Corriere 14.3.14
I Quaderni neri. Confessioni che non lasciano dubbi
Heidegger, antisemita e vero nazista
Deluso dal regime, lo accusò di aver tradito gli ideali accettando «l’americanismo»
di Ranieri Polese
«Martin Heidegger fu un nazista? Sì». «Martin Heidegger fu un antisemita? Sì». Sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» di ieri, Jürgen Kaube, dopo aver letto le quasi 1300 pagine dei famosi Quaderni neri — detti così per la copertina cerata come si usava una volta — che comprendono gli anni dal 1931 al 1941, da ieri in libreria e a disposizione di tutti, chiude così la questione che ha tormentato la storia della cultura europea dalla fine della guerra a oggi. Se già era nota l’adesione di Heidegger al Partito nazionalsocialista (primo maggio 1933, poco dopo esser diventato rettore dell’università di Friburgo), finora si era escluso che avesse avuto opinioni antisemite. E invece in quei Quaderni , negli anni di guerra, ricorrono frasi e pesanti considerazioni contro gli ebrei. Ma anche il nazismo di Heidegger, ricorda Kaube, era stato considerato una breve parentesi, visto che il filosofo si dimetteva dall’incarico del rettorato già nell’aprile del 1934. Ora, nelle pagine dei Quaderni , si vede invece che il periodo del ritorno agli studi, lontano da incarichi ufficiali, non fu un drastico ripensamento, l’ammissione di un errore — Heidegger lo disse nell’intervista concessa allo «Spiegel» nel 1966 — ma anzi il frutto di una delusione: i nazisti non erano all’altezza delle speranze che il filosofo nutriva nella loro azione. Sempre ieri, il settimanale «Zeit» pubblicava il lungo articolo di Thomas Assheuer su questo Heidegger non più segreto. «Se anche in queste pagine fosse riconoscibile un pensiero, i Quaderni sono un delirio filosofico e un crimine del pensiero». Ricorda, Assheuer, i tanti tentativi di cancellare sospetti e dicerie sul coinvolgimento politico di Heidegger, salvando così il filosofo di Essere e tempo da accuse e infamie. Ora però questi taccuini, scritti senza cancellature né correzioni come i testi destinati alla pubblicazione, ci mostrano che il legame tra Heidegger e il nazismo si saldava con le esigenze del suo pensiero, in cerca di un «nuovo avvio», proprio come la Germania di quegli anni.
Ci vuole un Führer — Le note dei Quaderni cominciano nell’ottobre 1931, anno di crisi per la Germania (6 milioni di disoccupati). Per Heidegger il popolo (Volk ) ha bisogno di una rivoluzione nazionale, di una scossa che gli dia un «nuovo inizio». Finalmente arriva Hitler, «il Führer che ha risvegliato una nuova realtà, che dà al nostro pensiero la retta via e la forza d’urto». Nel 1933, dopo la presa del potere di Hitler, Heidegger, che già l’anno prima ha votato per il Partito nazionalsocialista, accetta la nomina a rettore dell’Università di Friburgo (21 aprile). Il primo maggio si iscrive al partito. Nel novembre, infine, partecipa a Lipsia alla riunione dei docenti tedeschi che affermano la loro fede in Adolf Hitler. Nell’aprile del 1934, però, si dimette dall’incarico di rettore. I Quaderni ci mostrano uno Heidegger deluso dal nazismo perché non sembra volere «il nuovo inizio» sperato. Non è il movimento che «supera l’età moderna», ma invece la «conduce a compimento» indulgendo all’«americanismo» della radio e del cinema portati nelle campagne a imbastardire la sana e antica gente contadina. L’orrore per la tecnica diventa così l’identificazione del nemico nel popolo inglese, che ha inventato «le macchine, la democrazia e l’utilitarismo». E la guerra, quando arriva inevitabilmente, per lui segna veramente il nuovo slancio dei tedeschi.
Gli ebrei — È alla fine degli anni Trenta che compaiono nei Quaderni delle riflessioni sugli ebrei, che «non hanno un territorio», che sono dotati di una «spiccata destrezza a contare, a infiltrarsi, a mescolarsi con gli altri». In una nota del 1938-39 si legge: «Gli ebrei vivono, considerato il loro rimarcato talento nel far di conto, da più tempo di tutti secondo il principio della razza, ragion per cui sono quelli che si oppongono più strenuamente alla sua applicazione illimitata». Frase che si comprende appieno tenendo conto del fatto che nel 1938 entravano in vigore ulteriori limitazioni ai diritti civili degli ebrei in Germania, e che ogni protesta, per esempio di imprenditori o negozianti (quelli che fanno di conto) costretti al fallimento, veniva brutalmente repressa. Ma anche — spiega Jürgen Kaube sulla «Faz» — Heidegger vuole difendere le leggi di Norimberga, promulgate nel 1935 per la «difesa del sangue tedesco», rinfacciando agli ebrei la loro secolare pratica della endogamia, del rifiuto cioè di matrimoni misti. Con la guerra, 1939, compare nei Quaderni la categoria del Weltjudentum, l’ebraismo mondiale che sta dietro i Paesi che combattono contro la Germania. «L’ebraismo mondiale, istigato dagli emigranti lasciati uscire dalla Germania, è dovunque imprendibile e non ha la necessità, nonostante tutto lo spiegamento di forze, di partecipare ad azioni militari. Invece a noi non resta che sacrificare il miglior sangue dei migliori figli del popolo» (1941). Dove si legge un chiaro accenno a una sorta di complotto mondiale contro la Germania dietro a cui stanno gli ebrei.
Quei terribili inglesi — Non solo per lo Heidegger dei Quaderni gli inglesi personificano il male assoluto (tecnica, democrazia, utilitarismo). Ma hanno anche un’altra colpa grave. «Ma può essere un caso che il mio pensiero e le mie questioni nell’ultimo decennio siano stati rifiutati proprio in Inghilterra, e che non si sia fatta nessuna traduzione delle mie opere?».
Un’intervista per la storia — Heidegger, comunque, continua a far da protagonista. Proprio in questi giorni è uscito un libro sulla famosa intervista concessa dal filosofo a Rudolf Augstein, fondatore e direttore di «Spiegel». Era il 1966, dopo una lunga trattativa, Augstein raggiunge Heidegger nella sua Hütte , nella Foresta nera. Parlano a lungo, l’accordo è che non siano domande accusatorie, Heidegger dà la sua disinvolta versione dei fatti (dopo le dimissioni del ‘34): il Partito lo avrebbe boicottato. Ricordando quell’incontro, Augstein parlava di Heidegger come di uno «sciamano» che l’aveva incantato e in qualche modo stregato.
Corriere 14.3.14
Quella tendenza a lasciare «verità ultime»
La «Zeit» titolava ieri il pezzo sui Quaderni di Heidegger «L’eredità avvelenata». Perché eredità? Perché il filosofo aveva stabilito nel suo testamento che i Quaderni neri dovevano essere pubblicati come ultimi volumi della sua Opera omnia . Era abituato, Heidegger, a questi lasciti a futura memoria: anche l’intervista allo «Spiegel» chiese il filosofo che fosse pubblicata «solo dopo la sua morte». E così fu fatto. Sicuro di essere ascoltato e obbedito, il vecchio sapiente sfidava il tempo, si proiettava oltre la sua fine. Forse sapeva che, al di qua delle polemiche, lui sarebbe rimasto un caso da discutere. Magari da condannare. Ma non da dimenticare.
il Fatto 14.3.14
Ior, l’ultima fuga di capitali
1200 sospetti evasori ma lo Ior non molla la lista a Bankitalia
di Marco Lillo e Valeria Pacelli
Centinaia e centinaia di milioni di euro rimangono coperti dal segreto. In questi giorni l’istituto vaticano sta restituendo i depositi ai correntisti: estero su estero (anche in “paradisi fiscali”) Porte in faccia alle richieste di informazioni del nostro ufficio antiriciclaggio Lillo e Pacelli.
Un investigatore sotto garanzia di anonimato la definisce così: “una delle più grandi operazioni di ripulitura del denaro nero”. Centinaia di milioni di euro depositati sui conti dell’Istituto Opere Religiose Ior, stanno uscendo in queste ore verso paesi esteri, anche a bassa fiscalità e con scarsa trasparenza come la Svizzera, senza che il Vaticano comunichi all’Italia i nomi dei correntisti (potenziali evasori se non peggio) né la destinazione. Lo Ior sta ripulendo la sua clientela intimando a 1250 correntisti di lasciare la banca vaticana con una lettera di recesso unilaterale. Il vento di pulizia di Papa Bergoglio però si ferma alle mura leonine. Il Vaticano non ha intenzione di comunicare alle Dogane italiane i nomi degli ex correntisti che escono da Porta Sant’Anna con una valigia piena di banconote né hanno intenzione di comunicare dove finiscono i bonifici all’estero del saldo. Così i flussi in partenza dal conto Ior alla Jp Morgan di Francoforte (dove Ior ha trasferito la tesoreria da qualche anno) a un ipotetico paradiso fiscale, restano invisibili ai radar di Uif e Procura. Mentre i giornali strombazzano il nuovo corso dello Ior, il Vaticano pone una pietra tombale sui depositi accumulati nei decenni passati Oltretevere a un anno dall’elezione di Papa Francesco, e probabilmente all’insaputa del Pontefice.
