il fronte berlusconiano alla deriva.
In fondo il "patto" rispolverato l'altra sera non è più tra eguali, fra due capi-partito detentori di una forza all'incirca equivalente. Ovvio che Renzi ha ancora bisogno dei voti berlusconiani per far passare le sue riforme. Ma è evidente che il manico del coltello lo ha oggi in mano l'attuale inquilino di Palazzo Chigi. Berlusconi può limitare i danni, può cercare e magari trovare qualche protezione in casa del suo avversario-alleato, ma il suo ruolo non è più egemone. I fili li sta tirando l'altro.
In teoria egli può ancora buttare all'aria il tavolo. E gli attacchi quotidiani al premier da Brunetta e altri, specie sulla politica economica, testimoniano di questa tentazione. Ma non siamo più nel '98, ai tempi della commissione bilaterale presieduta da D'Alema. Molta acqua è passata sotto i ponti e il Berlusconi di oggi è solo lontano parente di quello di allora. Il suo interesse dovrebbe essere fare le riforme e recuperare, se mai fosse possibile, un profilo moderato e realista.
È il timore dei centristi di Alfano, che lo vorrebbero prigioniero in eterno degli estremisti. Ma è quello che invece spera Renzi, che ha bisogno ancora per un tratto di strada di un partner costruttivo.
Repubblica 16.4.14
Barzelletta per Silvio
di Sebastiano Messina
SE È vero che Berlusconi sconterà la sua pena raccontando barzellette ai vecchietti, ne avrei una da suggerirgli. Nel giardino di un centro anziani, due uomini falciano l’erba. Uno è vicino agli ottanta, l’altro è poco più che ventenne. «E così anche tu sei finito qua», dice il giovane al vecchio. «Già - risponde l’altro, sospirando - mi hanno condannato per aver frodato lo Stato». «Quanto?». «Dicevano 280 milioni, ma 272 erano prescritti. Alla fine, sette milioni e spiccioli». «E quanto ti hanno dato?». «Quattro anni. Ma tre erano coperti dall’indulto, e l’ultimo è stato ridotto a nove mesi e trasformato in questa pena: devo venire qui a far compagnia ai vecchietti per quattro ore la settimana. Ma dimmi di te, piuttosto: qual è il tuo orario?». Il ragazzo: «Quaranta ore la settimana, a tempo indeterminato ». «Minchia! Ma quanti miliardi ti sei fregato?».
La Stampa 16.4.14
Il Cavaliere limitato, ma di nuovo temibile
di Marcello Sorgi
La sentenza con cui i giudici di Milano hanno confermato l’affidamento ai servizi sociali di Berlusconi apre di fatto la campagna per le elezioni europee. La dura reazione di D’Alema, che l’ha considerata un atto di favore verso il condannato che avrebbe preferito in carcere, e le risposte altrettanto aspre venute da Forza Italia, inaugurano un mese in cui i toni elettorali cercheranno di smuovere dal letargo gli italiani, solitamente pigri al momento del voto per il Parlamento di Strasburgo.
Seppure con qualche limitazione nei contenuti, Berlusconi sarà in campo, dovendosi dedicare alla cura degli anziani solo per una mattina a settimana, e potendosi muovere liberamente tra Milano e Roma. La gara, certo, parte in salita per il leader del centrodestra: tuttavia, considerato fuori gioco fino a lunedì, il Cavaliere adesso è di nuovo temibile per la capacità di rimonta che ha dimostrato in altre occasioni.
Il patto ritrovato con Renzi, e confermato dalle dichiarazioni del capogruppo dei senatori di Forza Italia Romani, che ha garantito la disponibilità a votare entro il 25 maggio la prima approvazione per la riforma del Senato e del Titolo V, lascia pensare che Berlusconi, piuttosto che alla sua classica campagna contro i “comunisti”, si dedicherà a contendere i voti ai “traditori” di Ncd e agli “estremisti” 5 stelle. E questo, non per riservare un trattamento di favore a Renzi - che ieri ha dovuto scontare la fredda accoglienza della Borsa e dei mercati internazionali alle nomine negli enti di Stato -, ma perché Grillo e Alfano sono i due fronti nevralgici da sorvegliare per Forza Italia, se davvero vuol provare a risalire dal terzo posto (dopo Pd e M5s) e dal modesto 18 per cento che gli assegnano i sondaggi.
Con quasi metà degli elettori che ancora si dichiarano indecisi su chi votare e poco propensi a recarsi alle urne, la partita delle europee, che sembrava destinata a un corpo a corpo Renzi - Grillo, s’è riaperta. Anche se con gli alti e bassi che il difficile confronto al Senato farà registrare (la pattuglia di minoranza del Pd che ha presentato con Chiti un progetto alternativo a quello del governo non intende mollare), il premier, favorito dagli stessi sondaggi, conta di incassare insieme l’effetto-riforme e quello degli 80 euro al mese per i redditi più deboli. Quanto a Grillo, è già partito per una campagna contro tutto e tutti: in conferenza stampa ieri non ha voluto in alcun modo riconoscere neppure l’errore della spiacevole gaffe sulla Shoah, che aveva sollevato un forte risentimento della comunità ebraica.
Scotoma!
La Stampa 16.4.14
Ragazza calpestata, l’agente:
“Pensavo fosse uno zainetto”
«Camminavo guardando in alto controllando che non arrivassero bombe carta. Non mi sono accorto di nulla, credevo di aver calpestato uno zainetto». Si è difeso così l’artificiere immortalato nelle fotografie del corteo di sabato scorso a Roma mentre calpesta violentemente una ragazza già bloccata a terra da un altro agente. L’artificiere, che si è presentato in questura dopo il montare delle polemiche, è stato indagato per lesioni. Reato previsto in caso di lesioni superiori a venti giorni. La ragazza, però, non ha sporto denuncia. Il ragazzo di 19 anni che nella foto la abbracciava per proteggerla, ieri ha spiegato il perché: «All’agente al massimo daranno qualche mese di sospensione e poi tornerà. Ci sono poliziotti che hanno fatto molto di peggio, persino ucciso. Per questo non abbiamo intenzione di fare denuncia: la giustizia italiana l’abbiamo vista sabato al corteo per il diritto alla casa».
Nel frattempo ieri un altro video è stato postato ed è destinato a rinfocolare le polemiche. Si vede un manifestante, bloccato a terra da un agente, mentre alcuni colleghi lo prendono a calci e a manganellate.
il Fatto 16.4.14
Bombe e impunità
“Strage di Brescia, neofascisti ipergarantiti”
La Cassazione: Maggi e Tramonte vanno giudicati perché sono “assolutamente illogiche” le conclusioni della Corte d’appello
Si torna agli anni 70 e alle bombe nelle piazze. Si torna alle impunità e agli intrecci torbidi che hanno permesso a chi ha seminato il terrore, di uscirne indenne, di non pagare dinanzi alla giustizia.
La Cassazione parla degli imputati per la strage di Brescia e riferendosi a Carlo Maria Maggi, e Maurizio Tra-monte afferma che sono stati assolti da un “ipergarantismo distorsivo” che ha finito per “svilire” tutti gli indizi raccolti contro di loro. Sono le motivazioni della sentenza 16397 depositata ieri, relativa all’udienza del 21 febbraio con le quali la Cassazione spiega perché ha rinviato nuovamente a giudizio Maggi e Tramonte come mandanti e forse anche come esecutori materiali della strage. Era il 28 maggio 1974, in Piazza della Loggia a Brescia, durante una manifestazione antifascista organizzata dai sindacati Cgil, Cisl e Uil furono ammazzate otto persone, e ferite più di cento con un ordigno piazzato in un cestino dei rifiuti.
LA SUPREMA CORTE ritiene “assolutamente illogiche e apodittiche” le conclusioni dei giudici della Corte di Assise di Appello di Brescia che il 14 aprile 2012 pronunciarono l’assoluzione nei confronti di Maggi e Tra-monte; quest’ultimo, dice la Cassazione , era un soggetto troppo “intraneo” – inserito – alla destra eversiva per essere un semplice informatore, tanto da fornire solo in parte le informazioni alle forze dell'ordine: “Non raccontava al maresciallo Felli tutto ciò che sapeva o aveva fatto”. "La Corte di assise di appello – sintetizza la Cassazione salvando solo il lavoro di motivazione sulle assoluzioni di Delfo Zorzi e del generale Francesco Delfino – ogni volta che si è trovata a valutare un indizio di colpevolezza a carico degli imputati, si è soffermata sulla potenziale esistenza di diversi significati, così distruggendo proprio il valore probatorio che il
nostro sistema giudiziario attribuisce alla valutazione complessiva di tali messi di prova”. Sottovalutate, infine, le dichiarazioni del collaboratore Carlo Digilio e “liquidata troppo frettolosamente la ritrattazione di Tramonte”. Altre critiche verso la posizione di Maggi: sono stati “sviliti” gli indizi, come il sostegno allo stragismo eversivo di destra del quale era un “propugnatore”. E ancora: “Un dato di fatto importantissimo che muta notevolmente il quadro indiziario rispetto al giudizio di primo grado” è che “l’ordigno esplosivo sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio, conservata presso lo Scalinetto”. Scrive il relatore Paolo Giovanni Demarchi Albengo: “L’erronea applicazione della legge processuale” è “un vizio ricorrente nel processo per la strage di Piazza della Loggia se si pensa che anche nel procedimento cautelare sulla misura irrogata a Tramonte, Zorzi e Maggi, la Cassazione ebbe a osservare l’esasperata opera di segmentazione del quadro complessivo” che “rifuggiva dalle regole di coerenza e completezza”. Insomma, ai giudici della Suprema Corte appaiono “ingiustificabili e superficiali” le conclusioni assolutorie tratte per Maggi.
SULLA PRESENZA di Tramonte nella piazza, poco dopo l’esplosione, così si esprime la Cassazione: è “certamente un elemento di grande rilievo, sia al fine di stabilire il suo ruolo nella vicenda, sia ai fini di valutazione di attendibilità delle dichiarazioni relative alla organizzazione ed esecuzione della strage”. Eppure non sono stati fatti approfondimenti. Comunque, sottolinea la Cassazione, il giudice del rinvio potrà anche stabilire che Tramonte era un “infiltrato non punibile” ma deve tenere conto che solo dal 2006 esiste una normativa adeguata; negli anni Settanta non esisteva nulla del genere, anzi si era “restii” a riconoscere la “collaborazione dei soggetti privati, estranei agli organismi di polizia giudiziaria, e soprattutto in assenza di formali autorizzazioni e di rigida regolamentazione dei limiti di operatività”.
Repubblica 16.4.14
“Strage di Brescia neofascisti ipergarantiti nei processi”
di Benedetta Tobagi
MILANO. I neofascisti che si ritroveranno nuovamente imputati per la strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 a Brescia, che uccise otto persone, erano stati assolti per un «ipergarantismo distorsivo». Lo spiega la Corte di Cassazione nelle 84 pagine di motivazioni in base alle quali sono stati annullati i proscioglimenti per Carlo Maria Maggi, ex Ordine Nuovo, e Maurizio Tramonte, che ora viene descritto come un «reticente» e «intraneo» della destra eversiva, più che come un presunto infiltrato dei servizi. I due tornano rinviati a giudizio come mandanti e forse anche come esecutori materiali della strage a dispetto della sentenza di assoluzione del 2012 che, secondo i giudici supremi, ha prodotto conclusioni «assolutamente illogiche ed apodittiche». Per la Cassazione sono stati «sviliti» i numerosi indizi raccolti contro di loro, come il sostegno allo stragismo eversivo di destra di cui Maggi, ad esempio, era un «propugnatore».
Secondo i giudici, un dato di fatto importantissimo, che muta il quadro indiziario, è che «l’ordigno esplosivo sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio, conservata presso lo Scalinetto». Le conclusioni assolutorie per Maggi sono, secondo la Corte, «ingiustificabili e superficiali». (s.b.)
LO SCORSO 20 febbraio, l’avvocato di parte civile Sinicato (un “veterano” dei processi per strage celebrati a partire dagli anni Novanta), concludendo l’arringa all’udienza in Cassazione per la strage di Brescia (undicesimo grado di giudizio), aveva osservato che, dopo tanti don Abbondio, c’era da augurarsi che qualcuno prendesse esempio dalla coraggiosa fermezza di fra’ Cristoforo, anche nel formulare i giudizi e motivarli. La prima impressione ricavata dalla lettura delle 84 pagine di motivazioni della decisione della Suprema Corte, è che il suo desiderio sia stato esaudito.
Ci consegnano infatti parole dure e nette. Appare difficile la posizione dei due imputati che presto torneranno a giudizio presso la Corte d’Appello di Milano, il leader di Ordine nuovo Maggi e il suo “soldato” Tramonte, al contempo informatore del Sid. I ricorsi hanno colto nel segno, ripetono più volte: troppe illogicità viziano le motivazioni della sentenza d’appello bresciana del 2012 «affetta prima di tutto da un’erronea applicazione della legge penale, con riferimento alle modalità di valutazione degli indizi». Nella ricostruzione, con apprezzabile sforzo, l’appello aveva messo molti punti fermi. La Cassazione conferma, per esempio, come l’ordigno che uccise otto cittadini che manifestavano pacificamente «sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio [il defunto armiere di Ordine nuovo, coinvolto sia nella preparazione della strage di piazza Loggia che in quella di piazza Fontana], conservata presso lo “Scalinetto”, una trattoria veneziana a due passi da San Marco, al tempo ritrovo di neofascisti, covo e santabarbara di Maggi, e il defunto ordinovista Soffiati ha aiutato nel trasporto.
Un «dato di fatto importantissimo », alla luce del quale vanno valutati tutti gli altri, numerosissimi, indizi a carico di Maggi. La sua assoluzione è stata motivata in modo «congetturale e poco plausibile», è «caratterizzata da valutazione parcellizzata e atomistica degli indizi…» scartati nella loro potenzialità dimostrativa senza una più ampia e completa valutazione. È stato così distrutto il «valore probatorio che il nostro sistema giudiziario attribuisce alla valutazione complessiva di tali mezzi di prova».
La Cassazione dedica molte pagine a spiegare, con chiarezza encomiabile - così che ogni cittadino, pur inesperto di legge possa capire - che se sono gravi precisi e concordanti, gli indizi non valgono meno della prova diretta: un’importante lezione di metodo, di onestà intellettuale e di diritto, nel Paese dove i processi per le stragi della “strategia della tensione”, i cui esecutori, la galassia dell’eversione neofascista, con complicità di militari italiani e americani e dei servizi segreti (la Cassazione ribadisce anche questo), sono stati quasi sempre processi indiziari, perché tali li ha resi la sistematica attività di depistaggio (nel caso di Brescia, l’interferenza del Sid nel sottrarre documenti scottanti è stata fatale). È dura, la Cassazione, coi giudici di appello «perché, pur avendone promesso una valutazione sistematica» dei tanti indizi a carico di Maggi (e rimproverando ai giudici d’Assise di aver mancato al loro dovere in questo senso!) «ne ha poi condotto, in concreto, un’indagine atomistica, svalutandone la portata». Gli elementi fattualmente accertati, rimessi in fila inesorabilmente dalla Cassazione rendono, ad oggi, illogica l’assoluzione. E poi, capo indiscusso di un’organizzazione gerarchica come On, come sostenere che il suo sottoposto Digilio, quadro coperto, esperto d’armi ma politicamente “debole”, abbia agito, con esplosivo di Maggi, a sua insaputa e di propria iniziativa, per fare un attentato come quelli che il capo caldeggiava, di cui disse «non deve restare un fatto isolato»? La Cassazione rivaluta anche il valore della collaborazione di Digilio, il più importante “pentito nero”.
Si aggrava moltissimo, poi, la posizione di Maurizio Tramonte. La Cassazione mette in discussione persino il suo alibi per la mattina della strage. L’allora giovane fascista disse di Maggi “questo è pazzo”, uscendo da una riunione ristretta ad Abano Terme, tre giorni prima della strage: «La Corte d’appello non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che gli appunti», dettagliate note informative in cui Tramonte racconta al Sid in presa diretta la riorganizzazione della destra eversiva nella dannata primavera ‘74 «non contengano alcun cenno alla strage perché Tramonte non voleva rischiare di autoaccusarsi». Tramonte ha fatto impazzire gli inquirenti per anni con la sua “collaborazione”, prima accumulando fandonie, poi ritrattando in dibattimento quanto era sopravvissuto al vaglio dell’inchiesta. Per assolverlo, sarà necessario motivare (finora non è stato fatto) se e come possa essere considerato un semplice infiltrato dei servizi, quindi non punibile, e approfondire il suo ruolo nella preparazione dell’attentato «alla luce della sua palese reticenza». C’è da aspettarsi, quindi, che il nuovo processo approfondirà la pagina, nerissima, dei depistaggi dei servizi segreti.
l’Unità 16.4.14
Fiandaca: «È ora di dire basta all’antimafia gridata»
Il candidato del Pd attaccato per le sue critiche ai pm nel caso della trattativa Stato-mafia spiega la sua idea di giustizia (e politica)
Dell’inchiesta di Ingroia scrisse: «Manca il movente, mancano le prove e non è chiaro nemmeno il reato»
di Claudia Fusani
Alla fine ho deciso perché vorrei anche dire basta all’antimafia gridata». Il professor Giovanni Fiandaca, tra i più stimati penalisti italiani e di mai rinnegata cultura di sinistra, comincia così la sua campagna elettorale per le Europee (circoscrizione isole) nelle liste del Pd. La cosa che più gli pesa sono «le ossessioni» - le chiama così - che già da un paio d’anni gli riservano i tifosi della magistratura militante e schierata che lo hanno etichettato come un «giustificazionista». Peggio, un «negazionista della trattativa tra Stato e Cosa Nostra». Fiandaca - che gli articoli del codice conosce fino alle virgole e sui cui manuali di diritto applicato hanno studiato generazioni di magistrati, tra cui lo stesso Antonio Ingroia; che negli anni novanta è stato membro laico del Csm (nel centrosinistra) e collaboratore dell’allora ministro Guardasigilli Oliviero Diliberto - è in realtà solo un professore che, «forse con approccio un po’ professorale, spesso però utile», tiene ancora ben distinta la responsabilità penale da quella storica e politica.
Due livelli che non possono accettare contaminazioni. Perché, dice a l’Unità, «la lotta alla mafia va affrontata su basi legislative innovative, serie e che chiudano una volta per tutte la stagione degli eccessi di contrapposizione». Quella di Fiandaca è molto più di una candidatura. È la fine di un tabù lungo vent’anni, quello per cui il centrosinistra non poteva criticare certe scelte della magistratura, pena essere immediatamente assimilati con le tesi della destra e del berlusconismo. Un tabù che purtroppo ha pesato tantissimo nei rapporti tra politica e magistratura ed è in parte responsabile di certi innegabili ritardi nella riforma della giustizia. Ha quindi un significato che va molto al di là del prestigio e del peso del nome. Fiandaca, infatti, ha avuto il coraggio, e il merito, a giugno del 2013, di criticare l’impostazione del processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo.
