giovedì 13 marzo 2014

L’Unità 13.3.14
La lettera
«Il vero caso è la legge 40»

 
MI CHIAMO VALENTINA, LA RAGAZZA DI CUI TANTO SI PARLA IN QUESTI GIORNI. HO DECISO, INSIEME A MIO MARITO, di non rilasciare alcuna intervista, ne video né scritta, a nessuna testata giornalistica e nessun programma tv, per due ragioni.
La prima è che quello che dovevo dire l'ho già detto, e perché ripercorrere quel dolore fa ancora molto male. Quello che ho raccontato durante la conferenza stampa di lunedì 10 marzo indetta dall’Associazione Luca Coscioni spero possa servire affinché tutti sappiano che se non ci fosse stata la legge 40 con i suoi assurdi divieti tutto quello che ha riguardato me e la mia famiglia in questi anni non sarebbe mai successo.
Prima della conferenza stampa ero stata ospite, insieme a mio marito Fabrizio, di altre due trasmissioni televisive: una l’anno scorso, un’altra registrata a febbraio di quest’anno, prima dunque che si verificasse tutto l’interesse mediatico per quanto successo quattro anni fa al Pertini.
Ora, dunque, preferisco rimanere in silenzio, con l’eccezione di queste poche righe. Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza: i dati provenienti dalle regioni italiane e la decisione del Consiglio d'Europa parlano chiaro, non sono certo io e non voglio essere io il pretesto per sollevare agli occhi di stampa e politica la questione, che dovrebbe essere affrontata a prescindere dai casi come quello mio.
La seconda ragione è che tutta l'attenzione si è concentrata sulla vicenda dell'aborto, mentre per me è importante che ci si occupi seriamente del vero problema alla base della mia storia, che è la legge 40, e anche delle conquiste che sono state annunciate in conferenza stampa. Ora spetterà alla Corte Costituzionale decidere se abbiamo ragione oppure no.
Vorrei, da cittadina italiana, che si parlasse di questo. Il mio dolore svanirà quando tutti i cittadini avranno gli stessi diritti.
Il mio dolore svanirà quando tutti i cittadini avranno gli stessi diritti.

L’Unità 13.3.14
Togliatti e il suo Papa
Un libro Ediesse narra il filo segreto con Giovanni XXIII lato il discorso ai cattolici del 1963 e venti giorni dopo la Pacem in Terris
Il segretario del Pci la lesse in anticipo?
di Bruno Gravognuolo


SI APPROSSIMANO VARI ANNIVERSARI. QUELLO DELLA SVOLTA DI SALERNO E QUELLO DELLA MORTE DI TOGLIATTI. Ma anche quello della scomparsa di Giovanni XXIII. Tutti a far data dal 1964. E c’è da giurare che almeno su Togliatti demonismo e sciatteria revisionista si eserciteranno a dovere, nel negare originalità al segretario del Partito Nuovo, per sancirne la dipendenza da Mosca e il ruolo nefasto, nell’aver radicato il Pci nella storia d’Italia, come un male.
Adesso però esce un libro prezioso che contiene due gioielli da conservare e che ribaltano certe campagne strumentali. Il primo è il discorso pronunciato da Togliatti il 20 marzo 1963, sul Destino dell’uomo, alla vigilia di importanti elezioni ma inattesamente antropologico. Il secondo è senza dubbio straordinario e ben più famoso. È l’Enciclica giovannea Pacem in terris, uscita l’11 aprile di quello stesso anno, un documento destinato a capovolgere il senso della fede nel mondo e il ruolo stesso della cattolicità: il diamante del Concilio Vaticano II, avversato da conservatori e atei devoti e che oggi conosce rinnovato splendore nella riattualizzazione del magistero di Francesco. La cornice è appunto il volume di cui vogliamo parlarvi, Palmiro Togliatti e Papa Giovanni, a cura di Francesco Mores e Riccardo Terzi (Ediesse, pp. 149, euro 12). Che raccoglie gli atti di un seminario organizzato a Bergamo il 5 aprile 2013 da Riccardo Terzi ed Eugenia Valtulina, grazie alla Cgil di Bergamo, dello Spi nazionale, della Fondazione Giovanni XXIII e della Fondazione Di Vittorio. Tra i relatori c’erano Savino Pezzotta, Giuseppe Vacca, Alfredo Reichlin, e non manca un bel testo intervista di Mons. Loris Francesco Capovilla. Altro contributo decisivo è quello di Francesco Mores della Fondazione Giovanni XXIII e della Normale di Pisa. Che ricostruisce contesto, rimandi e storia parallela del testo togliattiano e dell’Enciclica, davvero straordinariamente consonanti. Al punto da fare pensare che Togliatti fosse addirittura informato in anticipo dei contenuti dell’Enciclica, magari attraverso i «ganci» di Franco Rodano e di Don Giuseppe De Luca, figura chiave e mediana tra vaticano e Pci, a partire dalla questione dell’art. 7 in Costituzione. Scritti rivoluzionari e consonanti. Ma in che senso? Cominciamo da Giovanni XXIII e isoliamo tre punti: genere umano, distinzione errante/ errore e valore dei movimenti di emancipazione. La rivoluzione «kantiana» di Papa Giovanni sta in questo: la predominanza del destino del genere umano sul contrasto di fede e ideologico. Sta in questo il divino e la sua trascendenza per il Papa: nella sua immanenza fraternitaria nella storia. E ben per questo la Chiesa deve accogliere i valori emancipativi di masse e popoli in cammino, di là dell’errore e degli errori teologici. Perché c’è un «senso» trasformativo nella storia e va colto nell’incontro, nel dialogo e nell’amore, che poi sono il banco di prova della verità teologica cristiana.
Un capovolgimento immenso, che fece a pezzi dogmatismo e scomuniche - archiviando il pontificato di Pio XII - e che rese la Chiesa attore planetario, al tempo della crisi dei missili a Cuba, della decolonizzazione, dei non allineati, della sfida kennediana, e della coestistenza pacifica kruscioviana.
Ma nel suo «piccolo» l’inatteso discorso di Togliatti - rivolto guarda caso ai cattolici e alla Bergamo giovannea alla vigilia dell’Enciclica - non è meno dirompente. Vi si afferma innanzitutto il primato della pace sulla lotta di classe e su quella di campo, nell’era della corsa nucleare. L’unità del genere umano, come bene supremo da preservare e orizzonte di ogni emancipazione (dunque terreno e fine). E poi il primato della persona e della sua dignità, come punto di partenza e meta ideale della liberazione propugnata dal movimento operaio. Non sono povere cose, se si considera quel tempo, perché Togliatti mette in campo la libertà di tutti e di ciascuno e al contempo rivaluta e preserva la crucialità del fatto religioso: come costante che è illusorio pensare di poter svellere con il progresso e la riforma delle basi sociali. Addirittura, oltrepassando Gramsci, la religione diviene un dato antropologico inscindibile dalla condizione umana e persino vettore di rivoluzione. Certo Togliatti difendeva l’Urss e si illudeva sulla sua riformabilità, restava un figlio autonomo e originale di quella geopolitica novecentesca. Ma sul religioso era oltre Gramsci e Marx, e tracciava uno spartiacque: dalla persona e dalla libertà non si torna indietro. E fu così che in qualche modo un grande Papa e un grande comunista posarono una pietra miliare: fecero dialogare grandi masse tra loro e riscrissero con audacia la loro stessa fede.

il Fatto 13.3.14
La novità di Renzi: le mani sulla città
Beni culturali, il premier contro i “no” delle soprintendenze. “Repubblica”, con buona pace dell’art, 9 della costituzione, lo sostiene 
di Tomaso Montanari


Non c’è davvero nulla di nuovo in Matteo Renzi, a parte la grinta: c’è solo un intenso bricolage che ritaglia da destra, e incolla malamente a sinistra, spezzoni di pensiero, parole d’ordine, slogan. Uno dei più impresentabili che Renzi ha preso di peso dal repertorio populista e selvaggiamente liberista di Silvio Berlusconi è il “padroni in casa propria”. Un’idea texana della convivenza civile che significa che ciascuno dev’essere libero di cementificare, sfigurare, distruggere pezzi di ambiente, di paesaggio, di patrimonio storico artistico.
FIN DA QUANDO era sindaco, Renzi ha polemizzato aspramente contro quelle che chiama “le catene” imposte dalle soprintendenze, istituzioni “ottocentesche” che impedirebbero la “modernizzazione del Paese”. “Sovrintendente – ha scritto nel suo tragicomico libro Stil novo – è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?”. Renzi sembra non accorgersi di vivere in un paese massacrato da uno “sviluppo” pensato solo in termini di cementificazione: un paese compromesso non dai troppi no, ma semmai dai troppi sì, delle soprintendenze. E non sono solo le opinioni di Renzi, a preoccupare: è il suo governo di Firenze a far capire come la pensi in fatto di cemento. Vezio De Lucia ha notato come nel piano strutturale del 2010 “le previsioni relative alla proprietà Fondiaria (un milione e 200 mila metri cubi) sono riportate come fossero già attuate: per non smentire la propaganda del sindaco Renzi a favore del piano a sviluppo zero”. Sapendo che il cemento non è telegenico, Renzi cerca di non parlarne troppo. Tanto più stupisce che sia un giornale come Repubblica – subito improbabilmente seguito da Italia Oggi – ad abbracciare, in scala uno a uno, un simile programma. Archiviato il pensiero di Antonio Cederna, sconfessato quello di Salvatore Settis, ora è Giovanni Valentini a scrivere sul giornale di De Benedetti che “troppo spesso le soprintendenze diventano fattori di conservazione e di protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo, e dell’economia”.
L’articolo, in prima pagina domenica scorsa, ha lasciato basiti migliaia di lettori che vedevano da sempre in Repubblica un presidio sicuro per la difesa dell’articolo 9 della Costituzione: e da allora si susseguono sul web risposte incredule e indignate di associazioni, funzionari di soprintendenza, singoli cittadini.
È in questa prospettiva che Renzi diventa il campione delle “mani libere” contro le soprintendenze, che l’avrebbero ostacolato nell’allestimento della cena della Ferrari su Ponte Vecchio e fermato nei “sondaggi tecnici” sulla Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio. Peccato sia tutto falso: sull’osceno noleggio del ponte l’asservita soprintendenza fiorentina non ha aperto bocca, ed è stata una partita tutta giocata dal Comune, con tanto di permesso ufficiale concesso il giorno dopo la manifestazione, e con un incasso pari alla metà di quello sbandierato da Renzi. Quanto a Palazzo Vecchio, giova ricordare che la Battaglia di Anghiari semplicemente non esiste, e che Renzi è stato fermato non dalla soprintendenza (anche in quel caso succube), ma dalla comunità scientifica internazionale, compattamente insorta contro una farsa pseudoscientifica che fa ancora ridere i direttori dei più grandi musei del mondo. Ma i banali dati di fatto non devono oscurare la retorica del Presidente del Fare che spezza trionfalmente i lacci e i lacciuoli frapposti da questa oscura genìa di burocrati. A quando un suo ritratto a torso nudo, mentre aziona una betoniera calpestando l’articolo 9?
L’altra faccia di questa usurata medaglia è l’incondizionato inno ai salvifici privati. Chiedendo la fiducia al Senato, l’unica cosa che Renzi ha saputo dire sulla cultura è che “se è vero che con la cultura si mangia, allora bisogna fare entrare i privati nel patrimonio culturale”. Peccato che i privati ci siano da vent’anni, nel patrimonio, e che a mangiarci da allora non sia lo Stato, ma solo un oligopolio di concessionari fortemente connessi con la politica. E la ricetta è tanto originale che il punto 41 di Impegno Italia (il documento cui ha inutilmente provato ad aggrapparsi Enrico Letta) prevedeva un’unica ideona: “Incentivare lo sviluppo dei servizi aggiuntivi da dare in concessione ai privati”.
DI FRONTE AI CROLLI di Pompei, Renzi ha gridato: “L’Italia è il paese della cultura, e allora sfido gli imprenditori: che state aspettando?”. Quando era sindaco di Firenze, Renzi sfidava sistematicamente lo Stato a fare il proprio dovere in fatto di tutela del patrimonio. Ora che lo Stato è lui, sfida gli imprenditori. Fosse il presidente di Confindustria, ce l’avrebbe con gli enti locali. Non c'è davvero nulla di nuovo, se non che il repertorio da palazzinaro anni Sessanta è passato tale e quale dal fondatore di Forza Italia al segretario del Partito democratico. È il manifesto di una nuova stagione di Mani sulla città, un ritorno alla bandiera inverosimile del “più cemento = più turismo”. E siamo solo all’inizio.

