il Fatto 15.4.14
Il pregiudicato a Palazzo Chigi. Senza B. non si può fare nulla
Nel faccia a faccia con il presidente del Consiglio riappare Gianni Letta
Alla vigilia della decisione sull’affidamento ai servizi sociali e nel mezzo del caso Dell’Utri, il Caimano mostra i muscoli
Legge elettorale sempre più a rischio, la campagna delle Europee accentua i contrasti
E torna l’ipotesi del voto anticipato
Ugo Magri su La Stampa di oggi:
Il chiarimento fra Renzi e Berlusconi è importante in quanto da settimane, ormai, non si capiva più se la linea berlusconiana fosse quella dialogante interpretata da Verdini, grande tessitore dell’intesa con il suo concittadino Renzi, oppure l’altra sponsorizzata con intransigenza dai due capigruppo di Forza Italia. I quali sostengono, per dirla con un’espressione colorita di Renato Brunetta, che la proposta del ministro Boschi è «scritta coi piedi», così com’è non passerà mai. Si aggiunga che almeno trenta senatori berlusconiani, guidati da Minzolini, aborriscono l’idea che Palazzo Madama possa diventare cassa di risonanza delle autonomie locali e sono pronti a fare massa critica con la dissidenza Pd. Per reggere la sfida dei numeri, su cui s’è giocato la propria reputazione di leader, Renzi ha dunque bisogno del Cavaliere, come del resto non si stanca mai di ricordare il consigliere politico berlusconiano Toti.
«Per l’assemblea dei senatori democratici di stamattina a Palazzo Madama, Luigi Zanda, il capogruppo dem, prevede il voto. Si tratta della seconda convocazione dei senatori, divisi da dissensi e malumori. Un gruppetto di 22 senatori ha firmato un “controtesto”, il ddl Chiti, che propone la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie ma solo se elettivo. Renzi ha dato l’altolà. Oggi la resa dei conti»
Repubblica 15.4.14
Silvio al premier “Mi devi legittimare”
di Giovanna Casadio e Carmelo Lopapa
«IL PATTO delle riforme tiene. Continueremo a cambiare questo Paese. E questa era la cosa più importante». Matteo Renzi tira un sospiro di sollievo a notte fonda, Silvio Berlusconi ha appena lasciato Palazzo Chigi con Verdini e Gianni Letta al termine di un incontro che i due hanno concordato a sorpresa.
DURA due ore e mezza ed è un faccia a faccia con momenti di tensione e scintille. È l’ex Cavaliere ad aprire subito il dossier nomine che il presidente del consiglio ha appena chiuso con gli incarichi nelle aziende pubbliche. «Ti rendi conto che è un salto nel buio?», incalza Berlusconi quando si è appena accomodato nello studio al primo piano poco dopo le 21. «Comem vi è venuto in mente di rimuovere Scaroni dall’Eni e Sarmi dalle Poste?». Sono le due pedine che stanno più a cuore al leader forzista. Renzi non si scompone: «E invece sono proprio soddisfatto di tutti gli avvicendamenti, per questo ho fissato questo colloquio dopo le nomine».
Il clima quindi è subito acceso ma si smorza subito dopo quando sul tavolo si discute dell’affare che più sta a a cuore a Palazzo Chigi: le riforme. Che andranno avanti, l’ex Cavaliere non si tira indietro e conferma il patto del Nazareno. Ma chiede delle modifiche sul Senato e sul Titolo V della Costituzione. Si dice contrario ai 21 senatori di diritto e chiede un drappello di senatori più numeroso per la sua Lombardia. Null’altro di decisivo. Per Renzi la conferma che l’intesa regge e che anche il timing sarà rispettato. Entro le europee del 25 maggio il primo sì al nuovo Senato. E solo dopo sarà aperta la partita dell’Italicum. Anche lì il leader forzista chiede dei ritocchi ma non sostanziali e comunque accetta di posticiparne la discussione a giugno. «Cambiamenti sì - ripete il segretario democratico - ma non si può stravolgere l’equilibrio e il senso del testo».
Il presidente del Consiglio sapeva di dover offrire una sponda all’ex premier per blindare il patto. «Devo stringere Silvio all’angolo, vincolarlo al rispetto degli accordi, i suoi guai con la giustizia non possono far saltare tutto, io sulle riforme mi gioco la faccia », spiegava prima di ricevere Berlusconi ai più stretti collaboratori. In un altro faccia a faccia, che è avvenuto invece in mattinata al Quirinale, sembra che l’ex sindaco abbia ricevuto dal presidente Napolitano un paterno suggerimento a chiudere in fretta la partita delle riforme. Il tempo non gioca a favore della modifica della costituzione e della legge elettorale. Troppe incognite gravano su quel percorso. La tenuta del leader di Forza Italia e del suo stesso partito. Le Europee dagli esiti incerti tra un mese e mezzo.
Al vertice di Palazzo Chigi è presente il vice segretario del Pd Lorenzo Guerini, che del resto c’era anche nell’incontro al Nazareno tre mesi fa. Allora Renzi non era ancora premier e parlò di «profonda sintonia» con il Cavaliere, provocando una valanga di critiche e contestazioni nel partito. Anche ora sono messe nel conto, a cominciare dall’assemblea dei senatori Pd di questa mattina. «Ma Matteo ha messo nel conto tutto, e ha accettato la richiesta pressante del leader di Forza Italia che ha più che mai bisogno di riguadagnare la scena mediatica e mostrare la sua centralità», ragionano i renziani. Parlano del «contentino mediatico» in cambio di un patto rinsaldato sulle riforme. Graziano Delrio, il sottosegretario che non è presente questa volta, dice: «È giusto per il bene del paese che i leader i parlino e che continuino a farlo costantemente; abbiamo notato un certo nervosismo da parte di Berlusconi e quindi è ancora più necessario parlarsi per un cammino che fa bene all’Italia».
Il leader forzista arriva a Roma a ora di pranzo, dato che l’incontro a Chigi gli viene confermato solo in mattinata tramite il solito ambasciatore Denis Verdini. A chiedere il nuovo faccia a faccia del resto erano stati loro. L’ex Cavaliere, lo sta facendo da giorni, alza la voce sulle riforme, minaccia di farle saltare, poi scrive al premier e promette che lui non si tirerà indietro. E Renzi, che vuole allentare la tensione, non può che concedere l’incontro. Il fatto è che da oggi per l’ex Cavaliere scatta il countdown per l’assegnazione ai servizi sociali. Ogni momento da qui a dieci giorni può essere utile per il pronunciamento del Tribunale di sorveglianza di Milano. Le indiscrezioni filtrate dal palazzo di giustizia lasciano intendere che già oggi l’attesa potrebbe concludersi: ieri pomeriggio il giu- dice Beatrice Crosti e Pasquale Nobile De Santis erano al lavoro sul documento. E sono sempre indiscrezioni quelle secondo le quali starebbe perdendo quota l’ipotesi dell’affidamento a un istituto per anziani e disabili del Milanese. Troppo alta la pressione mediatica e non solo attorno alla struttura e ai suoi sensibili ospiti. Non a caso funzionari del Tribunale ancora in questo fine settimana sarebbero tornati a visitare il centro di ascolto dell’Associazione delle vittime della «malagiustizia».
Di certo, Berlusconi e i suoi legali ritengono che la sua «agibilità politica» sarà integra almeno giovedì pomeriggio. Alle 17 è stata fissata nella sede del partito in via San Lorenzo in Lucina la conferenza stampa di presentazione delle liste per le Europee. Il leader, pur azzoppato, ha il bisogno vitale di mettere il cappello sulla corsa elettorale, se non vuole vedere crollare Forza Italia sotto la soglia del 20. Se non vuole soprattutto vedere sgretolarsi i gruppi parlamentari dopo il 25 maggio. Paolo Bonaiuti, il portavoce per 18 anni, ha incontrato ieri per un’ora Angelino Alfano al Viminale, alla presenza del ministro Maurizio Lupi. Il passaggio al gruppo Ncd del Senato sarà formalizzato solo nei prossimi giorni. Per il senatore, si prospetta un incarico di vertice per curare la comunicazione, come fino a un anno fa aveva fatto per Berlusconi. Dopo di lui, altri potrebbero seguire in scia. Nelle ultime ore, molti hanno smentito le ipotesi di fuoriuscite circolate, da Bondi alla Santelli, da Rotondi a Lainati. Ma al Senato come alla Camera tutto sarà in movimento dopo le Europee.
Per l’assemblea dei senatori democratici di stamattina a Palazzo Madama, Luigi Zanda, il capogruppo dem, prevede il voto. Si tratta della seconda convocazione dei senatori, divisi da dissensi e malumori. Un gruppetto di 22 senatori ha firmato un “controtesto”, il ddl Chiti, che propone la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie ma solo se elettivo. Renzi ha dato l’altolà. Oggi la resa dei conti.
Corriere 15.4.14
Novità positive e molti dubbi
Interrogativi su una svolta
di Sergio Rizzo
qui
Repubblica 15.4.14
Bonus milionari agli ex capi azienda così un trucchetto li farà più ricchi
di Luca Pagni
MILANO. Ogni rivoluzione ha il suo prezzo. Quello che il governo dovrà pagare per la rivoluzione ai vertici delle società controllate dal Tesoro ha la forma di un assegno con tanti zeri. A incassarlo ci penseranno i manager delle aziende a controllo pubblico. In particolare, di Eni, Enel e Terna in seguito al pressoché totale ricambio di uomini e, in parte, di strategia nelle aziende di proprietà dello Stato. Paolo Scaroni, Fulvio Conti e Flavio Cattaneo (se non verrà riconfermato), proseguiranno la loro carriera altrove, ma lo faranno con una ricca buonuscita. Oltre 16 milioni complessivi, in aggiunta agli oltre 70 milioni accumulati in nove anni alla guida dei tre colossi dell’energia.
Non tutti prenderanno la stessa cifra, ma tutti e tre hanno - per così dire - utilizzato lo stesso escamotage per aggiungere un generoso paracadute in caso di mancata riconferma. In pratica, hanno aggiunto all’incarico di amministratore delegato, che è stato rinnovato per tre anni (due volte dai governo Berlusconi e una volta dal governo Prodi) quello di direttore generale. Per il primo si prende un compenso stabilito per il lavoro svolto, più eventuali bonus. Ma senza ulteriori tutele. L’incarico di direttore generale, invece, è legato al contratto nazionale dei dirigenti e prevede pertanto una buonuscita, a compensare il fatto che i manager possono essere licenziati. Una pratica che un tempo era seguita per dare ai manager la possibilità di incidere il più efficacemente possibile in azienda; ma che non tutti applicano nel privato. Per esempio, si tende a preferire l’assegnazione di stock option , per legare la prestazione dei manager a quelli della società.
Le “liquidazioni” dei tre manager non peseranno sui conti del governo, ma sui bilanci delle singole società. Così come era avvenuto, nel decennio scorso, per altre liquidazioni che hanno fatto discutere negli anni passati. È stato il caso di Giancarlo Cimoli, che al momento di lasciare le Fs si è visto assegnare 6 milioni di buonuscita per poi passare in Alitalia, dove tre anni dopo se ne è andato con altri 3 milioni. Anche per Elio Catania, le Fs hanno portato in dote a fine mandato 6,7 milioni.
Secondo quanto recentemente ricostruito dal settimanale L’Espresso, l’esborso maggiore sarà per Eni, visto che a Scaroni andranno 8,3 milioni. Ed anche il caso più complesso da ricostruire. C’è una voce legata alla risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale (3,2 milioni). A cui si aggiunge la cosiddetta clausola di “ non compete agreement” che vale altri 2,2 milioni: in sostanza, il manager si impegna per alcuni anni a non lavorare per i concorrenti di Eni. Infine, c’è una parte variabile di buonuscita legata ai risultati dell’ultimo triennio, calcolati in circa altri 2,1 milioni; nonché 800mila euro di Tfr e contributi previdenziali garantiti ai dirigenti Eni. Un conto a cui vanno aggiunti gli stipendi percepiti dal 2005 al 2012, pari a 29 milioni.
Più o meno lo stesso discorso vale per Fulvio Conti: Enel dovrà versare al suo amministratore delegato 2,8 milioni per la buonuscita da direttore generale e 3,5 milioni per la clausola di non concorrenza. Nei suoi tre mandati alla guida dell’ex monopolista elettrico, Conti ha guadagnato - tra compensi e bonus - una cifra che si aggira sui 25 milioni.
Infine, c’è il caso di Flavio Cattaneo. Nel caso non venisse riconfermato, la buonuscita da direttore generale per il numero uno di Terna per lui vale due annualità della parte fissa della retribuzione pari a 2,4 milioni. La vicenda dell’ex dg della Rai è la più singolare tra i manager dei tre colossi statali. Al momento della sua nomina nel 2005, lo stipendio era di 250mila euro. Mano a mano che la società si è quotata in Borsa e ha cominciato a crescere di capitalizzazione, è salito fino a 2,4 milioni, bonus compresi, come da bilancio 2012. In totale, nei suoi tre mandati Cattaneo ha guadagnato poco più di 11 milioni.
il Fatto 15.4.14
Rottamare a metà
di Stefano Feltri
Rottamare è la cosa che gli riesce meglio: Matteo Renzi lo aveva promesso e lo ha fatto, via tutti i vertici delle grandi aziende controllate dallo Stato. Tutti tranne Gianni De Gennaro a Finmeccanica (anche nel renzismo esistono gli intoccabili, soprattutto se cari al Quirinale). Due mesi fa non era affatto scontato che fosse possibile rimuovere campioni della continuità come Paolo Scaroni dall’Eni, Fulvio Conti dall’Enel e Massimo Sarmi dalle Poste. C’è voluta l’energia del premier per cambiare tutto. Ma il cambiamento, come spesso accade con Renzi, è fenomenale nell’esteti - ca e più discutibile nella sostanza. Ci sono le donne, finalmente. Ma per avere un po’ di quote rosa ai vertici il governo ha dovuto recuperare due personaggi come Emma Marcegaglia e Luisa Todini, più note per il loro impegno politico (Confindustria una, Forza Italia l’altra) che per competenze specifiche su energia e poste. Il gruppo Marcegaglia ha pagato tangenti proprio all’Eni, così come Scaroni aveva pagato tangenti all’Enel prima di diventarne amministratore delegato nel lontano 2002. Anche questa è continuità.
E Mauro Moretti, sostenuto dalla parte non renziana del Pd, è una scelta singolare per Finmeccanica: dopo una carriera nelle Ferrovie, guidate con il piglio deciso del monopolista, il manager arriva in un’azienda che sta vendendo il settore trasporti per concentrarsi su quello degli armamenti. E che senso ha promuovere Moretti che ha contestato il tetto agli stipendi dei manager pubblici e far proporre al Tesoro in assemblea di introdurli anche per le società quotate? I nomi per i cda sono scelti con grande cura, di quasi tutti è facile ricostruire la casacca politica e il grado di fedeltà renziana, tra amici e finanziatori, più oscuri i meriti di curriculum. Il primo giudizio sulla rottamazione manageriale e sul nuovo volto del capitalismo pubblico renziano lo darà la Borsa oggi. Per vedere manager scelti soltanto sulla base delle competenze, magari sul mercato internazionale, dovremo aspettare altri tre anni. Forse.
il Fatto 15.4.14
Potere al femminile
Il paravento rosa del turbopremier
di Daniela Ranieri
L’idea è geniale: fare una cosa talmente giusta, altrove scontata, che nessuno pensi sia fatta a proprio vantaggio e per scopi pubblicitari. Tralasciando per un istante che si tratta di uomini che danno il potere alle donne, il governo Renzi-Delrio quadra il cerchio: nessuno può essere contro l’idea di nominare donne ai vertici delle società pubbliche. Ma allora perché c’è un martellamento propagandistico sul tema, come fosse un giorno che tutte le donne devono festeggiare?
Peraltro, alle donne in questione non si fa un gran favore, a dare loro il comando di Eni, Enel, Finmeccanica e Poste, che nel senso comune sono rispettivamente: quelli che ti aumentano la bolletta, quelli hanno pagato tangenti, quelli che non ti recapitano buste a meno che non siano di Equitalia. Per di più proprio ora che si stanno tagliando gli stipendi. Le ferrovie, risanate da Moretti sulle spalle dei contribuenti, per fortuna non profumeranno di iris e limone, e i treni non avranno tende di merletto ai finestrini: ma dire donna al potere rende immediatamente tutto più sano, europeo, biologico, come mettere l’olio EVO dentro un panino McDonald’s.
Peccato che la parità di genere, che nei Paesi evoluti non è una questione da tempo (i generi, pare, sono 7, qualcuno dice 31), non garantisca trasparenza dei bilanci, operosità rivolta al bene comune, attenzione a consumatori e consumatrici. Lo fa già di più l’intenzione, solo ora annunciata, di non nominare indagati e condannati (regola che per le cariche di governo non vale). Che tra questi incensurati ci siano donne e uomini dovrebbe essere pacifico, in una società naturalmente impostata sulle pari opportunità fin dalla scuola. Applicata, la parità di genere implica che in un gruppo di maschi e femmine siano presenti in egual misura brave persone e persone dappoco, persone che hanno fatto strada con mezzi onesti e non, facendo leva sulla propria capacità o sulle proprie aderenze col potere.
CHE LE DONNE debbano essere manager migliori e conferire alle aziende che guidano più eticità è un pregiudizio senza fondamento. È come dire che i neri ballano bene e gli svizzeri sono puntuali. Le manager messe ai vertici sono manager prima che donne. Se competenti, baderanno al profitto esattamente come i loro colleghi maschi. La presenza al governo di una donna come Barracciu confuta peraltro la tesi migliorativa: si può essere donne, avere pendenze con la giustizia, e nonostante ciò avere incarichi istituzionali senza per questo contribuire a un nuovo corso della politica. Fissarsi sul 50% a ogni costo ricorda più l’urgenza scaramantica di fare il 14esimo a tavola che quella di avvalersi di competenze irrinunciabili. Una società migliore valorizza le differenze qualitative, non si appiattisce sulla mera parità numerica. Renzi ha già mostrato di saper fare della presenza delle donne un atout del suo stile di governo, tanto da lasciare la lotta per le quote rosa alle pasionarie in bianco riservandosi di intestarsi, lui solo e senza vincoli di legge, la svolta progressista altrove già consolidata. Certo è una specie di parità che al ministero della Sanità non ci sia la nuova Levi Montalcini come al ministero della Cultura non c’è un Nobel per la letteratura. Così porre donne come capolista alle Europee anche a scapito del cosiddetto legame col territorio, se da una parte è un’idea rinfrescante alla faccia dei veleni correntizi, dall’altra indirizza l’elettore a votare un candidato che magari non avrebbe preferito.