Il primo giugno pubblicò su Il Foglio un saggio di una decina di pagine con un titolo che fu subito una bomba e i cui effetti collaterali sono tuttora in corso. Il titolo era inequivocabile: «Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca». L’occhiello ancora di più: «Manca il movente, mancano le prove e non è chiara neppure la formulazione dei reati». Alcuni passaggi chiave del testo: «L’individuazione di possibili figure di reato è un punto non controvertibile ma in questo caso probabilmente trascurato»; «grandi boss della mafia e uomini della politica e delle istituzioni non possono essere accomunati quali complici dello stesso reato». E ancora: «Quello del pm Ingroia è un ruolo ambivalente: una tale visione del ruolo del pubblico ministero è etichettabile in termini di populismo giudiziario ». In discussione c’era e c’è soprattutto il reato contestato a mafiosi e rappresentanti delle istituzioni (attentato agli organi dello Stato) e i fatti che sarebbero stati commessi nella presunta trattativa, persino l’esito che l’accordo stato-mafia avrebbe partorito.
Il professore annotava che l’unica possibile conseguenza di un patto fu, nel 1993, l’uscita dal 41 bis per 300 mafiosi non di rango e concludeva che «la montagna partorì un topolino». Un intero pezzo della lotta alla mafia, soprattutto l’ultimo tratto, usciva fatto a pezzi da uno stimato professore. Di sinistra.
Da allora nulla è stato più come prima. E anche a sinistra, tanti che avevano taciuto dubbi e perplessità per il timore di essere etichettati come «giustificazionisti » trovarono il coraggio per cominciare a mettere punti sulle «i». Che poi vuol dire distinguere tra le responsabilità penali, la cui amministrazione è affidata ai codici, e quelle politiche. Che sono altro. E altro devono restare. Il professor Fiandaca è stato in questi mesi attaccato a testa bassa da Ingroia e Travaglio che lo hanno subito passato nelle file dei «giustificazionisti ». Appena diventata ufficiale la candidatura, Ingroia ha detto: «Aspettiamo ora che qualcuno ci dica che la mafia non esiste». E poi, confondendo le cose: «Da una parte si consente a Marcello Dell’Utri, imputato nel processo trattativa, di fuggire all’estero, dall’altra il Pd pensa di candidare uno dei principali giustificazionisti della trattativa Stato-mafia, il professor Fiandaca, uno dei principali ispiratori dell’attuale formulazione del 416 ter praticamente inutile». Il professore si candida per la Sicilia e «per il suo rilancio che non può più attendere». Lo fa, anche, «perché vorrei un approccio più professorale anche con l’informazione ». Perché, tra le altre cose, vorrebbe spiegare la differenza tra una circostanza di reato e un comportamento politico magari ambiguo ma non penalmente rilevante. Che deve essere la politica a bonificare. E non la magistratura.
Repubblica 16.4.14
Giovanni Fiandaca
“Basta con il dogma dell’intoccabilità dei magistrati”
intervista di Emanuele Lauria
PALERMO. «Non voglio accentuare le contrapposizioni. Anzi, spero che la mia candidatura serva all’unità. Nel Pd e nel fronte dell’antimafia». Giovanni Fiandaca, uno dei più noti studiosi di diritto penale, sa che la scommessa che ha accettato ha il valore di una svolta: i dem puntano sul cattedratico che ha criticato il processo sulla trattativa Stato-mafia e sposano una linea anti-giustizialista. Per questo, Fiandaca mette le mani avanti. «Io voglio far tutto tranne che alimentare scontri e aggressioni».
Non sarà facile, ne converrà.
«Ho accolto l’invito dopo aver ricevuto l’incoraggiamento del vicesegretario Guerini e del ministro Orlando. Volevo che la mia fosse una candidatura di partito, non di una parte contro l’altra. L’obiettivo è promuovere una maggiore coesione e superare le contrapposizioni interne al Pd siciliano».
In un convegno lei ha messo nel mirino l’«antimafia delle star».
«Come dice Don Ciotti, nessuna persona ragionevole è a favore della mafia. Il problema è come farla, la lotta a Cosa nostra. Siamo d’accordo nel perpetuare le mobilitazioni. Ma non basta più. Bisogna accompagnare a questo la capacità di fare antimafia concreta, rinnovare la riflessione sugli strumenti disponibili, innovarli, passare insomma da un’antimafia parolaia e ritualistica a un’antimafia di fatti e proposte, fondata su analisi e competenza».
Il governatore siciliano Crocetta ha bocciato pubblicamente la candidatura di Caterina Chinnici, in quanto assessore dell’ex governatore Lombardo condannato per mafia.
«Ecco, è un esempio di antimafia che non mi piace. Io non ho la pretesa di dare patenti di credibilità. Altri lo fanno. E bisogna evitare che l’antimafia continui a essere strumento di lotta politica e di potere».
In corsa uno studioso che ha attaccato il processo sulla trattativa. Qualcuno, nel Pd, l’ha definita una «rivoluzione culturale».
«La sinistra, per 20 anni, ha coltivato l’idea dell’intoccabilità dei magistrati. Da intellettuale non posso che criticare con forza questo appiattimento fideistico e dogmatico. In uno Stato moderno i comportamenti, le scelte, persino le sentenze dei magistrati debbono essere sottoposti al controllo della pubblica opinione».
Ingroia accosta la sua candidatura alla fuga di Dell’Utri in Libano. Come prova di delegittimazione del processo e di chi è sul fronte avanzato della lotta alla mafia.
«Se dovessi prenderlo sul serio, dovrei ammettere di essermi sbagliato quando, 30 anni fa, l’ho ritenuto un giovane di belle speranze. Io continuo a volere bene a Ingroia, sono vicino a Di Matteo e agli altri magistrati palermitani».
Però ha smontato il processo sulla Trattativa.
«Non sono giustificazionista, a me non interessa sapere se la trattativa ci sia stata o meno. Quel processo è solo un’occasione per riflettere su un fenomeno complesso: l’interazione fra attività giudiziaria, storia, politica, populismo giudiziario. Non lotto certo contro i magistrati. E mi preoccupo se assumono rischi. Ma pure i pm in pericolo possano essere criticati: non significa delegittimarli. Altrimenti saremmo al pensiero unico dittatoriale ».
La Stampa 16.4.14
Il candidato Fiandaca imbarazza il Pd
Il giurista, schierato alle Europee da Renzi, riapre il dibattito sul reato per cui è sotto processo Dell’Utri. Nei mesi scorsi aveva polemizzato con Ingroia
di Giuseppe Salvaggiulo
qui
il Fatto 16.4.14
Fecondazione assistita
E l’Italia capì cosa pensa l’Avvenire
Ad Avvenire deve essere parso un miracolo: mentre l’Italia tutta respira per l’uscita dalla cappa oscurantista della legge 40, dieci anni con una legge incostituzionale che ha fatto soffrire le coppie con problemi di fertilità, ecco il pasticcio: una donna si trova incinta di due gemelli non suoi, per un errore di impianto all’ospedale Pertini di Roma. “E l’Italia ‘capì’ l’eterologa”, spara in prima l’Avvenire, mentre nell’editoriale il professor Francesco D’Agostino esulta perché ci si torna a interrogare sulla bioetica (la domanda che, molto cristianamente, gli sembra prioritaria è se la donna potrà disconoscere i due figli). Seguono quattro pagine per raccontare un Paese devastato dalla scomparsa della legge 40. Forse l’Italia ha capito l’eterologa, ma Avvenire non sembra aver capito l’Italia.
Repubblica 16.4.14
“Quei figli sono nostri, ridateceli”
di Maria Novella De Luca
DECISI a percorrere ogni strada, ad abbattere ogni ostacolo, pur di riavere quei bambini, se la Scienza dimostrerà che sono “geneticamente” loro. Confortati dai parenti più stretti, nell’appartamento di Roma Sud, i due presunti genitori biologici degli embrioni scambiati, e impiantati per sbaglio nell’utero di un’altra donna, vivono ore difficili. Da quando lo scandalo dell’ospedale Pertini è venuto alla luce, lei, che chiameremo Lia, ripercorre con la mente ogni minuto, ogni gesto, ogni parola di quel 4 dicembre 2013. Il giorno in cui insieme ad altre quattro donne si è sottoposta alla fecondazione assistita, cioè all’impianto dell’embrione, già congelato presso il centro di riproduzione del nosocomio romano. Lia ha 36 e fa l’impiegata, lui fa l’autista. Persone semplici, così li descrive il loro avvocato, Pietro Nicotera, che ieri ha presentato una denuncia contro il Pertini. E che ha inviato a Lia alcune domande, chiedendole di raccontare, ancora una volta, il suo calvario.
Signora, come fa ad essere così certa che i bambini che oggi un’altra donna porta in grembo, siamo proprio i suoi?
«Sono giorni che ricostruisco come in una fotografia tutto quello che è successo il 4 dicembre, il giorno dell’impianto. Ricordo ogni passaggio, ogni faccia, ogni voce. Eravamo in quattro lì dentro, ed io sono l’unica a non essere rimasta incinta. Ricordo che ad un certo punto l’infermiera mi ha chiamato e sono entrata. Ma subito mi ha detto “ci siamo sbagliati, torna fuori, vuoi rischiare che ti mettiamo gli embrioni di un’altra”? E hanno convocato subito dopo una paziente con un cognome simile al mio, del mio stesso anno di nascita e con il mio stesso numero di embrioni di classe A da impiantare».
E poi che cosa è successo?
«Sono stata richiamata, ho fatto l’impianto, e sono tornata a casa».
Ma per lei quello non è stato un giorno fortunato...
«No, la gravidanza non è andata a buon fine. Un lutto, un grande dolore. Poi quando ho sentito la notizia dello scambio degli embrioni ho provato a ricostruire tutto».
Arrivando a pensare che forse quegli embrioni potessero essere i suoi?
«Sì, e posso spiegare il perché. Quel giorno eravamo in quattro. Tre donne sono rimaste incinte, io no. Ho pensato: è andata male, ho cercato di vivere il mio dolore. Ma poi è venuto fuori che una di quelle diceva che gli embrioni non erano i suoi, mentre le altre due non avevano protestato. Ho avuto come una folgorazione: allora forse quei gameti erano miei e di mio marito. Dunque i bimbi che la donna aspetta sono i nostri...» Come si è sentita in quel momento?
«Spaventata, felice, arrabbiata. Ma con una decisione forte: non sono una donna che vuole i figli degli altri, ma se quei bambini sono nostri, se i test dimostreranno che ci appartengono geneticamente, dovranno restituirceli».
Un sentimento umano, però in questa storia c’è un’altra donna, che a fatica porta avanti una gravidanza gemellare.
«Ho profondo rispetto, ma sento nel cuore che riprendere quei bambini, se i test dimostreranno che sono nostri, è la cosa giusta da fare».
Il suo avvocato ha presentato una denuncia contro l’ospedale.
«Il Pertini di certo sapeva dell’errore da settimane. Perché perché ha lasciato che scoprissimo tutto dalla stampa? E ancora oggi nessuno ci ha convocato, né per sottoporci a test, né per chiederci scusa. Chi potrà risarcire tutto questo dolore?» Lei sa però la donna che partorisce un bambino è per la legge la madre legittima?
« Io so soltanto che se quei figli sono miei dovranno restituirmeli. È l’unica mia certezza ». ( m. n. d. l.)
Repubblica 16.4.14
Di chi sono questi figli?
Legame affettivo o biologico, cosa conta di più? È il dilemma tornato alla luce dopo lo scambio di embrioni al Pertini di Roma La legge ha una risposta, ma nell’universo della procreazione assistita, è sempre più insufficiente
L’ALBA di una nuova rivoluzione. Tutto sembra polveroso e vecchio oggi. Le leggi, i codici, la bioetica. In pochi giorni lo scambio di provette all’ospedale “Sandro Pertini” di Roma, lo scandalo degli embrioni impiantati per sbaglio nell’utero di una donna, mentre di certo appartenevano ad un’altra donna, ha polverizzato decenni di diritto, di sentenze e di certezze. Di chi sono, a chi appartengono i due gemelli, un maschio e una femmina, che verranno al mondo alla fine dell’estate, cresciuti nell’utero di una madre, che porta però dentro di sé il materiale genetico di un’altra coppia che dunque li reclama? E poi, ancora, nel mondo sempre più complesso dell’ingegneria procreativa, cosa conta di più, il legame affettivo o quello biologico? La legge del cordone ombelicale insomma,
contro la legge del Dna. Gilda Ferrando, ordinario di Diritto Privato all’università di Genova, racconta che in Italia le leggi sono precise. Anche se di fronte «alle nuove maternità e paternità, che avvengono con gameti di donatori, attraverso le gestazioni surrogate, o davanti a casi come questo, dove più donne concorrono alla generazione di un bambino, è evidente che sarà necessario aggiornare i nostri testi». Ma provando a partire dalle certezze, per tracciare uno scenario di cosa potrebbe accadere quando i due gemellini dello “scambio” (un maschio e una femmina) nasceranno, gravati già in culla da mille quesiti etici e bioetici, bisogna partire dalle leggi attuali. E cioè dal diritto di famiglia, dal concetto di filiazione, dai casi dello scambio di culle, perché invece sul fronte della bioetica pura, come dimostra l’abbattimento della legge 40 a colpi di sentenza, e l’impossibilità di arrivare ad un testo unico sul testamento biologico, le norme sono quanto mai controverse.
Spiega Gilda Ferrando: «Per la legge italiana la madre è sempre colei che mette al mondo il bambino. E il padre, in quanto marito della donna che partorisce, diventa genitore del nascituro. Non conta se il suo patrimonio genetico è diverso da quello del figlio: in quanto marito della madre, ne diventa automaticamente il padre...». Sul fronte femminile dunque non esiste possibilità per un’altra donna, come invece sta avvenendo a Roma tra le coppie del Pertini, di rivendicare diritti su un figlio non partorito, a meno che non si tratti, suggerisce Ferrando, di uno scambio di culle. Si potrebbero aprire dei dubbi sul padre, se un terzo (immaginiamo il marito della donna che afferma di essere stata privata dei suoi embrioni) chiedesse di confrontare il proprio Dna con quello del neonato.
«Ma per fare questo - chiarisce Gilda Ferrando - c’è bisogno che un giudice nomini un curatore speciale, che autorizzi l’accertamento nell’interesse primario del bambino. Ma potrebbe anche ritenere che per il minore sia meglio che questi accertamenti non vengano eseguiti ». Ed è questo un punto focale, sul quale da sempre insiste il pensiero cattolico, affermando che le tecniche di fecondazione assistita (in particolare quelle eterologhe, o la gestazione di supporto) mettono a rischio con triangolazioni genetiche, la felicità e il futuro di questi figli. Posizioni a volte pretestuose, ma il problema c’è. Visto dagli occhi di un bambino, quali sono i veri genitori, quelli che ti allevano, o quelli da cui si discende? Il famoso discorso delle “mamme di pancia” e della “mamme di cuore” che ogni famiglia adottiva sa bene di dover prima o poi spiegare ai propri piccoli, arrivati magari dall’altra parte del mondo.
Ed è infatti di affettività che parla il professor Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica, ma anche docente di Bioetica all’università di Torino. «I figli sono di coloro che si assumono la responsabilità di metterli al mondo. L’esempio della donna che ha scoperto di aver ricevuto l’impianto di embrioni non suoi, ma si è presa l’impegno di portare a termine la gravidanza, mentre invece avrebbe potuto scegliere di abortire, è un caso evidente di questa responsabilità. La donna è sovrana sulla sua maternità. E dunque, al di là del diritto che definisce madre colei che partorisce - dice Maurizio Mori - vince qui non solo il principio di responsabilità, ma anche quello di affettività». Perché nei nove mesi della gestazione, qualunque sia il patrimonio genetico del figlio, la relazione con la madre è fortissima. «Ma anche con il padre che quella gravidanza l’ha sostenuta, e si è preso la responsabilità del bambino. E a mio parere in un caso del genere difficilmente sarebbero ammessi esami del Dna».
Dunque la legge del cordone ombelicale, cioè dell’affettività, sulla legge della genetica. E il diritto alla felicità dei figli che prevale sul diritto dei genitori. Esattamente come prevede la legge italiana sull’adozione nazionale e internazionale. Qui però c’è una coppia a cui sono stati “sottratti” i propri embrioni, e che si sente comprensibilmente legittimata nel chiedere “la restituzione dei nostri figli”. Un uomo e una donna che soffrono. Un caso del tutto inedito per l’Italia: perché là dove è già avvenuto, a Catania per esempio, le due coppie protagoniste dell’errore, si sono poi scambiate i figli. Non senza stravolgere equilibri naturali e psicologici, per non parlare del famoso e freudiano legame con l’inconscio familiare. Ma in questo caso i presunti genitori biologici non sono riusciti ad avere una gravidanza. «Infatti - aggiunge Mori - la coppia avrà diritto ad un congruo risarcimento da parte dell’ospedale. Ma non potrà riavere i figli».
Tutto però può cambiare. Perché sono le tecniche di procreazione assistita che spingono verso nuove e a volte spericolate frontiere. Oggi ad esempio la mamma incinta si ritrova ad essere suo malgrado protagonista di una “gravidanza surrogata”. Tecnica addirittura vietata in Italia. E dopo il via libera all’eterologa, si chiede Gilda Ferrando, «come sarà regolata la donazione di ovociti, come per il seme maschile, cioè con il divieto di disconoscere il bimbo che nasce con gameti diversi da quelli paterni o materni?».
Poi ci sono delle storie particolari. Quelle che ti cambiano la vita. Stefania Stefanelli è docente di Diritto Privato all’università di Perugia, specializzata nei temi della filiazione. E racconta: «In piena notte, a poche ore dal parto, mi venne portato per la prima poppata il neonato di un’altra mamma. Mi accorsi quasi subito dell’errore, dal colore della tutina, dal numero del braccialetto. Eppure per un attimo prima di rendermene conto, avevo incredibilmente amato questo piccolo che dormiva tra le mie braccia. Del resto anche mio figlio era per me, in quel momento, un amatissimo estraneo. Forse è per questo, per quella notte indimenticabile in cui si è materializzato il fantasma dello scambio di neonati, che da vent’anni il concetto della filiazione è l’anima dei miei studi giuridici». E oggi Stefania Stefanelli afferma: «I figli sono di chi li cresce. L’ho provato e l’ho capito quella notte. Certo, se un giorno sapessi di aver allevato un figlio non biologico, forse andrei a cercare l’altro, per essere sicura del suo benessere. Ma di certo non rinuncerei mai al primo, che da sempre mi chiama mamma».