l’Unità 13.3.14
Parità mancata, resiste l’asse trasversale tra donne
Le parlamentari del Pd chiedono il sostegno delle associazioni
Le azzurre furiose con Verdini, Santanchè e il Mattinale di Brunetta
Di Federica Fantozzi e Natalia Lombardo


Il vuoto della parità di genere nella legge elettorale è un «vulnus per le nostre istituzioni democratiche, per la rappresentanza è un brutto messaggio che lanciamo al Paese e non solo alle donne», ha detto ieri in aula Roberta Agostini, prima firmataria degli emendamenti bocciati, amareggiata dopo la settimana di battaglia. Che adesso si sposta al Senato, ma ha lasciato segni. Dentro Forza Italia, le onorevoli sono furiose non solo con il gruppo dirigente - Verdini, Brunetta e Sisto, ma anche verso Daniela Santanchè, che ha fatto muro anche quando Berlusconi avrebbe potuto cedere, fiutando la perdita dei consensi nel suo elettorato femminile.
Le parlamentari del Pd, intanto, studiano le mosse migliori perché a Palazzo Madama la parità non sia stracciata nel nome di un accordo politico. Purché non si chiamino «quote rosa», lo spazietto di tutela per le minoranze, ma «democrazia paritaria» tra soggetti politici. E purché non si perda la forza della «trasversalità », anche se le senatrici di Fi sono meno delle deputate. Ieri a Montecitorio si è tenuta una conferenza stampa con l’«Accordo di azione comune di democrazia paritaria », 50 associazioni di donne, dall’Udi a «Se non ora quando» che ora sosterranno dall’esterno la battaglia delle senatrici. Qui la relatrice sarà Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari Costituzionali, il voto palese non darà alibi ai franchi tiratori, ma l’astensione vale come voto contrario. Le democratiche Roberta Agostini, Sesa Amici, Fabrizia Giuliani, Titti Di Salvo di Sel organizzeranno a breve un’assemblea con le senatrici per decidere come muoversi. Probabilmente si sceglierà di riproporre la parità in lista con «un solo emendamento », per arrivare almeno alla norma del sessanta per cento di uomini e il quaranta di donne come capoliste, per avere la certezza di essere presenti. A Montecitorio «si è prodotta una cesura, la negazione di riconoscere alle donne italiane di essere soggetto politico e averlo voluto ridurre a una questione di quote nelle trattative, fa fare un passo indietro drammatico» rimanendo per altro con le liste bloccate, ha detto ieri Sesa Amici, del Pd, sottosegretaria alle Riforme e ai Rapporti col Parlamento. Perché «le donne sono un soggetto politico», rivendica, quindi «arrivare al 40-60 sulle capolista era un riequilibrio del potere», prosegue Amici, che sollecita a «non perdere quella straordinaria trasversalità» tra gruppi, Pd, Fi soprattutto. Al Senato la situazione è diversa, ma nell’asse comune potrebbero entrare le grilline, oltre alle sei donne uscite (o espulse) dai 5 stelle.
GUERRA ROSA IN CASA AZZURRI
«Mamma cos’è la meritocrazia?» «Un’invenzione sessista contro le quote rosa». Ma anche: «Vai a dormire» «Papà il tuo è un comportamento sessista». Raccontano siano state queste vignette, sul Mattinale di martedì a far deflagrare l’ira di Stefania Prestigiacomo contro Renato Brunetta. Protagonisti di uno scontro in aula, con l’ex ministra siciliana che si diceva amareggiata per l’assenza di dibattito e libertà di coscienza in un sedicente partito liberale, quando nel 2005 con Bondi coordinatore le scelte sul Porcellum erano state opposte. E ieri la Prestigiacomo ha scritto all’HuffPost contro la rappresentazione «offensiva, sprezzante per demolire e indurre al ludibrio dei militanti Fi» la loro posizione, trattandole come «arpie fameliche di posti» fino a una «character assassination con disprezzo e sarcasmo arrogante che lascia basite».
Uno scontro senza precedenti, che covava sotto la cenere. Le onorevoli furibonde con Brunetta e Verdini, rei di aver stroncato la battaglia sulla parità di genere e di aver portato dalla loro parte Berlusconi. «Non ci hanno fatto parlare con lui» è il lamento corale. Ma anche con Daniela Santanchè, colpevole di essersi fatta pubblicità a spese loro (oltre a infilarsi con destrezza nei conciliabili tra Verdini e la ministra Boschi). «Mi ha detto che con le quote rosa alla Camera saltava l’accordo - si sfoga Laura Ravetto - le ho risposto che al contrario, il problema andava risolto qui. Temo che quando la legge, dopo il Senato, tornerà a Montecitorio, qualcuno ne approfitterà per riproporre le preferenze». Insomma, mentre il Mattinale al vetriolo non dubita della buona fede di «alcune» deputate, il malumore rosa verso il gruppo dirigente azzurro ha raggiunto livelli di guardia. Con l’auspicio che Berlusconi, a tempo debito, non si lavi le mani
anche della composizione delle liste.

il Fatto 13.3.14
Risponde Furio Colombo
Il giorno prima delle quote rosa


CARO COLOMBO, ci siamo tutti riuniti intorno al falò dell'allarme Parlamento: non ha il coraggio di fare spazio alle donne. Ma tutto intorno si vedono, nella notte italiana che non finisce, i fuochi di altri accampamenti in cui alle donne è vietato tutto, persino le cure mediche in emergenza. Rita
LA LETTERA si riferisce al caso, grave e barbaro, di Valentina Magnanti, e allo sbarramento di medici “obiettori di coscienza” (si chiama assicurazione sulla carriera) e di predicatori armati di Vangelo (“armati” è la parola giusta) ammessi al capezzale della giovane donna senza suo desiderio o permesso, che hanno tentato di impedirle un aborto che non si poteva né impedire né rinviare, nel labirinto di leggi violate, di leggi pensate apposta, con crudele meticolosità, in modo da mantenere il controllo completo sul corpo delle donne, presumibilmente in nome di Dio. Come vedete in un'Italia come questa, condannata per ragioni come questa, dall'Europa e dall'Onu, lo spettacolo della sconfitta di un emendamento salva donne nella legge elettorale, è cosa futile oltre che impossibile. Futile, perché tutti gli altri diritti che vengono prima del diritto di essere elette, sono impediti alle donne, nonostante continue ipocrite dichiarazioni. Impossibile perché quello del deputato è un buon lavoro e gli interessati non vedono perché dovrebbero moltiplicare la concorrenza. Ma se c'è un punto su cui ciò che resta di un’Italia normale, morale e civile su cui dovrebbe concentrare attivismo ed energie, è la salvaguardia dei diritti della donna su se stessa. Lo hanno fatto i Radicali, lo fa l'associazione Luca Coscioni di cui mi vanto di far parte. Nessun altro. La storia è questa. Valentina Magnanti, 28 anni, ha dovuto abortire al quinto mese perché la sua bambina è stata scoperta portatrice di gravissima e irreversibile malattia genetica. Valentina, sapendo di essere portatrice di questo trasmissibile e incurabile danno, avrebbe potuto – in ogni altro Paese – ricorrere alla procedura e ai controlli della procreazione assistita. In Italia no. La legge 40 glielo vieta perché può avere figli in modo naturale (e non importa quanto pericoloso) e perché è vietato, nel protocollo della legge 40, l'esame degli embrioni. È una legge barbara di stampo fondamentalista in cui Stato e religione si associano nel divieto come in una Sharìa cattolica. L'ospedale è il Pertini di Roma. E accade che, a protezione della loro carriera, tutti i medici di ginecologia di quell'Ospedale, in preda a una vampata di fede, si dichiarino “obiettori di coscienza”, e cristianamente abbandonino la giovane donna, che non può non partorire, al suo destino. Hanno però libero accesso, come in un film esageratamente anti-religioso e crudele, predicatori e predicatrici muniti di Vangeli che non capiscono neppure il loro comportamento stupido e crudele. La donna partorisce il feto morto nel bagno, senza che nessuno, tranne il marito, le dia un aiuto. La religione è stata spesso delittuosa nei secoli. Il caso di Valentina – isolata da finti credenti mentre ha un bisogno disperato di aiuto – merita di essere ricordato come una infamia italiana che nessuno, tranne i Radicali, cerca di cancellare. La sua storia diminuisce di molto la portata, pur squallida, della vicenda in Parlamento.