PER LE POLITICHE è lo stesso, grazie a una legge elettorale fallata e potenzialmente antidemocratica. Certo Merkel mai si sognerebbe di vantarsi di favorire una donna. Renzi lo fa perché è un uomo; perché è abile; perché conosce le regole del marketing e cavalca quel sottile crinale del pregiudizio secondo cui una donna o non è all’altezza di un compito irragionevolmente ritenuto maschile, oppure è migliore in quanto del tutto disinteressata al potere e all’arricchimento personale in virtù di superiori doti spirituali. Discriminazione da una parte, pretesa di superiorità etica dall’altra.
Negli incarichi di aziende pubbliche la parità vale poco quando si perpetrano meccanismi autoritari e si agevola la solita lubrificazione del potere; è un mito consolatorio in un contesto in cui alla lottizzazione si sostituisce la volontà di un solo capo di governo e di partito, e si difende la parità di genere nel salotto buono mentre nelle retrovie si rischia l’erosione del pluralismo e della democrazia.
Federi Geremicca su La Stampa:
Che cosa si nasconde dietro questa passione di Renzi per la parità di genere e le quote rosa? Lo fa per una bieca questione di immagine? È l’ennesima concessione alla demagogia imperante? E quale interesse personale (o elettorale) nasconde? In poche parole: dov’è il trucco?
La Stampa 15.4.14
Le quote rosa profumano di larghe intese
di Marcello Sorgi
Con il dovuto rispetto per i curriculum molto qualificati, la novità delle donne presidenti nelle aziende di Stato ha dato la sensazione, in due casi su tre, di un accordo di larghe intese. Luisa Todini e Emma Marcegaglia non sono certo sgradite al centrodestra: e questo spiega perchè, nei corridoi di Montecitorio, l’interpretazione corrente è stata quella di un viatico alla ripresa di rapporti tra Renzi e Berlusconi, celebrata nell’incontro a tarda sera tra i due leader.
In realtà a Renzi in questa tornata di nomine interessavano alcuni criteri, in positivo e in negativo, che sono stati pienamente rispettati. Primo, una forte iniezione di rinnovamento, con un azzeramento, salvo motivate eccezioni (come quella, legata anche a ragioni internazionali, di Gianni De Gennaro in Finmeccanica), di tutto il gruppo di manager in carica da quasi un decennio. Secondo, evitare la sensazione di un’occupazione delle poltrone da parte del Pd. Terzo, fare scelte equilibrate, che non pregiudicassero il delicato equilibrio politico delle riforme. Il premier, infatti, non ha affatto rinunciato a portare a casa entro il 25 maggio, data delle elezioni europee, l’approvazione da parte del Senato della legge elettorale e il primo voto sul progetto di trasformazione di Palazzo Madama.
Con quest’obiettivo in mente, Renzi ha aperto la porta del suo studio a Palazzo Chigi a Berlusconi, che da giorni reclamava una messa a punto dell’accordo del Nazareno. Ma se il Cavaliere si aspettava di trovarlo remissivo e pronto a un arretramento, pur di salvare le riforme, ha dovuto ricredersi. Renzi infatti gli ha spiegato che se in Parlamento le resistenze di Forza Italia dovessero continuare e dar vita a una presa di distanza complessiva dal progetto riformatore, si troverebbe gioco forza a scegliere la strada di un’intesa solo con la maggioranza di governo. E all’obiezione, avanzata da Berlusconi, che anche all’interno del Pd sta emergendo in Senato una forte pattuglia di dissidenti, il premier ha tagliato corto: tu pensa ai tuoi, che dei miei me ne occupo io. A discorsi conclusi, pressing da entrambe le parti sull’accordo ritrovato. Ma la campagna elettorale incombe: si vedrà nei prossimi giorni il vero effetto dell’incontro di ieri notte.
il Fatto 15.4.14
I criteri di Renzi. Donne al comando e tanto Cencelli
Le aziende di Stato si tingono di rosa. Delrio: è una rivoluzione culturale. Ma l’operazione nasconde la classica lottizzazione
di Salvatore Cannavò
Il commento più entusiasta proviene dalle labbra di Graziano Delrio, sottosegretario a Palazzo Chigi che ha gestito la partita delle nomine: “È molto importante che si sia scelto di chiamare al servizio delle più grandi aziende del Paese - ha detto in serata nel corso di Porta a Porta - uomini e donne che hanno dimostrato di essere manager capaci”. Ma è sulle donne che il governo punta per far scattare la campagna simpatia già realizzata con le liste Pd per le elezioni europee: “La nomina di tre donne come presidenti è un fatto che segna una rivoluzione culturale”, ha sottolineato l’ex sindaco di Reggio Emilia
L’INSISTENZA sulle donne costituisce la carta mediatica che Renzi giocherà senza esitazione. Quattro donne ai vertici delle aziende di Stato non si erano mai viste e, nel linguaggio politico del presidente del Consiglio, l’immagine ha la prevalenza su tutto il resto. Per conseguire questo risultato, il premier non ha esitato a distribuire gettoni di presenza a tutte le fazioni dell’establishment italiano, politico e imprenditoriale.
Le quattro donne non sfuggono a questo criterio. Emma Marcegaglia , con la presidenza dell’Eni ritorna in auge dopo la parentesi confindustriale in cui alternò una prima fase in sintonia con il governo Berlusconi per poi mettersi alla testa dell’operazione Monti. La sua permanenza sulla scena pubblica dura da così tanto tempo che non sfigura al confronto dei grandi burocrati della politica. Un discorso analogo può valere per Luisa Todini, espressione berlusconiana nel Consiglio di amministrazione della Rai, già papabile per la presidenza della Regione Lazio (il Cavaliere poi optò per Renata Polverini) e approdata ora alla guida delle Poste (ma dichiara che ancora deve decidere se lasciare la Rai). Assidua frequentatrice dei salotti tv, bella presenza, viene da una famiglia di costruttori, ha tutte le qualità per una buona candidatura di immagine.
Più di sostanza le altre due. Una, Patrizia Grieco presiederà l’Enel dopo aver amministrato l’Olivetti. Presente in molti board di società e istituzioni benefiche, come Save the Children, ha anche diretto Fiat Industrial fino alla fusione con Cnh Industrial. Carla Bastioli, invece, è in procinto di assumere la presidenza di Terna (la nomina spetta formalmente alla Cassa Depositi e Prestiti). È stata l’amministratore delegato di Novamont, azienda novarese leader nella produzione di chimica e plastica “verde” che ha portato a traguardi rilevanti. Dopo l’immagine femminile, però, il gioco delle compensazioni tra nomine di qualità, spesso tecniche, e classico manuale Cencelli prosegue nella composizione dei Consigli di amministrazione. All’Enel, ad esempio, nel cda troviamo Alberto Bianchi, il presidente della fondazione Big Bang, cioè la cassaforte del movimento renziano. Se questo è il criterio, allora, non stupisce la presenza, nel Cda Eni, di Fabrizio Pagani, economista ex Ocs capo della segreteria tecnica del ministro Padoan, amico di Enrico Letta con cui è stato a scuola. La nomina viene compensata dalla presenza del professor Luigi Zingales, economista di Chicgo ospite della prima Leopolda renziana e negli ultimi anni battagliero consigliere indipendente di Telecom Italia. Se la dovrà vedere con un altro nome di lungo corso, Salvatore Mancuso, già presidente del Banco di Sicilia poi assorbito in Unicredit e oggi capo del fondo Equinox, protagonista delle grandi vicende finanziarie recenti.
ANCORA PIÙ netta la spartizione in Finmeccanica dove l’im - marcescibile Gianni De Gennaro conserva la presidenza, pare su esplicita richiesta del Quirinale, arriva l’ex Cgil Mauro Moretti . Doveva ridursi lo stipendio, probabilmente lo raddoppierà. Nel Cda entra anche Marta Dassù, già vicemnistro degli Esteri nei governi Monti e Letta, molto competente in politica estera, donna dell’Aspen e della Trilateral ma anche ben vista da Massimo D’Alema di cui è stata consigliere a palazzo Chigi. In Finmeccanica ci saranno poi due tecnici come Guido Alpa e Alessandro De Nicola (economista liberista, editorialista di Repubblica ma anche avvocato d’affari con lo studio Orrick). Ma c’è anche Fabrizio Landi, amico di Renzi e amministratore delegato di Esaote, azienda fiorentina che produce apparecchi elettromedicali, primo finanziatore delle primarie (10 mila euro) dell’ex sindaco di Firenze.
Nel solco delle antiche tradizioni, le Poste si confermano luogo privilegiato della lottizzazione. Una berlusconiana alla presidenza, un renziano già lettiano come amministratore delegato, l’ex portavoce di Pier Ferdinando Casini, Roberto Rao, nel cda, insieme all’ex Mediaset, poi La7, Antonio Campo dall’Or to, a suo tempo un enfant prodige della televisione. Talmente prodigio che la sua carriera lo ha portato a dirigere le Poste.
Le nomine di donne sono nel ruolo di Presidente, mai in quello - decisivo - di Amministratore delegato. E poi, in realtà...
La Stampa 15.14.14
Uomo-donna, stessi stipendi solo tra 70 anni
Secondo una stima Ue redditi sbilanciati fino al 2084: altri 20 anni per equiparare i livelli occupazionali
Saremo tutti veramente uguali solo nel 2084, anno di centenario orwelliano in cui le donne e gli uomini dovrebbero avere il medesimo salario per il loro lavoro in ufficio, in fabbrica o dove il futuro avrà disposto. «Ci vorranno 70 anni per la pari retribuzione fra i sessi», stima la Commissione Ue, senza troppo entusiasmo. Trenta ne occorreranno perché il 75% per cento di tutte le signorine, o signore, abbiano un posto. E venti perché nei parlamenti del vecchio continente almeno il 40% dei seggi sia coniugabile al femminile. Una marcia decisamente lunga, segno che le cattive abitudini sono davvero lente da smaltire.
È un processo lento. Ma qualche progresso si vede. Un rapporto della Commissione Ue rivela che nel 2013 il divario retributivo di genere a livello europeo si è ridotto di mezzo punto, anche se i salari «rosa» restano in genere il 16,4 per cento più bassi per ore lavorate rispetto a quelli del cosiddetto «sesso forte». Allo stesso tempo è cresciuto il numero di donne salite ai vertici delle grandi aziende: oggi sono il 17,8% dei consiglieri, dato che si confronta con l’11,8 di tre anni fa. Dall’ottobre 2010 il numero si è gonfiato di 2,2 punti percentuali nella media dei dodici mesi. Siamo distanti dal 40% indicato come obiettivo dalla proposta intavolata dalla commissione Ue nell’ottobre 2012. «Però il cambiamento inizia a essere evidente», dicono a Bruxelles.
Anche in Italia. «Avete fatto progressi con la legge sulle quote rosa», assicura la responsabile Ue per i diritti dei cittadini, la lussemburghese Viviane Reding. Non commenta le questioni di attualità, ma nel suo staff si registra «una forte curiosità» per la tornata di nomine che decolla in queste ore a Palazzo Chigi e le promesse di un rosa dilagante fatte dal premier Renzi. Nell’attesa, si scopre che siamo sedicesimi quanto a presenza femminile nei consigli delle società quotate. Il dato è del 12,9 per cento, contro il 29,1 dei finlandesi e il 26,8 della Francia. Dall’ottobre 2012 il miglioramento è stato superiore alla media, più 1,2 per cento. È la metà della Germania, ma ben più del Regno Unito che ha messo a segno un risultato negativo.
Quello che ci mette fuori gioco è il «gender gap», termine inglese che indica la differenza di paga fra i due sessi. Sebbene da noi sia relativamente ridotto (6,7 punti, il quarto miglior dato europeo contro una media di 16,4), la differenza fra gli uomini e le donne attivi che hanno un posto è la seconda peggiore dell’Unione: 70 contro 49, un abisso di ventuno punti. Malta è l’unico paese ad avere un dato più elevato (29), mentre la media Ue è 12, e i paesi più avanzati sono tutti sotto i dieci. Vuol dire che c’è ancora parecchio da fare.
In generale la Commissione Ue rileva che le donne europee tendono più spesso a lavorare a tempo parziale (il 32% contro l’8,2% degli uomini) e interrompono la carriera per occuparsi di altri membri della famiglia, il più delle volte di figli. Ne consegue un divario di genere anche sul fronte delle pensioni che sfiora il 40 per cento. Le vedove e i genitori «single» - che il più delle volte risultano essere madri - sono tra i gruppi più vulnerabili, e oltre un terzo delle famiglie monogenitoriali ha un reddito considerato insufficiente.
Il Welfare non gira come dovrebbe. E neanche le politiche sociali che, va rammentato, sono prerogativa nazionale e non comunitaria. Sebbene sia aumentato, il tasso d’occupazione femminile si attesta tuttora al 63% contro il 75% per gli uomini. Questa situazione è dovuta soprattutto alla crisi economica, che ha visto peggiorare l’occupazione maschile. Non buon motivo per fare festa, questo pare davvero chiaro.
il Fatto 15.4.14
Emma e Mauro. I peccati del renzismo /1
Emma Marcegaglia
Regola Scaroni, mazzetta e poltrona Eni
Corsi e ricorsi. Suo fratello Antonio, Ad dell’azienda di famiglia ha patteggiato 11 mesi
L’accusa era aver pagato un manager del gruppo Eni per avere un appalto
di Giorgio Meletti
Come rinnovamento non c’è male. La nomina di Emma Marcegaglia alla presidenza dell’Eni conferma e rafforza uno dei dogmi della Seconda Repubblica: la regola dei sei anni. Ecco come funziona. Il 22 febbraio 1996 Paolo Scaroni, allora vicepresidente del gruppo privato Techint, patteggiò al Tribunale di Milano la pena di un anno e quattro mesi di reclusione con la condizionale per chiudere un processo per corruzione nell’ambito del quale era stato arrestato due volte dai pm del pool Mani Pulite. Sei anni dopo, primavera del 2002, il governo Berlusconi lo nominò amministratore delegato dell’Enel, proprio la società pubblica per i cui appalti Scaroni aveva pagato le mazzette. La volpe a guardia del pollaio è un’ottima strategia anti-corruzione: il prescelto conosce a fondo i meccanismi da contrastare.
EMMA MARCEGAGLIA è competente quasi quanto Scaroni. Quasi perché non lei ma suo fratello Antonio, amministratore delegato dell’azienda di famiglia, ha patteggiato il 28 marzo 2008 11 mesi con la condizionale per corruzione. L’accusa era di aver pagato a Lorenzo Marzocchi, manager dell’Enipower, gruppo Eni, una mazzetta da un milione e 158 mila euro per agevolare l’assegnazione di un importante appalto, al quale, parole del reo, l’azienda “teneva molto”. L’imbarazzante vicenda non ostacolò la marcia trionfale di Emma, comproprietaria del gruppo siderurgico, verso la presidenza della Confindustria. Al contrario, sono scattati anche per casa Marcegaglia i fatidici sei anni, trascorsi i quali ecco la brillante manager al vertice dell’Eni, l’azienda per i cui appalti la società di famiglia pagava tangenti. Anche qui, come con Scaroni all’Enel, azionisti dell’Eni e contribuenti possono dormire sonni tranquilli: chi pensasse di corrompere qualche dirigente del gruppo petrolifero troverà sulla sua strada l’intransigente e preparatissima ex presidente di Confindustria.
NEL CURRICULUM di Emma Marcegaglia, 48 anni, quello scattato ieri sera è il primo incarico manageriale significativo. Nell’azienda di famiglia - che produce tubi d’acciaio - si è sempre occupata in prevalenza delle attività collaterali (turismo con la società Albarella, energie rinnovabili etc.). La sua attività principale è sempre stata quella confindustriale, dove è stata per quattro anni presidente dei Giovani Industriali e poi, nel 2008, la prima presidente donna. Anche negli anni al vertice di viale dell’Astronomia il suo curriculum è segnato da vicende imbarazzanti, come le inchieste sui conti esteri della sua famiglia. Nel 2011, in una puntata di Report, la giornalista Giovanna Boursier ha riferito a proposito della Marcegaglia Spa: “Tra il ’94 e il 2004, negli acquisti di materie prime, avrebbe interposto società off-shore, creando fondi neri su 17 conti esteri, intestati a Steno Marcegaglia e ai figli Antonio ed Emma. A maggio la parte che riguarda l’evasione fiscale viene archiviata perché quei capitali sono stati condonati e scudati”. Infine la vicenda della Maddalena. All’indomani del terremoto de L’Aquila il governo Berlusconi sposta nel capoluogo abruzzese i lavori del G8 e le strutture appositamente realizzate nell’isola sarda restano inutilizzate. Il capo della Protezione civile Guido Bertolaso le affitta a Emma per 31 milioni di euro in 40 anni, una cifra talmente esigua da provocare un intervento della Corte dei conti che contesta a Bertolaso e al suo staff un danno erariale di 26 milioni di euro. Insomma, la più grande e strategica azienda pubblica italiana è in mani sicure.
il Fatto 15.4.14
Emma e Mauro. I peccati del renzismo /2
Mauro Moretti
Il suo stipendio finalmente potrà crescere
Strani incroci. In Ferrovie dal 1978, arriva in Finmeccanica proprio mentre il gruppo vende il comparto trasporti. Guadagnerà 900 mila euro l’anno
di Giorgio Meletti
Tre settimane fa Mauro Moretti si era infuriato per l’annuncio renziano di severi tagli agli stipendi dei manager pubblici. E aveva minacciato di andarsene all’estero se i suoi 873 mila euro annui fossero stati ricondotti sotto quota 300 mila, in quella fascia sobria dove staziona l’emolumento del presidente della Repubblica. Matteo Renzi aveva commentato sibillino: “Moretti capirà”. Ieri sera abbiamo capito tutti. Con la nomina ad amministratore delegato di Finmeccanica andrà a guadagnare più che alle Fs. Se verrà applicata la riduzione del 25 per cento di cui si parla al ministero del Tesoro, si partirà dal milione e 200 mila euro portato a casa per il 2013 dall’uscente Alessandro Pansa per planare a quota 900 mila.
LA BRUTTA FIGURA fatta da Moretti sulla questione dello stipendio non è però da attribuirsi tanto ad avidità quanto al carattere impulsivo, lo stesso che ha fatto di lui, suo malgrado, l’idolo negativo della città di Viareggio ancora ferita dal tragico incidente che costò cinque anni fa la vita a 33 persone. Dipendente delle Fs dal 1978, Moretti è diventato nel 2006 il numero uno meno pagato nella storia recente dell’azienda di piazza della Croce Rossa. Il suo predecessore Elio Catania guadagnava più del doppio, e prima di lui Giancarlo Cimoli ha incassato stipendi e buonuscite milionarie non giustificate dai risultati. I due presidenti che hanno affiancato Moretti negli otto anni al vertice (prima Innocenzo Cipolletta e poi Lamberto Cardia) guadagnavano pochi euro meno di lui lavorando forse un decimo dell’amministratore delegato.