La Stampa 16.4.14
Embrioni, una donna rivendica: “Se sono miei, rivoglio i gemelli”
Al Pertini nello stesso giorno dell’altra coppia, ma fu l’unica a non rimanere incinta
di Maria Corbi
qui
Corriere 16.4.14
La contesa tra le mamme sui gemelli «Li voglio dopo il parto». «No, sono miei»
Il racconto dei genitori mancati: un’infermiera ammise che c’era un errore
di Flavio Haver
ROMA — È ormai nei fatti lo scontro tra le coppie che si contendono i due gemellini che crescono nel grembo della mamma a cui è stato impiantato l’embrione sbagliato. I coniugi costretti a fare i conti con la dolorosa rinuncia ad avere bimbi pochi giorni dopo l’appuntamento al Sandro Pertini del 4 dicembre scorso hanno presentato un esposto in Procura che ha portato all’apertura dell’inchiesta e, tramite il legale Pietro Nicotera, hanno fatto sapere a chiare lettere che «se ci sarà la prova inconfutabile che quei gemellini nasceranno da un embrione nostro, faremo di tutto per averli. Sono figli nostri». Anche ieri lo hanno ribadito all’avvocato, con decisione e senza tentennamenti.
«Facciamoli nascere»
Sul fronte opposto, determinati a portare avanti la gravidanza già dolorosa e piena di incognite, gli psicologi (anch’essi romani) che hanno scoperto attraverso la «villocentesi» di controllo al «Sant’Anna» che qui gemellini tanto desiderati e attesi non sono loro: «Se la mia cliente avesse voluto abortire, lo avrebbe già fatto», ha sottolineato domenica l’avvocato, Michele Ambrosini. Lasciando chiaramente intendere che, dopo la nascita, l’intenzione è quella di farli crescere perché li ritengono figli propri. Senza dimenticare di aggiungere, però, che in questo momento hanno bisogno di tranquillità e riservatezza: «Perché erano già molto provati da quello che avevano scoperto. Poi la pubblicità data alla vicenda ha contribuito ad aumentare la pressione: chiedono e pretendono solo silenzio e rispetto della loro privacy — ha ricordato per l’ennesima volta Ambrosini —. Il loro unico pensiero, adesso, è quello di far nascere i gemellini. Poi si vedrà...».
Un dolore nel dolore, quello di una «contesa» che appare ormai inevitabile, destinato forse a finire in un’aula di Giustizia. «Non c’è giurisprudenza, su un caso come questo. Esiste un vuoto legislativo. Ma i miei clienti me lo hanno ribadito anche pochi minuti fa», ha insistito Nicotera. «Quei figli sono nostri, lotteremo con tutte le nostre forze per averli con noi». Il dramma nel dramma che si fa strada nei cuori di chi è contrapposto in questa continua altalena di sogni, speranze, gioie e poi di cocenti delusioni si incrocia — inevitabilmente — la mattina del 4 dicembre.
Il cognome simile
E Nicotera non fatica a ripercorrerla con il racconto della donna: «Ero in sala d’attesa con mio marito (sono entrambi impiegati, lei in una società privata, lui in un’azienda di trasporti pubblici, ndr ). Insieme con noi, c’erano le altre coppie. Ero tesa, emozionata. A un certo punto mi ha chiamato un’infermiera e mi ha detto: “Prego, signora, venga”. Sono entrata nella sala, saranno passati una decina di minuti e quella stessa infermiera mi ha detto: “Ci scusi, signora. Ma non tocca a lei: ha un cognome simile a un’altra, l’abbiamo chiamata per errore”. Sono uscita e ho aspettato nuovamente che arrivasse il mio turno. Lì per lì, non ho avuto alcun sospetto. Certo, sapendo quello che è accaduto adesso mi spiego molte cose...».
E che ci sia stato dunque uno scambio di provette a causa di cognomi simili alla base della clamorosa vicenda sembra abbastanza evidente. Nella denuncia consegnata ieri mattina al Palazzo di Giustizia di piazzale Clodio, Nicotera osserva, innanzitutto, come «la gravità del caso impone che vengano fatti tutti gli accertamenti ritenuti necessari affinché si faccia luce sull’intera vicenda». E chiede «che vengano disposti i provvedimenti necessari per acquisire le documentazioni cliniche, nonché si proceda nei confronti di chiunque verrà ritenuto responsabile». E allega «copia della documentazione attestante quanto avvenuto i giorni 2 e 4 dicembre 2013». L’avvocato della coppia che ha visto fallire il tentativo di fecondazione assistita, nell’esposto ricorda come «gli scriventi da circa due anni siano in trattamento presso il Centro di infertilità e fisiopatologia della riproduzione dell’ospedale Sandro Pertini». E che «il trattamento cui gli esponenti si sono volontariamente sottoposti veniva adeguato e controllato a tutti i canoni dettati dalla legge 40». Poi ripercorre le tappe della vicenda: «Nel marzo del 2013 gli esponenti venivano sottoposti a un primo trattamento e, quindi, veniva effettuato un Transfer il 20 marzo che aveva dato esito positivo. Ma dopo circa otto settimane la gravidanza si interrompeva a causa di un aborto spontaneo».
I dubbi sul centro
Trascorrono alcuni mesi e «si decideva di tentare nuovamente la procedura di procreazione assistita», scrive Nicotera. «Dopo la procedura di stimolazione ormonale effettuata dalla metà alla fine di novembre 2013 circa, il 2 dicembre veniva effettuato il Pick-up e, il successivo 4 dicembre, il Transfer nel corso del quale venivano applicati tre embrioni di Classe A, tutti di quattro cellule. Si fa rilevare — aggiunge — che il 2 dicembre le coppie che dovevano essere sottoposte al trattamento erano quattro — compresi gli scriventi — e l’esponente è stata la terza ad effettuare il trattamento. Su disposizione dei sanitari veniva concordato il 4 dicembre per effettuare il Transfer e quel giorno gli scriventi e le altre tre coppie si recavano nuovamente presso il Centro, dove veniva effettuato il Transfer a tutte e quattro le donne». Ma adesso si scopre che le aspiranti mamme sarebbero state almeno sei. Cosa è accaduto nel Centro?
Corriere 16.4.14
Ma il marito della donna incinta rischia di perdere la paternità?
di Luigi Ripamonti
Sugli scenari che si potrebbero creare dopo il caso del supposto scambio di embrioni a Roma abbiamo posto alcune domande a tre esperti: Gian Ettore Gassani, presidente dell’Associazione nazionale matrimonialisti italiani, Amedeo Santosuosso, docente di diritto, scienza, nuove tecnologie all’università di Pavia e Andrea Nicolussi, professore di diritto civile alla Cattolica di Milano.
1Il marito della donna incinta con embrioni altrui potrebbe disconoscerne la paternità?
Gassani: «Data la specificità della situazione, credo che potrebbe presentare istanza di disconoscimento».
Santosuosso: «Potrebbe ma sarebbe un’azione con scarsa legittimità morale e scarsa validità giuridica».
Nicolussi: «Potrebbe, ma il presupposto di questa ipotesi è che si applichi la disciplina che attribuisce la maternità alla donna che partorisce (il cui marito diverrebbe padre). Ma il nostro caso è eccezionale. Perché la legge su cui si basa l’ipotesi non prevedeva la dissociazione fra maternità gestazionale e genetica. E poi perché la legge 40, che attribuisce in modo automatico lo stato giuridico di genitori alla coppia che ha avuto accesso alla procreazione assistita, fa rifermento soltanto a un consenso dato per una fecondazione coi propri gameti. La questione è molto difficile e andrà risolta soprattutto in funzione dell’interesse del minore».
2Il padre genetico potrebbe richiedere il riconoscimento dei figli in base alla prova del Dna?
Gassani e Santosuosso: «Prima dovrebbe fare istanza di disconoscimento di paternità del padre ritenuto legittimo, e solo successivamente istanza di riconoscimento per se stesso in base a prova genetica».
Nicolussi: «Occorre previamente la richiesta di disconoscimento della persona a cui è attribuita la paternità. Anche qui si parte da un’idea monogenitoriale. Si potrebbe tenere presente che nella procreazione assistita c’è il consenso di coppia, quindi non avrebbe molto senso separare la posizione del padre da quella della madre».
3In questo caso come si regolerebbero i rapporti fra padre genetico e madre «naturale»?
Gassani, Santosuosso e Nicolussi: «Come tra due genitori separati, con i diritti e i doveri del caso».
4In futuro i figli potrebbero esercitare richieste?
Gassani, Santosuosso: «Fino a quando sono minorenni è molto difficile, salvo casi particolari con l’intervento di un tutore del tribunale dei minori. Ma sarebbe comunque una situazione molto complessa».
Nicolussi: «È un caso in cui si coglie la problematicità fra le diverse dimensioni della filiazione (genetica, gestazionale e affettiva), che andrebbero pensate in modo più unitario . Se i genitori cui sono attribuiti i bimbi non potessero più occuparsene, sarebbe giusto che essi non potessero rivolgersi ai genitori genetici?».
il Fatto 16.4.14
Gawronski: Agnelli sollevato dopo la morte di Edoardo
L’AVVOCATO Agnelli dopo la morte del figlio Edoardo non è cambiato molto. Non era di certo uno che faceva trasparire i suoi sentimenti perché lo considerava come una cosa poco elegante. Direi che certamente spero e penso che abbia avuto un senso di colpa per quanto è successo e anche, forse, nel grandissimo dolore, un leggerissimo senso di sollievo perché certamente la sparizione di Edoardo gli aveva evitato un problema che avrebbe continuato per tutto il resto della sua vita. Cioè lui vedeva in Edoardo oltre che un figlio anche un problema permanente”. Lo afferma Jas Gawronski, amico dell'Avvocato, intervistato da Marina Milone per Mix 24. La storia di Minoli, in onda su Radio 24, nella puntata dedicata a Edoardo Agnelli, figlio suicida e su come cambiò l’avvocato dopo la disgrazia.
La Stampa 16.4.14
Giù dalla finestra a 14 anni “È istigazione al suicidio”
Torino, la Procura trova nel pc un messaggio: “Ammazzati”
di G. Giacomino e G. Maggio
«Istigazione al suicidio». E’ questa l’ipotesi di reato sulla quale stanno lavorando la Procura di Ivrea e il Tribunale dei minori di Torino per spiegare la morte di Aurora, la quattordicenne di Venaria che, l’altro ieri mattina, si è gettata dal settimo piano di un palazzo.
Quella del cyber bullismo tra adolescenti è una pista definita attendibile dagli inquirenti. Il procuratore capo della Repubblica di Ivrea, Giuseppe Ferrando, parla di una storia assai delicata. E ancora tutta da chiarire: «Anche il minimo dettaglio potrà aiutare a capire meglio questa vicenda» spiega il magistrato. Aurora era una ragazza minuta e con problemi di salute. E che, come tanti coetanei, affidava ai social network sogni e speranze. Raccontava di sé, delle sue paure, delle sue passioni. Lo faceva in particolare su «Ask.fm», un sito dove gli adolescenti interagiscono tra loro anche in forma anonima.
Nel suo caso, però, si è andati oltre. Le hanno scritto insulti e cattiverie di ogni tipo: «Sei un cesso, vatti a nascondere, sei la vergogna delle 2000 (le ragazze nate negli anni Duemila, ndr)». Nella marea di messaggi, di botta e risposta, sia su Ask.fm, sia su Whatsapp, sarebbe spuntata anche una parola che ora pesa come un macigno: «Ammazzati». E’ questa la molla che l’ha spinta a raccogliere tutto il coraggio e la disperazione per gettarsi dal settimo piano di un palazzo? «E’ presto per dirlo” dicono gli investigatori.
Intanto, però, l’indagine si allarga alle amicizie della ragazza, ai suoi coetanei, ai compagni di scuola. Ieri pomeriggio i carabinieri della Compagnia di Venaria hanno consegnato agli agenti della polizia postale sia il computer di Aurora che il suo telefonino cellulare. Due apparecchi che gli inquirenti considerano fondamentali per le indagini. Nei prossimi giorni gli esperti scandaglieranno a fondo il traffico telefonico in entrata e in uscita dal telefonino. Dal quale, tramite Whatsapp, la 14enne ha inviato gli ultimi messaggi a qualche suo amico e parente, prima di lanciarsi nel vuoto.
Il vero obiettivo degli investigatori, coordinati sia dai pm eporediesi che dal pm Annamaria Baldelli, del Tribunale dei Minori di Torino, sarà però setacciare le circa 700 tra domande e risposte dirette che vedono coinvolta la studentessa su «Ask.fm», un sito già finito all’attenzione della cronaca dopo il suicidio di una adolescente di Cittadella, pesantemente insultata sulla sua bacheca. Un po’ come è capitato ad Aurora. Che voleva un ragazzo, scriveva di essere una fanciulla «mignon», di desiderare un abbraccio più di ogni altra cosa. Ma sperava anche di non innamorarsi delle persone sbagliate. Davanti agli insulti provava a difendersi, cercava di reagire. E c’è anche qualcuno che, sulla chat, si era accorto delle cattiverie. E ha provato a replicare per lei. «Sono capitata sul tuo profilo per caso, non capisco perché la gente ti insulti così. Sfigatelle mi rivolgo direttamente a voi, vi sentite delle folli minchia show a insultarla così, in modo anonimo senza neanche conoscerla? Per cosa poi? Perché è brutta? Perché scrive abbreviato?».
Intanto oggi, a Roma, verranno presentati i risultati della ricerca del Laboratorio di Ricerca Socio Economica della Link Campus University, effettuata su un campione di 2500 giovani. Titolo: «Generazione Proteo. Giovani italiani: solisti fuoriclasse». Qualche anticipazione? Nonostante la metà dei giovani italiani dai 17 ai 19 anni ritenga Ask.fm pericoloso, circa il 14% lo utilizza comunque, quasi quanto Twitter (19,7%). E nel 10% dei casi per offendere e insultare.
l’Unità 16.4.14
Venti anni per Kabobo. L’ira dei parenti delle vittime
Vent’anni di carcere. Questa la condanna inflitta dal gup Manuela Scudieri ad Adam Kabobo che l’11 maggio scorso a Niguarda (Milano) ha ucciso a picconate Alessandro Carolè, 40 anni, Ermanno Masini, 64 anni, e il 21enne Daniele Carella. Kabobo, giudicato con rito abbreviato, prima di essere di nuovo libero dovrà trascorrere anche un periodo «non inferiore a 3 anni» in una casa di cura e custodia, come misura di sicurezza.
Il giudice ha sostanzialmente accolto la richiesta del pm Isidoro Palmache, considerata la semi infermità del 32enne ghanese, aveva chiesto per lui 20 anni di carcere più altri 6 di casa di cura. La difesa, puntando sulla sua totale infermità, sperava invece in un’assoluzione. Alle famiglie delle vittime, parti civili nel processo, sono stati riconosciuti a titolo di provvisionale risarcimenti che vanno dai 100mila euro in su.
Kabobo dovrà anche affrontare un secondo processo per tentato omicidio per aver aggredito Andrea Carfora, 24 anni, dipendente di un supermercato, con una spranga e Francesco Niro, operaio 50 enne, con il piccone appena recuperato in un cantiere, colpendolo alla nuca senza però ucciderlo. «In qualsiasi altro Paese, per esempio negli Stati Uniti, Kabobo sarebbe stato condannato alla pena di morte o all’ergastolo. Se penso che vent’anni di carcere sono sei anni a omicidio, dico che in un Paese normale non è giustificabile », è il commento amareggiato di Andrea Masini, il figlio di Ermanno.
«Non ce l’ho con il giudice, che era obbligato a pronunciare questa sentenza, visto il riconoscimento della semi infermità mentale e il rito abbreviato, ma ce l’ho con lo Stato italiano che fa entrare i clandestini e non li segue», ha spiegato Masini.
il Fatto 16.4.14
Milano, 20 anni di carcere a Kabobo per tre omicidi
VENTI ANNI di carcere, il massimo della pena che poteva essere inflitta, tenendo conto della semi-infermità mentale e dello ‘s co n to’ previsto per il rito abbreviato. In primo grado Adam Mada Kabobo, 32 anni, ghanese, è stato condannato per l’omicidio di tre persone avvenuto a picconate all’alba dell’11 maggio dello scorso anno a Milano, nel quartiere Niguarda. Una furia omicida dettata dalle “vo c i ”, come lui stesso le definì. Una sentenza contestata da Andrea Masini, figlio di Ermanno, una delle vittime, morto a 64 anni. “È una pena insufficiente - ha detto - vedremo poi se sconterà davvero questi vent’anni. In qualsiasi altro Paese, come negli Stati Uniti, Kabobo sarebbe stato condannato alla pena di morte o all’ergastolo”. La pena per Kabobo prevede pure tre anni in una casa di cura come misura di sicurezza perché “socialmente pericoloso”.
Corriere 14.4.16
Restauri inadeguati agli scavi di Pompei
di Gian Antonio Stella
«Capricciosa Cave Canem», «Margherita dei Casti Amanti», «Tonno e cipolla al Poeta Tragico». Manca davvero solo un forno, un pizzaiolo e un menu appropriato alla prima delle domus restaurate a Pompei. Perché assomiglia sul serio, per il tipo di restauro ispirato a certe trattorie «finto rustiche» da cui è impestata l’Italia, al nome che le è stato appiccicato: «Pizzeria del Criptoportico».
«Sono sgomento», ha detto dopo averla vista, sia pure solo in foto, Bruno Zanardi, tra i massimi esperti mondiali di restauro. E ha spiegato a Mirella Armiero del Corriere del Mezzogiorno che «alla base di tutto c’è il ritardo immenso che l’Italia ha accumulato nel settore del restauro sul piano culturale».
«Pompei non sanno più come tenerla», accusa il professore che da anni denuncia i drammatici deficit professionali in questa materia, «bisogna mettersi a tavolino e trovare soluzioni altamente tecnologiche per far scorrere le acque piovane, opporre resistenza ad acqua e sole, e così via. E bisogna anche considerare che Pompei è una città dentro un territorio che è quasi al disastro ambientale».
Con che criteri vengono scelte, le imprese che mettono mano a un patrimonio archeologico unico al mondo qual è Pompei? Sullo stesso giornale diretto da Antonio Polito, che sul tema della conservazione dei beni culturali sta dando battaglia da tempo, Vincenzo Esposito dà conto in un’inchiesta che «la Procura di Torre Annunziata, coordinata da Alessandro Pennasilico, ha da qualche mese attivato sulla storia degli appalti con record di ribasso e ora anche su come i restauri sono stati compiuti o stanno per essere realizzati».