Corriere 13.3.14
Donne e quote, nella storia le ragioni del sì
di Gian Antonio Stella


Meglio un ortopedico italiano o un ortopedico tedesco? Chissenefrega: conta solo che sia bravo, direte voi. E scommettiamo che anche Silvius Magnago, quando lanciò la battaglia sulla proporzionale etnica, la pensava così. Ovvio. Ma in tutti i posti pubblici c’erano troppi italiani e troppo pochi tedeschi: andava ripristinato un equilibrio. Oggi quelle quote non avrebbero senso? Certo. Ma allora sì. E lo stesso dovrebbe essere, in politica, per le donne: va ripristinato l’equilibrio. Dopo di che, addio quote.
È il contesto che conta: il contesto. Lo schemino delle quote etniche in Alto Adige si è rivelato via via, una volta riequilibrati i rapporti, una ingessatura assurda, insopportabile, ridicola. Ma cosa avreste fatto, voi, al posto del leader dei sudtirolesi? Dopo decenni di italianizzazione spinta della provincia, il gruppo tedesco aveva nel 1972, pur rappresentando i due terzi della popolazione, solo una fetta del 9% degli impieghi pubblici o para-pubblici nelle ferrovie o in comune o all’Enel e del 5% delle case popolari edificate dopo il 1935. Una sproporzione prepotente. Inaccettabile. E in quel contesto, come ogni italiano in buona fede deve ammettere, la pretesa di riequilibrare gradualmente le cose fu giusta. Giustissima.
E le donne? Imporre oggi quote fisse in Finlandia, il primo Paese al mondo dove un governo è arrivato ad avere più donne che uomini, non avrebbe senso. Ma in Italia? Che senso ha, al di là delle furbizie partitiche, machiste e correntizie così determinanti nel voto alla Camera, invocare «una crescita culturale di tutta la società» o sospirare sul fatto che, ahinoi, «non siamo in Norvegia, in Germania o in Danimarca» e che introdurre le quote sarebbe «ammettere la nostra arretratezza»? Perché: non siamo forse in ritardo?
È la storia a dirci quanto pesino le regole. Per fare pochi esempi la Norvegia, la Svezia e la Danimarca ebbero la loro prima regina (Margherita I) alla fine del Trecento, l’Inghilterra (in realtà furono tre di fila per successiva eliminazione: Jane Grey , Maria Stuarda ed Elisabetta I) nel 1553 e Guglielmina d’Olanda salì al trono nel 1890. Evento mai successo in casa Savoia, perché escluso esplicitamente nei secoli dei secoli fin dai tempi del contado. A costo di cambiare, in mancanza di un primogenito maschio, la linea di successione.
Occorre rileggere la nostra storia per capire quanto possa essere importante forzare le norme e più ancora le prassi: l’Italia fu costretta ad attendere 115 anni dopo l’Unità (32 anni, 36 governi e 836 ministri maschi nel solo Dopoguerra) prima che un dicastero fosse dato a una donna, Tina Anselmi. Era il 1976 ed erano già passati 16 anni dall’insediamento della prima donna premier al mondo (Sirimavo Bandaranaike, nello Sri Lanka nel 1960), 48 dalla prima donna ministro (la danese Nina Bang nel 1924), 58 dalla prima donna chiamata al governo (Irena Kosmowska, sottosegretario in Polonia), 69 dall’ingresso delle prime donne in un Parlamento, avvenuto in Finlandia nel lontano 1907. Per non dire della prima donna eletta a un’alta carica istituzionale, Nilde Iotti, presidente della Camera nel 1979 dopo 118 anni e 55 (contando tutti dall’Unità in avanti, comprese la Camera dei fasci o la Consulta Nazionale) predecessori maschi. Di premier donne neanche a parlarne: ce ne sono state in tutto il pianeta a decine. Quattordici negli anni Novanta, trentacinque nel primo decennio del secolo. A volte potentissime, come Margaret Thatcher o Angela Merkel. Da noi no: zero. Su un totale di 125 governi, dei quali 63 nel Dopoguerra. Men che meno alla presidenza della Repubblica: «Quando proposi di mandarne una al Quirinale mi dissero “bravo, una intelligente provocazione”», ricorda Giuliano Amato, «manco se avessi proposto un coleottero!» Quanto al suffragio universale, basti ricordare che le italiane, che pure avevano avuto un ruolo straordinario fin dal Risorgimento (da Cristina Trivulzio di Belgiojoso, in prima linea nelle 5 giornate di Milano alla moglie di Crispi Rosalia Montmasson, unica donna dei Mille) arrivarono a votare solo nel 1946. E cioè 29 anni dopo le russe, 31 dopo le danesi, 33 dopo le norvegesi, 35 dopo le californiane, 40 dopo le finlandesi, 44 dopo le australiane, 53 dopo le neozelandesi, 77 dopo le cittadine del Wyoming, 94 dopo la prima petizione per il voto alle donne alla Camera dei Lord del 1850. Non sono curiosità storiche. Sono numeri che aiutano a capire perché poi la politica italiana, al di là delle pappardelle retoriche eredi delle idee del Duce («La donna deve ubbidire. Essa è analitica, non sintetica... Naturalmente essa non deve essere una schiava, ma... nel nostro Stato essa non deve contare») è da sempre distratta nei confronti dei problemi delle donne.
Esempi? Uno per tutti: governi e Parlamento sembrano non essersi quasi accorti che nella tabella della occupazione femminile in Europa, dove la media è del 64% (e sarebbe più alta senza noi) 7 delle ultime 10 delle 271 regioni continentali sono italiane. E italiane sono tutte e cinque quelle in coda alla lista nera. Le donne «ufficialmente» al lavoro in Basilicata sono il 41,8%, in Puglia il 35,3, in Calabria il 35,1, in Sicilia il 34,7 e in Campania, ultimissima tra le ultime, il 31,1. Con sette donne su dieci tagliate fuori dal mondo del lavoro: una quota economicamente suicida e socialmente umiliante.
Questo è il contesto. E in questo contesto aver bocciato alla Camera la virtuosa forzatura sulle quote rosa è stata un’occasione persa non solo per le donne, ma per il Paese. Un’occasione da recuperare al Senato. Potremmo ritrovarci, come ammicca qualche spiritosone, con un po’ di oche in Parlamento? Ammesso fosse vero (uffa!) ce ne faremo una ragione. Dopo tanti falchi, galli, galletti, tacchini e capponi…

la Repubblica 13.3.14
La ricerca
Agli stranieri l’11% dei presti primi i rumeni, i cinesi fanno da sé
I tedeschi chiedono soldi per comprare case di vacanza
di Luisa Grion


ROMA - Sono stranieri, ma vivono e lavorano in Italia e in Italia chiedono mutui o prestiti per comperare l’automobile, metter su casa o superare un momento di difficoltà finanziaria. Nella maggior pare dei casi sono cittadini di nazionalità rumena, albanese, marocchina, ma vanno in banca anche gli svizzeri e i tedeschi che puntano ad acquistare qui la loro villetta delle vacanze: nel 2013 la domanda di credito da parte di cittadini stranieri stabilmente residenti in Italia è stata pari all’11 per cento del totale (11,9 nel 2012).
A fornire la mappa dei prestiti concessi è il Crif con «Il Rapporto sulla domanda di credito da parte di cittadini non italiani». Stranieri provenienti da bel 219 paesi, ma concentrati in una decina di nazionalità: quella rumena prima di tutte. Sono loro la comunità meglio rappresentata nel nostro Paese e di fatto coprono il 21,1 per cento delle richieste di finanziamento, oltre un quinto del totale. Li seguono, ad una certa distanza, gli albanesi (5,9 per cento) e i marocchini (5,4). Un po’ più sotto, tutti attorno al 4 per cento, i cittadini provenienti da Germania, Filippine e Svizzera. Posizioni e quote compatibili con la numerosità delle comunità - fa notare il Crif - se non fosse che i 200 mila lavoratori provenienti dalla Cina coprono lo 0,9 per cento appena delle domande di prestiti. Non perché i cinesi non abbiano bisogno di liquidità, ma perché preferiscono cavarsela fra parenti, amici, concittadini. Vanno in banca solo per questioni «serie»: nel 10,4 per cento dei casi chiedono infatti un mutuo immobiliari (fra gli italiani la quota è ormai ferma al 5).
Ed è proprio ragionando suimutui che vengono a galla le particolarità del rapporto Crif: cittadini della Romania e Albania a parte, la domanda di questa tipologia di finanziamento si concentra soprattutto su tedeschi e svizzera, legata probabilmente all’acquisto della casa delle vacanze. L’estesa comunità filippina ne fa ricorso, al contrario, molto raramente (solo lo 0,8 per cento delle richieste è finalizzata a tale scopo): chi arriva in Italia da Manila per trovare un lavoro, quasi sempre conta di ritornare in patria dopo qualche anno. Per nulla interessati ai mutui e alla possibilità di fermarsi qui anche i cittadini provenienti dall’Africa sub sahariana - ben rappresentati da Senegal ed Etiopia - che vedono nell’Italia più una tappa di passaggio verso altre destinazioni che un luogo dove comperare casa.
In generale, però, la grande maggioranza di richieste di finanziamenti da parte di stranieri si concentra sui prestiti finalizzati e su quelli personali (34 e 40,3 per cento sul totale). Comunque sia, «la domanda di credito rappresenta una delle vie principali per l’integrazione - sottolinea Simone Capecchi, direttore Sales&marketing del Crif - pur con tutte le incertezze economiche che, negli ultimi anni, hanno indotto molti emigranti a rientrare nei Paesi d’origine».

il Fatto 13.3.14
Il futuro miliardario è un “senza casa”
Londra, Amir Taaki vive da abusivo in un edificio ma per Forbes ha un roseo avvenire: è l’inventore del Bitcoin
di Caterina Soffici