In Finmeccanica Moretti sarà il manager più low cost degli ultimi anni. Saranno dunque ben altri i banchi di prova per questo ingegnere elettrotecnico di 60 anni che dopo una vita tra i binari va a guidare un gruppo che ha appena deciso di disfarsi della tecnologia ferroviaria (i treni di Ansaldo Breda e il segnalamento di Ansaldo Sts) per concentrarsi sul settore militare. Dai treni in semi-monopolio al duro mercato internazionale degli armamenti il passaggio non è dei più semplici. Dalle liti con i comitati dei pendolari e gli assessori regionali alle trattative con i ministri della guerra dei paesi emergenti il salto potrebbe rivelarsi complicato. Il principale ostacolo sulla strada di Moretti è la rabbia del popolo Finmeccanica. Alessandro Pansa, salito al vertice un anno fa dopo l’arresto dell’am - ministratore delegato Giuseppe Orsi (inchiesta per corruzione internazionale sugli elicotteri venduti all’India), nel tentativo di proteggere la sua poltrona dall’onda della rottamazione ha trascurato di lavorare su una soluzione interna. Così, mentre Eni ed Enel vengono decapitate ma vedono la promozione di due manager cresciuti in casa, Finmeccanica subisce l’onta di una sorta di commissariamento, attraverso un manager esterno che non ha mai guidato un’azienda quotata in Borsa e così complessa. Finmeccanica è un’azienda in grave crisi. Uno sciame sismico di scandali grandi e piccoli l’ha scossa profondamente negli ultimi quattro anni, provocando instabilità al vertice (da Pier Francesco Guarguaglini a Orsi, da Orsi a Pansa, e sempre dopo lunghe guerre intestine tra il manager declinante e quello emergente) e un peggioramento netto delle performance industriali. Sono crollati i margini di profitto e il portafoglio ordini, mentre lo scandalo indiano ha profondamente vulnerato le capacità di penetrazione del gruppo italiano nel difficile mercato degli armamenti.
IN UN CONTESTO così difficile Moretti, con lo smilzo curriculum di 36 anni di lavoro tutti nella stessa azienda, ha due carte pesanti da giocare. La prima è l’ombrello protettivo della politica. Voluto in quel posto direttamente da Renzi, ma stimatissimo da sempre anche da Giorgio Napolitano, con il quale ha condiviso in tempi non sospetti la militanza migliorista nel Pci, il manager riminese non paga pegno, come tanti manager pubblici del passato, all’essere nominato “in quota” di qualcuno e perciò a dispetto di qualcun altro. Questo gli garantisce ampia libertà di manovra. La seconda carta vincente è la fama di persona integerrima, sufficiente a tenerlo al riparo da proposte “indecenti”. La sua storia di uomo di umili origini, che si è mantenuto agli studi facendo l’istruttore di pattinaggio, potrebbe aiutarlo a conquistare il rispetto dei 75 mila uomini che fanno la Finmeccanica. Il suo carattere poco accomodante potrebbe però rendere tutto più difficile.
Corriere 15.4.14
Il contratto di Renzi con gli italiani manda in tilt le categorie della sinistra
di Paolo Franchi
«No, il dibattito no!»: dal lontano 1976 il grido disperato che si alza dalla sala nel primo film di Nanni Moretti, Io sono un autarchico, è, a sinistra, quasi un oggetto di culto. E proprio così — «no, il dibattito no!» — verrebbe da urlare di fronte alla contesa che s’è aperta fra Matteo Renzi e i suoi contestatori «di sinistra» nel Pd. Certo non perché questi ultimi siano dei revenant, o peggio dei sabotatori, come pure già si legge quotidianamente, o una sorta di quinta colonna, come prima o poi si leggerà, solo perché contestano il segretario-presidente. Ma, più semplicemente, perché Renzi la sua partita l’ha già vinta; e di conseguenza gli oppositori, se davvero fanno conto, com’è legittimo che sia, su una rivincita, dovrebbero prima di tutto stabilire come e perché hanno perso la loro. Partendo da un dato di fatto incontrovertibile. Il diciassette e poco più per cento ottenuto da Gianni Cuperlo (che pure tutto è fuorché l’apparatcik tardo-comunista rappresentato da tanti presunti commentatori) ha segnato la fine di quel che restava non solo del Pci-Pds, ma della sinistra per così dire «storica» italiana. Una sinistra che in Italia c’è ancora, eccome. Ma che vive di ricordi e talvolta di risentimenti, perché non dispone di un insediamento sociale e non esprime né una leadership né un programma né, quel che è peggio, un’idea di Paese. E, priva com’è di un’anima, galleggia annaspando in un presente gramo, senza un filo visibile che la colleghi alla parte migliore del proprio passato, senza una visione capace di prospettarle un futuro: per chi è stato al mondo convinto di venire da lontano e di andare lontano, la peggiore delle condizioni.
Invece Renzi e i renziani del primo cerchio, ammesso che ci sia, non ce l’hanno, un passato, delle radici antiche e profonde che non possono essere scalzate senza che venga giù l’albero e scompaia anche il futuro. Ma sono felicissimi di non averle, nella convinzione che questo non sia un limite, ma un formidabile atout . Nati, cresciuti e pasciuti nell’epoca forse della crisi delle ideologie, sicuramente della postpolitica, vivono in tempo reale, e non solo quando cinguettano. La loro dimensione della politica, o della postpolitica, è quella di un eterno presente. La loro dimensione del comunicare è quella del venditore, se non realizzo entro i tempi promessi quel che vi ho detto vuol dire che sono un buffone e me ne vado, soddisfatti o rimborsati. Niente di nuovo sotto il nostro sole, si dirà, ricorrendo anche a precedenti che, a modo loro, fecero epoca: il copyright del modello è di Silvio Berlusconi, che sottoscrisse da Bruno Vespa (correva l’anno 2001) il suo contratto con gli italiani. Come dire che il renzismo oggi incipiente, domani forse dilagante, in fondo sarebbe una specie di berlusconismo dal volto umano. Forse c’è qualcosa di vero in questo parallelo, ma il nesso tra ieri, oggi e (chissà) domani è più sottile e più profondo insieme.
Nel ventennio incardinato, nel bene e nel male, nell’amore e nell’odio, sulla figura di Berlusconi (il ventennio di formazione di Renzi) non si è stipulato un nuovo patto democratico, e non sono sorti veri partiti nuovi. Ma è cambiata la morfologia politica, sociale e culturale del Paese. E i cambiamenti introdotti nello spirito pubblico appena sotto la scorza del conclamato scontro frontale tra due Italie irriducibilmente ostili sono, con ogni probabilità, irreversibili, e comunque non decifrabili sulla scorta dell’antinomia tra destra e sinistra. Questa vecchia coppia, alla quale molti di noi (compreso, si capisce, chi scrive) restano per tanti motivi irriducibilmente legati, già ci diceva poco sui successi di Berlusconi, e ancora meno su quelli di Beppe Grillo: su Renzi e il renzismo non ci dice letteralmente nulla. Si è parlato e si parla sin troppo, spesso a sproposito, di populismo, in Italia e in Europa. Se smettessimo di utilizzare questo termine come un abracadabra, utile per esorcizzare tutto ciò che le nostre categorie novecentesche non riescono né a cogliere né, tanto meno, a spiegare, forse riusciremmo a capire meglio che, ci piaccia o no, proprio un moderno populismo — trasversale, sfaccettato, poliedrico, tenuto insieme, però, da una diffusa ripulsa non solo della politica tradizionale e dei partiti ridotti a vuoti simulacri, ma pure di ogni sorta di establishment e di élite — è il lascito principale del berlusconismo declinante. Grillo lo cavalca per così dire dal basso, come protesta, collera, contestazione generalizzata. Il Renzi presidente del Consiglio che promette davanti a una platea di artigiani del mobile una stagione non di riforma delle pubbliche amministrazioni, ma di «lotta violenta alla burocrazia», ne fa proprie dall’alto le ragioni e, prima ancora, la psicologia diffusa: senza scomodare Antonio Gramsci e la sua concezione della «rivoluzione passiva», forse nel suo caso potremmo parlare di populismo democratico, incrociando le dita per allontanare il rischio (forte) che si tratti di un ossimoro.
E la sinistra? Se le cose stanno in questi termini, la contesa elettorale europea che si approssima non è la sua. A parte quelli che voteranno Tsipras, meglio stare fermi un giro, leccarsi le ferite, interrogarsi, riflettere, predisporsi a intercettare, se ci saranno, tempi migliori. Nella speranza di disporre nonostante tutto di sette vite. Come i gatti.
il Fatto 15.4.14
Agenda tattica
Se la notizia è bigia il rottamatore tace
di Chiara Paolin
La gente sfila in strada perché non ha una casa, e magari nemmeno un lavoro. Poi tra blu-block e poliziotti “cretini” finisce parecchio male: ma Renzi non fiata, sta a Torino per lanciare le Regionali del Pd, Roma coi suoi scontri di piazza non lo riguarda. Neanche un tweet, manco il giorno dopo: perché, quando la notizia è bigia, Renzi la evita con cura. Dell’Utri latita e l’Italia fa la solita figuraccia internazionale? Silenzio totale del premier - con appoggio molto esterno. Cade la legge 40, e gli spiriti cattolici si agitano? Renzi l’innovatore tace. Si celebrano i cinque anni del disastro a L’Aquila? Lui non c’è, non dice e non promette. Insomma, il trucco è semplice: o l’agenda in discussione è la sua, o tutto diventa strategico silenzio.
Anche Luigi Cancrini salta sul carro di Matteo Renzi
l’Unità 15.4.14
La «minoranza» del Partito democratico
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta
No, caro Renzi, proprio non ci siamo! «La sinistra che non cambia diventa destra» è una tua frase ad effetto da campagna elettorale.
Mauro Bortolani
«Bella ciao bella ciao bella ciao»: nostalgia e vecchi valori! I vecchi dirigenti Pd ormai stancamente imborghesiti saranno la fine della sinistra. Avete un’ultima possibilità: Renzi! EDO
Due messaggi che dimostrano bene, mi pare, i livelli di tensione creati all’interno del Pd dal ciclone Renzi. Ma due messaggi, nello stesso tempo, che dimostrano bene il rischio di trovarsi di fronte, ancora una volta, al prevalere di una tendenza, da tempo suicida, della sinistra italiana. Simbolicamente rappresentata, in modo che non potrebbe essere più chiaro e più triste, dalla coincidenza di date e di orario fra l'apertura della campagna elettorale (Renzi e Chiamparino a Torino) e la riunione (a Roma, nel teatro Ghione) di una «minoranza» guidata nominalmente da Cuperlo ma in cui hanno trovato modo di mettersi in mostra diversi dei vecchi big: fra cui D’Alema, cui Bobo ha platealmente voltato le spalle uscendo dalla sala. Una coincidenza che propone un problema serio all'elettore del 25 maggio sulla unità del partito e sulla capacità di questa minoranza a collaborare con Renzi per ottenere un successo elettorale che ne rinforzerebbe il prestigio e la leadership ed un problema, dunque, su cui Cuperlo & c. dovrebbero essere molto chiari da subito. Comprendendo che un disprezzo così marcato per l’esito delle primarie significa indebolire l'intero partito. Trasformandolo definitivamente in un partito personale.
La Stampa 15.4.14
I “professoroni” e Tsipras
E con Zagrebelsky spunta Enzo Bianchi
“Conservatore è Renzi, non noi”
Evento a teatro con i professori Revelli, Zagrebelsky, Gallino, che hanno lanciato i candidati, Curzio Maltese e Alessandra Quarta
di Jacopo Iacoboni
qui
il Fatto 15.4.14
Zagrebelsky: “Gli 80 euro sono solo una pezza”
OTTANTA EURO di sgravio Irpef non sono una cosa da disprezzare, ma sono delle pezze, fatte per mantenere l’ordine nello status quo. Chiamare politica il rattoppo è un altro segno del degrado attuale”. Lo ha affermato Gustavo Zagrebelsky, intervenuto questa sera a un appuntamento elettorale della lista Tsipras a Torino, commentando una delle misure annunciate dal premier Matteo Renzi. “Questa legge elettorale è nata per far fuori le forze piccole, o obbligarle ad apparentarsi con quelle maggiori, portando loro acqua in cambio di nulla”, ha spiegato il presidente emerito della Consulta. “La democrazia - ha aggiunto - non è alimentata dai numeri ma dalle idee, pensare solo in termini di numeri è una concezione brutale”. E sui modi del presidente del Consiglio: “Renzi è un signore molto energetico, ma non è tanto una questione di uomini piuttosto di istituzioni . Oggi Renzi non fa pensare al tiranno, ma domani e dopodomani? Le istituzioni sono cose che devono valere per generazioni e quindi bisogna essere molto cauti. Non credo che i pericoli per la democrazia vengano da Renzi, ma non sappiamo cosa ci può riservare il futuro”.
l’Unità 15.4.14
Il tripolarismo imperfetto
LA CRISI DEL CENTRODESTRA NON È FIGLIA SOLTANTO DEL DECLINO BERLUSCONIANO. DELLA FINE DI UN’ANOMALIA. Se così fosse, nulla apparirebbe più normale della scomposizione interna, del calo dei consensi, della battaglia per definire una nuova proposta e una nuova leadership. Invece c’è qualcosa in più. Che riguarda l’intero sistema politico. La crisi del centrodestra dipende non poco, ed è aggravata dal consolidarsi del tripolarismo italiano. Solo chi aveva gli occhi bendati, ha continuato in questi mesi a invocare un bipolarismo virtuale e virtuoso.
Invece quello schema astratto - che vuole il centrosinistra e il centrodestra in competizione per il governo, ma non così tanto da smarrire il senso comune per le istituzioni, per l’Europa, per gli interessi vitali del Paese - da noi non è mai diventato realtà. Prima non è avvenuto perché Berlusconi si è affermato come campione dell’anti-politica. Il populismo è stato per lui una leva irrinunciabile di consenso. Il centrodestra forgiato dal Cavaliere ha considerato la Costituzione anzitutto come un sistema da superare, nei principi fondanti più ancora che nella seconda parte. La mutazione genetica dei moderati - dalla cultura politica, sociale, giuridica della Dc al radicalismo del partito del Nord, della rivolta fiscale e dell’avversione al «pubblico» - ha prodotto un agglomerato politico senza confini a destra, come mai si era realizzato nel dopoguerra. Il paradigma degasperiano del «centro che guarda a sinistra» è stato stravolto, demolito. E la costruzione del partito patrimoniale (prima ancora che personale) ne è diventato il corollario. Nel ventennio è stato Berlusconi il principale ostacolo alle riforme. Gli serviva una transizione senza fine per tenere la sua politica insieme alla sua immagine anti-politica. Ma il centrosinistra non è mai riuscito a prendere le misure di Berlusconi. E non è mai riuscito a vincere le elezioni in modo da poter governare con autonomia. Limiti oggettivi si sono sommati ad errori soggettivi. Il primo comandamento dell’Ulivo - governare da soli, fare le riforme con la destra - ha portato a un fallimento già nel 1997. E il centrosinistra non riuscì neppure a trarre vantaggio dal fatto che Berlusconi si fosse clamorosamente rimangiato il consenso espresso nella commissione Bicamerale. Un antiberlusconismo viscerale è via via penetrato nel centrosinistra, annebbiando la sua politica, allontanandolo dalle fasce popolari e spingendolo a rappresentare di più l’inquietudine dei ceti borghesi. Il conflitto interno ha ingigantito quei limiti. Mentre la sinistra europea era soggiogata nelle compatibilità imposte da Bruxelles. Così il bipolarismo italiano non è mai diventato realtà. Piuttosto la retorica bipolare è servita per prolungare la transizione, per destabilizzare ancor più il precario sistema. Fino alla mostruosità del Porcellum (che ora si vorrebbe in parte replicare con l’Italicum).
Intanto però un tripolarismo ha messo radici. Tripolarismo imperfetto quanto si vuole, ma non passeggero. Una delle definizioni che più hanno avuto successo negli anni Settanta è stata quella di «bipolarismo imperfetto». Il Pci era l’altro pilastro della democrazia italiana, ma non poteva governare per ragioni internazionali. E su questa conventio ad excludendum l’imperfezione è cresciuta negli anni Ottanta fino a concepire l’alternanza all’interno di un sistema bloccato. L’anomalia divenne malattia. E tutto crollò nella corruzione.
L’imperfezione di oggi sta nel fatto che uno dei tre poli, il più radicale, il Movimento 5 stelle, ha come obiettivo la demolizione del sistema e usa un linguaggio violento che è ormai parte essenziale della sua stessa identità politica. Probabilmente l’Europa finirebbe, se i grillini conquistassero il governo in Italia o Marine Le Pen vincesse le presidenziali in Francia. Ma - questa è la novità di oggi - non è sensato contrapporre ai terzi poli anti-europei, in crescita ovunque, una santa alleanza tra centrodestra e centrosinistra. È proprio la loro eccessiva somiglianza ad alimentare la sfiducia. È proprio la convergenza delle grandi famiglie europee attorno a una governance dell’Unione troppo tecnocratica a far crescere il desiderio di una rottura radicale.
Ecco perché il tripolarismo va affrontato con determinazione e idee nuove, che nulla hanno a che fare con la retorica degli ultimi vent’anni. La crisi del centrodestra è più acuta perché il dopo-Berlusconi deve prendere forma in una competizione a tre. Le riforme sono più difficili - e al tempo stesso ancor più urgenti e necessarie - sempre per lo stesso motivo. Speriamo ci pensino tutti bene. E prima di correre mettano in azione anche il cervello: si può decidere di affidare il governo a uno solo dei tre poli, ma il sistema delle garanzie va ristrutturato in modo solidissimo. Non possiamo permetterci avventure. Il centrodestra non può pensare di ridefinirsi semplicemente sommando in una coalizione coatta (in questo l’Italicum è identico al Porcellum) i governativi di Alfano, i lepenisti di Salvini e il cerchio magico del Cavaliere. Il centrosinistra, anzitutto il Pd, deve dimostrare con la politica che essere europeisti vuole dire saper cambiare l’Europa. E deve tornare ad attivare le radici popolari della sinistra. Perché i sondaggi spesso tradiscono. Il tripolarismo italiano sarà pure imperfetto ma difficilmente oggi concederà spazi ad altre ipotesi politiche, ad improbabili quarti poli di centro o di sinistra-sinistra.
il Fatto 15.4.14
Se questa è opposizione. Grillo “usa” Primo Levi
Il leader pentastellato modifica pure una foto di Auschwitz per attaccare il governo. La comunità ebraica: “profanazione”. Lui replica: “ma io volevo onorate lo scrittore”
di Luca De Carolis
Voleva essere una citazione colta e d’im - patto, ma l’artista da comizi ha suonato la nota sbagliata. Esponendosi a condanne a valanga, e a un’accusa che è un macigno: “Profanazione della Memoria ebraica”. Beppe Grillo inciampa su un post pubblicato sul suo blog, nella prima delle sue due giornate a Roma, dove ieri sera ha chiuso il tour Te la do io l’Europa (ma potrebbe aggiungere date). La “colpa” è “Se questo è un Paese”, parafrasi di Se questo è un uomo, capolavoro in cui Primo Levi racconta l’orrore vissuto nel campo di sterminio di Auschwitz. Secondo Grillo, “un modo di onorare Levi”. Nei fatti un autogol. Il fondatore di M5S scrive sulla falsariga della poesia introduttiva al romanzo. A corredo del post, un fotomontaggio sull’entrata di Auschwitz. La scritta sul cancello di ingresso, Arbeit macht frei (“Il lavoro rende liberi”) è corretta in P2 macht frei . Nel testo, bordate auliche: “Voi che vi disinteressate della cosa pubblica come se vi fosse estranea... voi che trovate a sera il telegiornale di regime caldo e visi di mafiosi e piduisti sullo schermo... considerate se questo è un Paese che vive nel fango che non conosce pace ma mafia”. E via parafrasando, tra attacchi al “vecchio impaurito delle sue stesse azioni che ignora la Costituzione” (Napolitano), e la delusione per “un Paese che ha eletto come speranza un volgare mentitore assurto a leader da povero buffone di provincia”, (Renzi). Ce n’è anche per “una donna, usata per raccogliere voti, per raccontare menzogne su un trespolo televisivo, per rinnegare la sua dignità, orpello di partito, vuoti gli occhi e freddo il cuore come una rana d’inverno”. La Boschi?