LA BANCA D’ITALIA e la Procura di Roma stanno cercando un sistema per intercettare questa fuga di capitali senza controllo. Le norme internazionali impongono la collaborazione tra le Autorità antiriciclaggio dei due Stati. L’Uif di Banca d’Italia ha chiesto all’Aif della Santa Sede, guidata dallo svizzero René Brulhart, di avere accesso ai nomi dei correntisti ‘cacciati’. L’atteggiamento dell’Aif è ambiguo. L’Autorità guidata da Brulhart insieme al fido vicedirettore Tommaso Di Ruzza, genero dell’ex Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, non nega a priori la sua collaborazione. Per esempio ha fornito il nominativo di un italiano con 8 milioni di euro. Ovviamente era un cittadino modello che aveva dichiarato tutto nel quadro RW della sua dichiarazione dei redditi. La sensazione di essere presi per il naso sta montando. Due settimane fa si è tenuto un incontro con il Procuratore Capo Giuseppe Pignatone, il procuratore aggiunto Nello Rossi e i vertici dell’Ufficio Informazione Finanziara della Banca d’Italia diretto da Claudio Clemente. I pm Nello Rossi e Stefano Fava da anni si occupano dello Ior e a seguito delle loro indagini a luglio 2013 si è dimesso il direttore Ior Paolo Cipriani, sostituito da Rolando Marranci. La società di provenienza di Marranci, l’americana Promontory è stata incaricata di effettuare lo screening sui conti Ior. Sulla base di alcuni criteri di rischio ha indicato quelli da chiudere. Il Vaticano però nega si tratti di soggetti ‘sospetti’. Nella lettera inviata a settembre ai correntisti dal presidente dello Ior Ernst Von Freyberg, la banca vaticana comunica che sono cambiate le “linee guida delle relazioni” e che gli unici conti ammessi sono quelli “di istituzioni cattoliche, ecclesiastici, dipendenti o ex dipendenti del Vaticano titolari di conti per stipendi e pensioni nonché diplomatici accreditati presso la Santa Sede”. Tutti gli altri fuori. Insomma la ragione del recesso non sarebbe il sospetto ma un cambiamento di politica aziendale. Per esempio i conti dell’ex Gentiluomo di Sua Santità Angelo Balducci o della Fondazione Cardinale Spellman sul cartellino del quale era apposto anche il nome di Giulio Andreotti, se per pura ipotesi astratta fossero ancora aperti, sarebbero da chiudere solo per questa regola generale.
Dopo avere ricevuto la lettera in questi giorni centinaia di italiani stanno ritirando centinaia di milioni di euro dallo Ior nel cuore di Roma senza che il fisco, l’UIf e la Procura possano metterci il naso. Sono due le modalità offerte per ‘agevolare la chiusura’: la consegna in contanti nel torrione di Niccolò V o il bonifico sul conto indicato dal cliente. Nel primo caso dovrebbe essere il cliente a dichiarare alla Dogana italiana l’importo prelevato allo Ior in contante. Ma non lo fa quasi nessuno. Nel secondo caso è sufficiente chiedere allo Ior di bonificare la somma su un conto estero, magari in un paese che non collabora con le autorità italiane, per vedere sparire per sempre dai radar del fisco le ricchezze. I bonifici avvengono di fatto estero su estero. Non dal Vaticano ma dalla Germania. Purtroppo per le autorità italiane da qualche anno i soldi dello Ior non sono fisicamente nelle banche italiane ma presso la filiale di Francoforte della Jp Morgan. Se i conti ‘calderone’ della tesoreria Ior, all’interno dei quale sono confusi i sottoconti riferibili ai singoli correntisti dello Ior, fossero ancora accesi all’Unicredit, il fisco italiano potrebbe entrare in partita. Se, per ipotesi, dal suo conto Ior un evasore italiano trasferisse milioni di euro in Svizzera, il direttore dell’agenzia Unicredit segnalerebbe l’operazione sospetta all’Uif. In Germania non è detto che avvenga. La sensazione è che i buoi siano già usciti nel 2011-2012.
A RIVEDERLA oggi la fuga dei soldi dello Ior che un tempo erano depositati nelle banche italiane, raccontata dal Fatto (‘Ior, fuga di capitali verso la Germania. Svuotati i conti italiani’, 6 settembre 2013) sembra la prima fase di una stangata. Non era una reazione stizzita per l’aumento dei controlli dei pm ma la prima mossa verso lo scacco finale: ripulire lo IOR nascondendo per sempre all’Italia gli intestatari dei conti.
il Fatto 14.3.14
Tutto Francesco minuto per minuto
Parole opere e nessuna omissione: il pontefice dei poveri è un re Mida dell’editoria
Dopo i libri, “Il mio paga”, Magazine Mondatori rigorosamente monotematico
di Nanni Delbecchi
Tre milioni di tiratura programmati per i primi cinque numeri, una stima di 300 mila copie vendute per il primo, mentre il secondo è appena uscito dalle rotative. Che Francesco, il papa dei poveri, fosse anche una specie di Re Mida, capace di trasformare in una miniera d’oro tutto ciò che lo riguarda (libri, dvd, dispense, gadget), lo si sapeva; ma il botto a sorpresa è arrivato in edicola. Il 5 marzo scorso è arrivato Il mio Papa, primo newsmagazine interamente dedicato a un essere umano (l’unico precedente nel regno animale è Il mio cavallo). Sono 66 pagine al costo di 50 centesimi che pedinano passo passo Jorge Mario Bergoglio in pensieri, parole, opere. E soprattutto immagini. Sfogliare per credere: il Papa con il berretto da alpino, il papa con il copricapo piumato degli indios Pataxo, il capo con l’agnellino del presepe vivente in braccio, il papa con il naso rosso da clown… Se il Vaticano è un format, come da tempo predica Padre Pizarro, alias Corrado Guzzanti, quel format non poteva trovare un mattatore migliore di Jorge Maria Bergoglio.
Attenzione però: non siamo davanti all’ennesima variazione sul tema del Messaggero di Sant’Antonio. Editato dalla Mondadori (l’unto del Signore colpisce ancora), Il mio Papa è diretto da Aldo Vitali, direttore anche di Tv Sorrisi e canzoni, che lo realizza con l’aiuto di un service esterno. Vitali è anche l’inventore della testata, e difatti l’imprinting del rotocalco familiare prevale nettamente su quello della fanzine religiosa. Con un senso di vaga surrealtà, ci si ritrova tra le mani un ultrapopolare di stampo anglosassone, di quelli che si pubblicano anche da noi ma che sono tradizionalmente votati al pettegolezzo, se non al trash, terra promessa dei paparazzi e dei gossipari.
MA SE IL COLPO d’occhio è la stesso, qui i contenuti sono capovolti, gli altarini sono rigorosamente coperti. E apparecchiati. Al posto degli scoop sulle questioni di corna ci sono i messaggi di Francesco spiegati al popolo: “Disfiamo-ci delle cose vane” si titola a tutta pagina, per spiegare il significato della Quaresima.
Al posto delle interviste delle starlette, le dichiarazioni dei pellegrini provenienti da tutto il mondo. Ci sono anche i poster e la biografia a puntate da staccare e conservare, ma Vitali respinge l’accusa di voler trasformare Bergoglio in una popstar: “Questo Papa è popolare di suo, nel senso migliore del termine. Generoso di esempi e di insegnamenti validi per tutti, credenti o no. L’idea del giornale nasce da qui, e il suo successo pure”. Cita un sondaggio secondo cui l’85% degli italiani lo ama e il 78% ritiene di essere diventato più buono da quando lo ascolta. Forti di queste certezze è stata cucita su misura una testata così inedita, e insieme così vicina alle viscere del paese più cattolico del mondo. Metà cronaca bianca, anzi, candida, con la possibilità di pubblicare integralmente i discorsi dell’Angelus e dell’Udienza del mercoledì grazie a un accordo siglato con il Vaticano; e per l’altra metà una sorta di istruzioni per l’uso del santo padre che non indietreggiano davanti a nulla. Come e dove vedere il Papa in televisione; come vestirsi se si va in udienza (niente colori sgargianti e niente capi bianchi, a meno che non si sia una regina); come ricevere i messaggi di Francesco sul telefonino... c’è perfino il cruciverba del Papa (da non confondersi con la Via Crucis).
SE L’ETÀ dei lettori del giornale mondadoriano parrebbe non proprio così trasversale, almeno a giudicare dalle inserzioni pubblicitarie (para-farmaci, apparecchi acustici, montascale per chi ha problemi di deambulazione), se in rete l’uscita ha raccolto più che altro sberleffi (vedi la finta copertina de Il mio Matteo, con le tappe del tour nelle scuole), e se i grandi giornali di casa nostra hanno preferito ignorare il fenomeno, seguendo la regola secondo cui tutto ciò che è popolare va snobbato, non altrettanto si può dire nel resto del mondo. Del Mio Papa si sono occupati con un misto di ammirazione e perplessità la Bbc, il New York Times, Le Figaro , il Guardian, per non parlare del media argentini, mentre la Mondadori già sta valutando la richiesta di due edizioni estere. E in Vaticano che si dice? Nulla di ufficiale, naturalmente. Però, se i fatti dicono più delle parole, l’autorizzazione a utilizzare documenti e foto ufficiali è una promozione. E lui in persona, il nostro, loro Papa? Bergoglio non si è pronunciato in alcun modo, anche se Vitali dice di avere un’idea per stanarlo direttamente, e non dispera di riuscirci. In effetti, con un Papa così tutto è possibile. Non ha ancora moltiplicato i pani e i pesci, ma le copie in edicola sì, e con i tempi che corrono anche questo è quasi un miracolo.
Corriere 14.3.14
Le donne e il sacerdozio
L’apertura di Papa Francesco
risponde Sergio Romano
Potere alle donne. Perché la Chiesa non dà il buon esempio? La questione non riguarda solo il nostro Paese, ma tutte le nazioni in cui è diffusa la religione cattolica. Alle donne nella Chiesa è negato il potere, giacché è negato loro il sacerdozio. Eppure io credo che papa Francesco, che è uomo sensibile e intelligente, sappia in cuor suo che è cosa cattiva e ingiusta impedire ad una donna di abbracciare il sacerdozio. Credo che papa Francesco sappia in cuor suo che la Chiesa basa la sua irremovibile posizione su un futile pretesto: «Gesù Cristo non ha chiamato alcuna donna a far parte dei dodici»(Inter Insigniores). Le ragioni, però, che «obbligarono» Gesù a non inviare delle donne «come pecore in mezzo ai lupi» (Mt 10,16), oggi non esistono più. Oggi non c’è nessuna ragione seria per escludere le donne dal sacerdozio. Se il Papa lo dichiarasse apertamente, nella Chiesa ci sarebbe davvero una rivoluzione. Rivoluzione che sicuramente avrebbe i suoi effetti anche sulla nostra società.