Londra. La rivista Forbes l’ha inserito nella lista dei personaggi più influenti nel campo della tecnologia e quindi magnifici futuribili Paperoni. “Finalmente mia mamma è stata contenta” ha commentato lui “Continuava a dirmi: perché hai lasciato l’università? Perché non ti trovi un lavoro? Smettila di ciondolare in giro. Smettila con questi computer”. Bene, ora l’ha capito anche la mamma e si è messa tranquilla. Ora può dire: “Mio figlio è su Forbes”.
IL FIGLIOLO IN QUESTIONE si chiama Amir Taaki, 25 anni. È un esperto di programmazione e uno degli “angeli” del Bitcoin, la moneta virtuale che permette agli utenti di Internet di scambiarsi servizi e di comprare merci sul web. È considerato uno degli hacker più talentuosi d’Europa. E quando nell’ambiente dicono “hacker” non intendono niente di illegale: il termine si usa per indicare quei nerd molto creativi capaci di decodificare un software e riscriverlo. Taaki compare nella lista di Forbes insieme a nomi come Pete Cashmore (27 anni, fondatore di Mashable), valutato 50 milioni di dollari e con i fondatori di Snapchat Evan Spiegel (23 anni) e Bobby Murphy (25), che hanno rifiutato un’offerta da Facebook per 3 miliardi. Questi vivono nel jet set dei ragazzini ad alta tecnologia, tra San Francisco, Londra e New York in appartamenti da sogno. Taki è all’apposto: vive ad Hackney, quartiere etnico di East London, in una comune. Tecnicamente è uno squatter: lui e altri hanno occupato un edificio. Padre iraniano e madre inglese, ha abbandonato l’università tre volte, prima di imporsi come stella autodidatta nel mondo del cosiddetto “dark web”, il web sotterraneo, dove si scambia di tutto, soprattutto le cose illegali (armi, droga, informazioni riservate).
NEGLI AMBIENTI degli hacker si sussurra che potrebbe essere uno dei fondatori di Bitcoin. Forse addirittura il misterioso Satoshi Nakamoto, lo pseudonimo dietro cui si cela il creatore della moneta. Lui nega, come nega di avere relazioni con quelli di Wikileaks. Ma di sicuro ha avuto un ruolo di primo piano nello sviluppo del Bitcoin, perché dicono che le sue impronte digitali sono ovunque: ha codificato gran parte delle infrastrutture che gestiscono gli scambi di moneta virtuale in rete e ha fondato due dei siti utilizzati per commerciarli. Nel 2010 Taaki aveva comprato 600 dollari di Bitcoin (valevano 10 centesimi l’uno, quindi 6.000 Bitcoin). Li ha venduti poco dopo a 100 dollari, ma - per dare l’idea del fenomeno - ora varrebbero 6 milioni di dollari. Ci sono circa 12 milioni di Bitcoin in circolazione e non è ancora chiaro se sia una bolla speculativa o se è una moneta vera. Vero è invece che ci sono a Londra alcuni pub trendy dell’East End dove puoi pagare in Bitcoin. Amir Taaki però non è interessato ai soldi veri e infatti ha rifiutato fior di offerte dalle migliori aziende della Silicon Valley. Lui lo fa per una questione ideologica, e sta lavorando a un progetto che ha chiamato “Dark Wallett”. Potremmo tradurlo “portafoglio segreto” e consiste nel rendere anonime le transazioni di moneta virtuale. A metà tra un anarchico e un liberista assoluto, la missione di Taaki è rendere gli scambi tra utenti liberi da ogni gabella e da ogni intermediario, “lontano dagli occhi indiscreti della società e dello Stato”, dice.

l’Unità 13.3.14
Sui Cie non si deve abbassare la guardia
di Luigi Manconi, Valentina Brinis e Valentina Calderoni

È stata approvata un paio di settimane fa, dal consiglio comunale di Roma, la mozione che propone la chiusura del Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria. Si tratta di un'azione che riprende quella del Consiglio comunale di Torino che aveva approvato una mozione simile con la quale impegnava «il sindaco e la giunta comunale a chiedere ufficialmente al Governo di chiudere nel più breve tempo possibile il Cie di Corso Brunelleschi». La stessa proposta è stata presentata da Marta Bonafoni, consigliera regionale del Lazio, che auspica che la discussione avvenga il prima possibile.
Non si sa che esito avranno tali mozioni ma sicuramente rappresentano un altro tentativo, l’ennesimo, di far passare il messaggio che i Cie ormai hanno dimostrato la loro inefficienza. A dimostrazione di ciò, basta citare un dato, reso noto di recente dal Rapporto di Medici per i Diritti Umani: ovvero che appena il 47% delle persone trattenute nei Cie nel 2013 sono state rimpatriate. Ciò equivale allo 0,9% del totale delle persone straniere irregolari presenti in Italia. Attualmente i trattenuti sono circa 450 a fronte di costi davvero ingenti. E a rendere tutto ciò ancora più grave è la condizione di precarietà in cui vivono le persone lì dentro. Il Cie è un carcere che non è un carcere, un orribile non luogo, immerso nel non tempo: una sorta di oscena e feroce matrioska, dove una gabbia contiene un' altra gabbia al cui interno si trova una successione di gabbie, cancelli, serrature. Il risultato è uno solo: si tratta di «strutture sempre più inutili e afflittive».
Da una settimana, inoltre, è online la petizione promossa da change.org in cui vengono proposti quattro motivi per il superamento del sistema dei Cie. La chiusura di questi posti è, tutt'oggi, lontana e pare sia molto difficile che ci si possa arrivare con un atto normativo. Intanto, però, otto di essi sono già stati chiusi a causa delle precarie condizioni in cui versavano, e non tutti verranno riaperti.
È importante, quindi, che azioni come quella dei consigli comunali di Torino e di Roma continuino ad essere portate avanti, anche se la loro valenza rimarrà solo simbolica.
Lo stesso vale per le iniziative di concessione della cittadinanza a chi è nato e cresciuto in Italia portate avanti da molte amministrazioni comunali.
Si tratta di cittadinanza onoraria che ha un doppio significato: riconoscere che la cittadinanza non è solo una procedura burocratica in cui l unico criterio valido è quello della permanenza regolare ininterrotta dalla nascita alla richiesta; dimostrare che l attuale normativa che regola la materia, la 91 del 1992 è da riformare. Essa, infatti, esclude dal riconoscimento della cittadinanza numerose persone che in Italia sono nate e cresciute e che si sentono più vicine alla cultura italiana che a quella di origine.

l’Unità 13.3.14
Napoli, rom in fuga dopo assalto alle baracche
di Felice Diotallevi


Un tentativo di violenza sessuale ad una sedicenne, avvicinata ieri sera da due nomadi rom nel quartiere di Poggioreale a Napoli, ha innescato la dura protesta dei parenti della ragazza e di residenti, che hanno attaccato con pietre e petardi l'insediamento di nomadi Rom di via del Riposo. L’altro ieri, poco prima delle 21, la ragazzina è stata bloccata e palpeggiata dai due Rom prima di riuscire a divincolarsi e fuggire a casa, dove ha raccontato tutto ai familiari. Questi ultimi hanno sporto denuncia, ma due cugini ventenni della ragazza si sono andati al campo Rom per regolare i conti. Qui, però, hanno avuto la peggio, riportando lievi ferite (5 e 7 giorni di prognosi), medicate in ospedale.
Ma subito dopo ai parenti della ragazza si sono uniti alcune decine di residenti, almeno una cinquantina, che hanno avviato una sassaiola contro l'insediamento Rom. Polizia e carabinieri, giunti di rinforzo, hanno evitato il peggio. Ma ieri mattina l’assedio al campo Rom è ripreso, come il lancio di petardi, ed un blocco stradale di protesta contro la presenza dei nomadi di origine rumena, che da oltre quattro anni, si sono stabiliti a Poggioreale. Nella notte un nomade Rom sarebbe stato aggredito per rappresaglia, riferiscono alcuni di loro. Poi, impauriti dai petardi che continuano ad esplodere, hanno cominciato a riempire auto e furgoni di masserizie e a lasciare l'insediamento. Sul posto, per cercare di calmare gli animi il presidente della IV Municipalità, Armando Coppola. «Finora i residenti hanno subito furti e gesti osceni dei nomadi, che hanno l'abitudine di urinare per strada, ma il tentativo di violenza ha fatto scattare la reazione violenta», dice ai giornalisti. Arriva anche l' ex missionario comboniano Alex Zanotelli, animatore della protesta sociale, che parla di "Pogrom" contro i Rom ed accusa il Comune di Napoli di fare vincere «la legge del più forte». «Nessuno di loro è qui per difenderli ed ho cercato inutilmente di contattarli da questa mattina». «Rispetto la storia di Zanotelli e le associazioni - replica l' assessore alle politiche sociali, Roberta Gaeta -ma ci vuole moderazione e collaborazione e dobbiamo poter parlare con i Rom anche direttamente, senza l' intermediazione delle associazioni, per le soluzioni alle quali lavoriamo, insieme ad altre istituzioni». Sono circa quattromila - secondo stime - i nomadi Rom a Napoli, accampati nei quartieri di Secondigliano, Soccavo e Poggioreale. Il Comune ha emesso il 29 gennaio un'ordinanza sindacale che prevede lo sgombero dell' area di S. Maria del Riposo, non ancora attuata.
L’episodio riporta alla mente i fatti della primavera 2008, quando a Ponticelli scoppiò una rivolta popolare per un presunto rapimento di una bambina da parte di una donna del campo Rom. Accadde il 12 maggio e fu Flora Martinelli, 27 anni, a denunciare il tentativo di rapimento della sua piccola di appena sei mesi da parte di una nomade che si era introdotta in casa sua, nel rione controllato all’epoca dal clan della famiglia Sarno. Qualche quotidiano riportò anche la notizia del pizzo che i Rom avrebbero pagato alla camorra per poter stare in quella zona. Dopo le accuse della signora Martinelli nel quartiere si scatenò una specie di caccia al Rom, con assalti alle roulotte a colpi di molotov e spranghe.
Il campo fu messo a ferro e fuoco e i nomadi furono costretti ad abbandonare le loro cose. Solo qualche tempo dopo venne fuori che il tentativo di rapimento era stata una bufala e che quindi i Rom avevano subito una caccia alle streghe ingiustificata, con momenti di alta tensione tra gli abitanti del quartiere e l’insediamento che constrinsero la polizia ad intervenire. Il clima fu surriscaldato ancora di più da alcuni esponenti politici che soffiavano sul fuoco dell’intolleranza. «Il sindaco deve ordinare lo sgombero di tutti i campi nomadi», disse Raffaele Ambrosino, capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale, seguito da Fabio Chiosi, coordinatore cittadino di An che ha annunciato: «Il tempo delle mezze misure deve terminare».

la Repubblica 13.3.14
“Basta fondamentalismi e pensiero unico la verità non esiste senza dialogo”

di Francesco (sic!)