Un tema centrale, sollevato prima dall’orrendo rifacimento in cemento armato e mattoni di tufo del Teatro Grande, per il quale finì agli arresti la titolare della ditta Caccavo Srl di Pontecagnano, scelta dall’allora commissario straordinario Marcello Fiori per 26 interventi in meno di due anni per un totale di 16 milioni e mezzo di euro. Poi dalle prime aste per i nuovi cantieri del «progetto Pompei» da 105 milioni di euro, marcate da ribassi esagerati. Come nel caso di tre gare per i «lavori di consolidamento e restauro», scrive Esposito, vinte dalla Perillo Costruzioni generali srl: «La ditta si è assicurata le opere alla Casa del Criptoportico facendo scendere del 57% il prezzo iniziale. Per la Domus dei Dioscuri, il 56,70% e poco meno per la Casa di Sirico, col 54,95% di ribasso».
Per carità, di per sé nessun reato. Ovvio. Ma sempre lì torniamo: o era troppo alta la base d’asta (e non si capisce perché mai dovrebbe essere così) o chi vince ha in mente due alternative. La prima: lavorare al massimo risparmio usando gli operai meno specializzati possibile e i materiali meno costosi sul mercato, con prospettive da mettere i brividi. La seconda: tirare in lungo i lavori per anni e anni puntando, di rincaro in rincaro, a ricavare il doppio o il triplo o il quadruplo della spesa inizialmente preventivata. Giochetti che, all’estero, vengono castigati con durezza estrema.
Corriere 16.4.14
Il dissidio tra politica e mercati minaccia il futuro dell’Europa
Intanto, all’insaputa di tutti, avanzano i processi federali
di Yves Mény
Le prospettive dell’Unione Europea non sono incoraggianti, due colossali handicap si sommano, rafforzandosi a vicenda. Un handicap di sostanza, poiché tutti sono in disaccordo con tutti su un numero crescente di questioni; e un handicap di mezzi, poiché il sistema politico-istituzionale è blindato e non lascia spazio a chi voglia portare a buon fine un’iniziativa qualunque. Già nel 2003 avevo rilevato che l’Unione sembrava ridestarsi solo quando si trovava sull’orlo del baratro, osservazione che oggi sembra confermata. In apparenza funziona solo il servizio di salvataggio minimo comune che mette in opera complessi espedienti, in parte al di fuori dei Trattati.
Il politologo americano Robert Dahl ha descritto le relazioni tra il mercato e la politica come quelle di una «coppia infelice». La crisi ha fornito un esempio lampante di quella relazione ambivalente, caratterizzata, in definitiva, dall’incredibile predominio dei mercati anche quando il loro fallimento è quasi totale, o forse proprio perché è totale. I mercati sono riusciti a trasformare in debito pubblico degli enormi debiti privati insolvibili, dettando le condizioni della transazione e mettendo in difficoltà nello stesso tempo i pompieri accorsi per tentare di spegnere l’incendio.
L’operazione di soccorso è piena di pecche: lascia intatte le tare del sistema, i blocchi, la rigidità, l’assenza di legittimità democratica. Ma la routine burocratica di Bruxelles potrebbe continuare. Lo si è osservato durante la crisi: nuovi Stati aderiscono al club nonostante i suoi problemi, altri entrano nell’euro. I negoziati con la Turchia riprendono come se tutto andasse per il meglio. L’impulso, quando c’è, non viene dalla politica, come sarebbe giusto nelle società democratiche; è impresso da strutture tecno-burocratiche non elette: la Commissione, la Bce, la Corte di giustizia e le Corti supreme degli Stati membri.
Questo scenario è anche pieno di incertezze. Per due motivi opposti. Il primo dipende dai mercati, che potrebbero stancarsi di una simile incapacità di agire e sparare un colpo d’avvertimento potenzialmente fatale. Nel caso di una grave crisi internazionale, potrebbero anche lasciarsi prendere dal panico e trascinare con sé nella caduta il corpo fragile l’Unione. E questo per quanto riguarda il primo elemento della «coppia infelice». Un colpo di diversa natura potrebbe venire dal secondo elemento della coppia: la politica o, meglio, il popolo, sempre più frustrato e scontento. Molti indizi concordano nell’annunciare alle elezioni europee una forte scossa tellurica: un misto di anomia politica e di veementi proteste che probabilmente farà tremare tutto l’edificio. Sarebbe però un grave errore limitarsi a deplorare l’ignoranza della gente, il suo accecamento, la sua incapacità di capire le questioni complesse. Le condanne ex cathedra sono inadeguate e rischiano di essere controproducenti, se non sono accompagnate da un soprassalto delle élite europee. Se finalmente quel soprassalto si producesse e l’Europa prendesse coscienza che è ora di cambiare, dovremmo dire grazie ai populisti.
Anche i federalisti più convinti devono ammettere che la prospettiva federale in Europa non suscita entusiasmi, forse perché appare inattuabile, forse perché non si è spenta la profonda convinzione che lo Stato nazione rimane la base di ogni organizzazione politica. Oggi nessun governo sostiene la prospettiva federale; gli elementi «federali» della costruzione europea, come la Commissione di Bruxelles, sono diventati il bersaglio favorito di tutte le critiche; la stessa opinione pubblica si è radicalizzata. La federalizzazione è il nemico da battere, poiché non solo permetterebbe una maggiore integrazione, ma indebolirebbe notevolmente lo Stato nazione. In questo momento le speranze di successo del federalismo tendono a zero!
Tuttavia la situazione è meno semplice di quanto non sembri. Dentro questo clima di ostilità quasi generalizzato si sta realizzando, all’insaputa di tutti, una sorta di federalizzazione tecnica. In questo senso tre sviluppi recenti sono particolarmente interessanti. L’adozione del Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance, di cui si prevedeva l’entrata in vigore subito dopo la ratifica da parte di 12 Stati membri sui 17 della Eurozona, rappresenta una rottura senza precedenti rispetto alla regola dell’unanimità che domina nell’Ue. Si tratta, è vero, di una pratica spesso adottata a livello internazionale per aggirare l’ostacolo di un diritto di veto generalizzato, ma al tempo stesso rappresenta l’accettazione della regola che ha permesso alla confederazione americana di diventare una federazione. Certi Stati non hanno aderito a cuor leggero, ma la necessità di far fronte alla crisi ha fatto mettere da parte le esitazioni. La novità procedurale accettata sotto la spinta della necessità è destinata a rimanere un’eccezione oppure, se le circostanze lo imporranno, potrà essere l’inizio di una «rivoluzione»? Anche l’adozione delle regole riguardanti l’Unione bancaria e la supervisione delle banche da parte della Bce rappresenta un notevole avanzamento «tecnico» sulla via della federalizzazione. Un terzo progresso inaspettato ha sbalordito gli osservatori: per la prima volta l’arcigna guardiana della Costituzione tedesca, la Corte di Karlsruhe, ha richiesto l’opinione pregiudiziale della Corte del Lussemburgo. Per uscire in modo elegante da una situazione delicata, d’accordo… Ma ormai il passo è fatto.
Questi progressi, impensabili prima della crisi, sono un’arma a doppio taglio poiché, ben lungi dal risolvere la questione della legittimità, grave lacuna delle politiche europee, mettono ulteriormente in risalto la questione scottante della democrazia. In effetti per l’Unione la questione democratica rappresenta «il» problema per eccellenza. Tutte le altre questioni sono subordinate e la loro accentuazione mette in evidenza la situazione insostenibile nella quale le élite europee si rinchiudono, senza mai tentare di trovare e proporre una soluzione.
Più il progetto europeo si sviluppa e di fatto, nonostante la crisi o a causa di essa, il peso dell’Europa aumenta a spese delle istituzioni nazionali, più cresce la divaricazione tra la democratizzazione auspicabile e quella possibile. I federalisti insistono nel dire che solo uno statuto federale — dando una forma politica a un progetto europeo oggi poco incisivo — può salvare l’Europa. Bisogna ammettere che solo il progetto federale e le posizioni euroscettiche britanniche hanno una coerenza intellettuale e insieme pratica. Tutte le altre soluzioni si rivelano ibride e poco praticabili.
Le elezioni del maggio 2014 avrebbero potuto essere un’occasione ideale per permettere ai popoli europei di mobilitarsi intorno a un progetto per il futuro, mentre la serie di consultazioni nazionali per scegliere i portaborse dei partiti sarà un’occasione mancata: un invito a nozze per i protestatari e i populisti antieuropei. Forse la conquista dell’Europa potrà ripartire proprio da quel colpo d’avvertimento. A condizione, però, che le élite raccolgano il messaggio.
Corriere 16.4.14
La triste e difficile storia delle popolazioni zingare
risponde Sergio Romano
La recente presa di posizione del sindaco di Roma, Ignazio Marino, sull’utilizzo del termine «nomadi» mi offre il destro per ricordare che nella mia infanzia, cioè nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale, passavano spesso nei paesi, in specie del Nord Italia, carovane di quelli che allora chiamavamo «zingari», che svolgevano per lo più il mestiere di calderari e di commercianti di cavalli.
Si diceva che fossero montenegrini autorizzati a viaggiare nel Paese essendo connazionali della regina Elena. Il loro arrivo destava timore per la fama che li precedeva e curiosità per
gli accampamenti che montavano alla periferia dell’abitato. Probabilmente lei, come storico, può fornire qualche ulteriore elemento ad integrazione dei miei ricordi di gioventù.
Marco Sommi
Caro Sommi,
Come credo di avere già detto in un’altra occasione, la benevolenza della regina Elena per gli zingari è probabilmente una diceria popolare, rimbalzata da un bar all’altro. Gli zingari non erano necessariamente montenegrini, provenivano dall’area danubiano-balcanica ed entravano in Italia dalle sue molte frontiere adriatiche. La loro presenza suscitava sospetti, diffidenza, paure (erano considerati ladri di bambini), ma in quei tempi il clima, se confrontato a quello d’oggi, era nettamente migliore. Erano girovaghi, ma esercitavano mestieri che presentavano una certa utilità pubblica. Ferravano i cavalli, riparavano le pentole, impiegavano il loro talento di acrobati nei circhi e suonavano il violino con un certo brio. Appartenevano insomma a quel folto popolo di nomadi e ambulanti che ha attraversato per parecchi secoli le strade di tutta l’Europa. Non avremmo tanta musica spagnola senza gli artisti del flamenco. Non avremmo l’operetta viennese e ungherese senza il personaggio dello zingaro, indispensabile ingrediente di parecchi libretti.
Da allora molto è cambiato. I cavalli sono scomparsi dalle nostre strade. Le pentole rotte non si riparano più. Il grande pubblico della musica popolare preferisce il rock alla czarda. I circhi equestri esistono, ma il loro spazio, nel mondo dell’intrattenimento, si è molto rimpicciolito. La Germania di Hitler cercò di sopprimerli. Nei regimi autoritari, sino al crollo del sistema comunista dell’Europa centro-orientale, alcuni Paesi, fra cui l’Unione Sovietica, hanno tentato di sedentarizzarli costruendo case popolari e impiegandoli nelle fabbriche. Terminata la guerra fredda, questi metodi sono diventati meno facilmente applicabili e la maggiore apertura delle frontiere ha favorito i loro frequenti spostamenti da un Paese all’altro. Privati dei loro vecchi mestieri sono troppo spesso diventati mendicanti e ladruncoli con grande disagio e fastidio delle popolazioni fra cui vivono. Esistono zingari riformatori che collaborano con le autorità locali per aiutarli a uscire dal circolo vizioso del nomadismo. Esistono bambini che frequentano le scuole e non imiteranno verosimilmente la vita dei loro genitori. Ma esistono anche molti zingari che non concepiscono altra esistenza fuor che quella in cui sono cresciuti.
Per tornare alla regina Elena, caro Sommi, ripeto che non credo a un suo particolare interessamento per quel popolo. Ma le ricordo che Elena Petrovic, figlia del re del Montenegro, aveva fatto i suoi studi in un collegio delle fanciulle di Pietroburgo, lo Smolnyj, e che non vi era grande festa, nella Russia d’allora, senza la partecipazione di una vivacissima orchestra tzigana.
il Fatto 16.4.14
Prof. precari a Parigi, Francia condanna Farnesina. Che non applica la sentenza
Nel 2011 il Tribunale transalpino obbliga l'Italia a reintegrare gli insegnanti licenziati dall'Istituto italiano di Cultura e a risarcire i contributi di dieci anni di precariato illegittimo. Ma gli Affari esteri continuano a non dare esecuzione al pronunciamento nonostante le sollecitazioni dei colleghi del Quai d'Orsay
di Lorenzo Galeazzi e Thomas Mackinson
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/16/prof-irregolari-a-parigi-francia-condanna-farnesina-che-non-applica-la-sentenza/951319/
il Fatto 16.4.14
Maxi-colletta del Dna per scovare lo stupratore
In un liceo de La Rochelle in 537, tra studenti e professori, si sottopongono al prelievo per risolvere il caso della ragazza violentata a settembre
di Luana De Micco
Parigi. Maxi-raccolta di campioni di Dna per trovare lo stupratore di una studentessa. L’operazione è in corso ancora oggi nel liceo privato Fénelon-Notre-Dame, una struttura cattolica polivalente, di La Rochelle. Una caccia al colpevole che non ha precedenti in ambiente scolastico in Francia. In totale i prelievi riguardano 527 uomini, tra professori e studenti.
LA SEDICENNE fu violentata lo scorso 30 settembre. Un uomo l’ha aggredita alle spalle, l’ha spinta nei bagni e l’ha violentata. Le luci erano spente e la giovane non ha potuto riconoscere il suo assalitore. Che però ha lasciato una traccia del suo Dna sui vestiti della vittima.
Ora si tratta di dare un volto e un nome a quel Dna. Gli inquirenti lo stanno cercando da sette mesi. “Avevamo due possibilità”, ha detto il procuratore Isabelle Pagenelle, che sta indagando sulla vicenda. “Chiudere il caso con un nulla di fatto oppure agire, utilizzando ogni mezzo a nostra disposizione per identificare lo stupratore, sapendo che siamo in un ambiente chiuso e che ci sono buone probabilità che a commettere la violenza sia stato qualcuno che era nella scuola e che conosce i luoghi”.
IL PROCURATORE ha deciso di andare fino in fondo. Gli inquirenti hanno dunque stilato la lista completa delle persone presenti nel liceo (che conta 1.300 iscritti) al momento dei fatti, quel 30 settembre 2013. 527 uomini, tra cui 475 studenti (molti dei quali minorenni), 31 professori e 21 tecnici, hanno ricevuto dunque una convocazione. E una maxi-colletta di campioni di Dna è iniziata lunedì in due aule della scuola.
Oggi si dovrebbero effettuare gli ultimi test. I prelievi della saliva sono eseguiti con dei tamponi da una quindicina di poliziotti “muniti di maschera e guanti”. “Tutti partecipano senza fare problemi in segno di solidarietà con la ragazza che è stata violentata. Tutti vogliamo che il colpevole venga ritrovato”, ha osservato Lucas, 17 anni, parlando con la stampa transalpina.
Per prendere il campione, c’è bisogno del consenso personale e di quello dei genitori, nel caso dei minori. Ogni rifiuto però risulterà “sospetto”, ha fatto notare il procuratore. E potrebbe “sfociare in una custodia cautelare o in una perquisizione”. Anche la direttrice della scuola, Chantal Devaux, ha condiviso la procedura. Che invece è stata criticata da diverse associazioni per la tutela dei diritti umani. Le 527 buste sigillate saranno trasmesse a due laboratori di analisi perché i campioni vengano confrontati con la traccia di Dna dello stupratore, che non era schedato. Ci vorrà almeno un mese per conoscere i risultati.
TUTTI I TEST NEGATIVI andranno distrutti. Sta di fatto che tra gli studenti resta un profondo senso di disagio. “Siamo sotto choc”, ha osservato Léo, 15 anni. Forse il criminale si nasconde tra loro, forse lo incrociano tutti i giorni nei corridoi e ora si è messo in fila come gli altri per fare il test. In questo caso il Dna lo incastrerà. Ma se lo stupratore è esterno alla scuola “allora - ha sospirato la direttrice - l’operazione sarà stata inutile”.
il Fatto 16.4.14
Ayaan Hirsi Ali
Emarginati: destino dei musulmani non allineati
La pasionaria somalo-olandese che difende le donne dell’Islam
di Carlo Antonio Biscotto
Quella di Ayaan Hirsi Ali, donna politica e scrittrice olandese di origini somale, nata a Mogadiscio nel 1969, è stata una vita avventurosa spesa per la difesa dei diritti umani, in particolare quelli delle donne. Figlia di un signore della guerra somalo, a 5 anni viene sottoposta ad infibulazione e a 22 viene data in sposa, contro la sua volontà, a un giovane somalo residente in Canada. Ma Ayaan non si arrende. Non può evitare il matrimonio, ma durante il viaggio verso il Canada approfitta di uno scalo tecnico in Germania per darsi alla fuga, raggiungere l’Olanda e chiedere asilo politico.
La svolta della vita nel 2001 quando le capita di guardare al tg un servizio su un imam che difende alcuni giovani musulmani che hanno molestato gli insegnanti gay della loro scuola. Ayaan prende carta e penna e scrive una lettera di fuoco a uno dei quotidiani olandesi più letti. Dice chiaramente che l’omofobia non è un problema di quell’unico imam, ma di tutto l’Islam che considera una malattia l’omosessualità e perseguita i diversi e le donne. È l’inizio dell’impegno politico che la porta a esser eletta nel 2003 al Parlamento nelle file del “Partito popolare per la libertà e la democrazia”. Nel 2004 scrive la sceneggiatura di “Sottomissione” insieme al regista e amico Theo van Gogh che quello stesso anno viene assassinato da un estremista islamico. Da allora Ayaan vive sotto scorta ed è stata oggetto di minacce di morte. Ma non è solo l’Islam militante a crearle problemi. I suoi vicini di casa chiedono al tribunale che venga sfrattata perché rappresenta un pericolo per la loro incolumità e, a sorpresa, la Corte d’Appello dell’Aja dà loro ragione. Allora Ayaan Hirsi si dimette da parlamentare, abbandona l’Olanda e si trasferisce negli Usa anche se spesso fa ritorno a L’Aja. Nel 2007 il governo le toglie la scorta sostenendo che può essere assegnata solo a cittadini che risiedono permanentemente nel Paese.