Veronica Tussi
Cara signora,
Il riferimento alla tradizione, spesso usato da chi è contrario al sacerdozio femminile, è quello più datato e meno convincente. È passato più di un secolo da quando i modernisti spiegarono che le Scritture riflettono sempre un particolare contesto storico e sociale. La scelta esclusivamente maschile degli apostoli è comprensibile in una società in cui la donna non avrebbe avuto l’autorità necessaria per diffondere la dottrina della Nuova Alleanza. Ma può essere perfettamente comprensibile in società in cui le donne esercitano tutte le professioni liberali, dirigono imprese, siedono nei Parlamenti, hanno cattedre universitarie e combattono.
La Chiesa non accettò queste tesi e un pontefice, Pio X, fece del modernismo la bestia nera del suo papato. Ma il Concilio Vaticano II è stato per molti aspetti una tardiva rivoluzione modernista; e il sacerdozio femminile è infatti da allora all’ordine del giorno. Esistono tuttavia altre riserve e obiezioni, anche se quasi mai esplicitamente confessate. Vi sono ancora settori importanti della Chiesa romana in cui la donna è considerata più vulnerabile e meno affidabile dell’uomo, meno capace di un impegno totale al servizio della fede. È facile replicare che la storia della Chiesa può annoverare una lunga sequenza di eroine della santità, da Santa Caterina a Suora Teresa di Calcutta, e che molte di esse non hanno esitato a levare la loro voce contro le autorità ecclesiastiche del loro tempo. Ma il pregiudizio persiste e non è privo d’interesse constatare che alle suore si chiedano promesse mentre ai sacerdoti si chiedono voti.
Anche i pregiudizi, prima o dopo, muoiono. Come Beppe Severgnini (Corriere , 6 marzo), anch’io sono stato colpito da una delle risposte di papa Francesco nella lunga intervista concessa al direttore del Corriere. A una domanda di Ferruccio de Bortoli sul ruolo della donna nella Chiesa, il Papa ha detto: «È vero che la donna può e deve essere presente nei luoghi di decisione della Chiesa. Ma questa io la chiamerei una promozione di tipo funzionale. Solo così non si fa tanta strada». Provo a tradurre: non è giusto chiamare le donne a fare parte della Pontificia Accademia delle Scienze per approfittare del loro sapere, e al tempo stesso escluderle dal sacerdozio .
Repubblica 14.3.14
Che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco
di Vito Mancuso
E se papa Francesco fallisse? Non ci sono dubbi che dietro le aperture riformiste del cardinal Kasper e di altri cardinali ci sia proprio il Papa, ma che cosa avverrebbe se le riforme auspicate non andassero in porto e le attese di una nuova primavera si rivelassero solo illusioni?
Nella relazione al Concistoro straordinario sulla famiglia Kasper ha affermato che «dobbiamo essere onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso». Quanto affermato per la famiglia vale a mio avviso per molti altri ambiti della dottrina cattolica, anzi io penso che valga per il concetto stesso di dottrina, intesa come sistema di verità stabilite che il credente è tenuto a professare e su cui vigila la Congregazione per la Dottrina della Fede, che prima del 1965 si chiamava Sacra Congregazione del Sant’Uffizio e prima del 1908 si chiamava Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione.
Elencare i molti elementi che rendono l’insegnamento della Chiesa “lontano dalla realtà e dalla vita” non è difficile.
Oltre alla dottrina sul matrimonio vi sono la regolazione delle nascite con il clamoroso fallimento pratico e teorico dell’Humanae Vitae di Paolo VI, l’identità sessuale e l’omosessualità al cui riguardo occorre cessare di parlare di malattia come ancora spesso si fa, il ginepraio della bioetica da cui non si esce continuando a ripetere solo dei no soprattutto sulla fecondazione assistita, il destino degli embrioni congelati, la diagnosi degli embrioni prima dell’impianto, il principio di autodeterminazione a livello di testamento biologico. Vi sono poi i problemi ecclesiologici che già nel 1987 Hans Küng definiva “noiose vecchie questioni”, cioè la scarsità delle vocazioni sacerdotali e religiose, il celibato del clero, i criteri di nomina dei vescovi, la collegialità come metodo di governo, la questione laicale, la questione femminile, la riforma della curia romana, il rispetto dei diritti umani all’interno della Chiesa (di cui “la tratta delle novizie” denunciata dal Papa è solo un aspetto), la libertà di ricerca in ambito teologico.
Qui non accenno neppure ai molti problemi teologici, sia in sede di teologia fondamentale sia in sede di teologia sistematica, che mostrano tutta la fragilità della tanto celebrata dottrina, se non per dire il problema vero e proprio concerne l’identità del messaggio cristiano, al cui riguardo ci si deve chiedere: qual è oggi la buona notizia di ciò che viene detto vangelo?
Penso che questo sia il nodo decisivo e che per scioglierlo occorre alzare la mente e ragionare per secoli. Se si impara a farlo, si vedrà più lontano, si capirà “che cosa lo Spirito dice alle chiese” e ci sarà meno paura e meno pessimismo. Occorre saper vedere infatti non solo quello che muore, ma anche quello che nasce, perché a qualcosa che muore si lega sempre qualcosa che nasce. Che cosa muore? Sant’Agostino diceva che egli non avrebbe potuto credere al vangelo se non l’avesse spinto l’autorità della chiesa cattolica (Contra ep. Man. 5,6: “Ego vero evangelio non crederem, nisi me catholicae ecclesiae commoveret auctoritas”), fondando così il modello della fede che fa del cristiano un ecclesiastico, cioè un membro di una struttura di cui deve accettare la dottrina. Oggi questo modello sta morendo, l’epoca della fede dogmatico-ecclesiastica che implica l’accettazione di una dottrina e di un’autorità è ormai alla fine perché il metodo sperimentale della scienza è entrato anche nella vita spirituale dove ora il soggetto vuole sperimentare in prima persona, e con ciò la fede di seconda mano mediata dall’autorità ecclesiastica è superata. Al suo posto sta nascendo un cristianesimo non-dogmatico che dall’esteriorità dottrinale passa all’interiorità esistenziale, che all’autorità istituzionale preferisce l’autenticità personale. Il passaggio da Benedetto XVI a Francesco è una manifestazione di questo movimento epocale, così come lo sono i risultati del sondaggio mondiale commissionato dal Vaticano che mostrano una grande distanza tra la dottrina ufficiale e la fede realmente vissuta.
Ne viene che se il cristianesimo vuole tornare a essere percepito come una buona notizia che risana e rallegra l’esistenza, e insieme come verità di quel processo che chiamiamo generalmente mondo, si deve sottoporre a riforma. La dottrina sulla famiglia è solo il primo inevitabile passo. Se non lo fa, l’esito è segnato dalle parole di un giovane riportate nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme di Carlo Maria Martini: “Non so che farmene della fede. Non ho nulla in contrario, ma cosa dovrebbe darmi la Chiesa?”. È il pensiero della gran parte dei giovani europei.
Qualcuno teme che questa riforma possa inquinare l’identità cristiana. Ma per il cristianesimo la rilevanza è parte costituiva dell’identità, non qualcosa che viene dopo. Un’identità irrilevante non può essere un’identità cristiana, tanto meno cattolica cioè universale. “Voi siete il sale della terra” (Mt 5,13), “voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14): l’identità cristiana è da subito relazionale, è essere-per, prende senso solo nella relazione, così come il sale ha senso solo in relazione ai cibi o il lievito alla farina (Mt 13,33: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”). Ne consegue che se viene meno la relazione, viene meno l’identità. Il cristianesimo vive della logica della relazione con l’alterità e tale logica lo spinge inevitabilmente verso la riforma, obbedirle non è una concessione al relativismo, è semplicemente un dovere verso il Vangelo.
Ma se papa Francesco non ce la farà? Se non riuscirà a sanare lo Ior, a rendere il governo della Chiesa cattolica più conforme al volere del Vaticano II, a incidere sul rapporto con la politica italiana facendo cessare per sempre la compravendita di favori tra cardinali e ministri troppo sensibili agli interessi della Chiesa, a mettere ordine tra i vescovi e i superiori degli ordini religiosi richiamando tutti a uno stile di vita sobrio e conforme ai valori evangelici, a dare il giusto spazio alle donne a livello di condivisione del potere aprendo al diaconato e al cardinalato femminili, a riformare la morale sessuale, a impostare su basi nuove il reclutamento e la formazione del clero, a dare finalmente più libertà alla ricerca teologica? Se papa Francesco fallisse in tutto ciò?
Ha scritto qualche giorno fa un non credente come Eugenio Scalfari che grazie a Francesco “Roma è ridiventata la capitale del mondo… Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo”. Scalfari parlava ovviamente della leadership spirituale, di cui l’occidente ha un immenso bisogno per continuare a credere nei grandi ideali dell’umanità, tradizionalmente definiti come bene, giustizia, uguaglianza, solidarietà, fratellanza. In un mondo dove tutto è potere e calcolo, la figura genuina di questo papa ci fa comprendere che non tutto in noi è potere e calcolo, che c’è ancora spazio per la gratuità, l’amore sincero, la volontà di bene per il bene. Il suo fallimento sarebbe la fine della luce che si è accesa nell’esistenza di tutti gli esseri umani non ancora rassegnati al cinismo e alla crudeltà della lotta per l’esistenza, e con Roma che tornerebbe a essere periferia del mondo sarebbe la fine per gli ideali della spiritualità in occidente. Se lo ricordino i cardinali, i monsignori e i teologi che stanno facendo di tutto per bloccare e far fallire l’azione riformatrice di papa Francesco.
Corriere 14.3.14
Silvio, Matteo e l’arte dei perfetti venditori
Tra vanità, ironia e culto del record
I punti di contatto tra due leader che hanno un’ottima opinione di se stessi
di Gian Antonio Stella
«Meno rughe per tutti!», strillava uno dei manifesti finti che ridevano delle promesse del Cavaliere. E poi «Più dentiere per tutti», «Meno tosse per tutti», «Più Totti per tutti»... Un diluvio. Figuratevi quindi cosa sarebbe successo se fosse andato lui, in tv, a promettere come ha fatto Renzi, «Una casa per tutti». Apriti cielo! Quello slogan, per gli amici ma più ancora i nemici, è la prova: Matteo si muove nel solco di Silvio.