IL POST APPARE alle 11.22. Ed è tempesta. Il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, è durissimo: “Il post è un’oscenità, una profanazione criminale del valore della Memoria e del ricordo di milioni di vittime innocenti che offende l’Italia intera. Una provocazione per solleticare i più bassi sentimenti antisemiti e cavalcare il malcontento popolare”. Dagli altri partiti batteria di condanne. Luigi Zanda (Pd) parla di “fascismo di stampo nazista”. Picchia anche il 5 Stelle Tommaso Currò, dissidente: “È una parafrasi che non sta in cielo né in terra, offensiva”. Grillo se ne sta nel suo albergo vicino piazza Venezia, assieme alla moglie. Era arrivato domenica sera, tanto da cenare da Assunta Madre, teatro delle intercettazioni sul caso Dell’Utri. È sorpreso dalle reazioni: “Figuriamoci se posso essere accusato di antisemitismo. E poi nei post citiamo spesso artisti”. Prova a concentrarsi sullo spettacolo, per quel tour che vuole portare avanti con altre date, in Italia e non (si vocifera di una data a Bruxelles). Lavora alle iniziative di oggi. Nel pomeriggio terrà una conferenza stampa alla Camera contro Equitalia, di cui tornerà a chiedere l’abolizio - ne assieme ad alcuni cittadini. Poi dovrebbe andare a Palazzo Madama, a “sostenere” i senatori contro la riforma del voto di scambio. Ma nel giorno del post è bufera. In mattinata è morto Emanuele Pacifici, padre di Riccardo, presidente della Comunità ebraica romana. Laura Boldrini scrive: “La tristezza per la sua scomparsa è resa più pesante da chi ha voluto strumentalizzare il ricordo dello sterminio a fini di polemica politica”. Condoglianze anche da Berlusconi, con accorata nota. Delrio replica a Grillo: “Non c’è nessuna P2 che abita a Palazzo Chigi, la P2 è stata una disgrazia”. Il capogruppo in Senato Maurizio Buccarella prova a difenderlo: “Gril - lo parla per paradossi e analogie, se fosse fatta un’analisi seria del testo si vedrebbe che non mira a offendere: ma se qualcuno si è offeso mi scuso”. Il fondatore di M5S riceve la deputata Laura Castelli, che gli consegna la maglietta # abolireequitalia . Alle 19.40 esce e urla ai cronisti: “Grillo cosa ci dice di Renzi?”. Scompare in un minivan nero. Quindi arriva al Palalottomatica. E dal palco risponde: “Primo Levi scrive un libro straordinario, prendo una sua poesia per onorare uno scrittore come lui, che dice di non abbassare mai la testa, e che succede? Prendono questa roba per depistare l’attenzione dal contenuto”.
il Fatto 15.4.14
Quel post è un autogol
di Antonio Padellaro
Mentre stando ai sondaggi il M5S cresce nei consensi, unica opposizione in Parlamento e nel paese, Beppe Grillo mette in Rete un post di pessimo gusto nei confronti della memoria della Shoah che la comunità ebraica ha giudicato una “infame provocazione”. Non è il primo autogol dell’ex comico, era già successo con il demenziale video contro la Boldrini che scatenò i peggiori istinti del web. Fu ritirato, ci furono delle scuse che questa volta non ci saranno perché evidentemente l’autore intende difendere sia la riscrittura di Primo Levi sia l’indifendibile taroccamento della foto del cancello di Auschwitz. Per i tanti nemici del Movimento, un vero invito a nozze: “Fascisti” e “nazisti” sono gli epiteti più teneri scagliati contro i grillini. Forse però il commento più sincero è di quegli esponenti pd convinti che le malefatte di Grillo “saranno punite nelle urne”. Del resto, siamo in piena campagna elettorale per le Europee e la propaganda si nutre avidamente degli errori degli avversari. Resta il mistero di tanto autolesionismo. Nel giorno in cui Renzi mostra il fianco con alcune nomine molto discutibili al vertice degli enti e piegandosi a un nuovo incontro con il pregiudicato Berlusconi, il leader dell’opposizione sbaglia tutto. Assurdo.
l’Unità 15.4.14
Viaggiava con il biglietto non timbrato. «Pestato dai vigili»
Prensley Oviawe ha 49 anni e da 20 vive in Italia
Fermato per un errore dell’obliteratrice viene consegnato ai vigili che lo massacrano di botte
di Salvatore Maria Righi
Torna al tuo paese, tornatene a casa, non puoi stare qui a rompere le palle»: fino a pochi minuti prima era un giorno come tanti altri per Prensley. L’autobus da casa sua al centro di Padova, pochi chilometri sulla linea 22 da alternare alla bicicletta per andare al lavoro o per qualche commissione. Gesti e percorsi ripetuti quotidianamente, perché Prensley Oviawe ha 49 anni e da 20 vive in Italia, proprio nella città del Santo, dove ha raggiunto gli amici e messo su famiglia con una compagna e cinque figli, tutti nati in Italia: il più piccolo, Wensley, ha 4 mesi.
Prensley è nigeriano di Benin City, ha un permesso di soggiorno a durata illimitata, una carta d’identità con la residenza padovana e il codice fiscale. Ha lavorato in una fabbrica di scarpe e adesso a chiamata (per conto di una cooperativa di servizi) fa lo stewart alla Fiera, cioè si occupa di sicurezza, quindi sarebbe abbastanza bizzarro se avesse conti in sospeso con la giustizia: infatti è incensurato. E mai, giura, mai prima aveva vissuto un pomeriggio come quello di mercoledì scorso, a metà strada tra Arancia meccanica e la vicenda di Emmanuel Bonsu, lo studente ghanese che nel 2008 a Parma fu fermato e pestato nel comando della polizia municipale da otto vigili per cui la Corte di Appello di Bologna ha confermato le condanne di primo grado. Tutto è cominciato con un biglietto obliterato male sul bus, «la macchinetta aveva finito l’inchiostro», l’autista che chiama il controllore e il controllore che sale a bordo e gli dice «no, non ti faccio la multa e non ti facciamo neppure scendere, ti portiamo in questura». «Non è la prima volta che in questa città riceviamo segnalazioni di immigrati a cui sui mezzi pubblici gli addetti al servizio chiedono i documenti e li minacciano di portarli alla polizia», racconta l’Adl Cobas che insieme a Razzismo Stop si occupa di questo caso. Sono le quattro del pomeriggio e tutto, nel racconto di Prensley, succede nel giro di pochi minuti. L’autista vede una pattuglia della municipale, un vigile e una vigilessa, e accosta, anche se in quel punto non c’è una fermata per quella linea.
A quell’ora, Corso Vittorio Emanuele II è un via vai di auto, moto e pedoni, ma nessuno sembra fare caso a quel capannello intorno a Prensley: gli chiedono i documenti, lui fa per tirarli fuori dalla borsa, chissà cosa capiscono e gli saltano addosso. Lo perquisiscono. Il controllore gli tiene ferme le mani, il vigile lo ammanetta. «Mi hanno messo spalle al muro, con le mani bloccate dietro la schiena, e quell’agente mi ha dato un pugno in faccia, poi tanti altri, almeno una decina, mentre mi diceva quelle cose. Sentivo il sangue che usciva, lo vedevo per terra dove mi hanno bloccato, premendomi con i piedi sulla schiena. Gli dicevo che non riuscivo a respirare, ma hanno continuato. Non li vedevo nemmeno più, perché avevo gli occhi gonfi, come il naso e la bocca, sentivo solo le voci». Il suo racconto prosegue al comando, dove è stato portato e messo in una cella «ancora ammanettato, piangevo perché sentivo stringermi le mani, i vigili mi hanno detto tre volte “tra cinque minuti ti togliamo le manette” ». Gli hanno tolto tutto, documenti e cellulare, ma viste le sue condizioni, il comandante ha fatto chiamare il pronto soccorso. Voleva però che fosse medicato sul posto, «pulitegli il sangue qui». Il personale del 118 invece lo ha portato all’ospedale, dove è stato accompagnato dai vigili che hanno assistito a tutte le fasi del suo ricovero, visite ed esami radiologici compresi. I medici volevano trattenerlo per accertamenti, il giorno dopo, o ricoverarlo dopo gli accertamenti in Questura: «Poi vediamo se lo riportiamo». Nella nota della polizia municipale, è stato riaccompagnato al comando «per completare le procedure di identificazione e per tutte le incombenze di legge». Lui invece ricorda bene che è stato accompagnato in Questura con due auto, una di scorta, e contando anche tutti gli altri vigili intervenuti prima, arriviamo ad almeno una dozzina di agenti impegnati per un biglietto di autobus non valido. Il verbale con cui viene accusato di violenza e resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamenti e mancata esibizione dei documenti, non è stato compilato dai vigili che lo hanno «trattenuto» nel centro di Padova, in pieno giorno, davanti a diversi testimoni che ora i legali delle associazioni stanno cercando di trovare e sentire. Prensley è stato dimesso con una prognosi di 15 giorni per contusioni multiple, ematomi, tumefazioni e difficoltà visive. Tuttora, dice, ha l’occhio destro gonfio e cieco, oltre alla schiena dolorante.
Secondo la nota dei vigili, invece, una volta sceso dal bus, Prensley ha cercato di fuggire, «mettendo in atto una resistenza violenta che obbligava il personale intervenuto ad immobilizzarlo ». Ha fatto tutto da solo, hanno scritto: si è arrampicato su un’inferriata di una finestra e scivolando ha sbattuto il viso. E poi ha colpito i vigili con «gomitate, pugni e calci». Prensley quel giorno è arrivato a casa a notte fonda, con la solita scorta di agenti, e coi figli che non lo riconoscevano, tanto era pesto e sanguinante. Il giorno dopo è andato dai carabinieri per fare denuncia: «Continuo a chiedermi cosa ho fatto di male a quel vigile. E adesso ho paura, per mia moglie e i miei figli, per quello che può succedere anche a loro in questa città».
La Stampa 15.4.14
Palermo, accoltellata per strada dall’ex
L’uomo, fermato, era stato denunciato dalla vittima per stalking
qui
La Stampa 15.4.14
Assassinata dal marito a martellate
Terni, aveva chiesto di separarsi da lui
qui
La Stampa 15.4.14
Insultata dai cyberbulli si ammazza a 14 anni
Torino, presa di mira su Ask.fm: sequestrati il suo pc e lo smartphone
di Gianni Giacomino
«Addio, vi voglio bene» ha digitato su Whatsapp la studentessa 14enne. Poi ha inviato il messaggio a qualche amico e parente, verso le 2,30 della scorsa notte. Quindi è salita all’ultimo piano del palazzo di via Paganini, a Venaria, comune dell’hinterland torinese dove abitava con mamma, papà e una sorella più grande. Daniela (nome di fantasia), ha aperto una finestra e si è lasciata cadere con i suoi sogni, le sue speranze, le sue paure. È stata trovata alle 6, nel giardino condominiale, da una donna che stava andando a lavorare. Nessun dubbio per i carabinieri di Venaria: suicidio. Ma perché?
Le indagini puntano sui social network e soprattutto su «Ask.fm», sito che garantisce l’anonimato grazie al quale i cyberbulli si accaniscono contro chi manifesta debolezze, paure, o confessa inquietudini adolescenziali. Un fenomeno che in italia ha già causato due vittime, entrambe quattordicenni, a Novara e a Cittadella, che non hanno retto agli insulti.
E sul proprio sul web la 14enne di Venaria ha navigato e scambiato opinioni con altri giovani fino all’altro giorno. Messaggi graziosi e spiritosi. La studentessa di terza media sogna una vacanza in Spagna con l’amica del cuore. Dice che non può più fare a meno di lei. Ma riceve anche pesanti insulti: «Dimostri appena 10 anni», e ancora: «Sei la vergogna delle ragazze del 2000». Poi insulti a sfondo sessuale, bestemmie. Per questo gli investigatori, coordinati dal pm della Procura di Ivrea Giuseppe Drammis, hanno sequestrato il computer e il telefonino cellulare della vittima. Nelle prossime ore verrà nominato un perito: dovrà analizzare tutti i contenuti dei due apparecchi.
L’ipotesi più inquietante è che qualcuno, insultando la 14enne di Venaria, che aveva il complesso di non essere bella e lo ripeteva spesso a chi le faceva qualche complimento su Facebook, l’abbia istigata al suicidio. «Stiamo valutando tutti gli aspetti della vicenda - ammette Giuseppe Ferrando, procuratore capo di Ivrea -. La polizia postale effettuerà dei controlli sui blog e sulle chat nelle quali navigava la studentessa».
Distrutti il padre della vittima, un autotrasportatore e la mamma casalinga, la sorella. I professori della scuola media «Lessona», i suoi amici. Quelli che ieri hanno adagiato nel giardino di via Paganini mazzi di fiori con lettere d’addio piene di parole affettuose. Agli investigatori, comandati dal capitano Roberto Capriolo, i genitori hanno raccontato che, ultimamente, quella figlia così gracile era un po’ depressa per problemi di salute al cuore e ai reni. Perché si vedeva più piccola delle sue coetanee. «E le dispiaceva non avere un ragazzo - ammette una sua amica in lacrime -. Ma noi le dicevamo che sarebbe arrivato anche quello, che adesso dovevamo solo divertirci».
Non una lettera, un sms, qualcosa per spiegare come mai, la notte scorsa, la teenager con la passione per il rapper italiano «Fedez» ha deciso di farla finita.
Resta solo una speranza: è che, nonostante «Ask.fm» sia anonimo, gli esperti riescano a risalire ai cyberbull che usano la rete.
l’Unità 15.4.14
Noi medici abbiamo già pagato la nostra parte
di Domenico Montemurro e Dario Amati
STIMATISSIMO MATTEO RENZI, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, SIAMO DOMENICO MONTEMURRO E DARIO AMATI, DUEMEDICI DIPENDENTI del sistema sanitario nazionale e ci permettiamo di darti del tu considerando che siamo coetanei e per cercare di essere il più possibile diretti. Abbiamo maturato la decisione di scriverti una lettera aperta, quando abbiamo appreso dai giornali che, nelle ipotesi di taglio della spesa pubblica, è previsto anche il taglio degli stipendi ai dirigenti medici.
Questa scelta ci appare come il culmine di una deliberata aggressione ad una categoria che, in questi anni ha, lasciato sul terreno una ingente parte del proprio reddito. Infatti il mancato rinnovo del contratto di lavoro dal lontano 2009 ha già prodotto una perdita stimabile ad oggi in circa 30.000 euro. In molte Regioni italiane, ai giovani medici dipendenti che hanno superato la valutazione professionale dopo i primi 5 anni di lavoro, non è stato erogato l’adeguamento stipendiale previsto da leggi e contratti, creando di fatto un ulteriore aggravio della situazione. Se sommiamo le varie voci si arriva ad una perdita superiore a 60.000 euro negli ultimi quattro anni, senza possibilità di recupero e con riflessi previdenziali evidenti. Insomma caro Matteo, i medici dipendenti, unica categoria in Italia, hanno già pagato la loro quota pro-capite del debito pubblico italiano.
Ma non basta. I «giovani medici», vessati dal blocco delle assunzioni, hanno visto fiorire contratti capestro che rasentano i limiti dello sfruttamento. Il blocco del turn-over, i tagli lineari e selvaggi degli ultimi anni, hanno determinato un pericoloso incremento dei carichi di lavoro, facendo crescere le criticità legate al lavoro quotidiano (riposi non effettuati, ferie non godute, straordinari non pagati). Ti invitiamo a effettuare personalmente delle visite nei Pronto soccorso e nei reparti ospedalieri per verificare l’inimmaginabile situazione in cui operatori e cittadini sono costretti a lavorare e vivere. Ogni giorno ed ogni notte, colleghe e colleghi, in perfetta parità di genere e con età sempre più avanzate, mantengono alti gli standard di cura offerti dal servizio sanitario nazionale, sacrificandosi personalmente per compensare una situazione di degrado ormai insostenibile.Mail nostro non è considerato un lavoro usurante.
Il fiorire di contenziosi medico-legali ha prodotto una crescita smisurata dei premi assicurativi che spesso sfiorano il 10% del reddito del medico. Alla fine del ciclo di studi, di costi e lunghezza senza pari, all’età di circa 30-31 anni, se si ha la fortuna di essere assunti, ai 2500 euro circa in busta paga netti bisogna togliere le spese di assicurazione di Responsabilità civile (non obbligatoria ma fortemente consigliata per non essere ridotti sul lastrico) nonché quelle della necessaria formazione continua. Ciò che rimane di certo in tasca ad un medico è la paura di una denuncia spesso immotivata.
Dovresti poi spiegarci perché in sanità la maternità non è un diritto. Le colleghe che ne usufruiscono infatti non vengono sostituite (la sostituzione viene considerata una nuova assunzione) e chi rimane lavora per tutti. E perché dovremmo rimanere nel nostro Paese, quando ci vengono offerte opportunità interessantissime di lavoro a poche centinaia di chilometri attraversando le Alpi ad esempio. Non siamo anche noi cittadini dell’Europa?
Con l’attuale riforma pensionistica, un medico neoassunto, non potrà andare in pensione prima dei 70 anni. Ci viene proposto di lavorare praticamente sino alla fine dei nostri giorni a ritmi ed in condizioni inaccettabili con la prospettiva che il nostro stipendio calerà progressivamente.
Siamo spiacenti, ma noi abbiamo esaurito lo spirito di sacrificio, e se dopo avere bloccato contratto e stipendio adesso si procede al loro taglio ex lege, vuol dire che all’interno della sanità pubblica non c’è più spazio per merito e passione del lavoro.
Vorremmo, per un «mestiere» che non è «normale», condizioni di serenità, professionale ed economica ed un riconoscimento per il valore di quello che facciamo garantendo la esigibilità di un diritto tutelato dalla Costituzione.