SALTA all’occhio il fatto che nel corso della storia si siano moltiplicati - e continuino a moltiplicarsi anche oggi - i fondamentalismi. In sostanza si tratta di sistemi di pensiero e di condotta assolutamente imbalsamati, che servono da rifugio. Il fondamentalismo si organizza a partire dalla rigidità di un pensiero unico, all’interno del quale la persona si protegge dalle istanze destabilizzanti (e dalle crisi) in cambio di un certo quietismo esistenziale. Il fondamentalismo non ammette sfumature o ripensamenti, semplicemente perché ha paura e - in concreto - ha paura della verità. Chi si rifugia nel fondamentalismo è una persona che ha paura di mettersi in cammino per cercare la verità. Già «possiede» la verità, già l’ha acquisita e strumentalizzata come mezzo di difesa; perciò vive ogni discussione come un’aggressione personale.
La nostra relazione con la verità non è statica, poiché la Somma Verità è infinita e può sempre essere conosciuta maggiormente; è sempre possibile immergersi di più nelle sue profondità. Ai cristiani, l’apostolo Pietro chiede di essere pronti a «rendere ragione» della loro speranza; vuol dire che la verità su cui fondiamo l’esistenza deve aprirsi al dialogo, alle difficoltà che altri ci mostrano o che le circostanze ci pongono. La verità è sempre «ragionevole», anche qualora io non lo sia, e la sfida consiste nel mantenersi aperti al punto di vista dell’altro, senza fare delle nostre convinzioni una totalità immobile. Dialogo non significa relativismo, ma «logos» che si condivide, ragione che si offre nell’amore, per costruire insieme una realtà ogni volta più liberatrice. In questo circolo virtuoso, il dialogo svela la verità e la verità si nutre di dialogo. L’ascolto attento, il silenzio rispettoso, l’empatia sincera, l’autentico metterci a disposizione dello straniero e dell’altro, sono virtù essenziali da coltivare e trasmettere nel mondo di oggi. Dio stesso ci invita al dialogo, ci chiama e ci convoca attraverso la sua Parola, quella Parola che ha abbandonato ogni nido e riparo per farsi uomo.
Così appaiono tre dimensioni dialogiche, intimamente connesse: una tra la persona e Dio - quella che i cristiani chiamano preghiera - , una degli esseri umani tra loro, e una terza, di dialogo con noi stessi. Attraverso queste tre dimensioni la verità cresce, si consolida, si dilata nel tempo. […] A questo punto dobbiamo chiederci: che cosa intendiamo per verità? Cercare la verità è diverso dal trovare formule per possederla e manipolarla a proprio piacimento. Il cammino della ricerca impegna la totalità della persona e dell’esistenza. È un cammino che fondamentalmente implica umiltà. Con la piena convinzione che nessuno basta a sé stesso e che è disumanizzante usare gli altri come mezzi per bastare a sé stessi, la ricerca della verità intraprende questo laborioso cammino, spesso artigianale, di un cuore umile che non accetta di saziare la sua sete con acque stagnanti.
Il «possesso» della verità di tipo fondamentalista manca di umiltà: pretende di imporsi sugli altri con un gesto che, in sé e per sé, risulta autodifensivo. La ricerca della verità non placa la sete che suscita. La coscienza della «saggia ignoranza» ci fa ricominciare continuamente il cammino. Una «saggia ignoranza» che, con l’esperienza della vita, diventerà «dotta». Possiamo affermare senza timore che la verità non la si ha, non la si possiede: la si incontra. Per poter essere desiderata, deve cessare di essere quella che si può possedere. La verità si apre, si svela a chi - a sua volta - si apre a lei. La parola verità, precisamente nella sua accezione greca di aletheia, indica ciò che si manifesta, ciò che si svela, ciò che si palesa attraverso un’apparizione miracolosa e gratuita. L’accezione ebraica, al contrario, con il termine emet, unisce il senso del vero a quello di certo, saldo, che non mente né inganna. La verità, quindi, ha una duplice connotazione: è la manifestazione dell’essenza delle cose e delle persone, che nell’aprire la loro intimità ci regalano la certezza della loro autenticità, la prova affidabile che ci invita a credere in loro.
Tale certezza è umile, poiché semplicemente «lascia essere» l’altro nella sua manifestazione, e non lo sottomette allenostre esigenze o imposizioni. Questa è la prima giustizia che dobbiamo agli altri e a noi stessi: accettare la verità di quel che siamo, dire la verità di ciò che pensiamo. Inoltre, è un atto d’amore. Non si costruisce niente mettendo a tacere o negando la verità. La nostra dolorosa storia politica ha preteso molte volte di imbavagliarla. Molto spesso l’uso di eufemismi verbali ci ha anestetizzati o addormentati di fronte a lei. È, però, giunto il momento di ricongiungere, di gemellare la verità che deve essere proclamata profeticamente con una giustizia autenticamente ristabilita. La giustizia sorge solo quando si chiamano con il loro nome le circostanze in cui ci siamo ingannati e traditi nel nostro destino storico. E facendo questo, compiamo uno dei principali servizi di responsabilità per le prossime generazioni.
La verità non s’incontra mai da sola. Insieme a lei ci sono la bontà e la bellezza. O, per meglio dire, la Verità è buona e bella. «Una verità non del tutto buona nasconde sempre una bontà non vera», diceva un pensatore argentino. Insisto: le tre cose vanno insieme e non è possibile cercare né trovare l’una senza le altre. Una realtà ben diversa dal semplice «possesso della verità» rivendicato dai fondamentalismi: questi ultimi prendono per valide le formule in sé e per sé, svuotate di bontà e bellezza, e cercano di imporsi agli altri con aggressività e violenza, facendo il male e cospirando contro la vita stessa.

Corriere 13.3.14
Francesco, il Papa che costruisce ponti tra la Chiesa e il popolo dei fedeli
di Andrea Riccardi


Com’è possibile che il cattolicesimo, dato per agonizzante un anno fa, sia oggi in piena primavera? I media parlano con favore del Papa argentino. La gente sembra avere un nuovo interesse per la Chiesa. Com’è avvenuta questa rapida inversione di tendenza? Gli scettici (dentro e fuori dalla Chiesa) parlano di un fenomeno effimero e mediatico, quai un bluff . La crisi non può essere stata risolta in pochi mesi. In realtà il papato sembrava contagiato da una «malattia italiana»: l’incapacità di una classe dirigente a governare. Non è un caso che molti cardinali, al conclave, escludessero un candidato italiano e sottolineassero la responsabilità degli italiani nel cattivo governo vaticano. Inoltre la Chiesa è apparsa segnata da una «malattia europea»: la decadenza che attanaglia il continente. Sono alcuni ingredienti decisivi della crisi.
Infatti i cardinali hanno scelto che il cattolicesimo latino-americano esprimesse la leadership della Chiesa. Forse non conoscevano a fondo il pensiero di Bergoglio (non accademico, ma profondo), però sono stati colpiti dalla sua trasparenza. È un vescovo di una Chiesa dalla vitalità popolare. Da Papa, ha stabilito fin dall’inizio una forte «alleanza» con il popolo, sempre folto in ogni sua comparsa. Sono sei milioni e seicentomila i partecipanti agli incontri vaticani con Francesco da marzo (è stato eletto il 13, ndr) a dicembre 2013, mentre per un periodo quasi uguale all’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI se ne contavano meno della metà. Le parole e i gesti di Francesco suscitano simpatia. Non sono tanto simbolici (come per Paolo VI o Wojtyla), ma umani, come toccare un giovane gravemente malato e soprattutto incontrare la gente. Il Papa, nel primo anno, ha fatto solo un viaggio internazionale in Brasile, mentre Giovanni Paolo II era stato in Messico, Repubblica Domenicana, Polonia, Irlanda e Stati Uniti.
Nel suo parlare alla gente, Francesco ha messo al centro il Vangelo con l’accentuazione della misericordia. I temi etici sono entrati in un cono d’ombra, non perché il Papa li ripudi, ma è convinto che l’eccessiva insistenza su questi aspetti non sia necessaria, anzi riduca la capacità di parlare al cuore. Ha poi dichiarato nell’intervista a Ferruccio de Bortoli (Corriere della sera del 5 marzo scorso) che non ci sono valori negoziabili e altri non negoziabili. Per Francesco c’è un popolo largo da incontrare: bisogna creare ponti. È quel popolo misto che ha conosciuto a Buenos Aires, santo e peccatore, ma attraversato da una domanda di fede, non una minoranza di puri.
Nel volgere di qualche mese, il clima di declino della Chiesa è svanito: è rinata la fiducia nella Chiesa, come un’istituzione che ridà speranza. Addirittura il Papa rivendica la pulizia fatta riguardo agli scandali della pedofilia nella Chiesa più di ogni altra istituzione. La simpatia attorno al Papa non è un gioco dei media, anche se quelli anglosassoni (ieri critici) hanno un’attenzione particolare per lui. Un importante giornalista americano ha detto: «È un nuovo Mandela». Per Time , che gli dedica la copertina, è l’uomo dell’anno: «una nuova voce della coscienza». C’è poi un successo di Bergoglio tra la gente semplice, che torna a rivolgersi alla Chiesa. Per il Censis, il Papa incarna la voglia di aiutare gli altri, tanto parlare di «papafrancescanesimo» come una corrente della società italiana. Il Papa ha reso orizzontale il contatto con la Chiesa, rivolgendosi al popolo. Non appare indulgente verso il clericalismo e le mancanze del ceto ecclesiastico. Qualche episcopato ha espresso preoccupazione per questo modo di fare. Qualcuno ha parlato di «vezzo populista». In realtà, come si legge nell’Evangelii Gaudium , il suo documento programmatico, Francesco vuole una Chiesa missionaria: da giovane, voleva essere missionario in Giappone, ora guida il cattolicesimo in un movimento d’estroversione.