LA BATTAGLIA DI AYAAN contro il fondamentalismo islamico è senza quartiere: “È il nuovo fascismo. L’Islam intransigente vuole un califfato governato dalla Sharia dove si possano lapidare le donne che hanno rapporti sessuali fuori del matrimonio e picchiare e uccidere gli omosessuali e gli apostati”, ha scritto. “L’Islam è una religione retrograda e incompatibile con i diritti umani e la democrazia. Maometto a 52 anni sposò Aisha che ne aveva appena 6. Tre anni dopo consumò il matrimonio. Secondo i principi morali occidentali Maometto è un pervertito”. La rivista Time l’ha inserita nell’elenco delle 100 donne più influenti del mondo, ma quando la Brandeis University ha deciso di conferirle una laurea honoris causa per il suo impegno contro la violenza sulle donne, una petizione online firmata da accademici progressisti e associazioni islamiche ha bloccato tutto. Il motivo è che Ayaan parla senza peli sulla lingua e in questi casi l’accusa di “islamofobia” mette fine a ogni possibile dialogo.
il Fatto 16.4.14
Mohammed Dajani
Il professore palestinese e la gita scolastica ad Auschwitz
di C. A. B.
Il professor Dajani, docente di scienze politiche alla Al-Quds University di Gerusalemme, è l’esempio perfetto dell’Islam moderato e dialogante. Fondatore, nel 2007, del movimento “Al Wasatia”, che auspica apertamente una pace negoziata tra Palestina e Israele, Dajati non è nuovo alle critiche da parte dell’ala più intransigente e dura dell’Islam, ma questa volta le polemiche – e le minacce – sono state particolarmente violente. Qualche settimana fa, nel quadro di un progetto volto ad accrescere la comprensione e la tolleranza tra palestinesi ed ebrei, il professor Dajani ha portato 27 studenti palestinesi in visita al campo di concentramento di Auschwitz. Al suo ritorno , il rettore ha condannato il viaggio, i colleghi lo hanno bollato come traditore e gli amici gli hanno consigliato una vacanza all’estero. Dajani si aspettava le critiche: “Non mi hanno sorpreso, ma sono contento di essere stato il primo a organizzare la visita di un gruppo di giovani palestinesi in un campo di sterminio nazista. Sapevo che l’iniziativa avrebbe fatto rumore, ma credevo che le polemiche si sarebbero spente nel giro di pochi giorni”. Purtroppo non è andata così. Le critiche sono state violentissime, alimentate anche dal sospetto – infondato – che il viaggio fosse stato finanziato da organizzazioni ebraiche.
Dajani ha ricordato che secondo molti palestinesi l’Olocausto altro non sarebbe che uno strumento di propaganda per giustificare la politica di Israele in Palestina o, nel migliore dei casi, uno dei tanti massacri della seconda guerra mondiale. Un articolo che raccontava la visita ad Auschwitz pubblicato dal quotidiano Al-Quds è stato rimosso dal sito per le violente reazioni dei lettori. Tra i critici non solo gente comune, ma anche giornalisti, analisti tv e colleghi di Dajani che vivono in Cisgiordania.
DA GIOVANE DAJANI è stato un militante di Al Fatah, ma oggi si considera un moderato. Nei suoi scritti ricorrono con grande frequenza le parole ‘tolleranza’, ‘dialogo’, ‘riconciliazione’. “È un teologo, un uomo pragmatico e coraggioso”, ha detto Mathhew Kalman, commentatore di Haaretz, il quotidiano israeliano che ha rivelato il caso. Molti nemici di Dajani lo accusano di tradimento e di fare il lavaggio del cervello ai giovani. Uno degli studenti ha detto, in forma anonima, che quello che ha visto lo ha cambiato nel profondo: “Non puoi restare indifferente nel vedere quante persone sono morte solo per la loro religione. Certo è strano che un palestinese vada a visitare un campo nazista. Ma è una visita che consiglio a tutti”. L’università ha sconfessato Dajani e tutti gli studenti andati ad Auschwitz. Dajani ha risposto: “Andrò a Ramallah, all’università, posterò le foto della visita su Facebook. Non mi pento di ciò che ho fatto. Ho intenzione di rifarlo. Non mi si può impedire di provare empatia umana per le sofferenze atroci di coloro che in questo momento occupano la nostra terra”.
Repubblica 16.4.14
Il direttore del Guardian: il Pulitzer? Premiarci è come premiare Snowden
di Enrico Franceschini
LONDRA. CON tipico “understatement”, la caratteristica inglese di attenuare, sminuire, nascondere i meriti, non ha nemmeno scritto un editoriale per vantarsi dell’onore ricevuto. Dopo aver preso il Pulitzer per il Datagate, le rivelazioni della “talpa” Edward Snowden, analizzate e pubblicate responsabilmente dal Guardian per dieci mesi, il suo direttore ha deciso di dare la notizia, sull’edizione cartacea e sul sito, con la consueta sobrietà. Ma il giorno dopo Alan Rusbridger non nasconde di avere tirato fuori lo champagne: «E’ la rivincita per un anno di fuoco, la prova che il giornalismo ha un futuro», dice l’ex-reporter ed ex-columnist del quotidiano londinese, che dirige da quasi vent’anni.
Direttore, cosa ha provato quando ha saputo del premio?
«Due sensazioni allo stesso tempo. Da un lato un grande orgoglio per il Guardian: il Pulitzer è stato in un certo senso la rivincita e la riabilitazione per tutto quello che ci siamo sentiti dire in questo ultimo anno dalla leadership politica britannica e americana, e anche in parte da altri giornali che volevano vederci messi alla berlina, portati sulla gogna. Ricevere un premio del genere, universalmente riconosciuto per il suo valore, ci ha fatti sentire tutti orgogliosi e contenti del lavoro fatto. E’ la conferma che non abbiamo sbagliato a pubblicare quelle rivelazioni».
E il secondo pensiero?
«Il secondo pensiero è legato alla soddisfazione di averlo vinto nella categoria del “servizio pubblico”. Dunque non si è trattato di un semplice scoop o di una bella inchiesta, ma di un servizio di pubblico interesse. Se ciò è vero, significa che anche la decisione di Edward Snowden di rivelare quello che sapeva sul programma di sorveglianza di massa operato dagli Stati Uniti e dai loro alleati, Gran Bretagna in testa, è stato un servizio pubblico. E mi fa piacere per lui».
Crede che il premio potrebbe spingere prima o poi il presidente Obama a dare un perdono giudiziale a Snowden, fermando le incriminazioni?
«Probabilmente non sarà Obama a farlo e non succederà tanto presto. Ma era già questa la direzione che stavano prendendo le cose, con la decisione del presidente americano di commissionare un rapporto sulle intercettazioni nei confronti di leader politici e di massa. Il Pulitzer sarà un’altra spinta a riesaminare tutta la questione e mi auguro che pure Snowden ne tragga giovamento, non sia più considerato un traditore della patria ma qualcuno che alla patria e al mondo ha reso un servizio ».
Il premio è andato al Guardian e al Washington Post congiuntamente. Si può dire che il Post ci sia abituato, dall’inchiesta di Woodward e Bernstein sul Watergate in poi. Ma come vi siete sentiti al Guardian a sfidare la superpotenza americana?
«Abbiamo stappato champagne in redazione. Eravamo in trentacinque nel mio ufficio a brindare. Ci sono stati momenti difficili in questa storia, ma li abbiamo superati. Sì, siamo un giornale britannico, ma con l’ambizione di essere, anche grazie alla lingua inglese in cui scriviamo i nostri articoli, una fonte di informazione globale. Oggi i migliori giornali sono necessariamente giornali globali, di rilevanza internazionale, con un peso che va al di là del Paese in cui hanno la propria sede centrale. Anche questo è un messaggio implicito del Pulitzer al Guardian ».
Un altro è che, pure nell’era digitale, il ruolo di un giornale è cercare notizie, produrre scoop, fare le pulci al potere e la guardia alla democrazia?
«La tecnologia in cui si muove e si muoverà sempre di più l’informazione è nuova - il web con tutte le sue piattaforme multimediali. Ma il ruolo dei giornali è vecchio, quello di sempre: lottare per la libertà di stampa. Si torna sempre lì».
Ci sono giornali che hanno una squadra di cronisti che si occupano a tempo pieno di giornalismo investigativo, sempre a caccia di storie come questa. E’ così anche il Guardian?
«Al Guardian pensiamo che non ci sia bisogno di chiamarlo “giornalismo investigativo”: è sufficiente “giornalismo”. Questo nostro Pulitzer non è il frutto soltanto dei cronisti che hanno scritto quegli articoli collaborando con Snowden: è un premio per tutta la redazione, un premio al nostro sforzo di fare quotidianamente un buon prodotto giornalistico. E questo sforzo comincia a dare risultati: per la prima volta dopo anni di declino, nostro come di tutta l’industria giornalistica, la tiratura del Guardian ha ricominciato a crescere. Si vede che i lettori riconoscono e apprezzano quello che facciamo».
l’Unità 16.4.14
Operai cinesi in sciopero A rischio Nike e Adidas
Decine di migliaia protestano contro il mancato pagamento dei contributi e per salari più alti
Impianti fermi da dieci giorni. «Ci imbrogliano da anni»
di Gabriel Bertinetto
Da qualche giorno Cui Tiangang non taglia né incolla, e così restano senza suola le scarpe accumulate sul banco accanto alla sua postazione. Cui, 31 anni, è uno dei diecimila dipendenti in sciopero alla «Yue Yuan», nella Cina meridionale. Lavora per il più grande calzaturificio al mondo, che rifornisce di sneakers e mocassini le principali marche internazionali: da Nike a Adidas, da Reebok a Puma, da Timberland ad Asics.
Cui ha una personalissima ragione per incrociare le braccia. Tagliando e incollando si è fatto male a una mano. Quando ha chiesto l’indennizzo legalmente previsto per gli infortuni, ha scoperto che l’azienda non aveva versato i contributi. Non a caso sugli striscioni sorretti dai manifestanti che attraversano in corteo le strade di Dongguan, città di dieci milioni di abitanti sul delta del fiume delle Perle, si legge: «Ridateci i soldi della previdenza, ridateci le quote del fondo per la casa».
È contro queste violazioni contrattuali, prima ancora che per il salario, che all’inizio di aprile sono scesi in lotta i dipendenti della Yue Yuan, azienda figlia di due diverse aperture politiche di Pechino: all’Occidente capitalista per il quale la fabbrica sforna 250 milioni di paia di scarpe all’anno, e ai controrivoluzionari della vicina «provincia ribelle » taiwanese. I proprietari infatti sono cittadini dell’isola-Stato un tempo nota col nome di Formosa.
«Sono dieci anni che ci fregano - lamenta un operaio - Tutti assieme, le autorità locali, l’ufficio del lavoro, la previdenza sociale, la ditta». Molte delle proteste sui luoghi di lavoro in Cina riguardano le frodi di cui sono vittima i dipendenti grazie alla spregiudicatezza di imprenditori che agiscono al riparo di norme inesistenti o imprecise o più semplicemente di autorità locali conniventi. Le indagini svolte dall’organizzazione indipendente americana China Labour Watch su oltre 400 fabbriche cinesi, ha portato alla luce una realtà incredibile: non ce n’è una che versi i contributi per la sicurezza sociale.
La Yue Yuan si trova nella provincia del Guangdong, che vanta un doppio record. È la più industrializzata della Cina, ma anche quella con il più alto numero di proteste popolari. Qua si è svolto il 57% dei 1171 fra scioperi e agitazioni sociali che hanno scosso la Repubblica popolare fra la metà del 2011 e la fine del 2013. Molto spesso le ragioni della mobilitazione sono strettamente legate agli improvvisi cambiamenti di strategia decisi dalle grandi multinazionali a causa o con il pretesto della crisi globale. Ridimensionamenti, ristrutturazioni, chiusure, fusioni, vendite.
TURNI DI 15 ORE
Nel loro insieme questo tipo di trasformazioni spesso sono avallate o giustificate o incoraggiate dal potere politico nel nome dell’obiettivo chiamato tenglong huanniao, vale a dire «cambiare gli uccelli in gabbia». In sostanza vuol dire che bisogna adattarsi alle circostanze. Ma sono processi socialmente costosi. Ne sanno qualcosa i lavoratori dello stabilimento Ibm di Shenzhen, scesi in lotta il mese scorso per opporsi all’acquisto da parte della Lenovo. D’improvviso i 1200 tecnici e operai sono stati posti di fronte all’alternativa fra il licenziamento in cambio di una cifra inferiore ai 1000 dollari e la riassunzione con paghe inferiori e per più lunghi orari di lavoro. Per chi già era costretto a sgobbare quindici giorni di fila dalle otto del mattino alle undici di sera, non si vede quali margini di allungamento d’orario potessero immaginare i nuovi proprietari. Non sorprende che alla Ibm di Shenzhen gli scioperanti si siano mobilitati su questa parola d’ordine: «Non siamo schiavi, non siamo cose, non vendeteci».
I vertici del partito comunista hanno obiettivi ambiziosi di riforma economica. Ma faticano a gestirne l’attuazione. Un mese fa il premier Li Keqiang ha messo in guardia i finanziatori locali e stranieri del settore industriale privato cinese verso le «difficili sfide» che attendono il Paese nel 2014. Il premier ha esplicitamente indicato il rischio di fallimenti da parte di aziende insolvibili. Parlava mentre era vivo l’allarme suscitato dal tracollo della «Shanghai Chaori », ditta specializzata nello sfruttamento dell’energia solare, rimasta senza fondi per restituire un prestito di un miliardo di yuan (pari a circa 160 milioni di dollari). In passato lo Stato era solito intervenire in casi simili per ripianare le perdite. Stavolta, nel nome della razionalità contabile, non si è mosso. Gli scioperi di questi giorni a Dongguan, così come le proteste a Shenzhen in marzo e il disastro finanziario a Shanghai sono esempi di una burrasca economica e sociale in cui la Cina si sta dibattendo e si dibatterà nel prossimo futuro.
Repubblica 16.4.14
Rivolta nel polo che rifornisce le multinazionali
La protesta nel 25esimo della scintilla di Tienanmen
Schiavi delle scarpe via al maxi-sciopero e ora Pechino trema
di Giampaolo Visetti
PECHINO. Migliaia di operai si sono fermati ieri nel distretto industriale di Dongguan e in tutta la Cina sono scattate misure di sicurezza straordinarie. Ad allarmare la leadership, non solo lo sciopero più vasto da molti anni nel Guangdong, cuore dell’export globale. Le autorità hanno mobilitato esercito e polizia perché quello di ieri, per i cinesi, non era un giorno qualsiasi. Il 15 aprile 1989 morì Hu Jiaobang, che due anni prima era stato costretto a dimettersi da segretario generale del partito comunista. Il delfino di Deng Xiaoping fu stroncato da un infarto, ma tutti collegarono la sua morte all’espulsione dal politburo, a causa delle aperture ai giovani che invocavano riforme democratiche. Nel giorno del funerale, il 22 aprile, migliaia di universitari invasero piazza Tiananmen e rimasero davanti alla Città Proibita fino alla notte del 4 giugno, data tragicamente entrata nella storia del mondo.
Venticinque anni dopo, l’anniversario di Hu Jiaobang, scintilla da cui partì l’incendio delle proteste represse nel sangue a Pechino, ma non nell’Urss e nell’Europa orientale, in Cina resta un tabù. Perfino la foto dell’ex presidente Hu Jintao, nei giorni scorsi in visita ai famigliari del leader-simbolo dei riformisti, è stata censurata su Internet e media di Stato. Con l’avvicinarsi di una ricorrenza ancora esplosiva, i vertici del potere sono in fibrillazione e le forze dell’ordine hanno ricevuto l’ordine di blindare la nazione. Famigliari delle vittime di Tiananmen, dissidenti e sopravvissuti alle cariche di allora, sono già isolati, messi sotto controllo, o trasferiti con la forza lontano dalla capitale.
E’ a causa di questo clima di repressione preventiva che lo sciopero di Dongguan, in una data ad alta sensibilità politica, ha fatto temere ai dirigenti comunisti lo scoppio di simboliche proteste di massa anche nel resto del Paese. A fine febbraio la metropoli industriale del Sud, vicina a Shenzhen e a Hong Kong, è già stata scossa dall’operazione “Spazzare via il giallo” ordinata dal presidente Xi Jiping. Nel mirino 300 mila prostitute del più grande mercato a luci rosse del pianeta, primo business della regione. Era insorta l’intera città, preoccupata che i sigilli ai bordelli avrebbero messo in ginocchio l’economia. Questa volta a ribellarsi sono invece gli operai della Yue Yuen, colosso mondiale delle scarpe con proprietà a Taiwan, come la vicina Foxconn, gigante dell’elettronica nota come «la fabbrica dei suicidi ». Diecimila dipendenti su 60 mila hanno bloccato due dei dieci stabilimenti per denunciare condizioni di lavoro disastrose e il mancato pagamento dei contributi per sanità, casa e pensione. E’ il nervo scoperto della Cina di oggi: oltre 400 milioni di operaimigranti, privi di welfare perché la legge lo assicura solo nel luogo di nascita.
A innescare la rivolta, l’ennesimo infortunio di un giovane operaio. Cui Tiangang, simbolo dello sciopero, solo dopo il ferimento in reparto ha scoperto che l’azienda non versava l’extra per assicurarlo. Il governo da mesi promette di riformare l’odiato istituto dell’ hukou, ma si scontra contro funzionari locali e industriali, che non vogliono costi aggiuntivi. Ieri migliaia di persone hanno marciato per le strade chiedendo «assistenza», «casa» e le condizioni per ricongiungere le famiglie, esplose con l’urbanizzazione forzata. Per arginare le manifestazioni sono intervenuti reparti speciali della polizia e cani anti-sommossa: decine gli operai che hanno denunciato «pestaggi e torture», non verificabili. I vertici della Yue Yuen per tutto il giorno si sono rifiutati di trattare, ma la pressione di partito e mercato globale a tarda sera sembra aver aperto un varco alle trattative.