La Stampa 15.4.14
“Terremo questi gemelli ma dove sono i nostri embrioni?”
Il marito teme un’azione di disconoscimento del padre biologico
di Laura Anello
qui
Corriere 15.4.14
Madre è chi porta in grembo il bambino
Sopravvalutiamo l’eredità genetica
di Camilla Baresani
Qualche mese fa, ho avuto la necessità di aggiungere alcuni dettagli realistici all’intreccio del romanzo che stavo scrivendo. Ho così chiamato un amico, il professor Enrico Semprini, ginecologo e immunologo riproduttivo. La mia domanda era questa: i figli sono di chi li cresce o dei genitori biologici? Conta più la biologia o l’educazione? In questi giorni, il caso dello scambio di provette con embrioni, avvenuto all’ospedale Pertini, mi riporta alle risposte di Semprini.
La percentuale di componenti ereditarie nel Dna dei figli è inferiore a un misero 1%, e di quell’1% metà appartiene al padre e metà alla madre. La percentuale di geni in comune tra un moscerino e un elefante, per fare un esempio, è dell’88%. Quando diciamo che un bimbo ha preso «dalla madre» o «dal padre», facciamo riferimento soprattutto a influenze di cultura, ambiente e società, non certo di geni, poiché con uno 0,50% di componente ereditaria biologica per genitore è veramente difficile creare una tendenza.
Semprini evidenzia d’altronde come durante la vita fetale chiunque, anche un embrione derivante da fecondazione eterologa, riceva dalla puerpera cellule e anticorpi, che rimangono poi in dotazione per tutta la vita, condizionando il suo futuro stato di salute. C’è dunque un enorme contributo biologico della puerpera nello sviluppo del figlio che porta in grembo, e quel contributo non è di carattere genetico.
Qual è dunque la vera madre di un bambino? C’è quella che gli dà lo 0,50% di geni, quella che gli passa cellule e anticorpi durante la gravidanza, quella che lo fa crescere. Non sempre le tre figure coincidono. Secondo me, tuttavia, la madre più vera, i genitori più veri sono quelli che accolgono nella propria famiglia i bambini, chiunque siano: sangue del loro sangue o esserini sconosciuti catapultati nel loro mondo tramite fecondazione eterologa o adozione. Esistono tanti casi di figli adottivi che assumono il modo di fare, lo stile e persino le sembianze di chi li ha cresciuti. La realtà scientifica mostra quanto sia sopravvalutata l’influenza genetica dei genitori.
Repubblica 15.4.14
Salviamo l’Unione dai pifferai del “globish”
Riscoprire le culture nazionali unica via per rifondare quel sogno nato 60 anni fa
di Marc Fumaroli
LA PRIMA fondazione della nostra attuale Europa risale a sessant’anni fa, in risposta a un’immane tragedia, pure di origine europea: la rovina del Vecchio continente, dopo più di quattro anni di guerra totale. Fu anche l’inizio della guerra fredda con l’Urss che si era impadronita dell’Europa dell’Est. La risposta, e la speranza, oltre al piano Marshall che consentì all’Ovest una ripresa economica abbastanza rapida, era la volontà politica della democrazia cristiana e della socialdemocrazia - incarnate da Robert Schuman, Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Jean Monnet - di creare una nuova Europa federale.
Si incominciò modestamente con un’Autorità comune franco-tedesca del carbone e dell’acciaio, cui aderirono nel 1951 l’Italia e il Benelux, ma non la Gran Bretagna. Fin da allora, il rifiuto del Regno Unito lasciava prevedere una divergenza di vedute tra l’ambizione (la «mistica», come qualcuno ha potuto dire) di un federalismo europeo che aprisse la strada a un’integrazione politica, e il geloso pragmatismo degli inglesi, riluttanti ad andare al di là di una zona di libero
scambio.
Oggi questa discrepanza, allora secondaria, è diventata un abisso. Tra il 1951 e il 1992 (firma del trattato di Maastricht) la nuova Europa si è gradualmente dotata di un quadro internazionale originale e coerente (Commissione, Consiglio dei governi, parlamento) portando avanti una cooperazione sempre più stretta.
QUESTO movimento in senso federalista fu però bruscamente raffreddato, nel 1954, dal rifiuto francese di una comunità europea della difesa, avversata anche da Londra. Un grave insuccesso del federalismo, compensato però nel 1957 dalla ratifica francese del Trattato di Roma, che creava una Comunità economica europea.
Nel 1979 la decisione di far eleggere il parlamento europeo a suffragio universale fu finalmente ratificata a Parigi e messa in pratica. Jacques Delors, nominato l’anno dopo presidente della Commissione di Bruxelles, mise in cantiere il progetto di moneta unica. Fu una sorta di età dell’oro, che vide entrare nella comunità il Portogallo, la Spagna e la Grecia: tre grandi popoli, liberati dai loro dittatori.
Paradossalmente, nel 1989 il crollo dell’Unione Sovietica, e l’impazienza delle nazioni dell’Est, ansiose di entrare al più presto in un’Europa libera e prospera, ha destabilizzato un successo che aveva retto relativamente a lungo. Scomparso il pericolo comune, si è allentata la solidarietà dei tempi difficili; e alle nazioni liberate non si è neppure chiesto un periodo di adeguamento alle regole del gioco europeo. Per di più le istituzioni europee, concepite per un piccolo numero di nazioni, sono state travolte dall’afflusso dei nuovi membri a parità decisionale, con folle di nuovi eurodeputati e burocrati. I trattati successivi, che avrebbero dovuto porre rimedio alla conseguente paralisi (Nizza 2001, Lisbona 2007) non sono riusciti a compensare la bocciatura, in Francia e nei Paesi Bassi, del testo di costituzione federale elaborato sotto la direzione di Valery Giscard d’Estaing, e sottoposto nel 2005 al voto popolare.
Così da noi, a partire dal 1989, la fede nell’Europa che oggi ammiriamo nella popolazione ucraina si è sgretolata. A Ovest c’è chi crede di poter ritrovare la sicurezza materiale che si chiedeva all’Europa nell’eventuale ritorno alla piccola o grande patria, e nella ricostituzione del XIX secolo rurale dei nazionalismi e localismi. E benché l’attuale crisi finanziaria che ci colpisce abbia effetti meno devastanti di quella del 1929 grazie ai palliativi messi in campo dalla Bce, ci si ostina a cercare un capro espiatorio nell’euro e nell’Europa.
In campo geopolitico - dalla gestione caotica della crisi jugoslava e dai bombardamenti di Belgrado alla creazione dello strano Stato del Kosovo, dal brancolare patetico a fronte della pretesa turca di aderire all’Ue alle reazioni scomposte davanti all’annessione della Crimea alla nuova Russia - le carenze europee in materia di capacità di giudizio e volontà politica hanno contribuito a scuotere la fiducia popolare nell’Europa non meno del torrente di direttive cavillose e livellatrici emesse dalla Commissione di Bruxelles.
Eppure ci dobbiamo stare. Non abbiamo un altro futuro percorribile al di fuori dell’Europa - un’Europa delle nazioni, e al tempo stesso un’Europa federale dotata di un esecutivo forte. Il nostro errore più grave è stato quello di aver disatteso la generosa volontà politica all’origine di questo capolavoro che è l’Europa unita, puntando tutto sull’economico e sul sociologico. E sacrificando a queste sottoculture la questione essenziale. Che è, evidentemente, quella dell’educazione - rivolta allo statista come al semplice elettore - a una cittadinanza europea.
Un’educazione da reinventare, che non dovrà annullare, ma rinnovare e ravvivare da un nuovo punto di vista la memoria e l’esperienza di ciascuna delle nostre nazioni.
Stiamo lasciando che le nostre ricche lingue nazionali si dissolvano in un globish miserando! Invece di esaminare con prudenza gli effetti delle «rivoluzioni» tecnologiche da cui proliferano i pifferai di Hamelin, ci lasciamo aggredire fin dalla culla da un buzz che si gonfia fino a farci confondere il bene pubblico col pubblico rumore. Se tutta la modernità è partita dall’Europa, anche la sua moderazione verrà, a lungo o a breve termine, dall’Europa del futuro, dal fondo della sua attuale crisi.
L’autore è membro dell’Académie française.
il Fatto 15.4.14
Usi e costumi
L’insegnamento di Frau Merkel non è pagare il biglietto
Il patrimonio culturale viene percepito dai nostri politici solo come un’attrezzeria di scena
Nessuno di loro passa tre ore a Pompei
di Tomaso Montanari
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha visitato la Pompei antica, pagando il biglietto. Non ci sarebbe la notizia: almeno non in un paese civile. Diventa, invece, una notizia proprio il fatto che, in Italia, questo piccolo accadimento abbia avuto una straordinaria risonanza mediatica. Per noi un capo del governo che si comporta come un cittadino è un evento letteralmente eccezionale.
E qui sta il primo punto: lo scollamento tra classe politica e cittadinanza. Un abisso antropologico che certo non viene colmato da un Matteo Renzi, figlio d’arte e professionista della politica fin dall’età della ragione.
Eppure, nonostante l’effimero compiacimento verso il gesto graziosamente accondiscendente del potente di turno, il dato su cui interrogarsi è che millenni di potere, imperiale e poi papale, hanno abituato gli italiani a piegare le ginocchia di fronte alla scenografia del sovrano di turno. Il dato tragico è che, in fondo, non prenderemmo sul serio un potente che si comportasse da cittadino. Nello specifico, tuttavia, l’aspetto su cui riflettere è il rapporto tra il potere e il patrimonio culturale. Come dimostra il recentissimo scivolone della sottosegretaria Vicari, che ha chiesto i quadri dei musei di Roma per arredarsi l’ufficio al ministero dello Sviluppo economico, il nostro patrimonio storico e artistico viene percepito come una specie di grande attrezzeria di scena al servizio del potere. Quadri delicatissimi vengono spediti come commessi viaggiatori in mezzo mondo, gruppi scultorei antichi sono dislocati nei palazzi della politica, un luogo unico come Villa Madama (progettata da Raffaello) viene usato come sfondo di lusso per i vertici internazionali dei nostri capi del governo.
QUEL CHE MANCA è un qualsiasi indizio di un rapporto personale tra i “potenti” e quello stesso patrimonio. La vera notizia, per l’Italia, non è che Angela Merkel abbia pagato il biglietto, ma che abbia impiegato tre ore e mezzo del suo tempo privato e personale per vedere Pompei, con una cartina in mano e in compagnia di un archeologo tedesco. E che abbia trovato poi il tempo di vedere anche il Rione Terra di Pozzuoli, con le sue vestigia romane e il suo Duomo appena restaurato. Ora, quale politico italiano lo farebbe, se non per dovere di Stato, e a favore di telecamera? E questo è il punto: in Italia non c’è mai stata una vera politica per la cultura, perché almeno dagli anni Sessanta, la nostra classe politica – salvo rare eccezioni – non è stata composta da persone che avessero un vivo rapporto personale con la cultura. È dura parlare di politica internazionale con uno che non sa nemmeno cos’è la geografia, o di economia con uno che non ricorda manco le tabelline: eppure, la stragrande maggioranza dei nostri ministri per i Beni culturali e dei nostri presidenti del Consiglio non ha la più pallida idea di cosa sia un museo, per non dire uno scavo archeologico. Commentando un libro di Renzi, Paolo Nori ha scritto “Ecco: a me è sembrato stranissimo che in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta”. Ed è per questo che ci colpisce così tanto vedere la Merkel felice di passare tre ore e mezza tra scavi da cui i suoi omologhi italiani scapperebbero a gambe levate. Infine, il biglietto. Salvo rarissime eccezioni, nessuna istituzione culturale del mondo campa con i biglietti: ed è per questo che si potrebbe addirittura pensare di sopprimerli, sottolineando così – come avviene, per esempio, in molti musei pubblici inglesi – la gratuità del patrimonio e la sua dimensione inclusiva. Piuttosto, sarebbe stato bello far notare a Frau Merkel che se Pompei versa nello stato penoso in cui l’ha trovata, è in massima parte a causa dei dissennati tagli al bilancio pubblico imposti proprio dall’Europa a trazione tedesca. Non esiste una politica europea della cultura, né una chiara idea della sua funzione civile: e forse il punto da cui partire potrebbe esser proprio il senso della Merkel per Pompei. Senza battere i pugni sul tavolo, ma riallacciando i fili di un’antica conversazione tra Italia e Germania.
il Fatto 15.4.14
Cose russe
Vladimiro Putin si triplica lo stipendio
VLADIMIR PUTIN SI TRIPLICA LO STIPENDIO Vladimir Putin si alza lo stipendio. Anzi, arriva quasi a triplicarselo, dopo che nei giorni scorsi era emerso dalle dichiarazioni dei redditi che guadagnava solo 3,7 milioni di rubli annui, pari a 74 mila euro. Meno di quasi tutti gli altri leader che contano nel mondo, ma anche del premier Dmitri Medvedev (4,3 milioni di rubli, ossia 85 mila euro) o di molti dei suoi ministri e consiglieri. E persino del suo stesso portavoce Dmitri Peskov (185 mila euro). Troppo imbarazzante, e soprattutto poco credibile dato che la dozzina di orologi da polso, secondo i suoi detrattori, varrebbe da sola 700 mila dollari. Così oggi ha disposto un adeguamento dell’appannaggio presidenziale e degli emolumenti del capo del governo, che saranno moltiplicati per 2,65. Putin ora arriverà a guadagnare 196 mila euro l’anno, comunque meno della metà di Obama. Dalla sua ultima dichiarazione dei redditi, Putin risulta proprietario, a titolo personale, solo di un appartamento di 77 metri quadrati, di un terreno di 1.500 mq, di un box auto di 18 mq e di tre automobili.
il Fatto 15.4.14
Sexminister, i deputati porcelli di Londra
Molestie e alcol in Parlamento, festini gay con soldi pubblici
Parlamentari conservatori sotto accusa
A poco più di un mese dalle Europee il partito di Cameron in picchiata nei sondaggi
di Caterina Soffici
I giornali lo hanno chiamato Sexminster, ovvero sexgate a Westminster. La settimana scorsa Channel 4 ha mandato in onda un documentario nel quale una settantina di dipendenti della Camera dei Comuni (assistenti, commessi, portaborse) raccontano di essere stati molestati dai parlamentari, che dopo una certa ora si danno alla bella vita dentro i corridoi e nelle altere stanze del Parlamento più vecchio del mondo, dedicandosi a sesso e alcool... I riflettori sono puntati sul partito del premier David Cameron, perché i parlamentari beccati con le mani in zona mutande sono tutti tory e a un mese dalle elezioni europee, i sondaggi danno il partito in picchiata: 29%, contro il 35 % del Labour e un 20 % degli euroscettici e indipendentisti dell’Ukip.
IN VERITÀ, IERI MATTINA il Daily Mail citava un altro sondaggio dove l’Ukip sarebbe addirittura al secondo posto, ma Cameron pare non preoccuparsene troppo, visto che è partito con la famiglia per una settimana di vacanza pasquale alle Canarie. Ogni giorno è una grana nuova per Cameron: dopo le dimissioni di Maria Miller da ministro della Cultura per il rimborso delle spese del mutuo, l’Independent ha rivelato la ragione delle dimissioni in gran segreto, avvenute qualche settimana fa, di tal Iain Corby, alto funzionario dei tory. Durante la Convention del partito a Manchester nel 2011, Corby avrebbe gozzovigliato a spese del partito nella penthouse dell’albergo a 4 stelle organizzando festini e orge, a base di alcol e scambi omosex ed etero. Un gran bordello, insomma, con dettagli piccanti, rivelati da sms spiattellati sui giornali. “Mi sto godendo la penthouse” scrive il tapino. E nessuno si scandalizzerebbe se non fosse che l’albergo era pagato con i fondi del partito conservatore, quindi – questo il grande sospetto – con i soldi dei generosi cittadini contribuenti. Come se non bastasse, la settimana scorsa è stato assolto Nigel Evans, deputato gay, anche lui tory, dimessosi l’anno scorso da vicepresidente del Parlamento dopo un’accusa di abusi e stupro da parte di sette giovani uomini, stagisti e ricercatori di Westminster.
In un’intervista alla Bbc Evans si è scagliato ieri contro il clima da caccia alle streghe sulle pratiche sessuali dei parlamentari e ha detto di non credere che il Parlamento di Westminster si sia trasformato in Sexminster. Ha confessato di aver pensato al suicidio durante gli 11 mesi del processo e ha chiesto l’apertura di una indagine sul modo in cui la procura inglese persegue i casi di abusi sessuali. Infine ha chiesto la restituzione delle spese legali sostenute, circa 130 mila sterline.
MA INTANTO IERI un altro conservatore è finito nel ciclone: il deputato Oliver Heald, che era il diretto superiore di Corby, è stato accusato di non averlo punito adeguatamente per i festini nell’hotel di lusso a Manchester. E quindi torna di nuovo l’ossessione britannica per la trasparenza e il sospetto che i parlamentari si coprano a vicenda. Cosa ben più grave, a queste latitudini, dei privati affari di letto.
Corriere 15.4.14
Grecia in fondo al tunnel della crisi ma spuntano i vantaggi del fallimento
di Raffaella Polato
Provocazione? Invocazione? Semplice constatazione? Con Wolfgang Münchau non si sa mai. Le sue analisi sono spesso un mix. Particolarmente politically incorrect , stavolta, come del resto da sua stessa premessa: l’ultimo spunto sparato dalle colonne del Financial Times «non è un tema di educata conversazione a Bruxelles o ad Atene», né «un argomento popolare per una conferenza di investitori».
Sarebbe strano il contrario. Quel che l’editorialista tedesco ha servito ieri al tavolo della classe dirigente globale è niente meno che il «suggerito» fallimento della Grecia. Meglio (o peggio) ancora: è una fastidiosa pulce spedita a sussurrare ai lettori dell’Ft che forse questa è un’altra «bolla»; che l’applauditissimo «tutto esaurito» con cui Atene è tornata sui mercati dopo quattro anni all’inferno tanto sinonimo di ripresa non è; che, semmai, «per la prima volta» il Paese è davvero «in una posizione di inadempienza». Anzi, a dirla tutta: è il momento perfetto per dichiararsi non in grado di ripagare i debiti, e far pendere la bilancia dritta sul piatto intitolato «vantaggi di un fallimento». Dopotutto, scrive Münchau, «la probabilità di un default è al suo punto più basso proprio subito dopo il default ».