Sull’età, a dire il vero, tra il giovane Silvio degli esordi e il giovane Matteo di oggi non c’è gara. Ricordate cosa scrisse anni fa, allegramente perfido, Mattia Feltri sul «Foglio» di Giuliano Ferrara? «Che bello il Cav. con il lifting. Non gli si darebbe più di quarant’anni. Con le attenuanti generiche, anche trentacinque». Ecco, Renzi non ha bisogno, come rise Le Monde, «di mantenere un aspetto giovanile, a volte con uno zelo quasi comico». A Palazzo Chigi lui c’è arrivato prima di spegnere 40 candeline e con una ventina di anni di anticipo rispetto al Cavaliere che al momento della discesa in campo andava per la sessantina. È vero però che i punti di contatto fra i due, esaltati dalle stralunate imitazioni di Maurizio Crozza, sono diversi.
Per cominciare, hanno un’ottima opinione di se stessi. Silvio, chiamato a descriversi, rispose: «Il mio ruolo? Attaccante, centrocampista, difensore e anche regista in panchina. Sono fruibile per qualsiasi ruolo... Sapete, sono un po’ montato». Matteo, quando strappò a Lapo Pistelli la candidatura a sindaco di Firenze, il trampolino di lancio della sua ascesa, mandò un amico (o almeno così dicono i suoi avversari) ad appiccicare fuori dalla porta del comitato elettorale dello sconfitto un cartello irridente: «Chiuso per manifesta superiorità».
Certo, entrambi sorridono del vizietto sdrammatizzando con l’autoironia. A tutti e due, in tempi diversi, l’Italia chiede miracoli? Il primo ne rise così: «All’Ospedale San Raffale una madre mi pregò di convincere il figlio bloccato provvisoriamente su una sedia a rotelle a riprendere a camminare. Mi presentai dal ragazzo e gli dissi: “Giacomo, fatti forza. Alzati e cammina...” Lui, dopo alcuni giorni, si alzò». Il secondo, ogni tanto ammicca: «Un amico mi ha detto: Dio esiste ma non sei tu». Stessa tecnica: meglio prendersi in giro, sul tema della vanità, prima che lo facciano gli altri…
C’è da capirli: mica facile tenere la testa sul collo tra i cori di certi laudatores dediti al turibolo e all’incenso. Tra gli adoranti del Cavaliere c’è chi si spinse, come Claudio Scajola, a dire: «Berlusconi è il sole al cui calore tutti si vogliono scaldare. Ha capacità di attrazione molto forti. È geniale. Di persone come lui ne nascono due in un secolo». «Chi è il secondo?», gli chiese mariuolo Claudio Sabelli Fioretti. E lui: «John Kennedy». Per Renzi, Carlo Rossella si è avventurato più in là: «Un magnifico incrocio tra Pico della Mirandola e Niccolò Machiavelli».
Non lavorano forse entrambi per la storia? «Conto di rivedere tutti i codici giuridici e, in primo luogo, quello delle imposte. Nel mio piccolo sarò Giustiniano o Napoleone», dichiarava il Cavaliere. «Io non voglio cambiare governo, voglio cambiare l’Italia», ha giurato il sindaco di Firenze.
Va da sé che, con tanti violini, trombe e grancasse intorno, capita perfino a loro due, nonostante le proverbiali sobrietà, modestia e riservatezza, di avere qualche brividino di importanzite. Come la volta che Matteo lanciò nell’aere un tweet in cui parlava di sé in terza persona come faceva Diego Armando Maradona: «Dicono Renzi non è di sinistra perché legati all’idea che è di sinistra solo quello che perde». Niente in confronto, tuttavia, con l’ego a soufflé dell’allora giovine (politicamente) Berlusconi: «Non voglio parlare di me in terza persona ma molto spesso mi viene comodo. Questo però non significa nessuna aumentata considerazione di me stesso. Anche perché più alta di così non potrebbe essere».
Niente, però, li accomuna, quanto la fissa del record. Ricordate Sua Emittenza? Primo in tutto. Nel calcio: «Sono il presidente più vincente di tutti e la storia del football si ricorderà di me». Nell’imprenditoria: «Io ho una caratura non paragonabile a nessun europeo. Solo Bill Gates, in America, mi fa ombra...». In politica: «Sono il recordman come presidente del Consiglio, visto che ho superato il grande politico Alcide De Gasperi che ha governato 2.497 giorni mentre io credo di aver toccato i 2.500 giorni». Matteo Renzi non è da meno: il presidente di provincia più giovane d’Italia, il sindaco di Firenze più giovane di sempre, il premier più giovane di tutti i tempi, l’inventore del governo con più donne che mai si sia visto…
E via con le riforme a raffica: o la va o la spacca. «Nel caso che al termine di questi cinque anni di governo almeno quattro su cinque di questi traguardi non fossero stati raggiunti», diceva il contratto firmato dal Cavaliere sotto gli occhi benedicenti di Bruno Vespa, cerimonioso ospite oggi di Renzi, «Silvio Berlusconi si impegna formalmente a non ripresentare la propria candidatura alle successive elezioni politiche». Parole non dissimili da quelle pronunciate dal neopremier: «Se non riusciremo ad arrivare al superamento del bicameralismo perfetto, non dico che terminerà questa esperienza di governo: dico che io lascerò la politica».
Spiegò una volta Silvio Magnago che «il segreto di una politica di successo consiste in tre cose. Primo: avere buone idee. Secondo: crederci fermamente. Terzo: metterci un pizzico di demagogia perché anche la merce buona bisogna poi saperla vendere». E su questo lo stesso Renzi, che pure ha mostrato di soffrire un po’ i paragoni, deve convenire: nel saper «vendere la merce» (buona o cattiva che sia) è difficile non vedere un parallelo. L’uno e l’altro, che siano intervistati da un giornale, ospiti in tv o chiamati a intervenire in Aula, non parlano ai giornalisti o ai colleghi: parlano direttamente ai loro elettori. Al popolo. Antonio Ricci, che conosce bene entrambi, l’ha detto: «Matteo è un venditore straordinario, al livello di Silvio giovane».
I parallelismi gli danno fastidio? Si consoli: il titolone «Renzi si sgonfia subito» fu preceduto nel 1994 dal giudizio di Roberto Maroni dopo l’esordio del Cavaliere: «Ho capito di che pasta è fatto. Fin che si parla si parla, ma poi... Magari arriverà pure alla presidenza del Consiglio ma poi quanto ci resta? Alla prima rogna si sgonfia e torna ad Arcore con la coda fra le gambe». È rimasto vent’anni.
il Fatto 14.3.14
Wanna Renzi, nuove televendite a Palazzo Chigi
Lo stile è troppo diretto, il rischio bluff è alto eppure la “politica” è diventata comprensibile
di Andrea Scanzi
È ormai consuetudine ritenere Matteo Renzi un fenomeno della comunicazione. Lo è, ma solo se lo si paragona a chi lo ha preceduto nel Pd, da Pierluigi Bersani a Enrico Letta. Renzi è più che altro uno scaltro imbonitore, un abile venditore. Lo ha dimostrato anche due giorni fa, quando ha trasformato una conferenza stampa in una televendita degna di Roberto da Crema. A fine piazzata, è venuta a molti la tentazione di acquistare da Renzi un set di pentole a pressione o anche solo un tappeto persiano. A conferma che il talento narrativo di Renzi sia discreto ma non eccelso, sono arrivate le critiche degli esperti di comunicazione come Giovanna Cosenza, che ieri ha dichiarato al Fatto : “Sembrava uno spot di Lidl. Era tutto molto ostentato, esagerato. Sembrava un discorso da meeting aziendale, ma non recente, degli anni ‘80”. Ovvero gli anni in cui Renzi è cresciuto. Anni di paninari e di effimero, di Moncler e di Righeira, figure retoriche - non a caso - inamovibili nel suo Pantheon. Il Premier, tra un hashtag e una slide, ha sciorinato il repertorio d’ordinanza : decisionismo, ambizione, arroganza, battutine, promesse e fanfaronate.
LA RETE lo ha paragonato a Wanna Marchi e Giorgio Mastrota. Conscio del rischio di apparire come un venditore di pentole, Renzi ha sbandierato autoironia (“Venghino signori venghino”) e inseguito la risata facile come un segugio: il “pesce rosso”, “l’auto blu di La Russa”, “non je la famo”, “ça suffit”. E le risposte secche alle domande critiche (“Crede che questo basterà per la ripresa?”, “Sì”), a voler rimarcare che lui è l’uomo della svolta (buona) e gli altri nient’altro che pessimisti che sanno solo odiare. Se la forma è sostanza, Renzi era e resta un venditore di fumo, e neanche fumo di gran qualità. Tutto male, dunque? Così sembra per molti, compreso chi fino a mercoledì pareva venerarlo. È vero che la conferenza stampa metteva imbarazzo, satura com’era di esagerazioni e smargiassate. Il Premier era però così anche prima. È il primo a non ignorare quanto spesso le spari grosse: la differenza tra lui e gli apostoli è che Renzi sa mascherare i bluff mentre le Boschi (disastrosa due giorni fa da Daria Bignardi) non convincono nessuno. Sono anni che Renzi comunica così, alla Leopolda come nei tour elettorali che erano in realtà format curatissimi. Saranno i prossimi mesi a dire se Renzi è un bombarolo: uno spacciatore di promesse, al cui confronto il suo maestro Berlusconi sembra quasi un pusher sfigato di bugie. La novità comunicativa è però innegabile. Renzi non è un campione del messaggio, parla cantilenando e anche la gestualità è sempre più appesantita (come il fisico), ma la cesura stilistica con il passato c’è. I retroscenisti gridano al sacrilegio, i notisti lamentano la rottura del protocollo. Sono gli stessi che, dopo il discorso al Senato, contestarono non il contenuto ma il fatto che il Premier fosse andato a braccio . Renzi comincia a rimanere antipatico a chi crede ancora nella sacralità polverosa del Parlamento, e questo - per lui - è un buon segnale.