La multinazionale, che ha stabilimenti anche in Vietnam, Indonesia, Messico e Usa, produce le scarpe sportive per i marchi più famosi, tra cui Adidas, Nike, Puma, Reebok, New Balance, Timberland, Asics e Crocs. Lo sciopero degli operai di Dongguan, dove si cuciono 300 milioni di scarpe all’anno, rischia di lasciare scalzo l’Occidente. A poche settimane dal 4 giugno, per Pechino il pericolo è però prima di tutto arrivare all’anniversario di Tiananmen con una Cina che cresce sempre meno, in rivolta contro la corruzione dei dirigenti e percorsa da rinnovate tensioni sociali. La saldatura tra dissenso politico e rivolte operaie: un’opposizione che i successori di Mao sono decisi ad impedire, ancora una volta a qualsiasi prezzo.
il Fatto 16.4.14
Cina. La finanza ombra che droga la crescita
di Fabio Scacciavillani
A QUASI sette anni dal fallimento di Bear Stearns, la Sarajevo della Grande Recessione, mentre l’economia globale arranca su un impervio sentiero di normalizzazione, la coltre di silenzi ufficiali non riesce a ovattare sussurri e grida dai grattacieli di Shanghai e dai corridoi di Pechino su un “sistema bancario ombra”, composto da trust companies (fiduciarie) opache, senza controlli e mal gestite. Dato che i depositi bancari offrono tassi irrisori perché compressi dalla Banca del Popolo, queste fiduciarie attirano i risparmiatori promettendo rendimenti allettanti in tempi di inflazione pronunciata che maciulla il capitale. I fondi, raccolti fin nelle province remote, spesso finanziano palazzinari in bolletta, aziende pubbliche alla canna del gas (le miniere di carbone) e direttamente o indirettamente autorità locali disinvolte. Sul fenomeno governo e Banca centrale avevano sostituito saracinesche alle palpebre, illudendosi che la crescita impetuosa, a cui le fiduciarie fornivano propellente, avrebbe mondato le conseguenze nefaste. Ma gli steroidi macroeconomici da investimenti sballati (pubblici o privati) si sciolgono sempre in una valle di lacrime e la Cina del laissez-faire comunista non fa eccezione. Persino il Fmi (di solito tenero con la Cina) ha avvertito che gli attivi marcescenti vanno rimossi e le catene di Sant’Antonio spezzate. Le autorità da qualche mese hanno intrapreso l’ingrato compito. Che però confligge con un vincolo psico-politico pavloviano. Appena la crescita del Pil si sgonfia verso il per cento (cifra ufficiale, quella reale sarebbe sotto il 5) ai ministri cinesi appare lo spettro delle rivolte. Quindi parte un’altra ondata di credito allegro che genera altri prestiti dubbi, altri immobili vuoti, altra capacità industriale obsoleta, altre infrastrutture costose. A fine 2013 si stimava a 1800 miliardi di dollari il totale degli attivi delle trust companies. Per quanto la cifra sia astronomica, la Cina ha riserve valutarie per 4 mila miliardi di dollari e potrebbe in teoria affrontare una crisi di questa portata. Ma il grosso di queste riserve sono detenute in titoli del debito pubblico Usa. Se da Pechino a New York può deflagrare il battito d’ali di una farfalla, figuriamoci una batosta di questa portata.
Il Sole 16.4.14
Preziosi. Il Wgc prevede una tregua nella domanda di Pechino
Oro a fronte di crediti Così sono esplose le importazioni cinesi
In 3 anni mille tonnellate come collaterale
di Sissi Bellomo
Negli ultimi tre anni mille tonnellate di oro potrebbero aver varcato i confini cinesi solo per diventare collaterale a garanzia di crediti. Ad affermarlo è il World Gold Council (Wgc), la fonte per eccellenza quando si parla di mercati auriferi, che a sua volta ha incaricato Precious Metals Insights di stimare le dimensioni del fenomeno. Sono soprattutto queste in realtà a sorprendere. Ilcommodity financing è infatti sempre più diffuso in Cina e ben noto agli addetti ai lavori, che lo additano come uno dei maggiori fattori di rischio per i mercati delle materie prime (e non solo). In sintesi, la pratica consiste nel finanziarsi a breve con lettere di credito legate all'importazione di commodities, per poi impegnarle in cambio di altri fondi, che talvolta servono a sostenere le imprese, soffocate dalla stretta creditizia, ma in altri casi finiscono nel sottobosco dello shadow banking, per attività speculative più o meno spericolate.
Iniziato con il rame, il commodity financing si è esteso in seguito ad altri metalli industriali, al minerale di ferro e persino a prodotti agricoli deperibili, come i semi di soia. Il valore di questi crediti secondo Goldman Sachs ha raggiunto 160 miliardi di dollari, pari al 31% dei finanziamenti a breve in valuta estera, mentre per Jp Morgano lo shadow banking ha ormai un giro di affari di 1.700 miliardi di $, ossia l'84% del Pil cinese.
Sarebbe stato quasi incredibile se in questo sistema finanziario parallelo non ci fosse stato un ruolo rilevante anche per l'oro, che non solo è reputato un'eccellente riserva di valore, ma è anche facilmente conservabile (problemi di sicurezza a parte) e facilmente rivendibile. È proprio questo che il Wgc ipotizza che accada a gran parte dei lingotti importati a scopo finanziamento: una volta strutturato l'accordo, vengono subito riesportati, spesso sotto forma di «gioielleria molto grezza» per meglio aggirare i controlli alla frontiera.
Il Wgc collega direttamente il gold financing all'enorme crescita dell'import di oro evidenziata dal 2011 in avanti dall'ufficio doganale di Hong Kong: cifre che hanno portato molti analisti a interrogarsi su perché Pechino acquisti – e produca – molto più oro di quanto consumi. L'ipotesi che una parte dei lingotti sia andata ad accrescere in segreto le riserve auree della banca centrale non viene scartata del tutto. «Mentre c'è qualche incertezza sul fatto che ci siano stati acquisti del settore ufficiale – osserva però il Wgc – questi dubbi non esistono per l'impiego di oro su larga scala in operazioni puramente finanziarie».
Mille tonnellate di oro sembrano poche rispetto ai volumi di altre materie prime usate come collaterale in Cina: un milione di tonnellate di rame, stima Goldman, e addirittura 30 milioni di tonnellate di minerale di ferro. Il valore di queste ultime tuttavia è di appena 3,2 miliardi di $. Per il rame si arriva al doppio, mentre l'oro del commodity financing vale oltre 40 miliardi. Senza contare che 1.000 tonnellate sono l'equivalente di un anno di consumi cinesi: se rilasciate sul mercato, magari per effetto di controlli più rigidi sull'emissione di lettere di credito e sullo shadow banking (una tendenza già in atto), potrebbero avere un forte effetto ribassista sulle quotazioni dell'oro. Gli effetti non dovrebbero comunque essere devastanti per il sistema: «In genere – sottolinea il Wgc – i debitori si coprono dal rischio (di variazioni di prezzo) facendo hedging e in questo modo non c'è un impatto netto sul mercato fisico». Lo stesso vale per il rame, ma non per il minerale di ferro, che ha un mercato dei futures molto poco sviluppato.
Il Wgc prevede anche che la domanda cinese di oro quest'anno si stabilizzerà sui livelli del 2013 (1.066 tonn), per poi riprendersi e arrivare a 1.350 tonn. nel 2017. Molto dovrà arrivare dall'estero: la produzione mineraria locale, secondo gli esperti del Council, non riuscirà a restare a lungo sopra 400 tonn. l'anno.
La Stampa 16.4.14
Reportage
“I fascisti di Kiev non ci batteranno”
Fra gli insorti filorussi attaccati dai blindati ucraini: “Meglio morti che europei”
di Michela A. G. Iaccarino
qui
La Stampa 16.4.14
India, la rivincita degli “eunuchi”
La casta perduta diventa terzo sesso
La Corte suprema riconosce i diritti civili dei trans. Ma l’omosessualità resta reato
di Maria Grazia Coggiola
Ancora una volta l’India, il Paese del Mahatma Gandhi e del Kamasutra, stupisce tutti con una sentenza storica della Corte Suprema che riconosce il «terzo sesso», ovvero coloro che non si sentono né uomini e né donne.
Gli indiani li chiamano «hijra», che non è un proprio un complimento perché significa impotente. Per gli ex colonizzatori inglesi invece erano «eunuchi» e vivevano negli harem dei sultani quando l’India era quella delle «Mille e una Notte». Per i difensori di diritti umani, che oggi hanno vinto un’importante battaglia, sono «transgender», ovvero transessuali, come quelli che con sgargianti abiti da donna e pesante trucco si presentano a ogni festa di matrimonio o qualsiasi altra celebrazione familiare per chiedere un obolo. Spesso si tratta di una vera e propria estorsione, ma accettata di buon grado perché gli «hijra» sono temuti e riveriti nello stesso tempo. Fanno parte della mitologia indiana e nell’affollato olimpo induista c’è perfino una dea «trans» che è diventata la loro patrona. In base alla sentenza di ieri, avranno gli stessi diritti degli altri cittadini e posti riservati nelle scuole e nella pubblica amministrazione come le varie minoranze e caste inferiori che sono tutelate dalle politiche di discriminazione positiva.
Si stima che in India ci siano dai 3 ai 5 milioni di transessuali che vivono di prostituzione, elemosine o con spettacoli di danza. Nonostante recenti conquiste in termini di partecipazione alla politica, soffrono di discriminazioni e spesso di abusi da parte della polizia.
La Corte Suprema, che è il massimo organo giudiziario indiano e vero «guardiano» della Costituzione, ha accolto un ricorso collettivo presentato del 2012 in cui i transessuali chiedevano il rispetto di alcuni diritti fondamentali e la possibilità di essere considerati come «terzo genere» sui documenti legali come il passaporto o la patente. Si riconosce loro l’accesso al sistema sanitario e perfino il diritto ad avere bagni pubblici separati. Poche nazioni al mondo si sono spinte così in avanti, e tra queste ci sono il vicino Bangladesh, Nepal e Pakistan, che ospitano grandi comunità di «hijra». «Il terzo genere non è una questione sociale o di scienza medica, ma è un diritto umano» ha commentato il giudice KS Radhakrishnan aggiungendo che i transessuali «sono cittadini come gli altri e devono avere le stesse opportunità».
La sentenza, giunta in un momento in cui l’India è impegnata nella maratona elettorale per il rinnovo del Parlamento, segna una svolta epocale per gli «hijra» dopo secoli di discriminazione. All’epoca dei «mughal», i sovrani musulmani che per circa mille anni hanno dominato il subcontinente indiano, questa comunità era rispettata e anche potente nei palazzi reali. Sono stati poi gli inglesi, puritani, a metterli al bando con una legge del 1871 che li inseriva tra le comunità «criminali» per il loro modo di vita libertina.
Ma la vittoria è solo a metà perché come sempre l’India si mostra un Paese di enormi contraddizioni. La stessa Corte Suprema, lo scorso dicembre, aveva infatti reintrodotto il vecchio reato di «sesso contro natura» stabilito dall’articolo 377 del Codice penale rovesciando una precedente sentenza del 2009 di un tribunale inferiore. Per omosessuali e transessuali è stato un ritorno al passato di una società ancora molto bigotta. Paradossalmente quindi, dopo la sentenza di ieri, gli «hijra» possono reclamare i loro diritti, ma sono fuori legge per quando riguarda la loro sessualità.
l’Unità 16.4.14
Violenza atomica
Il testo postumo dell’autore diI ndignatevi! sul disastro nucleare, mai tanto attuale
di Stéphane Hessel, Albert Jacquard
È UN DATO DI FATTO CHE L’UMANITÀ POTREBBE PRENDERE l’iniziativa di far sparire se stessa a più o meno breve scadenza, e forse anche nei prossimi giorni.
Questa prospettiva è talmente mostruosa che coloro ai quali i popoli danno il potere sembrano non pensarci mai. Attualmente stiamo vivendo una fase di sproporzione straordinaria tra i problemi che suscitano l’interesse appassionato delle società umane e la posta in gioco che è la fine deliberata della nostra specie. Tutto è pronto per concludere una storia che ha avuto inizio diversi milioni di anni fa facendola finire nell’indifferenza, per delle dispute marginali. Durante le campagne elettorali, la domanda più frequente ai candidati è: «Quale sarà il provvedimento che adotterete per primo quando avrete l’incarico della gestione del paese?».
La risposta dovrebbe essere sistematicamente questa: «Bisogna cominciare con il sopprimere l’arsenale nucleare». Perché, se è certo importante instaurare un buon sistema educativo, o un buon sistema sanitario, ci si deve chiedere: a che cosa questi serviranno se prima di tutto la minaccia di un conflitto nucleare non sarà stata eliminata? La necessità di questa affermazione, di per sé evidente, può essere illustrata con l’atteggiamento di Catone il Vecchio che, ventiquattro secoli fa, a Roma, era ossessionato dai pericoli che l’ostilità di Cartagine faceva correre al suo paese. Si era perciò promesso di terminare tutti i suoi discorsi con le parole: «Carthago delenda est» («Cartagine deve essere distrutta»). Egli sperava che, a forza di ripetere questo suo avvertimento, i suoi concittadini non sarebbero stati colti di sorpresa da un eventuale attacco da parte dell’esercito cartaginese. È fuori di dubbio che oggi Catone cercherebbe di eliminare la causa della sua angoscia con il sopprimere, semmai l’avesse posseduta, l’arma nucleare. Quest’arma infatti ha la particolarità di distruggere l’aggressore e nello stesso tempo l’aggredito.
LA CORSA AGLI ARMAMENTI
Del resto, se essa venisse usata in un conflitto, le nozioni stesse di aggressore e di aggredito perderebbero gran parte della loro pertinenza e lo stesso avverrebbe per tutti i termini che servono usualmente per descrivere le battaglie.
Da millenni l’immaginazione dei militari e degli ingegneri ha prodotto mezzi sempre più efficaci per distruggere il nemico. L’arco, la balestra, il fucile, il cannone, si sono succeduti in una progressione parallela a quella delle scienze. La realizzazione della «bomba» ha posto fine a questa regolarità. Questa nuova «bomba» è stata presentata come una super arma della stessa famiglia di quelle che l’hanno preceduta, semplicemente dotata di una carica esplosiva più potente. Questa presentazione tradisce la realtà. In effetti, non si tratta più, come in passato, di accrescere di un fattore cento o mille le capacità di distruzione. Ora si tratta invece di ripensare in profondità la definizione dei conflitti, tenendo conto dei nuovi rapporti che si sono creati tra gli esseri umani. È qui in gioco l’insieme delle relazioni che intercorrono tra di noi.
Al di là del problema nucleare occorre che noi riflettiamo sulla nostra comprensione della vita sulla terra. La natura, noi lo sappiamo meglio grazie a Darwin, produce esseri tutti diversi fra di loro. Queste differenze implicano che certuni hanno più probabilità di altri di sopravvivere e risultano vincitori nella battaglia che si conclude con l’eliminazione degli uni e la supremazia degli altri.
Questo processo viene oggi comunemente considerato come una necessità. In realtà queste differenze possono essere non un fattore di eliminazione ma un mezzo per creare nuove possibilità. Sì, la natura produce grandi differenze fra gli esseri viventi, ma ciò non implica necessariamente che vi sia lotta fra di loro, anzi le differenze possono generare successi collettivi. Allora non si constata più la necessità della competizione, bensì quella dell’emulazione. Viene sovente evocato il «codice nucleare» che permetterebbe di provocare il suicidio dell’Umanità. Questo codice alcuni paesi lo possiedono, ma, che la decisione di usarlo sia presa a Washington oppure al Cremlino, a Gerusalemme oppure a Teheran, all’Eliseo oppure a Pechino, resteranno solo le rovine dell’«Umanità evoluta» se ce ne serviremo in un qualsivoglia conflitto.
Gli esseri umani che sono informati, come lo siamo noi, della possibilità di questa catastrofe annunciata, non possono sottrarsi a questa responsabilità, né noi, né voi, né nessuno. Siamo stati preavvertiti: come avremmo reagito? La parola conclusiva potrebbe essere tratta dall’opera teatrale Les mains sales («Le mani sporche») di Jean-Paul Sartre. Alla fine, l’eroe viene ucciso per una sordida storia di gelosia. Lui, che era pronto a dare la propria vita per difendere una grande causa, muore dicendo «C’est trop con!» («È troppo stupido!»).
Repubblica 16.4.14
Il mito islamico le colloca tra Siberia, Medio Oriente e Africa
Sette torri del diavolo per sfidare il cielo
di Pietrangelo Buttafuoco
L’oscurità non è poi così in ombra se le palme della spiaggia di Lattakia, e perfino gli ombrelloni dei lidi, osservati dalla fortezza di Yabroud, in Siria, prendono vita. È il buio della luce. In pieno giorno. Ogni tronco, ogni palo, è un soldato di Abu Sakkar, comandante dei “Khatiba Farouq”, ovvero i “mangiatori di fegato”. Ogni foglia diventa una lama. Ogni pertica si trasforma in un lanciarazzi e ogni torre in una sfida al cielo.
Un incubo remoto, quell’esercito. Sciama fin dentro i cortili del castello che fu conteso dal Saladino ai Crociati, ne fa avamposto e ammazzatoio. Tutto è fumo e sangue. Le stazioni satellitari macinano la scena tra le news. Vladimir Putin, disgustato, diffonde un video: un uomo di Abu Sakkar, un “ribelle”, squarta un militare siriano e ne addenta il cuore e le viscere. Come un cannibale. Al castello, dicono a Damasco e a Homs, postando sui social foto e filmati, accade qualcosa di peggio: «La Mezzaluna è stata coricata sul fango, a simboleggiare le corna di Shaitan, il Diavolo». E le torri non fanno più muro ai venti improvvisi, ma oltraggio al cielo. Bestie “al servizio della Bestia”, quei mangiatori di fegato. Gli ufficiali di Assad discutono con gli agenti russi, perlopiù nati negli ultimi giorni dello Stato Sovietico. Soldati di un’epoca inedita, quella del post-materialismo, si compiacciono di una notizia: l’esercito regolare di Siria, il 22 marzo scorso, ha riconquistato il Castello dei Crociati. Il possesso delle mura è stato preso aggirando i bastioni. Quelli che ai loro occhi sono orde di Gog e Magog vengono ricacciati negli inferi. Ogni torre è stata restituita. Alla luce. Al cielo, dunque. «A disposizione della notte e del giorno; del sole e della luna» recitano gli imam nel sermone del venerdì, a Damasco. Per concludere: «in ciò vi sono segni per quelli che comprendono ». È la Sura delle Api, (XVI, verso 12 del Corano). E le torri sono Le Sette Torri del Diavolo, capitolo tra i più sorprendenti dell’esoterismo islamico di cui, attualmente, si ha una letteratura frammentaria ma con un sentimento diffuso presso l’intero continente euro-asiatico e radicato nell’angoscia del male considerato inevitabile nell’esito terreno. Il mito – antecedente alla religione di Muhammad, sconfinante nell’induismo e nella paganitas greco-romana – riconduce ad Alessandro Magno. Le Torri sono i luoghi simbolici il cui tracciato di segni – speculare alle costellazioni delle Orse, la Maggiore e la Minore, però capovolta nella mappa celeste – ripercorre sul globo un combattimento antico presente nelle cronache degli attuali sommovimenti geopolitici. È un percorso che dall’abbacinante nitore della Siberia, transitando nell’area centroasiatica – quindi nella Mesopotamia, poi in Siria, in Egitto – arriva fino al nereggiare del Sudan e in Nigeria. È un tragitto in cui, oltre al contrasto alchemico cromatico è facile riconoscere il racconto dei conflitti internazionali e dell’istante storico «che inghiotte il mondo», per dirla con Pascal Bruckner ne Il Fanatismo dell’Apocalisse ( Guanda).