Pare lapalissiano. Non lo è poi tanto. La logica seguita parte dalla conferma che sì, certo, sei anni di crollo hanno «probabilmente portato la Grecia vicino al fondo della crisi». E sì: se fino a ieri solo i fondi speculativi azzardavano incursioni sui bond ellenici, la settimana scorsa sono stati 600 investitori internazionali d’altro rango ad azzuffarsi per finanziare Atene (chiedeva tre miliardi, avrebbe potuto ottenerne venti). Però. Primo, nell’elenco Münchau: i titoli erano a medio termine e ad alto rendimento. Secondo: l’analisi dice che quella greca «non è recessione, né ripresa: è un’economia collassata». Terzo: il ritorno degli investitori non significa ritorno di fiducia nella capacità di mantenere gli impegni «lunghi». Al contrario. Occorrerebbe che i capitali in arrivo filtrassero nell’economia reale anziché andare a tamponare il debito. Come invece succederà. Per cui: a meno che — eccolo, il suggerimento — Atene non decida di sparigliare scegliendo un conveniente fallimento, l’uscita dal tunnel rimarrà un gigantesco abbaglio. Secondo Münchau, certo. Ma se ha ragione lui, che ne facciamo dei bond -applausi elargiti da Angela Merkel, Christine Lagarde, e giù giù per gli altri rami dell’establishment mondiale?
Corriere 15.4.14
In Kosovo si processano i crimini Uck e la guerra dei dossier colpisce l’Italia
di Francesco Battistini
C’è del marcio in Kosovo? Sicuramente sì. Quindici anni di dopoguerra e sei d’indipendenza non sono bastati a farne uno Stato non si dice europeo, ma nemmeno pacificato e capace di far da sé. Troppi conti aperti: col passato e nelle banche, tra le gang e la comunità internazionale. L’ultimo da saldare, il più sconvolgente e temuto, riguarda un segreto a lungo tenuto: la scomparsa nel 1999 d’almeno cinquecento serbi kosovari, deportati nell’Albania settentrionale e qui uccisi, con probabile espianto e vendita di reni e di cornee. Un (controverso) rapporto 2010 del Consiglio d’Europa dice chiaro che le responsabilità di quei crimini portano al premier Hashim Thaci e ai capi storici dell’Uck, l’Esercito di liberazione del Kosovo, che la Nato sostenne. L’Ue e l’Onu devono decidere, nelle prossime settimane, l’istituzione d’un tribunale speciale che processi Thaci e i suoi.
A Pristina, fin dalle denunce del generale Fabio Mini o del giudice Carla Del Ponte, di certe verità inconfessabili s’è sempre sussurrato. Ma ora che la questione si pone, e si tratta di rifinanziare la più costosa missione internazionale della storia europea, è cominciata una guerra di dossier&veleni di cui non è difficile intuire l’origine. Nel mirino sono finiti anche due giudici italiani, Maurizio Salustro e Francesco Florit, guarda caso candidati a entrare nel tribunale speciale: minacciati, messi sotto inchiesta dai kosovari con accuse pretestuose, i due pagano forse l’aver indagato un po’ troppo su qualche eccellente.
Nella campagna anti-europea sembra entrare anche un’oscura inchiesta sui visti facili che ha portato all’arresto del figlio di Rugova, «il Mandela del Kosovo», e coinvolto la nostra ambasciata. Giovedì, Thaci ha giudicato assurda la semplice idea d’essere processato. Unica a rompere l’omertà, unica speranza di rinnovamento, la giovane presidente Atifete Jahjaga che ha osato contraddire il Capo e ribattergli: «Sosterremo il tribunale speciale sui crimini dell’Uck». La strategia di Thaci è chiara: grazie dei soldi, l’Europa s’accomodi e se ne vadano i funzionari internazionali, adesso in Kosovo facciamo noi. Qualcuno gli spieghi che l’aiuto non è complicità .
La Stampa 15.4.14
Cina, migliaia di lavoratori in sciopero
I colossi della scarpe verso la paralisi
Gli operai della Yue Yuen (gruppo che produce scarpe per Nike, Crocs, Adidas, Reebok, Asics, New Balance, Puma, Timberland), chiedono condizioni migliori.
Le grandi aziende temono di non poter sopperire alle richieste dei compratori
qui
Repubblica 15.4.14
Ramallah, Parigi, Londra: ormai è un intrigo internazionale quello della statua trovata in mare da un pescatore palestinese
L’Apollo di Gaza un caso politico “L’Europa tratti con Hamas”
di Fabio Scuto
GERUSALEMME. OTTO mesi dopo il suo ritrovamento fra le sabbie della spiaggia antistante il campo profughi di Deir Balah, il mistero di Apollo di Gaza - una meravigliosa statua ellenica in bronzo di dimensioni umane - si infittisce invece che dipanarsi. Il suo destino resta incerto: per essere “salvato”, Apollo deve essere rapidamente restaurato e diversi musei francesi (sarebbe stato offerto al Louvre) inglesi e anche italiani sono interessati. Ma è la diplomazia a fermarli: con Hamas, che comanda a Gaza, non si parla perché è sulla black list europea e americana del terrorismo. Ma è con Hamas che l’Europa dovrebbe trattare per salvare l’Apollo, che rischia di “sparire” per essere venduto a qualche ricco collezionista e salvare il movimento islamista dalla più grave crisi finanziaria
della sua storia.
A ottobre Repubblica raccontò in esclusiva a tutto il mondo lo straordinario ritrovamento da parte di un giovane pescatore della Striscia, a fine estate a poche decine di metri dalla riva, di questa opera d’arte paragonabile per fattura e bellezza ai Bronzi di Riace. Il pescatore tentò di capire il valore della statua scambiando il bronzo per oro, la questione attirò l’attenzione delle spie di Hamas e la statua venne sequestrata. Ma i vertici dell’organizzazione palestinese non vennero informati, due boss del gruppo che controlla Gaza, pensarono di poter incrementare il loro personale conto in banca vendendolo ai predatori dell’arte, al mercato nero dei reperti archeologici. Fallita la trattativa dopo l’articolo di Repubblica, Hamas ha fabbricato una sua verità e in gennaio ha presentato al mondo la “scoperta” di Apollo di Gaza. Una disdetta per l’immagine degli integralisti perché Apollo non può essere esposto al pubblico, per l’Islam la riproduzione dell’immagine umana è “haram” (peccato) e poi il dio greco offre allo sguardo tutte le sue nudità.
Sotto le sabbie della Striscia ci sono cinquemila anni di Storia. Sulle sue rive hanno marciato Egizi, Filistei, Romani, Bizantini e Crociati. Alessandro il Grande assediò la città, fu il più importante porto romano per il commercio dell’incenso. Riccardo Cuor di Leone la strappò a un sultano ayyubide. Ha fatto parte dell’Impero Ottomano, fu attraversata dall’esercito di Napoleone. A Gaza ovunque si scavi saltano fuori vestigia antiche e moltissimi reperti hanno preso la strada dei tunnel del contrabbando con destinazione Egitto.
Anche se invisibile, su Apollo a Gaza si continua fantasticare. Quanto varrà? 10 milioni di dollari? 40? 100? O forse di più? È una potenziale miniera d’oro che può infiammare il desiderio di Hamas, che affronta la sua più grave crisi finanziaria dopo la caduta di Mohammed Morsi in Egitto. Difficile fare una stima reale del valore. Poche statue bronzee ci sono pervenute dall’antichità, perché la maggior parte sono state fuse nel corso dei secoli per ricavarne armi, scudi o altri manufatti. Ecco perché la statua scoperta da Jawdat Ghorab, il povero pescatore di Deir Balah, ha un valore non-stimabi- le. Soprattutto perché sappiamo che solo tre statue in bronzo di Apollo sono finora arrivate fino a noi: quello trovato nel 1959 al Pireo, vicino ad Atene; l’Apollo di Piombino, trovato in Italia nel 1832 che è al Louvre; e quello di Pompei, nel 1977.
A Ramallah, in Cisgiordania, anche il quartier generale dell’Autorità palestinese, è anche interessato a Apollo di Gaza: «Il governo di Hamas è illegale, non ha alcuna autorità per quanto riguarda il patrimonio culturale e archeologico di Gaza», dice Anwar Abu Eisheh, ministro palestinese della Cultura. «Non possono venderlo», incalza Elias Sanbar, ambasciatore della Palestina all’Unesco, «perché come comparirà sul mercato internazionale, verrà sequestrato. Con il Dipartimento dell’Unesco per la protezione dei beni culturali, abbiamo allertato l’Interpol».
Divisi su tutto, i protagonisti del mistero di Apollo di Gaza concordano però su un punto: è urgente avviare un restauro della statua del dio greco, per stabilizzare il metallo, limitare le corrosioni. Ma come? Nessun governo occidentale riconosce il regime di Hamas e questo escluderebbe a priori un “salvataggio” dell’Europa. Ma in Medio Oriente niente è come sembra. Il direttore delle Antichità per Gaza, Ahmed al-Borsh, annuncia di aver contattato il Louvre per ottenere aiuto e salvare Apollo. In campo ci sarebbe però non solo il più famoso museo del mondo, ma anche un importante Istituto archeologico britannico. La direzione del Louvre replica diplomaticamente di «non essere stata ufficialmente contattata». Anche l’ex ministro della Cultura Massimo Bray aveva manifestato interesse per Apollo di Gaza, coltivando la speranza di poterlo mostrare al mondo all’Expo di Milano del 2015. Ad Hamas la “soluzione francese” piace e Ahmed al-Borsh non nasconde le sue intenzioni: «Speriamo che la Francia rompa l’embargo contro Gaza con questa statua, sarebbe il primo Paese a farlo...». Hamas però sembra esitare tra la strategia per raggiungere riconoscimento politico internazionale e la tentazione di vendere la statua a un ricco collezionista straniero per ricostituire il suo “tesoretto”. Forse Apollo era più al sicuro in fondo al mare.
l’Unità 15.4.14
Una «Memoria» telematica
La prestigiosa rivista di studi shakesperiani va in rete
Fondata da Agostino Lombardo nel 2000 approda ora nel web in lingua inglese e continuerà a scavare nell’opera del Bardo
di Ugo Rubei
TRA LE TANTE COSE CHE TUTTI GLI ANGLISTI ITALIANI HANNO SEMPRE INVIDIATO AD AGOSTINO LOMBARDO CE N’È UNA - UN PO’ PARTICOLARE E DI DIFFICILE IDENTIFICAZIONE - CHE È STATA LA SUA GRANDE CAPACITÀ DI DAR VITA A UNA SCUOLA: una scuola che ha contato e che ancora conta una quantità di anglisti e di americanisti sparsi un po’ dovunque, in Italia, come in varie altre parti del mondo. Ciò che hanno fatto e continuano a fare quei suoi non più giovanissimi allievi è insegnare letteratura - attività sempre difficile, ancorché non sempre improba, come oggi è divenuta - fare ricerca e pubblicare, interpretare e tradurre: in una parola, preservare, arricchire e aggiornare la memoria di ciò che costituisce e che dà senso a quelle discipline.
E siccome, per gli anglisti come anche per gli americanisti, parlare di memoria significa quasi inevitabilmente fare in larga parte riferimento a Shakespeare e a quella che tanti anni fa Jan Kott definì la sua contemporaneità, sembra davvero opportuno festeggiare un evento di questi giorni qual è l’approdo sulla rete della rivista Memoria di Shakespeare, cui proprio il Maestro dette vita nel 2000, con la collaborazione dell’editore universitario Bulzoni. e che, dopo la sua morte, è stata pubblicata fino a oggi.
Passare da un’elegante copertina marmorizzata in azzurro a un altrettanto elegante, ma virtuale, frontespizio on-line avrebbe, certo, provocato qualche sarcasmo, neppure troppo sfumato, da parte di chi quella rivista aveva ideato con passione fin nei minimi particolari, del tipo: «Ma che roba è, questa rete; lei si fida»? Ma tant’è: aver creato una scuola, significa anche lasciare che altri, nel caso specifico Rosy Colombo e Nadia Fusini, si facciano carico di quel legato - di cui fa parte anche una fortunata collana che va sotto il nome, modesto, di Piccola Biblioteca Shakespeariana - per trasformarlo in forme e modi che, appunto, riescano non meramente a preservarlo, ma se possibile a farlo prosperare nella contemporaneità. La Memoria di Shakespeare versione telematica colpisce subito perché propone la sua internazionalità attraverso l’uso dell’inglese: una scelta per misurarsi, come il web pretende, su un mercato internazionale che la lingua italiana non avrebbe consentito di scalare; una scelta coraggiosa, per chi non sia perfettamente bilingue, ma inevitabile, si direbbe, se si vuole che quella memoria preservi l’autorevolezza che fin qui l’ha distinta.
E poi, un titolo italiano per una rivista in inglese, o meglio per «A Journal of Shakespearean Studies», come da sottotitolo, è piacevolmente spiazzante: ci si aspetta una cosa per pochi intimi e invece si tratta di una rivista internazionale vera, in cui gli studiosi italiani, rivendicano in modo esplicito un ruolo centrale e propositivo. Un bel modo d’interpretare la memoria, non c’è che dire.
Se ci si addentra nella rivista - qualcosa come una quindicina di titoli! - altre piacevoli sorprese, a cominciare dal titolo di questo primo numero «Thinking with Shakespeare»: come dire, in compagnia di, o con l’aiuto di un amico disposto a far riflettere i suoi contemporanei di oggi sul senso / i sensi di un rapporto intenso e molto più profondo di quanto magari non si creda. E infatti, massiccia la presenza di filosofi, i quali appunto s’interrogano sul significato che Shakespeare ha avuto rispetto al loro lavoro nell’oggi, così come su quello di alcuni tra i grandi padri del pensiero moderno, da Hegel a Nietzsche, a Derrida. Come ormai fortunatamente accade con una certa frequenza, sembra proprio che, superati antiche polemiche e interdetti, letterati e filosofi cerchino di capire insieme, con l’aiuto di Shakespeare, di qual natura sia fatto il pensiero. E, come si legge nell’editoriale di questo primo numero, si finisce inevitabilmente per scoprire che per i grandi eroi del suo teatro pensare è «un atto drammatico, tragico addirittura»: perché, per pensare, ci vuole coraggio. E coraggio, di certo, hanno dimostrato le due curatrici e il loro staff, tutto al femminile - da Luciana Pirè a Maria Valentini, da Iolanda Plescia a Stefania Porcelli - che hanno dato vita a questa impresa, continuando a muoversi nel solco (on-line) della tradizione.
La Stampa 15.4.14
“Imparate a vedere meglio”
La lezione della bimba cieca
di Ferdinando Camon
C’è una bambina inglese di 6 anni, si chiama Molly Bent, che sta per diventare cieca, ha un’inarrestabile malattia agli occhi, e ha rivelato ai genitori, e di conseguenza ai giornali, e di conseguenza al mondo, quali sono le cose di questa Terra che vorrebbe vedere prima di non vederci più.
È un elenco importantissimo. Rivela le cose per cui «vale la pena di venire al mondo», e dopo averle viste dire addio alla vista del mondo sarà meno triste. Una vita è piena quando hai visto tutte le cose che volevi vedere. Se hai poco tempo, devi vederle subito. Un’abbuffata. Anni fa, su questo giornale, ci occupammo di un problema enigmatico e sfuggente: troppi uomini decisi a suicidarsi venivano a morire a Venezia. Perché? Per questo: fare un’abbuffata di bellezza, prima di lasciare il mondo.
Quali sono le cose che la bambina inglese vorrebbe vedere, per poter dire «ho visto tutto»? Guardiamole, e cerchiamo di capire perché la piccola ci ha messo quelle cose e non altre. La bambina appare in foto con l’elenco in mano, rivolto verso di noi perché possiamo leggerlo, e vedere l’ordine in cui le ha messe. È una bambina bellissima. Riccioluta, ridente. Occhi azzurri. Sguardo che incanta.
Al primo posto ha scritto «Disney». Disney è l’apice del mondo. Disney è il mondo su misura dei bambini, il mondo-favola, il mondo-gioco. Per i bambini, il gioco è la parte essenziale della giornata. Possono anche studiare e imparare, ma imparano di più se imparano giocando. Negli adulti il gioco prende un valore negativo, «qui si fa sul serio e non si gioca», ma si trova spesso negli studiosi dell’arte (poesia, pittura, film…) il concetto che «l’arte non è denaro, non è scienza, non è religione», ha la gratuità del gioco, un gioco serissimo, com’è il gioco per i bambini. Nel voler vedere Disney prima di non vederci più, questa bambina è serissima: il parco-divertimenti è per lei scienza, utilità, sacro.
Poi ci mette anche il palazzo della regina. Noi ci domandiamo spesso come mai gl’inglesi, popolo così evoluto, hanno una monarchia, che senso ha la monarchia. La piccola Molly dà la sua grande risposta: in Inghilterra c’è la monarchia perché la regina e la reggia sono tra le ultime cose che una bambina vuol vedere prima di perdere la vista. C’è un rapporto tra la regina e Disney? Il fatto che stiano insieme nello stesso elenco compilato da questa bambina risponde di sì. Disney è il mondo delle favole, e la regina è una favola. Qual è, per la regina, la tecnica del mantenimento della corona? Mostrarsi sempre in un alone di favola, non uscirne mai. Servono, alla regina, le regole del «Principe» di Machiavelli? Le usa? Servono e le usa, ma non deve farlo capire, se si scopre qualcosa di machiavellico in lei, i bambini perderanno la vista senza voler vedere la regina.
Nell’elenco, seguono le Piramidi, il Museo di Storia Naturale, la Scozia, una partita di calcio, una spiaggia inglese che equivale alla nostra Rimini, lo Zoo, e così via. Le Piramidi sono storia, ma i bambini le sentono come mito: per i bambini i miti sono la vera storia, e questo ci spiega perché le storie dei popoli cominciano tutte con i miti. Che cos’è lo Zoo? È il luogo dove vedi, concentrati, gli esseri viventi come te, che si sono incarnati in forme diverse dalla tua. Poteva capitare anche a te. Avresti un’altra vita. Dando un’occhiata a quella vita, la vivi, vivi una vita in più. Una bella rivalsa, per chi non può più vivere in pieno questa.
Una partita, una spiaggia tipo Rimini…: banalità, per noi vedenti. Tutto quel che vediamo ci sembra ovvio. Ogni sera tiriamo le somme: «Cos’hai visto oggi?», «Ma niente, le solite cose». Anche se abbiamo visto Rimini o una partita di calcio. Questa bambina c’insegna: quel che vedete è eccezionale, non ve n’accorgete? Perché siete distratti. Tornate indietro, e guardate meglio.
Corriere 15.4.14
I medici ebrei del Pontefice che fece bruciare il Talmud
Il caso di Giulio III, esempio di un rapporto ondivago
di Paolo Mieli
Il Trecento fu per gli ebrei un secolo spartiacque. La peste ebbe l’effetto di risvegliare antiche superstizioni e la leggenda dell’ebreo di Toledo che avrebbe distribuito a suoi correligionari sacchetti di veleno da portare in ogni parte d’Europa, per diffondere il morbo e fare del Continente un immenso cimitero, si diffuse con una velocità straordinaria. Il duca Amedeo di Savoia fece arrestare alcuni israeliti che, sotto tortura, «confessarono»: questa ammissione di colpa fu la «prova» che tutti aspettavano. Contro gli ebrei si scatenò una tempesta di nefandezze e di morte. È di qui che prende le mosse uno straordinario libro di Riccardo Calimani, Storia degli ebrei italiani. L’età dei ghetti: secoli XVI -XVIII , che esce oggi in libreria per Mondadori.