Corriere 13.3.14
Nel 1910 lo sguardo che cambiò il mondo
Già prima della Grande guerra gli artisti scoprirono modernità e «dissonanza»
di Claudio Magris


«1910 — scriveva Gottfried Benn — l’anno appunto in cui tutte le impalcature del secolo cominciarono a crollare». E Virginia Woolf, forse ancor più radicalmente: «Nel o intorno al dicembre 1910, il carattere dell’umanità cambiò». Qualcosa, tutto o quasi tutto sta per disfarsi nel volto dello «Sguardo rosso» di Schönberg, quadro dello stesso anno. Gli esempi potrebbero continuare senza fine; la letteratura — specialmente la poesia — le arti figurative, la filosofia, la musica, la scienza e prima ancora la vita stessa dell’Occidente esplodono, sconvolte, annientate, liberate, resuscitate dalla rottura di ogni ordine armonico e di ogni armoniosa consonanza, distrutte nella loro secolare organizzazione e costrette, forse più con disperazione che con gioia, ad aprirsi a una creatività che non ha eguali.
Quel simbolico — e non solo simbolico — anno è la nascita, violenta e dolorosa, non solo di una nuova arte in tutti i campi, ma anche e soprattutto di un nuovo Io, di un nuovo modo di vivere il proprio impossibile rapporto con se stessi, l’insufficienza della vita e l’impossibilità ma anche necessità di vivere un’esistenza autentica. Quest’anno è come la ferita di un parto tragico e redentore; ferita sanguinante che gli anni e i decenni successivi avrebbero fintamente ricucito come una falsa verginità rifatta. L’urlo di Munch, certamente intollerabile per ogni tradizione compositiva e per l’ordine ottocentesco, sarà neutralizzato da troppi falsi estremisti perfettamente integrati in un sistema diversamente ma altrettanto ferreamente organizzato quanto quello ottocentesco, come sarà ed è sempre più il nuovo mondo sorto dalle guerre mondiali.
I grandi artisti, poeti, filosofi, musicisti di quel drammatico e straordinario Natale della dissonanza che è stato il 1910 (e dintorni) — Schönberg, Kokoschka, Nietzsche, Michelstaedter, Kandinsky, Boine, Trakl, il giovane Lukács, Kafka, Rilke, Schiele, Marc e tanti altri — hanno amato con profondo e tragico amore l’autentica armonia, ed è in nome di essa, per liberare la sua autenticità dalla falsa armonia retorica che la adultera, che hanno intrepidamente emancipato la dissonanza, in ogni campo; dissonanza che a loro volta li ha emancipati, li ha liberati interiormente o meglio volti alla ricerca di una liberazione che non poteva non essere, in nome dell’autenticità, anche e soprattutto naufragio. Così scrive Thomas Harrison in un libro, ora uscito nella bella e incisiva traduzione di Federico Lopiparo, 1910. L’emancipazione della dissonanza .
Un saggio che è un vero capolavoro, degno di quei saggi nei quali i grandi del primo Novecento, come il giovane Lukács, cercavano la vita vera e il suo rapporto con le forme, che la negano o almeno la irrigidiscono ma senza le quali essa non esisterebbe. Un grande libro, che spazia dalla letteratura alla musica alla pittura alla filosofia; un libro godibile perché insieme profondo e lieve, qualità che ha caratterizzato pure gli studi dell’autore sulla poesia italiana, su Nietzsche, Conrad, Musil o Pirandello.
Magris — «Cosa ti ha spinto — gli chiedo incontrandolo a Roma durante una sua puntata da Los Angeles — dove insegna alla celebre UCLA, a scrivere questo libro, che non risponde solo a interessi storico-culturali, ma anche e forse soprattutto a questioni esistenziali, a domande pure tue sulle cose ultime?».
Harrison — L’anima ha le sue ragioni che la ragione ignora! La mia ha sempre sentito una grande affinità per la cultura europea fra il 1880 e il 1920. Ho scritto 1910 quando ho pensato a quell’Europa centrale d’inizio secolo come ricettacolo delle ultime risposte ad alcune fra le più importanti domande della storia occidentale. Cosa vuole la volontà umana? Come ci giustifichiamo la vita? Quanto ne capiamo di questa vita e del profondo di noi stessi? E soprattutto, cosa dobbiamo fare quando non abbiamo le risposte? In questo senso, la «storia delle idee» che offre questo libro mi sembra un esteso panorama della mia. Ma tu, che hai scritto il grande Mito absburgico e Lontano da dove , per non parlare di Danubio , pensi che si possa scrivere una storia culturale che non sia già prima storia personale?
Magris — No, ogni vero libro, anche se rigorosamente oggettivo, è un’autobiografia, indiretta e forse perciò più vera. Un posto rilevante, nel tuo libro, lo occupa pure la letteratura triestina, l’atmosfera culturale di Trieste e Gorizia. E un ruolo centrale lo ha Michelstaedter che anch’io credo abbia preso alla gola, col suo capolavoro La persuasione e la rettorica , un aspetto essenziale della vita in sé e della modernità in particolare, l’incapacità di vivere veramente il presente, la vita, senza distruggerli nell’attesa di un futuro che non c’è veramente mai, ossia precipitandosi nel domani, non vivendo ma volendo aver già vissuto, essere più vicini alla morte. Ma tu scrivi, con grande originalità, che l’errore di Michelstaedter è stato l’incapacità di accettare l’insufficienza della vita, l’inevitabile inautenticità della condizione umana…
Harrison — Per me Michelstaedter rappresenta il momento in cui, direbbe Cacciari, il pensiero diventa «negativo», naufragando nell’indicibilità e nel non-saper-agire. Ritengo che Michelstaedter si sarebbe potuto salvare dal nichilismo e dalla morte spirituale se fosse riuscito (come Nietzsche e Wittgenstein per esempio) a trovare il bene del «tesoro» della lingua, a trasformare parole vuote in creazione artistica. Parlando di Trieste, mi sembra che la collocazione geoculturale del giovane goriziano — ebreo e italiano, ma suddito austriaco, “irredento” quindi in molti sensi — rispecchia una più diffusa crisi d’identità europea. Se fosse vissuto oltre il 1910, quell’«intellettuale di frontiera» si sarebbe forse rivolto alla mistica, a quello che il tuo romanzo sul suo amico Mreule chiama Un altro mare .
Magris — Non sono d’accordo con te quando riconduci il suicidio di Michelstaedter alla sua filosofia, alla sua incapacità sia di vivere la vita vera sia di convivere con l’insufficienza della vita, con la retorica. Del suicidio in genere, in cui la metafisica s’incrocia con le pieghe più sfuggenti dell’accidentale fragilità psicologica, credo non si possa dire nulla.
Harrison — In famiglia Magris siete già due grandi studiosi di Michelstaedter (tu insieme a Paolo), e forse avete ragione di scindere il suo pensiero dal suo agire. Io invece ho voluto vedere che effetto abbia potuto avere l’uno sull’altro, e chiedere dove il pensiero potesse essere sbagliato, soprattutto nel suo rifiuto della volatilità che caratterizza la vita come la si vive (invece che come la si dovrebbe vivere). Ritengo Michelstaedter per certi versi ancora giovane e inesperto, e irrimediabilmente «nichilista». In ciò nuoto forse controcorrente, ma contro una corrente che rischia di finire in agiografia. La grandezza di Michelstaedter non sta per me nella sua visione «persuasa», ma nell’impegno morale, nella sua severità concettuale, nel temperamento satirico, ironico ed «espressionista». Non mi sembra che lo si debba prendere troppo alla lettera, il goriziano, come se ci additasse con la mano l’invisibile nostra «patria vera».
Magris — La grande cultura di quegli anni si chiede quale rapporto ci sia tra la vita, così com’è, e la vita, la sua essenza. Domanda tragica e tragicamente vissuta. Il secolo scorso inizia con molte donne suicide, vittime sacrificali che scendono nel buio per consentire all’uomo di restare nella luce e magari trarre creatività dalla loro morte. Irma si suicida per il giovane Lukács che scrive per lei L’anima e le forme , Anna-Gioietta per Slataper che scrive Il mio Carso , Nadia per Michelstaedter e altre ancora. Si tratta di altissime avventure umane, ma che si inquadrano in una visione questa sì molto datata della donna e del suo rapporto con l’uomo.
Harrison — Era l’enorme senso di colpa di Lukács nei confronti di Irma, secondo il grande commento di Cacciari, che mi ha fatto riflettere sulla sindrome delle donne che si sacrificano per il lavoro dell’uomo. Queste «compagne femminili» aprono il secondo capitolo del mio studio sulla pulsione della morte di quegli anni prebellici, pulsione rafforzata dal rifiuto della tensione dissonante con cui il libro inizia — fra il bene e il male, il vero e il falso, l’autentico e il conforme, l’amore e l’odio, tensione appunto «emancipata» nel 1910. Chi non trova la forza di abbracciare l’unità tragica di questi opposti rimuove l’elemento «negativo» e lo respinge sulla donna (o sull’ebreo, nel caso di Weininger). Così facendo, però, dà pure la parte eroica alla donna. Mi sembra che siano temi che hai trattato anche tu con grande chiarezza nella figura di Alcesti nella tua Mostra e nell’Euridice di Lei dunque capirà.
Magris — Nel ricchissimo paesaggio del libro, forse Ibsen non ha il posto eminente che gli spetta. È da lui che discende originariamente questa emancipazione della dissonanza, tanto più sconvolgente perché apparentemente contenuta in composte forme classiche…
Harrison — Da giovane leggevo molto Ibsen insieme a Nietzsche, con cui condivide molte idee. Ma mi è rimasto più vicino il filosofo che non il drammaturgo, forse per le stesse ragioni per cui prendo le distanze da un certo Slataper e da altri idealisti d’inizio secolo: perché Ibsen rimane alle prese con il sogno della vita autentica, mentre Nietzsche esige che la si sogni solo nell’humus del mondo tragico delle apparenze. Al varco dell’anno 1910, mi sembra che il norvegese segni il punto prima della svolta decisiva, come certi esistenzialisti che parlano di autenticità senza affondarla nell’assurdo.
Magris — Tu concludi illustrando come la Grande guerra e quello che le è seguito abbia distrutto o snaturato i fermenti di quella grande dissonanza. La tragedia diventa retorica, la creatrice rottura delle forme diviene la scolastica, comoda e innocua trasgressione pianificata dell’avanguardia, il confronto bruciante con la colpa diviene nei migliori dei casi nobile ma sfuocato umanesimo. A tutto questo ha forse reagito solo il grande antiromanzo totale degli anni Venti-Trenta, l’opera di Kafka o di Musil — cui hai dedicato un saggio — di Svevo, di Broch, di Faulkner; quei grandi «capolavori falliti» — come li chiama La Capria — che hanno assunto su di sé, nella dissonanza delle forme narrative, la verità stravolta dell’epoca, che può essere narrata veramente solo in modo stravolto. Una precursore è stato Conrad, altro autore su cui hai scritto un saggio fondamentale. Credi anche tu che, rispetto all’attuale orrida restaurazione del romanzo ben fatto, mero prodotto di passivo e gregario consumo, quei capolavori grandi proprio perché consapevolmente «falliti» siano — almeno in Europa e in Occidente — l’ultima vera, grande dissonanza portatrice di verità e di libertà?
Harrison — Hai ragione; il mio studio è segnato da una polemica fondamentale contro il concetto di avanguardia, che finisce per normalizzare la lotta contro la retorica senza necessariamente incidere decisivamente sulla lingua vissuta o sull’agire etico. È solo dopo una riflessione sulla storia catastrofica — penso per esempio a Musil e Gadda, ma anche al tuo romanzo labirintico Alla cieca — che la narrativa scopre il dovere e i mezzi di raccontare «la verità stravolta dell’epoca in modo stravolto». Se i futurismi, dadaismi e surrealismi rischiano di affidarsi all’arbitrarietà del segno, il punto d’arrivo del 1910 è invece il bisogno di fondare l’arte e l’agire sul «fraintendimento umano», sul fatto che gli individui, i gruppi e le culture — insomma tutti coloro che si esprimono in lingua — si fraintendono di continuo.
 Questa è l’ultima tesi del mio libro, e mi sembra la saggezza dei giovani Rilke, Lukács e Michelstaedter. Cent’anni dopo quella Guerra che doveva finire tutte le guerre, siamo arrivati a pensare che forse solo il romanzo può fare i conti con le forme tortuose dell’anima umana.