NEGLI ULTIMI MESI la politica italiana è stata sottoposta a un effetto-trasparenza brutale. Una trasparenza probabilmente di facciata, perché gli accordi si continuano a fare nelle stanze segrete (basta pensare all’Italicum), ma almeno la comunicazione non è più soporifera come prima. più comprensibile e meno per iniziati. Letta avrebbe mellifluamente addormentato la platea, Renzi l’ha fatta ridere (forse più di quanto lui stesso voleva). E’ meglio? E’ peggio? E’ un cambiamento. Una mutazione radicale nella ritualistica comunicativa. Anche in questo Renzi prova a essere più grillino dei grillini: lo fa liberandosi delle auto blu, ma lo fa anche demitizzando la liturgia come cerca di fare il Movimento 5 Stelle (per esempio con gli streaming). Il punto, ora, non è rimpiangere i brodini lettiani perché scandalizzati dai fuochi d’artificio renziani, ma appurare se ai botti seguiranno i fatti. Se dopo le slide arriverà la ripresa. Se il futuro sarà più Blair o Mastrota.
Repubblica 14.3.14
Lo studio Proforma e il portavoce Sensi hanno preparato slide e slogan per l’incontro del premier con i giornalisti
Dietro lo show gli stessi guru delle primarie ma decide tutto Matteo, anche il pesce rosso
di Francesco Bei
ROMA - La katana sguainata dal samurai Renzi, la spada per abbattere «il nostro nemico: quelli che “si è sempre fatto così». Il pesciolino rosso che nuota nella sua boccia. Lo split screen, uno schermo diviso a metà per proiettare le slides e - simultaneamente - il volto del leader che le sta illustrando. Tutto è stato studiato nei minimi dettagli nella conferenza stampa show dell’esordio del premier. Tutto.
Dietro ogni scelta grafica, ogni slogan, c’è una riunione, uno studio. E una doppia firma. Quella dello staff comunicazione di palazzo Chigi, coordinato dall’ex vicedirettore di Europa e blogger Filippo Sensi. E quella dei maghi di Proforma, lo studio grafico barese che ha firmato molte campagne di successo della sinistra italiana, dal sindaco Emiliano a Nichi Vendola, da Bertinotti a Bersani (alle primarie 2009 lo slogan “un senso a questa storia” era loro). L’unico dirazzamento a destra è stato con Scelta civica di Monti, di cui i ragazzi di Proforma disegnarono il logo.
Con Renzi il rapporto nasce alle ultime primarie. Ma allora c’era un vero contratto commerciale. Stavolta il lavoro sulle slides è stato fatto in amicizia. Pro bono. «Matteo - racconta il capo dei creativi Giovanni Sasso - ci ha chiamato lunedì scorso, a sole 36 ore dall’evento, e ci ha chiesto una mano. Lui lavora così e noi gli abbiamo detto di sì senza pensarci un attimo». L’immagine iconica con il pesciolino rosso, diventata per misteriosi meccanismi della comunicazione il simbolo stesso della svolta, è di Sasso: «Inizialmente l’avevamo pensata per simboleggiare l’operazione trasparenza della Pubblica amministrazione. La boccia di vetro trasparente, appunto. Poi quel pesciolino ce lo siamo ritrovati come rappresentazione del silenzio di Renzi sulle riforme che verranno. È stato lui a usarlo in modo opposto». Un dettaglio che alza un altro velo sul modo di lavorare del premier. Chiede contributi, assorbe tutto come una spugna, procede per accumulazione, ma poi decide in solitudine cosa mandare all’esterno e come. Il titolo dell’evento, #laSvoltabuona, è farina del suo sacco. Così come l’idea di usare lo “split screen”, lo schermo doppio, copiata pari pari a Barack Obama, che lo ha usato nell’ultimo discorso a gennaio sullo Stato dell’Unione. Renzi lo ha visto e ha preso l’idea. «Ma è stato più bravo di Obama - scherza Sasso - perché il presidente americano aveva un valletto che scorreva le slides per lui, Renzi invece ha chiesto il telecomando per sincronizzare le immagini con il suo ritmo di esposizione ». La fascinazione per i metodi rivoluzionari della comunicazione obamiana è del resto antica. Renzi lo andò a conoscere tre anni fa e, a settembre 2012, partecipò da osservatore alla Convention dell’Asinello a Charlotte. Anche lo slogan della Leopolda - «Il meglio deve ancora venire» - era ricalcato dal «the best is yet to come» con cui Obama salutò la rielezione. All’intuizione leaderistica di Renzi si deve anche la scelta di parlare, da solo, dal palchetto di solito usato dai portavoce per dare la parola ai giornalisti. Niente ministri intorno.
Renzi non li ha voluti per evitare l’effetto Politburo sovietico ed esaltare la sua immagine.
Se Proforma ha dato una mano con le immagini e gli slogan, dietro molte “americanate” del premier c’è invece la manona di Filippo Sensi. Personaggio schivo, restio ad apparire e allergico alla definizione di spin doctor. Ma il suo ruolo lo conferma il ministro Maria Elena Boschi: «È stato Filippo a lavorare sulla conferenza stampa». Anche il portavoce e braccio destro Lorenzo Guerini smentisce la consulenza di guru americani, come pure qualcuno aveva iniziato a sospettare: «Ma quali guru?! Facciamo tutto in casa, come le tagliatelle ». A Sensi si deve la decisione, scomoda per i giornalisti ma utile per le casse pubbliche, di evitare l’ampia e iper-tecnologica sala polifunzionale della presidenza del Consiglio. Un anfiteatro di legno nella bella galleria Alberto Sordi, usato in un paio di occasioni da Mario Monti. Il problema è che per allestirlo servono tecnici esperti, riscaldamento ed elettricità: si può arrivare a spendere per una conferenza stampa 15-20 mila euro. Quando Sensi ha chiesto un preventivo gli si sono rizzati i capelli e ha scelto di ripiegare sulla angusta saletta al piano terra di palazzo Chigi. Gratis la consulenza di Proforma e gratis anche la sala: in tempi di spending review al governo hanno capito che non era il caso di avere pubblicità negativa.
La forma è sostanza, insegnava Aristotele. Ma se l’infiocchettamento grafico, la confezione del pacco, è stata importante, sui contenuti invece hanno lavorato tutti i ministri. La regia, la raccolta finale, l’hanno fatta in due: Renzi con il fidato Graziano Delrio, ormai deus ex machina di palazzo Chigi.
Repubblica 14.3.14
Firenze, Renzi a partire dal 2011 è stato ospite nell’abitazione dell’attuale presidente dell’Aeroporto: “Nessun conflitto d’interessi”
Carrai e le polemiche sull’affitto pagato “Ma io ospitavo il sindaco come amico”
di Ernesto Ferrara e Massimo Vanni
FIRENZE - «L’ho pagato io quell’affitto. Ma l’appartamento non l’avevo preso per Matteo. Era il posto dove stavo io e l’avevo affittato molto prima che Renzi ci si trasferisse, che male c’è?» L’imprenditore Marco Carrai lo ammette senza problemi: il contratto d’affitto dell’attico di via Alfani, in pieno centro, era a suo nome. Matteo Renzi, già sindaco di Firenze, ci ha vissuto dal 2011 per quasi tre anni prendendoci la residenza. «Nel periodo in cui Renzi è stato sindaco ha avuto prima un appartamento in affitto. Non riuscendo poi a mantenerne il costo, quando dormiva a Firenze dormiva a casa di un amico», spiega lo staff di Renzi. «L’ospitalità che gli ho dato gli ha consentito di mantenere appoggio e residenza a Firenze», dice del resto Carrai nella lettera apparsa ieri suLibero.Da giorni però il quotidiano punta i riflettori sui cambi di residenza di Renzi e anche sulla C&T Crossmedia, la società che lavora per Palazzo Vecchio e che, indirettamente, vede proprio Carrai come comproprietario.
È nel novembre 2009 che Renzi, sindaco da cinque mesi, sposta la residenza da Pontassieve, dove abita con la famiglia, a Firenze. Affitta una mansarda di 80 metri quadrati in via Malenchini, a 200 metri da Palazzo Vecchio: il proprietario è Luigi Malenchini, marito di Livia Frescobaldi che sarà poi nominata con Carrai nel maggio 2012 nel Cda del Gabinetto Vieusseux quando Giuliano Da Empoli ne diventa presidente. È direttamente Renzi a firmare il contratto da 12mila euro l’anno per via Malenchini. Dove resta fino a marzo 2011, quando si trova un’altra sistemazione: «Lo sfruttava poco, forse non gli conveniva. Ma è sempre stato luia pagare, mai fatto sconti», conferma Frescobaldi.
Per Renzi la nuova sistemazione è proprio l’alloggio di Carrai. L’imprenditore grevigiano a fianco di Renzi fin dai tempi della Margherita. Per il premier era ed è ancora oggi «Marchino», l’imprenditore e amico fidato che lo aiuta nelle relazioni internazionali e nel fund-raising. Proprietario dell’attico è però un altro imprenditore, Alessandro Dini. Carrai affitta da lui e Renzi ci trasferisce la residenza. In quel momento ‘Marchino’ è ad di Firenze Parcheggi: nel Cda però non viene nominato dal Comune ma dal Monte dei Paschi. Ed èalla fine di quello stesso anno, il 2011, che l’associazione dei musei comunali Muse affida a C&T Crossmedia il servizio di audio e videoguide per i visitatori di Palazzo Vecchio. Lo fa in seguito a una procedura (indagine di mercato) prevista dal Codice dei contratti pubblici. Da quel momento la Crossmedia incassa dal noleggio dei tablet ai turisti e riconosce all’amministrazione delle royalties.