In terra tedesca si diffuse il fenomeno dei Judenschlaeger , i «flagellanti di ebrei». A Tolone nel 1335 fu intentato per la prima volta un processo contro un israelita accusato di aver diffuso il morbo, che si concluse con la pena del rogo. A Strasburgo, nel febbraio del 1349, duemila ebrei furono dati alle fiamme e i loro beni furono distribuiti al popolo. Da quel momento «nella letteratura e nell’arte», scrive Calimani, «gli ebrei si trasformarono in un fantasma che turbava i sogni di ogni buon cristiano e suscitava inquietudini crescenti, frutto anche, forse, dei sensi di colpa dei persecutori». Ma — nota Calimani — fu un Papa del periodo avignonese, Clemente VI (Pierre Roger de Beaufort), che provò, nel 1348, a contrastare questa deriva con la pubblicazione di una bolla in cui sosteneva che gli ebrei erano vittime della peste né più né meno dei cristiani. Come risposta ci fu chi nel suo mondo insinuò che la peste era stata il castigo di Dio per la vita mondana dei Papi avignonesi e di papa Beaufort in particolare. Però, dopo quasi un secolo, fu un altro Papa, Martino V (Oddone Colonna), che — nota sempre Calimani — cercò di porre un freno alle violenze antiebraiche, promulgando un’importante bolla in cui ricordava che il cristianesimo era «nato dal giudaismo» e che, per i cristiani, «l’esistenza degli ebrei era una testimonianza indispensabile».
Un grande pregio del libro di Calimani è quello di ricostruire i caratteri dell’avversione cristiana al giudaismo, restituendo, però, ad alcuni Papi il meritato riconoscimento per quel che fecero al fine di mettere un argine alla corrente di odio. Offrendoci con ciò un quadro più sfaccettato e verosimile di quel che accadde. In particolare a ridosso dell’espulsione, dal marzo del 1492, degli ebrei dalla penisola iberica. L’onda antigiudaica spagnola del 1492 ebbe ampia ripercussione nell’Italia meridionale, dove esistevano importanti comunità ebraiche: alla fine del XV secolo nella sola Sicilia, su una popolazione di 600 mila abitanti, si contavano 35 mila ebrei (più o meno quanti ce ne sono oggi in tutta Italia). Ce n’erano a Palermo, Trapani, Sciacca, Marsala, Termini, Mazara, Agrigento, Licata e nelle isole di Pantelleria, Gozo, Malta. Nel 1489, il viceré Fernando de Acuña aveva concesso alle loro giudecche uno statuto piuttosto liberale, in cambio di corpose sovvenzioni alle imprese militari di Fernando d’Aragona. Quando nel 1492 giunse dalla Spagna il decreto di espulsione, Acuña — su sollecitazione di importanti ufficiali del regno — provò a resistere. Non riuscì nell’intento, ma gli ebrei gliene furono grati. A quelli che volevano restare, Acuña propose la conversione. Si sviluppò di conseguenza un imponente fenomeno di marranesimo, contro il quale il tribunale dell’Inquisizione siciliana si adoperò non poco, divenendo «un organo periferico dello Stato imperiale spagnolo, posto al di fuori e al di sopra delle istituzioni civili e religiose siciliane, dipendente dal re di Spagna e dal suo inquisitore generale». La guerra alle finte conversioni fu spietata. Tra il 1500 e il 1782 furono messi al rogo oltre 400 «giudaizzanti» (su 2.098 condannati), di cui ben 80 tra il 1511 e il 1515.
Quelli che fuggirono dalla Sicilia in un primo tempo ripararono in Calabria, a Salerno, Gaeta, Pozzuoli, Castellammare di Stabia e soprattutto a Napoli, dove il re Ferrante, proprio nel 1492, confermò il precedente impegno di garantire i loro diritti. Talché iniziarono ad affluire israeliti anche dalla Spagna (arrivarono ad essere 50 mila), fino al momento in cui un’epidemia di peste interruppe il flusso. In seguito, a partire dal 1500, le regioni dell’Italia meridionale divennero oggetto di contesa tra la Spagna e la Francia, ciò che rese malcerte le condizioni di vita degli ebrei che lì avevano messo radici. Fino al 1541, quando giunse, per loro, un bando di espulsione definitiva. Dopo trent’anni di strenua resistenza, scrive l’autore, «calava il sipario sulla comunità di Napoli, sulle poche e magari anche importanti famiglie che avevano cercato di resistere… Molti si diressero verso nord, verso Roma o Ferrara, altri in direzione dei porti più ospitali nel Levante, in particolare a Salonicco, dove, alla metà del Cinquecento, c’erano sinagoghe, a ricordo delle origini dei fedeli, dal nome molto eloquente: Italia, Sicilia, Puglia, Calabria, Otranto. Nel giro di pochi anni, agli inizi del Cinquecento, gli ebrei scomparvero dalle città della Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, dove sarebbero tornati, in forma peraltro assai ridotta, solo nell’Ottocento.
E qui Calimani torna a sottolineare l’atteggiamento assai temperato di molti Papi in queste specifiche circostanze. In primo luogo di Alessandro VI (Rodrigo Borgia), a cui nel 1494 l’ambasciatore spagnolo chiese, «in ossequio alle decisioni del suo re», di espellere gli ebrei fuggiti dal suo Paese, ottenendone, come risposta, un rifiuto. Poi Giulio II (Giuliano della Rovere), che nei confronti degli israeliti «manifestò insospettate aperture, anche nel 1510, quando gli spagnoli conquistarono Napoli ed espulsero gli ebrei». Ancora Leone X (Giovanni de’ Medici), il quale conquistò a tal punto gli ebrei che essi «rivaleggiarono con i cristiani» nell’omaggiare il Papa, offrendogli in dono stoffe preziose e ricchi ornamenti. Leone X si spinse a istituire una cattedra di ebraico, e diede l’incarico al convertito Sante Pagnini da Lucca di tradurre la Bibbia in latino; il suo medico personale, Bonet de Lattes, rabbino, ottenne grande considerazione, come è testimoniato da una lettera in ebraico scritta da Johannes Reuchlin, che lo prega di chiedere al Sommo Padre di intercedere a che il processo intentatogli dall’Inquisizione possa svolgersi nella sua diocesi d’origine. Nel 1518 Leone X concesse che nella casa in piazza Montanara di Joan Giacomo Fagiot de Montecchio fosse aperta la prima tipografia ebraica (dove furono stampate le opere di un autore ebreo romano, Elia di Ascer). L’anno successivo autorizzò gli ebrei spagnoli a costruire una loro casa di preghiera, che essi chiamarono sinagoga Catalana-Aragonese. E se nella memoria ebraica si è depositato un ricordo diverso di quegli anni, lo si deve al «sacco di Roma» del 1527, quando bande di mercenari tedeschi e spagnoli agli ordini di Carlo V violentarono la città, senza fare distinzione tra ebrei e i cristiani. Era Papa in quel momento Clemente VII (Giulio de’ Medici), anche lui circondato da medici ebrei quali Jehuda di Rodez (che aveva già servito, in Francia, Francesco I) e il chirurgo Abraham Cohen .
Che cosa fu allora che modificò questo clima? Prima ancora del terremoto provocato da Martin Lutero, il caso provocato, nel 1524, da uno strano personaggio. Veniva da Venezia e diceva di chiamarsi Davide Reubeni. Era «scuro di carnagione, piccolo, nerboruto, simile a un arabo, montava a cavallo con grande perizia, parlava arabo ed ebraico, conosceva bene sia il Talmud che la Qabbalah ». Affermava di essere «l’inviato di Josef, re della tribù ebraica di Reuben, una delle dieci di cui si erano perse le tracce da ventitré secoli e che era nomade in Tartaria». I suoi antenati, diceva, «avevano fondato un piccolo regno situato in una parte lontana e sconosciuta dell’Arabia dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme e ora vi vivevano trecentomila abitanti». Gli ebrei romani furono i primi a farsi affascinare da quest’uomo «in apparenza molto osservante», che diceva in giro «di avere un fratello pronto a mobilitare un grande esercito di ebrei per combattere i maomettani e liberare Gerusalemme dagli infedeli». Josef Askenazi, che era insegnante di ebraico del cardinale Egidio da Viterbo, gli diede ospitalità, e tramite l’alto prelato (ma anche il banchiere Daniel da Pisa) gli procurò un’udienza da Clemente VII. Il Papa accettò di incontrarlo e lui giunse accompagnato da dodici rabbini e da molti giovani pieni di entusiasmo che, tutti assieme, convinsero Clemente VII a far propria l’idea della crociata. Reubeni ricevette dal Pontefice una lettera di accredito, con la quale si recò dal re del Portogallo, Giovanni III. Questi lo accolse con una certa diffidenza, «soprattutto», scrive Calimani, «a causa delle attese che egli aveva saputo suscitare nei marrani portoghesi che al re davano un profondo fastidio». Reubeni decise di trasferirsi altrove, ma ottenne di poter lasciare in Portogallo un suo emissario, il marrano Diego Pires, che in un breve volgere di tempo riprese l’identità ebraica e cambiò il nome in Salomon Molco. Reubeni andò a Venezia, ma anche il doge fu assai perplesso nell’accoglierlo.
Nel frattempo Salomon Molco diventava sempre più importante e non solo in Portogallo. Nel 1530 Enrico VIII d’Inghilterra mandò in Italia suoi ambasciatori, per convincere alcuni dotti cristiani ed ebrei ad appoggiare la sua richiesta di annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona per poter sposare Anna Bolena. Sulla questione fu chiesto anche il parere degli ebrei: Giovanni Mantino si pronunciò negativamente e si schierò dalla parte di Clemente VII, ostile all’iniziativa di Enrico VIII; Molco si schierò invece a favore del nuovo matrimonio del re inglese. Clemente VII ne fu contrariato. Ma ancor più lo fu dall’avverarsi di tre profezie di Molco, in quello stesso 1530: lo straripamento del Tevere, un terremoto in Portogallo e la comparsa nel cielo di quella che avrebbe preso il nome di cometa di Halley. Il Papa a quel punto, complice Mantino che gli consegnò alcune sue lettere contenenti oltraggi alla religione cristiana, fece arrestare Molco dall’Inquisizione e, dopo un veloce processo, lo mandò al rogo. Ma, grazie ad uno scambio di persona, Molco riuscì a salvarsi, a fuggire e a ricongiungersi con Reubeni. I due offrirono i propri servigi a Carlo V, che però li fece arrestare e li mise al rogo. Quanto meno Molco (a Mantova nel 1532), dal momento che, non si sa come, Reubeni riuscì a far perdere per sempre le sue tracce. Senza che delle sue genti, di suo fratello in Tartaria e della sua crociata si sapesse più nulla.
Fu anche questo strano episodio a far sì che, nel clima imposto dalla necessità di far fronte all’offensiva luterana, le cose cambiassero nel corso del Pontificato di Paolo III (Alessandro Farnese). «Come è possibile», chiedeva nel 1539 il cardinale Jacopo Sadoleto, «veder perseguitare i protestanti in nome della religione, mentre gli ebrei vengono tollerati?». Papa Farnese rispose, tra il 1542 e il 1543, con tre bolle di esplicita intenzione antiebraica. Si noti che — come ha rimarcato Léon Poliakov nella Storia dell’antisemitismo (Bur) — anche Paolo III, obbediente alla tradizione di cui abbiamo detto, si faceva curare da medici ebrei. Così anche il suo successore Giulio III (Giovanni Maria del Monte), che però, nel 1553, dispose la messa al rogo del Talmud e con esso di tutti i libri in ebraico.
La vicenda ebbe origine da due editori veneziani in concorrenza tra loro, che stamparono due edizioni, con differenti commenti, dell’opera di Maimonide. L’arbitrato sul loro litigio fu avocato a Roma, dove entrambi godevano di «buone relazioni» nell’alta Curia. Tre apostati ex ebrei colsero l’occasione per inserirsi nella controversia e fomentare una polemica di più ampie dimensioni che coinvolgeva il Talmud , nelle cui pagine, sostenevano, si trovavano «espressioni offensive nei confronti dei dogmi cristiani». In agosto Giulio III dispose che il Talmud fosse bruciato e in settembre, a Campo de’ Fiori, furono accatastati e dati alle fiamme libri ebraici di ogni genere. Il decreto «De combustione Talmud» che, per la precisione, fu emanato dalla congregazione dell’Inquisizione romana e successivamente sottoposto al Pontefice, affermava che il compito della Congregazione non era solo quello di cancellare l’eresia, ma anche di «vigilare sugli ebrei» e che il suo proponimento era quello di bruciare i libri «empi e blasfemi in odio a Cristo», definiti in blocco Talmud . Ciò che spiega perché a Campo de’ Fiori furono dati alle fiamme anche testi che con il Talmud non avevano niente a che fare. E perché ogni sorta di volume ebraico finisse al rogo a Venezia, Pesaro, Ancona, Mantova e Candia in quello stesso 1553 e a Cremona nel 1559. Dopo la lite tra gli editori veneziani che aveva scatenato quel pandemonio, «il bisogno di accrescere l’autorità giuridica rabbinica divenne più sentito». Nel senso che fu stabilito che «nessun ebreo poteva far causa a un altro ebreo davanti ai tribunali comuni senza il permesso dei rabbini e delle comunità».
Poi, durante il breve Pontificato di Marcello II (pochi mesi nel 1555), l’uccisione di un bimbo cristiano provocò risentimenti antiebraici e solo «l’accorto intervento» del cardinale Alessandro Farnese — il quale con un espediente riuscì a smascherare l’autore del delitto, un avvocato arabo spagnolo — impedì che il tutto degenerasse in un’ecatombe di ebrei. Ma il 1555 restò per gli ebrei un anno orribile, dal momento che il successore di Marcello, Paolo IV (Gian Pietro Carafa), con la bolla «Cum nimis absurdum», diede il la a una svolta antigiudaica contrassegnata non già dalla creazione del ghetto di Roma, bensì dal «rogo di Ancona», nel corso del quale furono imprigionate e poi date alle fiamme 24 persone. Il successore di Paolo IV, Pio IV (Angelo de’ Medici), diede segno di qualche apertura, cancellando le limitazioni ai commerci degli ebrei e consentendo la pubblicazione di qualche loro libro (purgato), purché non avesse sul frontespizio la parola Talmud . Ma il clima era cambiato. E con Pio V (Michele Ghislieri) si tornò alle norme di papa Carafa. Nel 1569 Ghislieri promulgò la bolla «Hebraeorum gens», che prevedeva l’espulsione degli ebrei da decine di città, praticamente tutte ad eccezione di Roma e Ancona.
Fu quella che Calimani definisce «una svolta dolorosa». A cui reagì Cosimo I, granduca di Toscana, concedendo qualche libertà agli israeliti che avessero cercato riparo nella sua terra. Libertà che sarebbero state codificate nel 1593 dal suo successore, Ferdinando I, in uno statuto che avrebbe preso il nome di «Livornina». Uno statuto che offriva agli ebrei di Livorno (ma poi anche di Pisa) libertà di movimento, possesso di immobili, immunità da «alcuna inquisizione, visita, denuncia o accusa». E che considerava il rapimento di bambini ebrei e le conversioni forzate crimini punibili con pene severe. La «Livornina» rimase inalterata per due secoli e mezzo, fino al 1836. In nessun Paese alla fine del Cinquecento, osserva Calimani, «erano previste concessioni così ampie per gli ebrei». Guyot de Merville, un viaggiatore francese del Seicento, definì Livorno «il Paradiso degli ebrei». A metà Settecento gli ebrei di Livorno erano tremila, il dieci per cento dell’intera popolazione.
L’altra città che accolse gli ebrei, in particolare quelli provenienti da Napoli e dal Sud, fu Ferrara, nel solco aperto già dal 1534 da Ercole II d’Este. Ercole II, in esplicita polemica con papa Paolo IV, aveva accordato agli israeliti i privilegi concessi dai Pontefici che avevano preceduto il Carafa. E per alcuni decenni «Ferrara, grazie agli Estensi, fu l’unico Paese cristiano in cui marrani, sefarditi, conversos , portoghesi o spagnoli, uomini marginali e in difficoltà, trovarono rifugio ed ebbero la possibilità di tornare all’ebraismo, in qualsiasi momento, anche se avevano vissuto da cristiani, non solo in terre lontane ma in quella stessa città».
Terza importante città che accolse gli ebrei fu, già dal 1502, Venezia, dove nel marzo 1516, su iniziativa del patrizio Zaccaria Dolfin, era stato istituito il ghetto Novo, là dove precedentemente sorgeva una fonderia in disuso (da getto viene il nome ghetto) nella parrocchia di San Geremia. Fu questo il primo ghetto della storia europea. A pretenderlo furono i predicatori francescani, i quali da mesi andavano ripetendo che «la Repubblica, se voleva sopravvivere, doveva riconquistare il favore di Dio e scontare i suoi peccati», tra cui il più grave era quello di lasciare vivere gli ebrei liberi di circolare per la città. Calimani riconosce, però, che, pur con quella limitazione, con l’istituzione del ghetto «gli ebrei videro riconosciuta giuridicamente la loro permanenza a Venezia». Si trattava di una «stabilità precaria, carica di tensioni, ma rispetto ad altre situazioni europee, positiva, tanto che la fama del ghetto di Venezia si diffuse in tutta Europa e molti nelle comunità della diaspora furono tentati dall’idea di raggiungere la laguna». La chiusura degli ebrei nel ghetto, prosegue l’autore, «fu una evidente discriminazione, ma paradossalmente si trasformò in un’utile difesa, perché gli ebrei, soggetto politicamente debole all’esterno delle mura, diventavano, all’interno del recinto in cui erano stati rinchiusi, autonomi e padroni delle loro azioni, in molti casi ben più di tanti abitanti e sudditi».
Quarta città che accolse gli ebrei fu dal 1572 la Torino di Emanuele Filiberto, il cui successore Carlo Emanuele I nel 1648 concesse ulteriori privilegi e si oppose perfino alla costruzione di un ghetto. Già dal secolo precedente il Piemonte e il Monferrato erano stati particolarmente ospitali nei confronti dei discendenti di David che si erano stabiliti — in particolare — a Savigliano, Casale, Acqui, Asti, Moncalvo, Nizza e infine a Cherasco. E questa politica di apertura aveva provocato decise reazioni della Santa Sede. Ma i Savoia non si lasciarono intimidire (come si è visto con Carlo Emanuele) e Francesco d’Este, nel 1652, ne seguì l’esempio. Inoltre, nel 1668, il granduca di Toscana ordinò che fosse bandita ogni forma di ingiuria e violenza contro gli ebrei.