Corriere 13.3.14
Italia e Austria verso il 2015 Quattro mani per una storia
Risponde Sergio Romano


Attendo con angoscia la colata di retorica che ci verrà addosso nel 2015, già se ne intravedono i bagliori. Negli anni 80 furono incaricati degli storici, austriaci ed italiani, di scrivere la storia della Prima guerra mondiale, soprattutto circa i due Paesi, sulla base di dati inconfutabili e senza retorica. Non so chi fosse lo storico italiano, ma ricordo che da parte austriaca fu incaricato il Prof. Wandruszka. Non ne ho saputo più niente. Spero che i miei nipoti possano studiare una storia attendibile perché «non tutti i bastardi sono di Vienna» come dice bene un romanzo di qualche anno fa, che anzi ne avevamo tanti qui anche da esportare. Mariangela Vlacich 
Cara signora,
I l libro di cui lei scrive apparve dapprima a Vienna e a Monaco nel 1973 presso l’editore Jugend und Volk sotto il titolo «Österreich und Italien. Ein bilaterales Geschichtsbuch» (Austria e Italia, un libro di storia bilaterale); e successivamente a Bologna nel 1974 presso l’editore Cappelli con il titolo «Storia a due voci». L’autore italiano era Silvio Furlani, bibliotecario della Camera dei deputati, molto attivo sino alla sua morte, nel 2001, con una straordinaria varietà d’interessi, dai trattati sul diritto elettorale alla storia dell’Europa centrale e settentrionale. L’autore austriaco, come lei ricorda nella sua lettera, era Adam Wandruszka, storico di origine polacca (era nato a Leopoli nel 1914), molto noto negli ambienti culturali italiani, tra l’altro, per una bella biografia di Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, figlio di Maria Teresa d’Austria, riformatore del Granducato di Toscana dal 1765 al 1790 e imperatore dal 1790, con il nome di Leopoldo II, dopo la morte del fratello Giuseppe II. Ma fra le opere di Wandruszka vi erano anche una grande biografia di Maria Teresa, un lungo studio sulla dinastia degli Asburgo e un saggio sul 1866, l’«anno fatale» in cui l’Austria aveva perduto il Veneto e il suo ruolo di principale potenza germanica. L’idea del libro nacque dagli incontri, prima a Innsbruck poi a Venezia, fra istituzioni universitarie dei due Paesi, ma divenne una iniziativa dell’Unesco. Erano gli anni in cui molte commissioni accademiche stavano cercando di scrivere nuovi manuali di storia per le scuole medie europee, privi di quegli eccessi di retorica nazionalista a cui lei, cara signora, fa riferimento nella sua lettera. Furlani e Wandruszka procedettero diversamente. Anziché firmare uno stesso testo si divisero la storia dei rapporti italo-austriaci. Furlani si dedicò all’epoca napoleonica, a quella della Restaurazione, al Risorgimento e alla storia dei due Paesi dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Wandruszka invece scelse per sé la storia antica e quella moderna sino al principe Eugenio, l’epoca delle riforme, l’illuminismo italiano e austriaco soprattutto a Milano, il periodo fra le due guerre mondiali. Nessuno dei due rinunciò alle proprie idee e alle proprie convinzioni, ma entrambi dimostrarono che l’amor di patria può felicemente convivere con sentimenti di ammirazione e stima per un Paese con cui i rapporti sono stati talora tesi e difficili. Aggiungo che i due autori erano entrambi bilingui. Non ho dimenticato una lunga conversazione con Wandruszka all’Hotel Sacher in una sera viennese dei primi anni Ottanta. Come il suo amato Pietro Leopoldo, parlava un eccellente toscano

la Repubblica 13.3.14
Matematica
Sono i più bravi del mondo con i numeri mentre i liceali britannici, e in genere europei, arrancano 

“Insegnate il metodo Shanghai ai nostri figli” “niente calcoli, siamo inglesi” 
E Londra importa i prof dalla Cina
di Enrico Franceschini

LONDRA. Finora dalla Cina importavamo telefonini, televisori, scarpe, borsette, magliette. Adesso si apre una nuova frontiera: l’importazione di insegnanti di matematica. Comincia la Gran Bretagna, che ne ha ordinati sessanta in un colpo solo, umiliata da una recente statistica secondo cui i figli dei poveri di Shanghai sono da uno a tre anni avanti, in materia di tabelline ed equazioni, rispetto ai figli dei ricchi di Londra. Potrebbe essere l’inizio di un’invasione in mezza Europa, perché non è che gli altri Paesi del continente brillino molto più degli inglesi in questo campo. L’iniziativa parte dal ministero dell’Istruzione britannico, dopo che i dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo hanno catalogato gli studenti del Regno Unito al 26esimo posto nel mondo in aritmetica. Peggio ancora, la stessa ricerca rivela che i figli di netturbini e camerieri a Shanghai conoscono la matematica molto meglio dei figli di medici e avvocati a Londra: a livello di scuole elementari, i cinesi hanno un anno scolastico di vantaggio nei confronti degli inglesi; a livello di medie superiori il vantaggio è diventato di tre anni. Il vantaggio nel resto della vita è sotto gli occhi di tutti: la Cina nuova superpotenza della terra, l’Europa (anzi l’Occidente, visto che il fenomeno è analogo negli Stati Uniti) in posizione subalterna.
Consapevoli che la forza non solo economica di una nazione passa sempre di più dallo studio delle materie scientifiche, le autorità britanniche cercano dunque di risalire la china rivolgendosi a chi appare più bravo di loro. Un primo gruppo di sessanta insegnanti cinesi di matematica, tutti “English speaking” quindi in grado di farsi capire, afferma il ministro dell’Istruzione Liz Truss, arriverà in Inghilterra all’inizio del prossimo anno scolastico. Verranno distribuiti uno per scuola; e poi gli insegnanti di matematica inglesi delle scuole prescelte passeranno un mese in Cina per un training intensivo. L’obiettivo è impadronirsi di un metodo più efficace, ammesso che imparare la matematica sia questione di metodo e non solo di studiarla tanto.
In cosa consista il metodo cinese lo anticipa il Daily Mail. Uno: insegnare al livello dei più bravi della classe, non dei più somari e nemmeno della media. Due: offrire mini-ripetizioni “one-on-one”, faccia a faccia, per far recuperare e motivare chi resta indietro. Tre: farne tanta, di matematica, una montagna di compiti in classe e compiti a casa. Infine un’attitudine “obamia-na”, se così si può chiamarla: yes we can, ovvero convincersi di poter imparare anche le operazioni che sembrano più astruse. A ripetizione dai cinesi, se potesse, lo Stato britannico manderebbe anche i genitori, visto che un altro rapporto, pubblicato ieri dal Daily Telegraph, li boccia ancora più inesorabilmente dei loro figli. Risulta che metà della popolazione adulta ha una capacità matematica inferiore a quella di un bambino di 11 anni; e che un terzo degli adulti ammettono di non saper fare nemmeno i conti più elementari, tipo calcolare il resto quando fanno la spesa. In teoria ciò fornisce una giustificazione agli scolari di oggi: voi - potrebbero dire a papà e mamme - non andavate certo meglio di noi in matematica. Per rimediare almeno un po’, il ministero dell’Istruzione offrirà corsi e test gratuiti online per adulti, con la speranza di indurre i più grandi, non soltanto i più piccoli, a migliorare nella scienza di Archimede e di Pitagora.
Certo, con il calcolatore del telefonino, del tablet e del computer che possono fare i conti per noi, molto meglio e più in fretta di noi, è dura rimettersi a studiare matematica. Vale per i ragazzi come per i genitori: è come avere come compagno di banco un primo della classe che ci esorta a copiare. Prima di importare insegnanti cinesi, dunque, almeno quando facciamo i conti bisognerebbe spegnere telefonini e pc. Tanto vengono dalla Cina pure quelli.


la Repubblica 13.3.14
Anche i geni sgobbano Studiare costa fatica
di Piergiorgio Odifreddi


L’Inghilterra è disperata per gli scarsi risultati dei suoi studenti in matematica: che comunque sono meglio dei nostri, anche se noi non ci disperiamo. Ha dunque deciso di rivolgersi, se non direttamente al Cielo, almeno al paese del Mandato del Cielo, invitando professori cinesi in Inghilterra, e inviando professori inglesi in Cina. Così facendo conferma di non eccellere non solo in matematica, ma neppure nella sua storia. In particolare, non sembra conoscere l’episodio secondo cui Tolomeo chiese a Euclide qualche scorciatoia per imparare la materia, e si sentì rispondere: “Sire, non ci sono vie regie in matematica”.
Dunque, la Cina non potrà insegnare molto all’Inghilterra, a parte le cose più ovvie, che qualunque matematico potrebbe dirle. Compreso me, che comunque in Cina ci ho passato un anno, in quattro trimestri, osservando da vicino il motivo del successo degli studenti cinesi a casa loro e all’estero: ad esempio, nelle università americane, dove nelle facoltà scientifiche con gli indiani costituiscono la maggioranza degli studenti.