Carrai, al momento dell’affidamento, non ha alcuna carica operativa in C&T Crossmedia. Ma indirettamente ne è comproprietario: il 50% di Crossmedia è nelle mani di D&C, la società di Carrai e Federico Dalgas. Solo il 29 marzo 2013 Carrai diventerà presidente di C&T. Avere a che fare con Palazzo Vecchio e pagare l’affitto al sindaco non configura però già un conflitto d’interesse? «In Italia non è impedito fare impresa. È tutto regolare e se non c’è reato non c’è niente di male. Dove sarebbe il conflitto d’interessi? C’è una legge che lo vieta? Ho diritto come gli altri a fare impresa », replica stizzito Carrai. Renzi intanto non è già più residente a Firenze: da gennaio è nei registri anagrafici di Pontassievee.
il Fatto 14.3.14
Gli manca già
Agnese lascia il lavoro per i figli
La parità di genere, magari le quote rosa, partono da casa-Renzi. Con il marito premier sparso tra Roma, qualche scuola in giro per l’Italia, magari una conferenza stampa, una televisione, il salotto di Vespa e un Consiglio dei ministri, la signora Agnese Landini ha chiesto l’aspettativa. Meglio pensare ai tre figli. Così ha chiuso in anticipo il suo incarico come insegnante di italiano e latino presso l’istituto scolastico all’Educandato Santissima Annunziata di Firenze. Con uno stile schivo e discreto (così raccontano le cronache) ha preferito non salutare a voce i colleghi, ma ha distribuito in sala insegnanti una fotocopia di una lettera dello scrittore Alessandro D’Avenia dal titolo “Il primo giorno di scuola che vorrei”, in cui l’autore del testo incoraggia gli insegnanti a stimolare i ragazzi, a farli ragionare e incuriosirli. La scelta non la toglierà dalla graduatoria insegnanti. Non si sa ancora se raggiungerà il marito a Roma, per vivere a Palazzo Chigi.
Corriere 14.3.14
Quella cena al Colle e la staffetta tra Enrico e Matteo
di M. T. M.
ROMA — Si chiama La volta buona : è un libro sulla bruciante staffetta tra Matteo Renzi ed Enrico Letta. È scritto, per gli Editori Riuniti, da quattro giornalisti assai bene informati: Mario Lavia, vicedirettore di Europa , Angela Mauro, firma di punta dell’ Huffington post , che segue (alle calcagna) i leader del Pd, Alessandro De Angelis, che scrive per la stessa testata — ex Riformista , un tempo legato a filo doppio a uno dei migliori amici di Napolitano, Emanuele Macaluso — e Ettore Colombo, primo biografo di Bersani.
Insomma, per farla breve, tutte ottime fonti che hanno raccolto notizie di prima mano, per raccontare la vera storia della staffetta tra l’attuale premier e Letta. Tutto comincia nella primavera scorsa, quando l’allora sindaco di Firenze, che ancora non ha pianificato la sua andata a Palazzo Chigi, dice a Matteo Richetti, deputato del Pd, di rito renziano: «Senti, ma perché non ce lo prendiamo il partito?».
L’interrogativo, è puramente retorico perché in quel momento il mai domo Renzi ha già deciso di puntare alla casella del Nazareno per arrivare a quella di Palazzo Chigi. Ma spiazza Richetti e tutti gli altri. Poco male non è la prima volta e non sarà l’ultima. Del resto, come racconta il libro, anche la tappa d’avvicinamento fondamentale tra l’ormai leader del Pd e il capo dello Stato è un sorpresa per tutti. Napolitano invita a cena Renzi e lo fa all’oscuro delle segreterie del Quirinale. «Sarò padrone di invitare chi voglio a cena a casa mia», racconta il capo dello Stato nel libro. Quella sera a tavola sono in tre: Renzi, Napolitano e sua moglie. La quale, a un certo punto, discretamente si allontana. Ed è lì, secondo la ricostruzione de La volta buona , che viene decisa la staffetta. Renzi va subito al sodo: «Il Pd non ce la fa più a sostenere questo governo. Siamo tutti d’accordo. Continuando così alle Europee, noi rischiamo di essere travolti e il governo salterebbe comunque. Si rischierebbe di arrivare a posizioni radicali tipo Grillo. Sarebbe un disastro epocale. Ecco, abbiamo deciso un cambio al governo e io farei il premier». Renzi parla pane al pane e vino al vino. E Napolitano non dice di no. Fa solo una raccomandazione: «State attenti a non sfasciare tutto, che non salti la maggioranza». Fine del colloquio, fine del governo Letta. Non del libro, che racconta altri gustosi e inediti particolari.
Repubblica 14.3.14
Marchionne: “Il ragazzo è veloce pieno sostegno al governo
TORINO
- Endorsement di Sergio Marchionne per Matteo Renzi: «Ieri sono stato
estremamente orgoglioso, si muove nella direzione giusta, ha il mio
totale appoggio». Sembrano lontani anni luce i giorni delle baruffe tra
l’amministratore delegato della Fiat e l’allora sindaco di Firenze.
Parlando a Ginevra, a margine dell’assemblea di Sgs, Marchionne va molto
oltre la laconica dichiarazione fatta al Salone di Ginevra («Renzi? La
Fiat è sempre filogovernativa). L’ad del Lingotto loda la manovra
annunciata dal premier: «È un ragazzo veloce, io ci avrei messo un paio
di settimane in più...».
È la prima volta, in dieci anni da
amministratore delegato a Torino, che Marchionne usa parole di elogio al
governo in carica. E colpisce quel suo «sono stato orgoglioso» perché
contrasta con le molte dichiarazioni critiche fatte in questi anni nei
confronti dei politici e dei difetti degli italiani. «L’Italia -
aggiunge l’ad - aveva bisogni di qualcosa di nuovo e di dirompente. Lo
si critichi pure per il suo stile ma lo si lasci lavorare. Se non
facciamo così la baracca non si muove. Quel che Renzi ha annunciato è un
segnale non solo per l’Italia ma anche per l’Europa».
La Stampa 14.3.14
L’Ad di Fiat “Sono orgoglioso”
Marchionne: «Le misure vanno nella giusta direzione»
«Le misure del governo vanno nella giusta direzione, pieno sostegno a Renzi». Lo ha detto Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat e Chrysler, commentando i provvedimenti annunciati mercoledì dal premier. «Di sicuro Renzi - ha aggiunto - è stato veramente qualcosa di nuovo, di dirompente, di cui il Paese ha bisogno. Se non ci comportiamo così, se non diamo uno scossone la baracca non si muove». Marchionne si è poi soffermato sullo «stile Renzi». «Lasciamo che la gente lo critichi per l’età, per lo stile. A me non importa niente, importa la sostanza di quello che sta facendo. Ieri sono stato estremamente orgoglioso».
l’Unità 14.3.14
La tortuosa strada delle coperture
di Massimo Antoni
Prudenza consiglierebbe di attendere, perché in questi casi quasi tutto è nei dettagli, e di dettagli l'informativa del governo è stata piuttosto avara.
Ricostruendo dai pochi elementi disponibili, ci è dato di capire che si prospetta uno sgravio di imposta di 1.000 euro all'anno per i redditi da lavoro dipendente inferiori ai 1.500 euro netto mensili (poco meno di 25mila lordi annui), con un impegnoto tale di 10 miliardi. La platea dei destinatari consterebbe di 10milioni di lavoratori, ma tale stima desta perplessità, visto che i lavoratori dipendenti con reddito compreso tra il minimo imponibile e 24 mila euro sono quasi il doppio. È chiaro dunque che qualche ulteriore specificazione è necessaria.
È peraltro discutibile l'esclusione di autonomi e pensionati, già rimasti fuori dal recente più limitato intervento nella legge di stabilità, specie se l'obiettivo è il rilancio dei consumi (i pensionati sono la categoria con la maggiore propensione al consumo). Desta preoccupazione anche il problema dell'incapienza, connaturato alla scelta di intervenire sull'Irpef, visto che resterebbero esclusi totalmente i redditi sotto i 8 mila euro, parzialmente quelli compresi tra 8 e 12 mila euro lordi annui, che pagano meno di mille euro di imposta. Il tema equitativo sarebbe infine aggravato se le esigenze di copertura rendessero problematico a fine anno il rifinanziamento delle spese inderogabili di natura sociale, come la cassa integrazione in deroga o i fondi per la non autosufficienza.
Quello delle coperture è in effetti il punto cruciale, per più di un motivo. Nella ridda di ipotesi e smentite, l'unico riferimento certo sembra essere quello ai risparmi derivanti dalla spending review. Vale la pena di ricordare che la Legge di Stabilità approvata lo scorso dicembre indica per la spending review obiettivi di risparmio (cumulato) pari a 3 miliardi per il 2015, 7 per il 2016 e 10 per il 2017. Obiettivi che sono già contabilizzati nei saldi di bilancio e quindi non sono utilizzabili per sgravi fiscali (nel caso in cui tali obiettivi non fossero raggiunti, scatterebbe anzi una clausola di salvaguardia con aumenti di imposta).
Certo, i risparmi di spesa potrebbero essere superiori al previsto, come suggerisce anche il commissario Cottarelli. Sempre la Legge di stabilità 2014 prevede già un meccanismo di destinazione automatica dei maggiori risparmi a riduzione dell’imposizione sul lavoro. Secondo tale disposizione, concordata con le parti sociali, a partire dall'anno in corso tutti i risparmi di spesa aggiuntivi rispetto agli obiettivi nonché tutti i maggiori proventi derivanti dalla lotta all’evasione devono essere allocati in un “fondo per la riduzione della pressione fiscale”, per essere destinati alla riduzione dell'Irap sul lavoro e alla riduzione delle detrazioni Irpef. Si potrebbe insomma concludere che i casi sono due: o è vero che la spending review porterà a risparmi superiori alle previsioni, ma allora c’è già una legge, introdotta da Letta, che destina tali risorse alla riduzione dell’Irpef e dell’Irap; o tali risparmi non ci saranno, ma allora quella del governo Renzi resta un impegno senza copertura. È proprio a questo riguardo, tuttavia, che l'annuncio del governo presenta il suo aspetto forse più interessante. Con un po' di azzardo, si potrebbe infatti ipotizzare che la scelta di lasciare la questione delle coperture così indeterminata, trovando magari soluzioni provvisorie e rimandando alla seconda parte dell'anno una soluzione più convincente, sia deliberata. E che essa sia una scelta dettata non tanto dagli intenti elettoralistici che qualcuno attribuisce al premier, ma dall’intenzione di sfruttare il semestre di presidenza italiana per chiedere con forza, magari in un quadro politico europeo mutato, una revisione degli obiettivi previsti dal fiscal compact. Peraltro, è l'assenza di copertura ciò che potrebbe rendere realmente efficace la riduzione delle imposte ai fini della spinta sulla domanda interna. Accompagnare la riduzione di imposta con una riduzione della spesa pubblica significherebbe infatti mortificarne gli effetti espansivi. A conforto della nostra ipotesi gioca il riferimento ai margini consentiti dal vincolo del 3%, che il governo Letta decise di non utilizzare per non compromettere il percorso di convergenza al pareggio strutturale di bilancio nel 2016. La volontà di collocarsi su tale limite massimo segnala l'intenzione di rivedere tale scelta. Contro questa interpretazione giocano tuttavia alcune solide circostanze: le rassicurazioni del ministro Padoan sul fatto che manterremo gli impegni con l'Europa; i vincoli che derivano dalla costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio; l’atteggiamento severo e attento dell’Europa, da cui non sembra plausibile attendersi spiragli.