Calimani mette in evidenza come tra il Seicento e il Settecento anche la Chiesa di Roma non fu univoca nell’osteggiare gli ebrei. La stessa Inquisizione intervenne più volte contro le violenze messe in atto dalla Casa dei Catecumeni per costringere gli ebrei ad accettare il battesimo. Nel 1616 Paolo V (Camillo Borghese) emanò una bolla nella quale denunciava il fatto che «alcuni cristiani, rinnegando la carità e la mitezza cristiana, vessano gli ebrei e li derubano dei loro beni e della loro esistenza» e non «si astengono neppure dal colpirli con violenze, delitti, uccisioni e atti sciagurati indegni del popolo cristiano». Un secolo dopo, nel 1729, Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini) ordinò che il carnevale degli ebrei non fosse oggetto di angherie. E nel 1751 Benedetto XIV affermò solennemente che gli ebrei non dovevano essere «né perseguitati, né uccisi, né espulsi» .
Fu Pio VI (Giovanni Angelo Braschi), il Papa dei tempi della Rivoluzione francese, che compromise il rapporto tra la Chiesa e gli israeliti in virtù del suo «Editto sopra gli Ebrei» (1775). Quando, tra il 1796 e il 1799, l’esercito napoleonico calò nella nostra penisola, gli ebrei furono individuati come complici dell’invasore e le insorgenze antinapoleoniche ebbero pesanti, pesantissimi tratti antisemiti: a Pesaro, Urbino, Pitigliano, Lugo, Livorno, Monte San Savino, Senigallia, Siena, Modena, Reggio, a Napoli e in tutto il Sud. Gli anni di Pontificato di Pio VI, dal 1775 a quando, a fine agosto del 1799, morì in cattività nella fortezza di Valence, furono molto negativi per i rapporti tra Chiesa e popolo ebraico. E questo proprio mentre in Austria, sulla scia di Maria Teresa, Giuseppe II concedeva (1780) i pieni diritti di cui godettero gli israeliti di quella parte d’Italia che ancora per alcuni decenni sarebbe stata amministrata dall’Impero asburgico. Fu in quel frangente che la storia prese un passo diverso. Ma, come dimostra in questo importante libro Riccardo Calimani, viste le premesse dei secoli precedenti, non era detto che le cose dovessero necessariamente mettersi sotto il segno della reciproca ostilità.
Corriere 15.4.14
La sposa di Maometto secondo Halter: per molti musulmani è sacrilegio
intervista di Stefano Montefiori
PARIGI — «La sposa di Maometto era una donna ricca, bella e forte, più grande di lui di almeno 10 anni. È lei a farsi avanti per proporgli di sposarsi, ed è lei, moglie e figura materna, a incoraggiare quel ragazzo analfabeta dopo che Allah gli ha parlato per la prima volta. Senza il suo “Io ti credo”, Maometto non avrebbe trovato la forza di diventare il Profeta e non ci sarebbe stato il Corano. Le donne sono figure centrali, determinanti, nella storia della fede musulmana. Che differenza con certo Islam oscurantista di oggi», dice Marek Halter, nella sua casa del Marais.
Lo scrittore ebreo, 78 anni, scampato al ghetto di Varsavia, cofondatore di Sos Racisme, ha già scritto una Bibbia al femminile e pubblica adesso in Italia Maria, la madre di Gesù (Newton Compton, pp. 328, e 12) e in Francia il primo volume di una trilogia dedicata alle donne dell’Islam: Khadija , la sposa di Maometto, che sarà seguita da Fatima (la figlia all’origine dello scisma degli Sciiti) e Aïcha , l’ultima sposa cara alla tradizione sunnita.
Un ebreo che scrive una storia dell’Islam dal punto di vista delle donne. Quali sono le reazioni?
«Da parte delle persone normali, positive. Ho fatto leggere il manoscritto in anteprima ad alcuni dei miei tanti amici musulmani, e non hanno trovato niente da ridire, tranne qualche consiglio peraltro benvenuto. Khadija è uscito solo venerdì scorso, in 40 mila copie, e l’editore Robert Laffont lo sta già ristampando. Ma alcuni fanatici, come prevedibile, non hanno gradito».
Ha ricevuto minacce?
«A molte librerie che hanno messo il volume in vetrina sono già arrivate telefonate violente: ritirate subito quel libro blasfemo o distruggeremo il negozio. Poi in alcuni forum islamici è cominciata la litania di quanti non sopportano che io, da ebreo polacco che vive in Francia, osi parlare di Islam e delle donne che sono alla sua origine».
È sotto protezione della polizia?
«Il primo ministro Manuel Valls, che è mio caro amico da molti anni, mi ha già chiamato per offrirmi la scorta. Io penso, spero, che non ce ne sia bisogno. Vedremo nei prossimi giorni, quando i manifesti con il mio viso e la copertina appariranno ovunque, in metro, negli aeroporti, nelle stazioni».
Quali sono le librerie minacciate?
«Soprattutto nel Sud della Francia e nella zona di Roubaix, nel Nord».
Perché ha deciso di dedicarsi alle donne dell’Islam?
«È un’idea che mi è venuta anni fa, se i libri non sono usciti prima è anche perché il mio editore aveva paura delle possibili reazioni. Voglio mostrare che le donne sono al cuore dell’Islam».
Un possibile modello per le musulmane d’Occidente?
«Io lo spero, è il senso di questa trilogia. Khadija , e poi Fatima e Aïcha , fanno parte della tradizione delle donne che vivono oggi tra di noi. Possiamo continuare a suggerire loro Simone de Beauvoir o Giovanna d’Arco, ma credo che tante musulmane francesi ed europee potrebbero amare piuttosto una eroina come Khadija: il mio libro è una storia romanzata ma vera, che dimostra come la sottomissione delle donne sia una costruzione artificiale dei secoli successivi. Khadija è tutto per Maometto. E non portava il velo. Mi piacerebbe che entrasse a fare parte del pantheon di un femminismo delle ragazze musulmane».
Ci sono passaggi controversi?
«A un certo punto nel manoscritto raccontavo che Khadija tocca Maometto, e gli dice: tu mi desideri. Il mio amico filosofo algerino Malek Chebelha ha detto che era troppo, e ho seguito il suo consiglio, togliendo la frase. Ho mantenuto invece altri passaggi garbatamente segnalati da Dalil Boubakeur, il rettore della Grande Moschea di Parigi, che mi chiama mio professore. L’ho ringraziato, ma li ho pubblicati. Che Allah ti protegga, ha detto sorridendo».
Repubblica 15.4.14
La libertà e la forza, il sesso e le donne, Israele e i palestinesi “E Dio, che se esiste non è un religioso”. Intervista a Amos Oz
Non servono profeti per raccontare storie”
intervista di Wlodek Goldkorn
Alla domanda cosa hanno guadagnato e cosa hanno perso gli ebrei dalla fondazione e dall'esistenza dello Stato d’Israele, Amos Oz risponde: «Ho appena consegnato al mio editore un romanzo dedicato a questo tema, ci ho lavorato cinque anni». Lo scrittore icona della moderna letteratura ebraica (in Italia i suoi libri sono pubblicati da Feltrinelli; di particolare bellezza Michael mio e Una storia di amore e di tenebra ) a maggio compirà 75 anni.
Tempo di bilanci e di cambiamenti. Pochi mesi fa ha lasciato Arad, la città nel deserto, dove tutti i giorni all’alba faceva una passeggiata tra i sassi e le sabbie e si è trasferito nella mondana ed effimera Tel Aviv. Così può stare vicino ai suoi quattro nipoti. Dal grande, luminoso soggiorno della nuova casa, in cima a un anonimo edificio di dodici piani, si intravede il mare.
E allora, cosa hanno guadagnato e cosa hanno perso gli ebrei dall’esistenza dello Stato d’Israele?
«Abbiamo guadagnato la libertà. Nella storia, gli ebrei hanno vissuto tempi cattivi, tempi cattivissimi e qualche volta, tempi buoni. Ma la loro sorte non dipendeva da loro. Oggi invece il mio destino è il risultato delle mie scelte: posso decidere se essere onesto o un delinquente, se agire con cautela o in modo impulsivo, se voglio o non voglio comprendere le lezioni della storia e trarne le giuste conclusioni».
E cosa hanno perso?
«Non possiamo più dirci irresponsabili. Ho quattro nipoti. Dovesse succedergli una disgrazia, ne sarò colpevole io».
Che uso fanno gli israeliani di questa libertà?
«In questo momento la usano con poca intelligenza. Gli ebrei hanno difficoltà a capire che l’uso della forza deve avare dei limiti. Per centinaia di anni, mio nonno e gli altri miei antenati che hanno vissuto in Russia, hanno conosciuto la forza solo in quanto persone bastonate. Ora, siamo noi ad avere il bastone in mano e siamo convinti che con questo bastone si può fare qualunque cosa».
Forse, il problema sta anche nella lingua. In ebraico c’è un nesso diretto, più diretto che in altre lingue, tra la parola e l’azione.
«La parola davar, che non è traducibile in altre lingue significa sia oggetto, sia parola, sia messaggio, sia azione e potrei continuare... In principio fu davar. Ma in fondo le cose sono più semplici: siamo ubriachi della forza che abbiamo. Siamo come un bambino cui hanno dato un nuovo giocattolo e non lo sa usare. Con la violenza puoi trasformare il nemico in uno schiavo, ma non in un amico, purtroppo, pochi qui lo capiscono».
A suo tempo lei ha mandato il suo romanzo Una storia di amore e di tenebra a Marwan Barghuti, leader palestinese imprigionato dagli israeliani. Perché?
«Volevo che sapesse di noi qualcosa di più».
Significa che lei crede nella forza della parola...
«Se non ci credessi sarei oggi un ingegnere ferroviario, era il mio sogno da bambino».
Perché ha deciso di diventare invece uno scrittore?
«Non l’ho deciso. Fin da quando avevo cinque anni, l’unica cosa che sapevo fare era narrare storie; ed era anche l’unico modo per far la corte alla ragazze. Probabilmente questa è anche la ragione per cui continuo a scrivere».
Lei dice che il compromesso, in politica e anche nella quotidianità familiare, è la chiave per vivere decentemente. Però la sua scrittura è radicale. Usa le parole in una maniera spesso brutale. Nella scrittura non esiste alcun limite?
«C’è un limite, dato dalla lingua. Ci sono cose per cui la lingua non è adeguata. La settimana scorsa, per due giorni ho cercato la parola giusta per nominare un profumo. Ma nessuna lingua comprende tutta la gamma di profumi. Quindi, alla fine ho adottato un compromesso, ho usato una parola che non corrispondeva esattamente alla mia sensazione».
Una volta disse che quando descrive un protagonista, ne condivide tutto: gioie, dolori, rabbie. Non ha mai paura di esprimere certi pensieri o sentimenti?
«No. Ma ho sempre paura di non essere preciso a sufficienza. E confesso che non sono capace di scrivere di persone che odio. Però vorrei raccontarle una storiella. Cinquant’anni fa, in Michael mio raccontavo la vita di una donna in prima persona, come se io fossi questa donna. Avevo 24 anni e pensavo di sapere tutto delle donne. Oggi non avrei osato fare una cosa simile. Oggi avrei detto alla protagonista Hannah Gonen: mi dispiace, questa cosa non la posso scrivere. Lei mi avrebbe risposto: sta zitto e scrivi. Le avrei detto: decido io, dato che sei tu la protagonista di un mio libro e non io il protagonista del tuo libro. Lei avrebbe risposto: sei tu lo scrittore, e allora tuo compito è narrare le mie sensazioni ed emozioni. Le avrei detto: insisto, io non lo posso fare, rivolgiti a qualcun altro».
Oggi avrebbe mandato Hannah a quel paese.
Però nei suoi libri racconta spesso la complicità tra le donne, basti pensare a Tra amici, o fa capire come le donne riescano, a differenza dei maschi, a prendere la vita per quel che è.
«Le racconto di mio nonno Alexander. Era un uomo che amava le donne ed era amato dalle donne. Era amato perché sapeva ascoltarle. In genere, quando la donna parla, il maschio prepara nella sua testa una risposta, oppure aspetta che smetta di parlare per passare dalle cose banali delle femmine alla storia importante che lui il maschio ha da raccontare. Il mondo è pieno di maschi che amano il sesso e odiano le donne. Io invece amo ambedue. E del resto, donne o maschi: mi alzo ogni mattina alle 5 e mi chiedo, cosa farei se fossi uno personaggio di miei libri. Questo è il mio lavoro».
C’è una dimensione profetica nella scrittura?
«Esiste una tradizione, nelle culture slave e in quella ebraica, per cui allo scrittore viene chiesto di indicare la strada. Si pretende che Tolstoij sia una specie di Gesù, Dostoevskij un profeta, Bialik, il nostro poeta nazionale, una guida morale. Ma non so se uno scrittore può farlo».
La domanda non riguardava lo status sociale dello scrittore, ma il suo rapporto con la spiritualità.
«Io so che ci sono cose che non posso capire né sapere. È una risposta modesta, ma è la mia risposta. L’intellettuale occidentale sa che il numero delle domande necessarie è superiore a quello delle risposte possibili. Ma in fondo lei mi sta chiedendo se Dio esiste. Se esistesse, certamente non sarebbe un religioso».
Esistono però dei valori per i quali sacrifichiamo la nostra vita.
«Sta confondendo ideologia con religione. Per quanto riguarda i valori sono un umanista».
Quindi un relativista, contrario all’idea dell’assoluto.
«Esatto».
Pensa che con i suoi romanzi possa cambiare il mondo?
«Sì. In genere un buon libro aiuta ad ascoltarsi l’un l’altro: la moglie il marito, il marito la moglie, il padre i figli, il fratello la sorella e così via. Leggere romanzi significa essere curiosi. E la curiosità è un atteggiamento morale. Una persona dotata di curiosità è migliore di una che ne è priva, perché si pone sempre la domanda su cosa provi l’altra persona. Sono convinto che un uomo curioso è un amante migliore di uno privo di interesse per il partner».
Esiste un rapporto tra scrittura e giustizia? In Una storia di amore e di tenebra lei restituisce i nomi agli sconfitti della storia, ai morti nella Shoah. Ma anche ridà vita a sua madre morta suicida...
«Quando scrivo un libro, invito i miei defunti a casa. Gli presento mia moglie e i miei figli. Gli offro un caffè e gli dico: ora parliamo di tutto ciò di cui non abbiamo parlato quando eravate vivi. Per esempio, di sentimenti. Ma quando abbiamo finito di parlare, andatevene; non voglio che abitiate a casa mia. Però qualche volta vi rinnoverò l’invito; sempre a condizione che poi potrò mostrarvi la porta. Questo è il modo con cui noi umani dobbiamo trattare i nostri morti».
Repubblica 15.4.14
La maestra che fece amare la geometria
È morta Emma Castelnuovo aveva 101 anni. Rivoluzionò l’insegnamento della matematica
di Piergiorgio Odifreddi
È MORTA a Roma, alla veneranda età di 101 anni, Emma Castelnuovo, decana delle matematiche italiane. Una donna destinata, dalla propria storia personale e professionale, a far parte della Storia politica e scientifica del nostro paese, come un alter ego di Rita Levi Montalcini, scomparsa anch’essa ultracentenaria.
Emma era figlia di Guido Castelnuovo, che fu uno dei personaggi chiave della matematica italiana della prima metà del Novecento, e insieme a Francesco Severi e Federigo Enriques costituì il terzetto di punta della nostra grande scuola di geometria algebrica. Questa scuola gettò tra il 1891 e il 1949 le basi per lo studio delle superfici algebriche complesse, o degli spazi a quattro dimensioni reali, ed è ancor oggi fiorente in Italia. Anche se l’eredità del nostro terzetto è stata in seguito raccolta da un terzetto di geometri algebrici giapponesi (Kunihiko Kodaira, Heisuki Hironaka e Shigefumi Mori), vincitori tutti e tre della medaglia Fields (nel 1954, 1970 e 1990).
Le vite di Castelnuovo ed Enriques si intersecarono non solo dal punto di vista scientifico, ma anche da quello familiare: Guido sposò infatti una sorella di Federigo, e uno dei loro cinque figli fu appunto Emma. La quale, seguendo le orme del padre e dello zio, si laureò nel 1936 in geometria algebrica. Poi iniziò a lavorare nella Biblioteca di Matematica dell’Università di Roma, che oggi porta il nome del padre. E nel 1938 vinse una cattedra alle medie, ma l’arrivo delle leggi razziali interruppe il suo insegnamento dopo pochi giorni, costringendola a passare a una scuola ebraica.
Il padre era ormai in pensione, e aveva giurato fedeltà al regime nel 1931, come avevano fatto quasi tutti i professori italiani: solo dodici si erano rifiutati di farlo, e uno solo di questi era un matematico, Vito Volterra. Ma quando nel 1938 le scuole e le università furono precluse agli ebrei, Guido Castelnuovo organizzò una sorta di università illegale privata fino al 1943, quando con la famiglia fu costretto alla clandestinità fino al termine della guerra. Per questi e altri meriti, nel 1949 fu il primo, e per qualche tempo l’unico, senatore a vita della Repubblica italiana: l’altro nominato insieme a lui, il direttore d’orchestra Arturo Toscanini, aveva infatti rifiutato l’onore.
Con il ritorno della democrazia Emma Castelnuovo si dedicò all’insegnamento e alla ricerca sulla didattica della matematica. Nel 1949 pubblicò un testo di Geometria intuitiva che fece scuola. Come dice già il titolo, si trattava infatti di un approccio anticonvenzionale e informale, ma non per questo meno preciso e rigoroso, all’insegnamento della geometria, che quando viene presentato in maniera convenzionale e formale può marchiare a fuoco lo studente, e lasciargli per sempre un’impressione indelebile di disgusto e di rifiuto della matematica.
Esattamente il contrario succedeva agli studenti di Emma Castelnuovo, che mantenevano per tutta la vita un piacevole ricordo della materia e dell’insegnante. E di questo sono stato testimone quando, nel luglio del 2006, l’allora sindaco di Roma Walter Veltroni mi convocò in Campidoglio per propormi di dirigere all’Auditorium un Festival di Matematica.
Veltroni mi spiegò però di aver appunto avuto per insegnante alle medie Emma Castelnuovo, e di aver sognato da tempo di poter dedicare un grande evento alla materia che lei gli aveva fatto amare da bambino. Inutile dire che ad aprire le danze del primo Festival, il 15 marzo 2007, di fronte a una platea gremita di ragazzi accorsi da tutta Italia, fu proprio lei: l’indomita novantaquattrenne, che si era rotta una gamba da poco, e ciò nonostante fece lezione in piedi per due ore, con un braccio appoggiato a una stampella, e l’altro libero per muovere i lucidi colorati con cui illustrava alla sua maniera i teoremi della geometria. I suoi molti allievi la ricorderanno personalmente in quel modo, ma tutti gli altri possono ancora interagire impersonalmente con lei attraverso i suoi libri, didattici o di divulgazione: come l’ultimo, Pentole, ombre e formiche. In viaggio con la matematica (La Nuova Italia, 1993), che costituisce il suo testamento spirituale e scientifico.