Segni. Per coloro che comprendono. Il 30 giugno del 1908, una cometa si abbatte su Tunguska, in Siberia. Il cielo si spacca in due, si leva un gran fuoco, quindi un boato fa richiudere le nubi lasciando a terra, polverizzati, milioni di alberi. I convogli della Transiberiana – quasi a mille chilometri di distanza – deragliano. E quel mattino, nella città di Kamen sull’Ob (un altro dei luoghi delle Torri indicati dalla tradizione), uno sciamano recante in mano “braci di ombre strappate alla cometa” bussa alla porta del convento di San Michele. Un laboratorio a cielo aperto per l’Urss prima, per la Russia oggi.
L’ombra balugina di brace funesta. La Carta di Hereford, la Mappa mundi medievale, fino all’atlante di Umberto Eco, la Storia delle terre e dei luoghi leggendari , testimoniano quanto l’immaginario occidentale abbia flirtato con questa mappa se il film per eccellenza, con Satana protagonista, L’esorcista , comincia proprio a Ninive, in Iraq, dove viene rinvenuta una statuetta di Pazuzu, il demone dei venti improvvisi. L’ombra ha un’ombra oltre il buio. Nella tradizione islamica fa testo ciò che scrisse René Guénon, recensendo Aventures en Arabie, un libro di William Seabrok. «Malgrado ciò che ha visto», scrive, «Seabrok si rifiuta di crederci». L’esploratore americano, reporter del New York Times e dedito al cannibalismo, riferisce di una torre presso gli Yezidi, gli awliya esh-Shaitan, i santi di Satana individuati dal filosofo francese leggendo, appunto, il libro dell’americano pubblicato nel 1934 da Gallimard. «Costoro, attraverso la costituzione di questi sette centri» – si può leggere in Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, Adelphi – «pretendono di opporsi all’influenza dei sette Aqtab o Poli terrestri subordinati al Polo supremo».
In un altro libro, Il regno della Quantità e il segno dei Tempi , Adelphi, Guénon scrive: «In una regione del Monte Nuba, in Sudan, si ha un’organizzazione segreta alla quale si dà nome Società del Leopardo dove certe forme di licantropia giocano un ruolo predominante ». Quella della Società è una setta politica le cui cronache generarono ampia narrazione nei giornali europei. Assassini spietati la cui caratteristica era far trovare le carcasse delle proprie vittime dilaniate da protesi taglienti applicate alle dita. Ancora una volta, un segno: il cannibalismo. Segni, tutti, dal catalogo degli orrori. Sciamani alle prese con mammut ibernati nei ghiacci, nomadi che si accompagnano ai vampiri, banditi della tundra dediti alla licantropia, e poi, senza però cedere alla criminalizzazione – anzi, celebrati come adepti di una tra le più suggestive religioni – gli Yazidi, donne e uomini grati a Lucifero. Il loro segno è Melek Taus, il pavone, un angelo le cui lacrime di pentimento spengono il fuoco dell’inferno. La loro religione è il segreto. Nei pressi di Mossul, in Iraq, nella valle di Lalis, si radunano intorno alla tomba dello sceicco Adi Ibn Mustafa e i tetti conici degli edifici sembrano ribaltare l’allegoria dell’imbuto che inghiotte l’angelo caduto, il «torreggiare dei giganti» cui diede voce Dante nella Commedia.
Torri, dunque, contro i Sette cerchi che reggono i cieli. Sono i centri di proiezione satanica contrapposti ai fortilizi dei santi di Dio, i sette pilastri della sapienza che si trovano a corrispondere a sette giacimenti del Maligno, la cui energia è sempre “infera” e la cui fuoruscita è sempre accompagnata dal tanfo, dal nereggiare del petrolio: il liquame di putrefazione delle viscere della terra, perché il male, infine, pur contenuto da una Muraglia che fa argine alle orde e, al contempo, reintegra l’ordine contro ogni degradazione dell’umano, è ineliminabile.
Repubblica 6.4.14
In un libro l’avventurosa storia di Luigi Polano che disturbava i bollettini di guerra del regime
Quella voce che alla radio sbeffeggiava il fascismo
di Filippo Ceccarelli
COME s’intuisce dallo slogan «Dio stramaledica gli inglesi», la propaganda bellica che il commentatore Mario Appelius diffondeva ogni sera dalla radio del regime fascista era più che ridondante. Per cui al netto del dramma, anzi della tragedia, ciò che accadde il 6 ottobre 1941 dovette risuonare come un imprevisto eccezionale, ma anche come uno spasso.
Perché nell’attimo in cui Appelius prendeva fiato, si udì distintamente: «Italiani, qui parla la voce della verità!». E a ogni pausa dell’arringa: «Non è vero! - diceva la voce - Tu inganni il popolo italiano!», come pure: «Basta con la guerra fascista!», e così via. Lo scherzo, che poi non era tale, ma un esperimento tecnologico di assai efficace contro-informazione, andò avanti da allora fino alla liberazione di Roma (giugno 1944).
Nel frattempo Mussolini s’imbestialiva perché le sue polizie non riuscivano a capire come diavolo fosse possibile, chi stava orchestrando lo scherzetto e soprattutto da dove provenivano quelle onde così lontane e così vicine.
Per giunta, tra un’interferenza e l’altra, il disturbatore antifascista era anche lesto a scendere sul piano personale: «bugiardo!», accusava, come pure «asino!», «venduto!», «criminale!»; e insomma, se si considera che quel programma era la fonte principale per capire come stesse andando la guerra, e che l’ascolto di «Radio Londra» comportava addirittura l’arresto, tutto lascia pensare che a forza di sorprese e interruzioni per una moltitudine di italiani quel rito di consenso coatto fosse anche divenuto, o comunque fosse vissuto come un grande spettacolo.
Così, per depotenziarlo, si mise all’opera una finta voce, addomesticata, cui si poteva ribattere con facilità. Ma l’artificio non funzionò, mentre la vera voce seguitava ad annunciare e preannunciare catastrofi chiamando la popolazione alla rivolta. A un certo punto Appelius prese a rivolgersi a quella misteriosa entità con una maldestra espressione, «lo spettro», che sulla base di quanto di terribile andava accadendo proprio allora sui vari fronti, senza nemmeno rendersene conto in qualche modo restituiva la parola alle migliaia di soldati italiani mandati a morire ammazzati nel fango dei Balcani, nel deserto di Libia o nel gelo della steppa sovietica.
Ecco. A oltre 70 anni di distanza un libro, La voce della verità (Nutrimenti, pagg. 230, euro 16), ricostruisce in forma romanzata, ma documentatissima, la storia dell’uomo che su segretissimo mandato di Palmiro Togliatti, allora uno dei tre segretari del Komintern, svolse questa missione itinerante, tra la Serbia e il Montenegro in fiamme, caricandosi una stazione radio e con l’ausilio di due tecnici sovietici, tra mille avventure, compresa quella di procacciarsi le notizie per meglio controbattere le retoriche panzane e le fasulle vittorie dei bollettini bellici del fascismo.
L’autore di questo libro per alcuni versi appassionante, per altri sorprendente, è un giornalista sardo, Vindice Lecis; come sardo, pure di Sassari, era il formidabile personaggio, Luigi Polano, indicato nel sottotitolo come «il comunista che beffò Mussolini ». Già alla guida dei giovani socialisti, conobbe Lenin e partecipò in primo piano alla scissione di Livorno, fu al vertice del Pcd’I insieme con Bordiga e Gramsci, cinque volte arrestato in Italia, poi spedito in Russia dove in veste di sindacalista dei marittimi aveva occasione di entrare e restare in contatto con gli italiani. In realtà, più che di un politico come lo si può immaginare al giorno d’oggi, quella di Polano è la vita di un autentico professionista della cospirazione e un girovago della rivoluzione, dal Baltico al Mar Nero, dalla Parigi infida dell’emigrazione alla Spagna della Guerra civile, fino ai corridoi puzzolenti di cipolla dell’hotel Lux. Un comunista plurischedato che Lecis racconta anche attraverso le carte di polizia e gli stizziti commenti del suo antagonista quasi personale, l’ispettore (anche lui sardo?) Porfirio Piredda.
Taciturno poliglotta, mago dei passaporti falsi e dotato di mille identità, a tal punto Polano si consegnò all’ideale da alimentare il mito della propria astuzia e inafferrabilità ben oltre i confini del partito italiano e degli altri che come lui avevano fatto base nell’Urss, Robotti, Berti, Grieco, Roasio. Uomo d’aspetto apparentemente anonimo, di sobria eleganza, con l’hobby di suonare il violino, eppure capace come pochi di dare la caccia alle spie fasciste, ma anche così spietato nella lotta alle «deviazioni» da guadagnarsi la nomea, invero più che plausibile, di agente della terribile Ghepeù.
Come accadeva in quel clima plumbeo e oppressivo fino alla paranoia, ebbe comunque anche lui i suoi problemi, per così dire, di linea e un certo numero di sospetti che lo inseguivano riacutizzandosi di tanto in tanto. Per certi versi, lascia capire l’indagine di Lecis, la missione che Togliatti in persona affidò a Polano in un luogo destinato alla massima segretezza contribuì a tenerlo lontano dalle purghe moscovite.
Ritornato a Sassari dopo la Liberazione carico di onorificenze sovietiche, insieme con moglie, pure decorata, e figlio di nome Prometeo, Polano si adattò benissimo al tran tran della democrazia nel dopoguerra. Fu brevemente a capo del Pci in Sardegna, consigliere comunale, deputato, quindi senatore, pochi seppero delle sue imprese pazzesche in giro per il mondo e del sabotaggio radiofonico che lo aveva trasformato nientemeno che in un fantasma.
Quando nel 1982, di passaggio nella sua Sassari, Enrico Berlinguer e alcuni compagni andarono a trovarlo ormai 85enne, gli fu chiesto se la presenza del segretario poteva scioglierlo dal voto del silenzio sui dettagli e sul luogo da cui trasmetteva la voce. Ma Polano, con la calma di chi aveva subito ben altri interrogatori, rispose: «Ho promesso di non rivelarlo mai a nessuno». E restò in silenzio - virtù, ai suoi tempi, ben lungi dall’essere insidiata dal cicaleccio dei talk-show.
l’Unità 16.4.14
Gli «scritti» di Guttuso, critico d’arte
Così scrisse di Pollock
PER INTENDERE IL SIGNIFICATO DELLA PITTURA DI J. POLLOCK non basta riconoscere in lui un artista vero «per ogni vena»; ma è necessario soprattutto prendere coscienza critica dello svolgersi di un’esperienza unica, ma certo assai rara, nella pittura di questi ultimi vent’anni.
La sua è, infatti, una pittura difficile ove non ci si contenti di tesserne un generico elogio fatto di cattiva letteratura e di peggiore filosofia, ma si cerchi di leggerla per quel che è e dice, cercando di studiarne le fasi, i passaggi e le ragioni morali e culturali che vi sono dietro. (...)
Pollock condensa nella sua breve esperienza uno dei drammi di fondo dell’artista contemporaneo: il contrasto lacerante tra la pressione della realtà e la pressione della «situazione culturale», tra la «vocazione» e la necessità di trovare nuove forme d’urto. Su tutto quello che avviene in Pollock e nella sua pittura dal ’51 in poi, la critica non s’impegna. Preferisce mettere quegli anni sul conto dell’alcool, sfoderando tutta ls cattiva retorica sulla disperazione dell’uomo moderno ecc. (...)
Il ritorno ai pennelli nelle poche opere degli ultimi tre anni è definitivo. Definitivo l’abbandono del «dripping». Pollock torna alla tela verticale. Torna soprattutto a ripescare dal fondo del suo «caos» brandelli di realtà, di figura umana. C’è in tutto ciò una ragione morale, la pressione di un’esigenza nuova, una revisione dei propri risultati, una meditazione autocritica? I critici non se ne occupano.
Le opere degli ultimi anni portano un elemento di giudizio nuovo, danno l’idea del movimento di una vocazione, del verso in cui esso si svolgeva, e illuminano in modo nuovo tutta l’opera precedente.
Proprio in questo «movimento» Pollock si differenzia da altri artisti della sua generazione.
A un certo punto, all’apice dei suoi risultati di pittore, il problema gli si presenta chiaro e terribile: estrarre dal groviglio, dalla matassa incandescente, dal caos, qualche determinazione a cui attenersi, un dato, un elemento concreto su cui fare perno.
l’Unità 16.4.14
Quella del Sud fu annessione con lacrime e rigore
di Bruno Gravagnuolo
IL MEZZOGIORNO FU VITTIMA DI COLONIZZAZIONE LIBERALE. E OCCORRE COMINCIARE DAI FATTI PRIMA DELLE TERAPIE. Lo spunto è il dibattito del «Corriere del Mezzogiorno» di Antonio Polito, e dell’Università Federico II di Napoli (sabato 12 aprile) con Nicola Rossi, Paolo Macry, Franco Cassano, Biagio de Giovanni. E Giuseppe Galasso. Che offre un dato.
L’analfabetismo nel 1861 era al sud dell’86,3% e al nord del 67%. Nel 1911 è del 59,4 % al sud e del 22,4% al nord, isole escluse. Con l’unità in 50 anni la piaga decresce di 20 punti al sud, ma di ben 37% al nord. E da un divario relativo di circa 20 punti si passa a 37. Il sud andò avanti ma la distanza aumentò. E quanto fu pagato quel progresso? Intanto prima dell’unità il Pnl del Centro-Nord era pari a quello delle Due Sicilie, ma poi venne la Questione meridionale. Certo, strade, scuole, leggi nuove. Ma i germi di industrializzazione furono spenti. La condizione dei contadini peggiorò. Le classi possidenti imboccarono la strada di mafia e parassitismo. Si creò un fiume migratorio e morì sul nascere ogni borghesia moderna. Sicché, stato impositore di tasse anche sui terreni non coltivabili. Leva forzata, spopolamento di campagne. Repressione di massa del brigantaggio fino alla guerra civile. Conversione forzata della vecchia moneta nella lira, con distruzione di ogni competitività. E per territori la cui agricoltura non fruiva di tutte le rotazioni agrarie del nord (per il clima).
L’unità non andava fatta? Certo che sì! I Borbone erano inerti e arretrati. Ma come diceva Franco della Peruta, grande storico del Risorgimento, «Di qui vittimismo, e poi assistenzialismo».
Una vicenda che ricorda l’annessione della Germania Est e le politiche rigoriste di oggi. Ma questo è un altro discorso. Tutto da (ri)fare.
Repubblica 16.4.14
Emergenza clima
L’imperativo di Jonas per salvare il pianeta
di Barbara Spinelli
NON si parla più di clima né di quel che accadrà della terra, da quando la crisi è entrata nelle nostre vite stravolgendole con politiche recessive, disuguaglianze indegne, e una disoccupazione che assieme alla speranza spegne l’idea stessa di futuro. La terra lesionata era il grande tema all’inizio del secolo, e d’un colpo è stata estromessa dal palcoscenico: non più male da sventare, ma incubo impalpabile. Diritto troppo immateriale e nuovo, accampato dal pianeta.
Esiste invece, l’infermità della terra che l’uomo ha causato e sta accentuando: anche se è caduta fuori dal discorso pubblico, anche se è divenuta invisibile come certi malati incurabili che non vogliamo guardare da vicino, e per questo releghiamo in ospizi lontani. È come se, paradossalmente, la crisi ci avesse liberati dell’ineffabile paura che avevamo negli anni Novanta - la morte del pianeta - mettendo al suo posto tante altre paure: non meno angosciose, ma più immediate e senza rapporto con quella trepidazione non più così concreta, traslocata nelle periferie dei nostri pensieri e inquietudini.
Il ritorno alla realtà, sotto forma di ennesimo allarme dell’Onu, è avvenuto domenica, con la pubblicazione del terzo rapporto della Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico (Ipcc). Seicento scienziati di 120 paesi hanno emesso il loro verdetto: possiamo ancora cambiare la storia, ma il tempo a disposizione si accorcia fatalmente.
SEMBRA di vivere le ultime scene del film di Lars von Trier, quando sulla terra sta per schiantarsi il pianeta chiamato Melancholia: è la depressione a darci questa strana, calma indifferenza. Per nostra incuria, e cecità, la terra continua a surriscaldarsi, e sempre più arduo sarà rispettare l’obiettivo fissato: evitare che l’aumento della temperatura superi i 2 gradi centigradi. Soglia fatidica, oltre la quale il globo è messo mortalmente in pericolo dalle emissioni di anidride carbonica e gas serra. Conosciamo quel che può seguire: scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei livelli marini e cancellazione di intere regioni, cibo insufficiente per l’umanità, scomparsa di foreste, estinzione massiccia di piante e specie animali.
La crisi economica ha svegliato in questi anni molte coscienze, prima dormienti: sulla debolezza politica dell’Europa, su terapie di austerità rivelatesi devastanti per tanti cittadini e anche per le democrazie. Non così per quanto riguarda la prevenzione del disastro climatico, rinviata a chissà quali giorni migliori. Recessione, disoccupazione: oggi sono le nostre preoccupazioni prioritarie, ma purtroppo uniche. I cervelli si stanno abituando a lavorare a metà, quasi in preda all’emiplegia. La terra può attendere, anche se Melancholia s’avvicina.
Un eminente manager pubblico, l’ex amministratore delegato dell’Eni Scaroni, è giunto sino a chiedersi pubblicamente, nel luglio scorso: «Abbiamo investito in modo dissennato nelle energie rinnovabili. Eravamo ubriachi?» E il nuovo ministro dello sviluppo, Federica Guidi, ha illustrato alla Commissione Industria qual era il suo «feeling»: quel che occorre è «la massima attenzione alla crescita sostenibile», e al tempo stesso la «rimozione degli ostacoli burocratici che impediscono sia lo sviluppo della nostra capacità di rigassificazione per beneficiare della rivoluzione del gas da argille (shale gas), sia gli investimenti privati nella ricerca e produzione di idrocarburi». Il feeling è parecchio contraddittorio: le perforazioni necessarie per estrarre shale gas mal si coniugano con l’economia verde, comportando spropositati dispendi di acqua, inquinamento delle falde e, secondo alcuni, possibili terremoti.