Eppure, se la nostra ipotesi fosse corretta, avremmo finalmente una svolta rispetto alle politiche di austerità. Sarebbe quella novità che da lungo tempo invochiamo e che, con un pizzico di ottimismo, potrebbe innescare un mutamento di rotta nelle politiche europee.
La Stampa 14.3.14
Ma a Bruxelles crescono i dubbi “Troppe variabili sulle coperture”
Gli esperti: “Le entrate previste non hanno riscontri oggettivi”
di Marco Zatterin
Sul tavolo c’è una tabella scritta a mano coi numeri de #lasvoltabuona di Matteo Renzi, la dote finanziaria che consentirà (o no) di realizzare l’ambizioso cronoprogramma del premier. La persona che l’ha compilata, una fonte Ue esperta di cose economiche, invita a usare le molle. Avverte che le cifre, come i contenuti e i relativi giudizi, sono «intrinsecamente vincolati a ciò che accadrà davvero». Giudica positive le ambizioni per economia e lavoro. Però appaiono due rughe sulla sua fronte quando si affrontano le coperture. «Troppe variabili - ammette -: troppe certezze che possono cadere nonostante le migliori intenzioni».
L’argomento principale è che metà delle voci destinate a bilanciare il minor gettito Irpef «non ha riscontri oggettivi» e l’altra metà è «incerta». «Non vuol dire che siano dati impossibili - sottolinea la fonte -. Tuttavia vedo delle domande prive di risposta». A partire dall’esito della spending review che il governo definisce foriera di 7 miliardi di risparmi, mentre il suo autore Carlo Cottarelli ne conta tre da maggio a fine anno: «I 4 miliardi in più vanno spiegati, no?». Certo che sì. Dovrà accadere entro aprile, limite entro cui Renzi dovrà far recapitare a Bruxelles i suoi Piani perché siano valutati. Come tutte le stime, impongono verifica sul campo gli 1,6 miliardi di gettito Iva che i tecnici a Roma attribuiscono all’attività generata dal pagamento degli arretrati della pubblica amministrazione. L’interrogativo è «l’effetto reale di un’iniezione di liquidità per un’economia davvero provata». Può accadere, concede la fonte. Magari la reazione supererà le aspettative e, con essa, le entrate. Del resto il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, preferisce «tenersi basso» quando fa una previsione. Chissà.
La terza incertezza sono i risparmi dello spread felicemente calante. Erano anni che il divario fra i virtuosi bund tedeschi e i nostri buoni decennali non se ne stava stabilmente sotto i 200 punti. Rispetto alle previsioni del vecchio governo, il Tesoro annusa un beneficio di 2,5 miliardi. Vorrebbe contabilizzarli e spenderli subito. «Abbiamo detto che le entrate di copertura devono essere certe», annota la fonte. Qui, invece, si propone un’alea grave: «Sino a chiusura esercizio non saremo sicuri dell’incasso. Basta un battito d’ala di farfalla...». Il che conduce alla partita più complessa, quella da giocare a carte scoperte. Il piano Renzi si aggrappa alla previsione Ue secondo cui l’Italia chiuderà il 2014 con un rapporto deficit/pil del 2,6%. Sarà 0,4 punti sotto la fatidica soglia del 3% oltre la quale comincia il disavanzo eccessivo. L’intenzione è sfruttare questo margine, tutto o in parte, per stimolare la domanda. Sino a 6 miliardi da negoziare con Bruxelles. «Siamo qui per fare, non per chiedere», ha detto Padoan. Ma senza chiedere, su questa strada, non si può fare.
Nell’analisi approfondita degli squilibri italiani la Commissione ha scritto che «l’aggiustamento del saldo strutturale 2014 come attualmente previsto appare insufficiente dato il bisogno di ridurre il grande parametro debitorio a un passo adeguato». Era un modo per risvegliare l’attenzione sull’esigenza di maggiore enfasi, soprattutto alla luce delle nuove regole di rientro accelerato. «In queste condizioni, chiedere altri margini mentre bisogna frenare il debito può essere problematico».
Il fiscal compact dice che dobbiamo tagliare il debito in misura pari allo 0,5% del differenziale fra il rapporto totale col pil (133,7%) e la soglia d’equilibrio teorica (60%). «È il vostro impegno, lo avete negoziato e accettato». E allora? La soluzione è quella indicata da Padoan. Si fanno le riforme, vere. Inizialmente si porta il deficit in tensione. Poi si rientra grazie alla crescita. Fattibile? «Non è mai successo prima e le priorità sono altre». Bruxelles non vuole mollare, eppure si guarda bene dal chiudere la porta. Ne consegue che tocca riformare seriamente, venire alla Commissione coi risultati concreti e augurarsi che tutti i tripli salti mortali della «svolta buona» siano perfetti. Sennò il cammino potrebbe essere sbarrato da un passivo più grande del previsto che chiuderebbe ogni possibile margine di trattativa. E costringerebbe Renzi, per tenere la rotta, a una correzione autunnale dal costo politico probabilmente insostenibile.
il Fatto 14.3.14
Operazione San Tommaso
di Antonio Padellaro
Malgrado Renzi noi speriamo che Renzi se la cavi. Malgrado la suprema spocchia e il ghigno di chi pensa io sono io e voi non contate niente. Malgrado lo stile da televenditore di tappeti. Malgrado i miliardi di miliardi sparati come razzi di capodanno dal balcone (leggi Travaglio qui accanto). Malgrado i conti che fanno acqua e le promesse di aria fritta. Noi speriamo che Renzi ce la faccia: non certo per alimentare il suo ego ipertrofico e neppure perché, altrimenti minaccia di ritirarsi dalla politica (figuriamoci). Augurandogli il meglio, noi pensiamo soprattutto a quando mercoledì sera, tra una slide e uno slogan, il premier ha detto: “Fate come San Tommaso e vedrete il 27 maggio, nelle buste paga di dieci milioni di persone, quello che succederà”. Ecco, noi speriamo che dal 27 maggio in poi, nelle buste paga di chi guadagna fino a 1.500 euro, ci siano gli 80 euro promessi in più. Perché sarebbe giusto così e perché sarebbe sommamente ingiusto se così non fosse. Su quegli ottanta euro molti hanno sorriso quando Renzi, rivolto ai troppi che stringono la cinghia, ha riconosciuto il loro diritto “di comprarsi un libro in più e di uscire a cena una volta in più”. È facile ridere se si pensa a quei ladri di pubblico denaro che spendono al ristorante 200 euro per un’aragosta. E se anche si tratta di un gruzzolo elettorale, fa niente. Adesso Renzi quei soldi deve trovarli per forza. Scavalchi il Quirinale, ignori Bruxelles, disobbedisca alla Bce, ma non si permetta di prendere in giro dieci milioni di persone che su quei pochi soldi adesso ci contano. Le vite degli altri non sono pentole in vendita.
Repubblica 14.3.14
Tre anni di contratti a tempo
di Tito Boeri
IL CONSIGLIO dei ministri di mercoledì ha approvato un’informativa e la successiva conferenza stampa è stata una presentazione in powerpoint. Eccellente a livello di comunicazione, ma non dissimile dalle relazioni di molti convegni.
Impegni anziché decisioni potenzialmente esecutive, raccolte in articolati. La differenza è tutt’altro che formale. Passare dall’enunciazione di principi a testi di legge richiede prendere una lunga serie di decisioni, alcune ancora più importanti dei titoli generali. Significa introdurre un principio di realtà e porsi dei problemi attuativi fondamentali, su cui cementare un accordo di maggioranza. Ad esempio, un conto è tagliare l’Irpef, un altro è tagliare i contributi sociali: anche se l’effetto in busta paga è lo stesso, tagliando i contributi previdenziali si riducono le pensioni future; intervenendo sull’Irpef si rischia di creare nuovi scaglioni e aliquote effettive rendendo se possibile il sistema fiscale ancora meno trasparente. E gli effetti su consumi e offerta di lavoro (dunque in prospettiva sul costo del lavoro) dipendono proprio da questi “dettagli”. Ancora un esempio: sostenere che i 7 miliardi di tagli alla spesa verranno dalla spending review viola un basilare principio di trasparenza e democrazia. La rassegna della spesa individua tagli su capitoli e sotto capitoli di spesa ben definiti. Cottarelli ha fornito qualche generica informazione su 3 miliardi di tagli, peraltro già contemplati dalla Legge di stabilità del governo Letta. Gli altri 4 (o 7) da dove verranno? Da interventi sulle pensioni più ricche? Insomma ci sono beneficiari e perdenti che vanno informati quando si annunciano provvedimenti e coperture. Ed è fuorviante presentare come “coperture” i 6 miliardi in più di disavanzo che ci dovrebbero portare appena sotto alla soglia del 3 per cento di deficit. Al di là del merito o demerito di questa scelta, si tratta in verità di “scoperture” perché andranno ad aumentare il debito. Infine la lezione degli ultimi 15 anni è che i risparmi nella spesa per interessi legati alla riduzione dello spread vanno utilizzati per ridurre il debito anziché per aumentare il disavanzo primario. Bene ricordarlo quando si sceglie di ripetere gli errori.