il Fatto 13.3.14
Erasmus
Europa lontana, studenti e lavoratori senza urna
di sn


LE OCCASIONI PERSE con l'Italicum. Una si chiama Erasmus, quella cioè che avrebbe dato a centinaia di migliaia di studenti e lavoratori il diritto di voto. Tramite i 5 stelle, era stato presentato un emendamento, redatto dal Comitato “Io voto fuorisede” e poi sottoscritto da svariate forze politiche che introduceva il sistema dell’ ”early vote”, ossia la possibilità di esercitare il voto per corrispondenza ad esempio per gli studenti che a nel mese maggio staranno trascorrendo un periodo all’estero nell’ambito del progetto Erasmus. “Larga parte dei Paesi Ue – ha ricordato Alberto Campailla, Portavoce nazionale di Link-Coordinamento Universitario - adoperano da anni sistemi per far votare democratica di chi non può recarsi alle urne”. Noi no, nell’Italicum non ce n’è traccia ma la Rete non si arrende e lancia una mobilitazione, nel nome di “286.353 gli studenti iscritti in Università e dei 25 mila studenti Erasmus”. Li rivedremo al Senato.

il Fatto 13.3.14
Lecca lecca
Cazzullo il recensore che ama i colleghi


FORSE L’IMMAGINE non è graziosa, ma la sostanza resta: in Italia, giorno dopo giorno, una lingua lava l’altra nella grande comunità di chi conta almeno un po’. Perché ormai stringere la mano non basta, fare l’occhiolino nemmeno, occorre impegnarsi davvero per dimostrare appoggio fisico e morale al proprio simile. Succede allora che Aldo Cazzullo, penna prestigiosa del Corriere , si metta a recensire il primo romanzo di un giovane e promettente autore, tale Floris Giovanni, anche conduttore di Ballarò su Rai3, e quindi gestore di poltrone tivù molto ambite. Naturalmente Cazzullo poggia spesso le terga su quelle poltrone, magari pure lui col suo nuovo libro in mano, ma ciò non gli ha impedito di vergare ieri una lunga e sofferta disamina de “Il confine di Bonetti”, vicenda di amici nell'Italia del disimpegno anni 80 che Floris ha sentito l'esigenza di scrivere dopo tanta impegnata attualità. Agli ammiratori di Cazzullo resta solo un dubbio: meglio il lancio del Floris romanziere o quello per Formigli Corrado, elogiato a tutta pagina giusto un mese fa col suo volume “Impresa impossibile”, sempre sul Corrierone?

il Fatto 13.3.14
Strega, un premio piccolo Piccolo?
L’autore Einaudi è il vincitore predestinato. Ecco perché
di Silvia Truzzi


Ritenendo definitivamente chiusa epoca premi letterari rinuncio al premio perché non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato”. Mittente: Italo Calvino (cui è stato intitolato, post mortem un premio letterario, seppur per esordienti). Destinatario: il Premio Viareggio. Siamo alla fine degli Anni 60, premiopoli è al suo apice. Un telegramma – racconta Andrea Kerbaker nel suo nuovo Breve storia del libro (a modo mio), appena uscito per Ponte alle Grazie – arriva anche nel 1975 al Premio Bagutta. “Lo firma il vincitore di quell’edizione, Tommaso Landolfi, autore di proverbiale riservatezza, che usa soltanto tre parole: ‘Deploro mia assenza’. Se neppure letterati della loro autorevolezza sono riusciti a sconfiggere premiopoli, non credo che lo farà mai nessuno. Con grande soddisfazione dei reparti commerciali e di marketing”. Infatti, siamo sempre qui e sì, state leggendo un articolo sul premio Strega: del resto è marzo e insieme alla natura si risvegliano anche gli appetiti degli editori. Di seguito breve riassunto delle strategie 2014. Einaudi candida Francesco Piccolo, con Il desiderio di essere come tutti (anzi TUTTI, in maiuscolo). Il libro di Piccolo, autore casertano stimato quanto poliedrieco (scrive anche per la tivù e il cinema) è da mesi il vincitore annunciato. Le ragioni sono molte: editore giusto, il potente Struzzo, libro politico, autore autorevole.
DUNQUE, direte voi, Mondadori salterà un giro, per non ostacolare la sorellina sabauda. Invece no: Segrate ci sarà, precisamente con Lisario o il piacere infinito delle donne di Antonella Cilento, libro di cui si può dire poco perché non è ancora uscito. Si sa che è la storia di una giovinetta bella e muta, nella Napoli seicentesca. Naturalmente questo non significa affatto che i voti di Mondadori saranno negati a Piccolo. E i “nemici” di Rcs? L’affare qui si complica. L’anno scorso ha vinto un autore Rizzoli – Walter Siti – dunque quest’anno sarà difficile fare il bis. Pare che Elisabetta Sgarbi – direttore editoriale di Bompiani – avesse intenzione di far correre Il dolore pazzo dell’amore di Pietrangelo Buttafuoco. Tra i cui pregi c’era, anche, di avere uno stile e un linguaggio completamente diversi dal romanzo di Piccolo. Pare che il veto su Buttafuoco l’abbia messo direttamente Casa Bellonci, che non voleva né Buttafuoco né Aurelio Picca (che si era comunque sottratto, rifiutandosi di fare la vittima sacrificale). Risultato? Candidato ufficiale Bompiani è Il padre infedele di Antonio Scurati, storia di ordinaria conflittualità post partum: “Avevamo cominciato a non essere più una coppia un attimo dopo essere divenuti una famiglia”. Scelta singolare per molte ragioni. L’autore ha gareggiato nel 2009, perdendo in finale con Tiziano Scarpa per un solo voto: sconfitta che brucia ancora e che rischia di ripetersi. Il libro, non sfugge, è pericolosamente simile per il tema trattato a La separazione del maschio (2008), fortunatissimo titolo einaudiano. Chi era l’autore? Francesco Piccolo. Non trattasi di omonimia: il destino è in agguato, Scurati lo sa. Citando Il padre infedele (pagina 24): “All’epoca gli scrittori casertani ‘molto sofisticati’ cominciavano a essere di moda”. Al giochino del vincitore annunciato non vuol starci – naturalmente – Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale di Bompiani: “Non c’è niente di scontato, anche se Piccolo è un autore importante che ha scritto un libro importante”. Per non lasciare nulla al caso, la casa editrice del gruppo Rcs ha stampato Il padre infedele con una fascetta firmata da Walter Siti: chissà che non porti bene. Poi ci sono anche gli altri, e non sono pochi.
L’informato Affaritaliani.it   sta monitorando i potenziali sfidanti: Giuseppe Lupo, autore di Viaggiatori di nuvole (Marsilio), Giuseppe Catozzella con Non dirmi che hai paura (Feltrinelli), Marco Magini autore di Come fossi solo (Giunti), Alice Di Stefano con Publisher (Fazi), Paolo Piccirillo con La terra del sacerdote (Neri Pozza), Francesco Pecoraro che presenta La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie). Ma se Piccolo ha già vinto, perché gli altri partecipano? “È vero che da mesi Piccolo è il vincitore annunciato – spiega Luigi Spagnol, direttore editoriale di Ponte alle Grazie e amministratore delegato del gruppo Gems – ma è giusto partecipare allo Strega, che resta la vetrina più importante. La speranza, si sa, è l’ultima a morire e noi ci presentiamo con un titolo di cui siamo molto convinti”. Già, lo Strega vale – o forse valeva – almeno 40 mila copie per il vincitore. E a volte anche per gli altri della cinquina: altro che maturità, la fascetta è tutto. Specie in questi anni bui di crisi economica in cui le vendite in libreria sono crollate e quelle digitali non sono ancora decollate. E poi lo Strega è anche uno degli ultimi luoghi in cui gli intellettuali italiani hanno una qualche voce in capitolo, dunque tutti gli anni c’è qualcosa di triste e insieme divertente nel vedere gli editori contendersi i voti come farebbero le aspiranti Miss Italia. Pare siano già partiti i pranzi, le telefonate, le campagne di conquista. Bisogna dire che la Fondazione Bellonci sta provando a rendere il più possibile trasparente il voto, ma siamo comunque tra amici degli Amici. È sempre lo stesso film, che finisce ai primi di luglio con un assalto al buffet romano allestito al Ninfeo di Villa Giulia che fa impallidire La grande bellezza. In un’intervista a questo giornale, Manlio Cancogni (che vinse lo Strega nel 1973) ha detto: “Il premio era nato tra il ‘43 e il ‘45 come tentativo di resistenza culturale”. Che cosa rimane di quel tentativo? L’anno scorso ha vinto Resistere non serve a niente

Eataly
Corriere 13.3.14
Dove la buga ha la meglio sul branzino
di Angela Franda


E così anche Milano avrà il suo Eataly . Sono trascorsi dieci anni precisi (era il 2004) quando Oscar Farinetti, 59 anni piemontese di Alba, già proprietario di Unieuro, iniziò a studiare il modo di promuovere il made in Italy del gusto. Con il cibo il piccolo Oscar aveva una certa frequentazione. Non fosse altro che per il papà che faceva la pasta a mano e per il nonno mugnaio. Tre anni più tardi, nel 2007, aprì Eataly Torino. Da allora, è stato un successo mondiale: da New York a Tokyo, da Roma a Milano. Ma quello forse che fa di Eataly qualcosa di unico è l’aver capito (prima di altri) il desiderio di tanti appassionati gourmet o aspiranti tali di avere la loro Dinseyland del gusto. Un posto dove perdersi con la sensazione di comprare un piccolo pezzo (da mangiare) di esclusività. Ma senza rinunciare al concetto, molto caro a Farinetti, di democrazia gastronomica. Quella sulla quale in America, in questi mesi, sta montando un movimento trasversale che si propone una rivoluzione di miglioramento alimentare. Lo racconta bene ogni giorno, ad esempio, il blog Civil Eats. Ma Farinetti questo sentimento lo ha intercettato per primo. Da lui, si è sempre vantato, si partecipa a un momento di «godimento alimentare» nel quale sono coinvolti tutti, dai bambini e pensionati. Senza tanti snobismi. Perché è meglio «imparare a cucinare bene una buga da 3 euro al chilo contro i 30 euro al chilo del branzino». E la filosofia di Eataly? Resta sempre la stessa. Quella spesso enunciata dal suo fondatore: «Capire cosa si mangia. Perché il meccanismo è come nell’amore, dove se conosci il o la partner provi più piacere. Così nel cibo». Non resta che fidarsi.