Resta la verità attestata dai 600 scienziati. Siamo ancora rovinosamente dipendestra denti da combustibili fossili. Petrolio, carbone, gas hanno contribuito per il 78% all’incremento totale di emissioni dal 1970 a 2010, e peseranno ancor più se nulla cambia. Se i paesi produttori di petrolio e gas resisteranno alle misure suggerite dall’Ipcc, se i governi non introdurranno forti tasse sull’emissione di diossido di carbonio (carbon tax), e se insisteranno nel sovvenzionare i combustibili fossili invece di investire in energie rinnovabili, riforestazione, edilizia a bassi consumi di carburanti. La Germania ad esempio emette più anidride carbonica, nonostante la svolta energetica, perché la dipendenza dal carbone si è gonfiata. Dicono che mancano i soldi, ma gli esborsi sono pochi rispetto alle spese ineluttabili quando la catastrofe sarà alle porte. Il passaggio a un’economia basata su combustibili l owcarbon costerebbe oggi 1-2 punti di ricchezza nazionale. Nel 2020 salirebbe a 4-5 punti. Diverrebbe proibitiva dopo il 2030. Dicono anche che la crescita si blocca, se fin d’ora proteggiamo la terra. È menzogna: lo sviluppo si rallenterebbe solo dello 0,06%, assicurano gli scienziati. Risale al 1979 il libro che il filosofo Hans Jonas scrisse sul Principio responsabilità , e sulla paura per la sorte terrestre: un testo avveniristico, all’epoca. È quella paura che va riesumata, senza posporla ai timori che incutono disoccupazione e crescita lenta. Non ci è dato di affrontare prima la recessione, e dopo il clima. La vera dissennatezza è non contare fino a due, non assolvere insieme i due compiti. La paura di veder perire il pianeta, e chi lo abita, è per Jonas costitutiva della responsabilità: «Non intendiamo la paura che dissuade dall’azione (lo sgomento, la paralisi, ndr) ma la paura fondata , che esorta a compierla». È una forma di amore del prossimo. O meglio, direbbe Nietzsche, di «amore del più lontano»: è trepidazione per i viventi che verranno, scudo contro la distruzione che li minaccia. Alla domanda su cosa capiterà al prossimo-lontano, se non ci prendiamo cura di lui, la replica è chiara: «Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità. Quanto più lontano nel futuro, quanto più distante dalle proprie gioie e i propri dolori, quanto meno familiare è nel suo manifestarsi ciò che va temuto, tanto più la chiarezza dell’immaginazione e la sensibilità emotiva vanno mobilitate a quello scopo». Jonas ha addirittura riformulato l’imperativo categorico di Kant. Il dovere etico-politico ordina tuttora di «agire in modo che la tua volontà possa sempre valere come principio di legislazione universale», ma si estende così: «Agisci in modo che gli effetti del tuo agire siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra».
Inutile a questo punto puntellare industrie (tra cui l’automobile) che emettono veleni. La riconversione deve essere radicale, e nell’immediato comporterà sacrifici. Inizialmente ostili, Usa e Cina cominciano a capirlo. Il caso Ilva è esemplare: sacrificare la vita in cambio di posti di lavoro è alternativa funesta. La crisi economica ci insegna questo: può secernere il male o il bene. Fa riscoprire diritti irrinunciabili (il benessere, il lavoro) ma può condannare all’oblio il diritto del nuovo soggetto che è la terra.
Mancano disgraziatamente le istituzioni, che tutelino ambedue i diritti. Onu e Ipcc sono organi intergovernativi, e somigliano alla Società delle Nazioni: del tutto inefficace, fra le due guerre, perché ogni Stato aveva la sua inviolabile sovranità. L’Europa fa più progressi sul clima, perché in parte già è sovranazionale. Il mondo in cui viviamo non è all’altezza dell’imperativo di Jonas. A fronte di lobby ormai transnazionali (le industrie petrolifere, ma anche il commercio d’armi, le mafie) non si erge un potere politico egualmente transnazionale, che le argini. L’ordine globale è ancora quello westphaliano escogitato nel 1648, che mise fine alle guerre di religione ma suscitò i mostri dei nazionalismi. Gli stessi mostri pronti a vanificare i moniti dell’Onu e dei suoi scienziati.
il Fatto 16.4.14
Cultura e politica
Il Paese dei teatri in bancarotta
Delle 14 Fondazioni liriche italiane ben otto hanno chiesto di aderire al sostegno della legge Valore cultura, ma le misure ritardano
di Pirro Donati
Delle 14 Fondazioni liriche – i grandi teatri lirici italiani tra cui la Scala, il Maggio musicale, il San Carlo, il Regio di Torino – ben otto hanno chiesto di aderire al sostegno economico straordinario previsto dalla legge Valore cultura (L. 112/2013), ma le misure stentano a partire. Sono, per dirla tutta, teatri alla bancarotta. Le Fondazioni liriche hanno accumulato oltre 300 milioni di euro di debiti, anche se ci sono delle eccezioni virtuose, basti pensare al Regio di Torino. Per di più a queste cospicue perdite non sono corrisposti risultati di alto profilo culturale: l’esempio di scuola è l’Opera di Roma che, con qualche eccezione – come le presenze di Riccardo Muti –, presenta una programmazione provinciale oltre a un deficit pazzesco.
I pesanti passivi che si accumulavano sono stati giustificati con il taglio ai finanziamenti dello Stato (Fus) operati dai governi di centrodestra e tecnici, nonché con lo strapotere dei sindacati . Prendersela con questi ultimi, certo non esenti da colpe, e con i presunti privilegi delle orchestre è però fuorviante. Semmai ha pesato il taglio del Fus, che però è stato anche cinicamente usato come scusa per nascondere le vere responsabilità: un’invasione da parte di una politica di modesto profilo, incapace di nominare dirigenze all’altezza, ma sempre pronta a immettere clientele, inutile personale spesso scarsamente qualificato ma piazzato in ruoli dirigenziali.
Un andazzo di cui sono quindi responsabili le amministrazioni locali – finora è il sindaco a scegliere il sovrintendente del teatro della sua città – sia di centrodestra che di centrosinistra, spesso coperte dal governo e dal ministero per i Beni e le Attività culturali.
PER RIMEDIARE a un’impasse tanto grave e imbarazzante, Massimo Bray come ministro per i Beni e le Attività culturali, ha inserito nella legge Valore cultura, una severa normativa per le Fondazioni liriche, ma soprattutto un fondo a rotazione di 100 milioni di euro con interessi bassissimi, di cui 75 milioni per rinegoziare i mutui con le banche e 25 milioni per le emergenze di liquidità.
Promulgato l’agosto scorso come decreto dunque con motivazioni di emergenza, Valore cultura è stato convertito in legge il 7 ottobre: da allora però l’emergenza è sbiadita in sonnolenza, ben poco si è visto, e quel poco è per lo meno singolare. Il 21 novembre la nomina di Pier Francesco Pinelli come commissario per gestire il fondo dei 100 milioni di euro è stata accolta con ironico scetticismo: un ingegnere idraulico manager alla Erg si trovava a decidere delle sorti della lirica italiana. Degli 8 teatri che hanno chiesto il finanziamento di Valore cultura, solo il Maggio fiorentino e il Lirico di Trieste hanno avuto risposta affermativa ma soldi per ora nisba, come lamentava giorni fa Bianchi, commissario a Firenze .
Gli altri – Carlo Felice di Genova, Comunale di Bologna, Opera di Roma, San Carlo di Napoli, Petruzzelli di Bari, Massimo di Palermo – non hanno avuto risposta e stanno sotto l’albero come Estragone e Vladimiro in Aspettando Godot. E questo malgrado Valore cultura prescriva tempi rapidi e certi, che finora non sembrano essere stati troppo rispettati. Lentezze e ritardi magari si spiegano considerando che, prevedibilmente, un ingegnere idraulico non sia la persona più adatta per valutare i piani di rientro dei grandi teatri lirici italiani. Anche perché la legge Valore cultura era stata pensata per 3 o 4 situazioni vicine alla liquidazione, come il Maggio fiorentino, ma vista l’adesione di ben 8 teatri il fondo potrebbe rivelarsi insufficiente. C’è perfino il sospetto che sia in atto il solito mercanteggiamento per dar soldi solo ad alcuni, i più protetti dal sottobosco della politica (solo l’Opera di Roma ha chiesto 30 milioni di euro).
Per affrontare l’emergenza di liquidità che li strangola, molti teatri insolventi con banche e fornitori, stanno provando a farsi “fare lo sconto”. Il primo è stato il Maggio, che nell’estate scorsa ha rinegoziato i suoi mutui con uno sconto del 40%.
Ora alcuni teatri tentano proposte analoghe a fornitori, agenzie e artisti con cui sono in debito.
A Firenze il teatro era a un passo dalla liquidazione e le banche hanno accettato perché rischiavano di restare con un pugno di mosche in mano, invece chi ha prestato la sua opera spesso investendo di tasca propria difficilmente accetterà. Si arriverà probabilmente in tribunale e il sistema delle attività culturali italiano perderà un altro pezzo della poca credibilità che gli è ancora rimasta.
Repubblica 16.4.14
Così lo stress e il Dna spiegano perché la memoria va in tilt
I segreti del cervello in 9 oggetti smarriti
di Federico Rampini
NEW YORK. PERCHÉ alcuni di noi perdono sempre le chiavi? Altri non ricordano dove hanno lasciato gli occhiali. O il telefonino. Per non parlare del dramma di quei parking multipiano, dove vaghiamo come anime in pena senza ricordare più dove abbiamo lasciato l’auto. Prima risposta: niente panico, questi non sono i segnali precursori dell’Alzheimer. Non sono neppure necessariamente legati all’età. La scienza della memoria ha spiegazioni sorprendenti per questi incidenti. Gli esperti hanno anche elaborato un elenco di consigli pratici, per aiutarci: a non perdere, oppure a ritrovare. La mole di ricerche in questo campo aumenta di giorno in giorno, grazie anche all’ausilio della genetica. The Wall Street Journal ha censito alcuni degli studi più importanti: quello dell’università di Bonn pubblicato su Neuroscience Letters, quelli di Kenneth Norman (Princeton) e Mark McDaniel (Washington University), perfino una ricerca commissionata da una compagnia assicurativa britannica. Sì, gli assicuratori vogliono saperne di più: sia perché a volte gli smarrimenti riguardano oggetti costosi e danno il via a richieste di indennizzi; sia per verificare quel sospetto che dietro le piccole amnesìe quotidiane possano nascondersi le avvisaglie di patologie mentali serie.
A consolarci dalle nostre afflizioni, ecco una statistica: in media ogni essere umano perde (momentaneamente) ben nove oggetti al giorno. Un terzo dei soggetti-cavia intervistati proprio per le ricerche assicurative rivelano di spendere 15 minuti ogni giorno per ritrovare qualcosa: telefonino, chiavi di casa o dell’auto, qualche documento di lavoro e pratica burocratica, sono le tre categorie in testa agli smarrimenti provvisori. Tra le cause sospettate di peggiorare la nostra distrazione, alcune effettivamente sono all’opera: stress, stanchezza, deficit di sonno, e soprattutto il dilagante multi-tasking (facciamo troppe cose alla volta). Ma la spiegazione di fondo ha a che vedere con il funzionamento “normale” del cervello. La maggior parte degli smarrimenti seriali avvengono - spiega lo psicologo Daniel Schachter di Harvard ( I sette peccati della memoria ) - quando non attiviamo la memoria per codificare un gesto banale e ripetitivo che stiamo facendo: posare le chiavi sul comodino, sull’armadio vicino alla porta d’ingresso, o chissà dove. Codificare significa «attivare l’ippocampo che compie l’equivalente di un breve scatto fotografico, e poi immagazzina l’immagine in una serie di neuroni, che in una fase successiva possono essere riattivati facilmente». L’altra causa della smemoratezza è più sottile: quando facciamo un gesto automatico, come depositare gli occhiali, possiamo trovarci in uno stato d’animo molto diverso rispetto al momento in cui li cercheremo. Non solo e non necessariamente per colpa del deprecabile multitasking (posiamo gli occhiali mentre stiamo parlando al telefonino); magari invece quando posiamo gli occhiali abbiamo fame e ci stiamo dirigendo in cucina per aprire il frigo. In quel caso il gesto di depositare gli occhiali è stato associato alla fame. Per ritrovarli, dovremmo ricostruire lo stesso stato d’animo. Alcuni tratti genetici possono renderci particolarmente smemorati, ma sono patologie benigne e diffusissime: ricercatori tedeschi hanno scoperto che il 75% di noi ha una variante del gene dopamina D2 che incide sulla precisione dei ricordi. Niente a che vedere con demenza, Alzheimer o altro, però.
Per passare ai consigli pratici, uno dei maestri in questo campo è il professor Michael Solomon di Baltimora, autore di Come ritrovare gli oggetti smarriti . Ecco i suoi otto consigli. Primo: non precipitarti a cercare subito, meglio evitare una ricerca ansiogena e aspettare che ti venga un’idea. Secondo: cercalo al suo posto, spesso gli oggetti li abbiamo lasciati proprio dove dovevano essere; oppure qualcuno li ha ritrovati per te e li ha messi appunto al posto giusto. Terzo: ricostruisci il passato prossimo, le ultime volte che ne hai avuto bisogno e lo hai utilizzato. Quarto (e qui scivoliamo verso la magìa…), c’è chi si aiuta davvero ripetendo ad alta voce il nome dell’oggetto. Quinto: smaschera l’effetto-nascondiglio, cercando se l’oggetto perduto non sia nascosto da qualcos’altro che lo copre (un vestito, un giornale). Sesto: cerca una volta sola, a colpo sicuro, non vagare guardando dappertutto. Settimo: concentrati sulla “zona eureka”, cioè nelle vicinanze del posto giusto, perché la maggior parte degli oggetti si smarriscono entro un metro di distanza da dove dovrebbero essere. Ultimo suggerimento, da filosofia zen: que sera sera, mettiti l’animo in pace, le cose sbucano fuori all’improvviso quando le abbiamo date per perse definitivamente.
La Stampa TuttoScienze 16.4.14
Tuo figlio, l’embrione virtuale
L’ossessiva domanda di ogni aspirante genitore - «Come sarà il mio bambino?» - non sarà mai più la stessa
di Gabriele Beccaria
Pochi giorni ancora e l’esperienza di diventare genitore è destinata a trasformarsi. Forse per sempre.
Arriva negli Stati Uniti il test genetico più sofisticato mai immaginato: l’embrione virtuale. Unendo il Dna di mamma e papà e processandolo in migliaia di combinazioni possibili (fino a 10 mila), svela le possibili anomalie genetiche di un futuro figlio prima ancora che sia concepito.
È come ricevere un piccolo ma impressionante dossier dal futuro di un individuo che esiste solo nella mente di una coppia e nelle elaborazioni di un super-computer. Non si tratta - assicurano gli ideatori - del famigerato «bambino su misura», costruito come un bambolotto, a partire dal colore degli occhi e dei capelli e dalla forma del nasino. Semmai - aggiungono, ribattendo ai dubbiosi - di un modo più responsabile di mettere su famiglia.
Al momento l’esame riguarda una serie di malattie relativamente rare, come la fibrosi cistica o quella di Tay-Sachs, parte di un insieme di 500 sindromi che colpiscono non più del 4% della popolazione. Ma la metodologia è destinata a un utilizzo decisamente più vasto. Sfruttando il patrimonio di conoscenze accumulate con i programmi di sequenziamento del Genoma e facendo girare un algoritmo che riproduce i processi di ricombinazione genetica tra la parte materna e quella paterna, il test - ha spiegato uno degli ideatori, Anne Morriss - sarà presto in grado di «predire il profilo di rischio di ogni futuro bambino».
Il software, infatti, consentirà di studiare le possibilità di contrarre malattie più complesse, che sono il frutto di mix di gruppi di geni diversi, dal tumore alla mammella fino alla schizofrenia. Allo stesso tempo le coppie infertili o gay che ricorreranno alla fecondazione eterologa - con ovociti o spermatozoi di un donatore - avranno la possibilità di verificare le combinazioni migliori (o meno rischiose) dell’embrione.
il Fatto 16.4.14
Torino Salone del Libro senza Papa, però c’è Renzi
di Andrea Giambartolomei
Il Vaticano è l’ospite d’onore del Salone del libro di Torino, ma la sua “star”, papa Francesco, non ci sarà. In compenso arriverà l’onnipresente Matteo Renzi. Ieri mattina alla Scuola Holden di Alessandro Baricco (grande sostenitore di Renzi) è stata presentata la 27esima edizione che comincerà l’8 maggio in presenza del ministro della Cultura, Dario Franceschini. Per la Santa Sede interverranno il cardinale Gianfranco Ravasi e il segretario di Stato, Pietro Parolin, ma nelle sale del Lingotto sfileranno pure politici di rilievo come il ministro della Giustizia Andrea Orlando, Walter Veltroni, Massimo D’Alema, Renato Brunetta, Emma Bonino e Giuliano Amato. Troppa sinistra? No. Quest’anno al Salone, spesso accusato dai giornali berlusconiani di essere un punto di ritrovo radical chic, ci sarà spazio anche per due incontri dal titolo “Le anime della Destra” con “intellettuali ‘non conformisti’” (così nel comunicato stampa) come Piero Ostellino, Paolo Guzzanti, Marcello Veneziani, Pietrangelo Buttafuoco e Angelo Mellone. E gli scrittori? Si aspetta Joe R. Lansdale per il Premio Mondello. Poi, per il resto, molto spazio alla cultura “pop” con i volti noti della tv (ci sarà pure la conclusione del programma Masterpiece) e ai libri di cucina (con un’area speciale chiamata Casa CookBook).
La Stampa 16.4.14
Un Salone del libro al di qua del bene e del male
Presentata ieri la kermesse torinese dell’8-12 maggio. Un tema impegnativo e il Vaticano come Paese
di Mario Baudino
qui
l’Unità 16.4.14
L’appuntamento
Marco Bellocchio: omaggio del MoMa
È già annunciata a New York come uno degli appuntamenti più attesi di primavera, la retrospettiva che Luce-Cinecittà e MoMA dedicano, presso i Royand Niuta Titus Theaters, a Marco Bellocchio.
Una panoramica complessiva, che inaugura il 16 aprile con l'incontro con la stampa locale e la proiezione serale de«Il regista di matrimoni», e che fino al 7 maggio farà il punto su un autore all'attenzione di critica e pubblico americani sin dal clamoroso esordio de «I pugni in tasca», nel '65. Ora la grande retrospettiva al MoMA consente alla platea d'oltreoceano di guardare e verificare la tenuta di cinquant'anni di cinema, in continuo dialogo con la storia, la politica, la vita pubblica e l'intimo di una società, per farsi vero, e raro, cinema-mondo. Dalla folgorante partenza con «I pugni in tasca» al recente «Bella addormentata», passando dal confronto politico di «La Cina è vicina», ai corpo a corpo con classici amati della letteratura e del teatro come«Diavolo in corpo», «Enrico IV», «La balia», «Il Principe di Homburg», agli exploit espressivi degli anni 2000, con capolavori come «L'ora di religione» e «Buongiorno, notte».