La grande svolta dunque sin qui è stata solo annunciata in televisione, come col Contratto con gli Italiani del 2001, rispetto al quale ci sono però due differenze importanti. La prima è che gli impegni sono stati presi da un presidente del Consiglio in carica, a Palazzo Chigi, anziché da un candidato nel mezzo di una campagna elettorale, sul tavolo di ciliegio approntato da Bruno Vespa. La seconda differenza è che, a differenza di allora, gli impegni sono abbastanza cogenti e precisi, come i mille euro in più in busta paga a 10 milioni di italiani promesso entro maggio. Sarà molto più facile controllare che vengano rispettati. E il governo ha poco tempo per passare dalle parole ai fatti: un mesetto al più.
Gli unici atti-fatti approvati sin qui riguardano la casa (ancora lei!) e i contratti a termine e di apprendistato. Il Jobs Act, almeno nella parte destinata a diventare realtà nei tempi che la drammatica situazione della disoccupazione giovanile richiede, comporta di fatto l’introduzione di un periodo di prova di 3 anni durante il quale il lavoratore può essere licenziato senza preavviso. I lavoratori con contratti a termine sono protetti dalle norme sui licenziamenti durante la vita dei loro contratti e, sin qui, si potevano avere al massimo due rinnovi dello stesso contratto con un’impresa nell’arco di 3 anni. Secondo la bozza di decreto uscita dal consiglio dei ministri di ieri, invece, sarà d’ora in poi possibile assumere un lavoratore con contratti di una settimana, fino a 156 volte di fila, arrivando a tre anni di lavoro in prova. Alla fine di ogni settimana il lavoratore può essere di fatto licenziato a costo zero senza alcuna motivazione. Rimossi anche i vincoli di assunzione al termine del periodo di apprendistato. Può essere giusto togliere una serie di costi burocratici introdotti dalle riforme Damiano e Fornero, servirà ad aumentare le assunzioni. Ma qui si rende ancora più acuto il dualismo fra contratti temporanei e contratti a tempo indeterminato, una volta di più tenuti al riparo da qualsiasi ritocco normativo. I due mercati del lavoro paralleli saranno così più lontani l’uno dall’altro in quanto a tutele e salari, dunque costo del lavoro, per cui sarà ancora più difficile passare dai contratti a termine a quelli senza scadenza. Stiamo in questo ripetendo 30 anni dopo gli stessi errori della Spagna: milioni di lavoratori che passano in continuazione da un contratto temporaneo all’altro, proteggendo con la loro flessibilità i lavoratori rappresentati dal sindacato, dato che il rischio di perdere il lavoro si concentra su altri. L’approvazione da parte della Cgil (e di Sacconi) di questi provvedimenti è molto eloquente. Frequente il riferimento nelle presentazioni al terzo settore. Non vorremmo si scegliesse di imitarne il mercato del lavoro, che è troppe volte sinonimo di precariato, con persone che operano nell’associazionismo e nelle cooperative prive di qualsiasi assicurazione sociale, al di sotto di standard minimi. Anche perché i contratti di una sola settimana non daranno mai diritto a un sussidio di disoccupazione, anche il più generoso del mondo.
Per questi motivi è forte il rischio che molti buoni propositi formulati ieri rimangano tali. Il sussidio universale di disoccupazione, il salario minimo e magari anche il reddito minimo sono, peraltro, relegati al disegno di legge delega. Tutti quelli approvati dal Parlamento in passato su politiche del lavoro e ammortizzatori sociali sono scaduti senza venire esercitati dai governi in carica. Per credere all’impegno di vedere la delega approvata ed esercitata entro sei mesi, ci vuole un atto di fede.
il Fatto 14.3.14
Bilanci ingessati
Ecco cosa si rischia a violare i vincoli
di Stefano Feltri
I soldi ci sono o non ci sono? E l’Europa lascerà fare a Matteo Renzi quello che vuole, cioè dare 80 euro in più in busta paga a chi ne guadagna meno di 1500 al mese? I due temi sono legati, come è già chiaro dalle prime reazioni alla conferenza stampa programmatica del premier di mercoledì.
1. La Banca centrale europea nel suo bollettino mensile scrive che l'Italia non
ha fatto “progressi tangibili” per rispettare le richieste della Commissione europea di
ridurre il debito. Significa che Mario Draghi ha già bocciato il piano Renzi?
No, le due cose non sono connesse. A novembre 2013 la Commissione ha chiesto al governo Letta di tagliare il debito strutturale dello 0,5 per cento del Pil (4-5 miliardi) già nel 2014 per essere in regola con la cosiddetta “regola del debito”, cioè un ritmo di riduzione del debito pubblico che ci permetta di rispettare i vincoli di bilancio del trattato Fiscal Compact. Letta aveva risposto che i tagli sarebbero arrivati dalla spending review, che ancora si aspetta. Il Bollettino di Francoforte, peraltro, è stato chiuso il 2 marzo.
2. Renzi ha intenzione di rispettare questa richiesta di correzione dei conti?
No. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha già spiegato che non è nel programma del governo fare interventi correttivi. La scommessa è che le misure di stimolo alla crescita faranno crescere il Pil a sufficienza da non rendere necessari i tagli aggiuntivi (il rapporto migliora sia se scende il debito sia se cresce il Pil).
3. Che succede se la scommessa di Renzi si rivela sbagliata?
Se a breve non ci sarà stata la correzione e la crescita si rivelerà inferiore a quella sperata, l’Italia rischia già da giugno una procedura di infrazione per squilibri macroeconomici eccessivi, che può comportare multe pesanti.
4. Il commissario europeo Olli Rehn ha detto di apprezzare il taglio delle tasse sul lavoro finanziato dalla spending review ma ha anche richiamato l'Italia a “rispettare gli impegni del patto di Stabilità”, in particolare “il bilancio in pareggio in termini strutturali e la nuova regola del debito”. È un via libera?
Sì, ma cauto. La Commissione ricorda la necessità di ridurre il debito di 4-5 miliardi e di non sfondare il tetto del 3 per cento tra deficit e Pil. Renzi ha detto che vuole pagare parte del taglio al cuneo fiscale facendo deficit (cioè, di fatto, rinunciando a cercare copertura). Il deficit 2014 può salire da 2,6 a 3 per cento. Il premier spera però di non dover usare tutto quel cuscinetto da 0,4 per cento. Anche questa scelta, ha ricordato Padoan, deve essere discussa con Bruxelles e approvata dal Parlamento.
5. Quali sono i pericoli di questa linea nei prossimi mesi?
Arrivando così vicino al limite del 3 per cento, Renzi si preclude ogni flessibilità del bilancio pubblico per l’intero 2014. Qualunque misura di spesa - ad esempio i soldi che mancano sulla Cig - dovrà essere coperta da tagli corrispondenti o aumenti di tasse dal gettito immediato (tipo alzare le accise sulla benzina). Una strada molto stretta che, se imboccata, prelude a sorprese d’autunno: dopo le elezioni europee, il premier potrebbe trovarsi costretto ad ammettere di essere già sopra il 3 per cento, a causa di coperture incerte, di una crescita sotto le attese o spese impreviste. A quel punto la Commissione lo solleciterebbe a fare una manovra correttiva oppure partirà l’iter della procedura d’infrazione (l’Italia ne è uscita nel 2013, dopo quattro anni).
6. Anche Spagna e Francia hanno sfondato il deficit e sono sotto procedura
d'infrazione, perché non possiamo farloanche noi?
È un’opzione: in questi anni sia il governo Monti che quello di Enrico Letta hanno privilegiato un altro approccio, fare di tutto per rispettare i vincoli su debito e deficit in modo da trattare poi con Bruxelles forti dei risultati raggiunti. Spagna e Francia invece hanno preso tempo per diluire i dolorosi aggiustamenti dei conti pubblici. Letta e Monti erano convinti che per l’Italia fosse troppo pericoloso seguire quella linea perché il debito pubblico (134 per cento del Pil) rende il Paese troppo esposto ai cambi di umore dei mercati, che possono determinare improvvisi aumenti dei tassi di interesse,. Inoltre chi è “sotto procedura” ha vincoli molto più stringenti nell’esame preventivo della legge di Stabilità da parte di Bruxelles, obbligatorio dal 2013.
7. Ma ci sono coperture vere nelle promesse di Renzi?
Il taglio dell’Irap alle aziende vale 2,4 miliardi all’anno ed è coperto - forse non del tutto dal 20 al 26 per cento del prelievo sulle rendite finanziarie (titoli di Stato esclusi). Le entrate incerte sono: 3 miliardi nel 2014 (5 nel 2015 e 2016) dal rientro dei capitali dall'estero, 1,6 miliardi di gettito Iva dal pagamento dei debiti arretrati della pubblica amministrazione (prima bisogna pagarli e per ora c’è solo un disegno di legge) e i risparmi della spending review. Il commissario Cottarelli ha parlato di 3 miliardi di risparmi sul 2014, perché i tagli inciderebbero sulla seconda metà dell'anno. Renzi parla di 7 miliardi, come se invece potessero essere retroattivi. Ci sono quindi 4 miliardi molto incerti e anche per i 3 sicuri bisogna comunque fare un provvedimento di legge che ancora non è alle viste. Far salire il deficit o spendere circa 3 miliardi dovuti ai risparmi sul costo stimato del debito (spread) equivale a spendere senza coperture. Al netto dell’Europa, insomma, è la parte facile.
il Fatto 14.3.14
Vittoria di lobby
Imprese, coop energia e banche Tutti contenti
Molte cose sono incerte sui provvedimenti annunciati da Matteo Renzi, almeno una è sicura: le lobby qualcosa hanno incassato. Le proteste preventive della Confindustria di Giorgio Squinzi hanno prodotto un risultato: il taglio del 10 per cento all'Irpef nelle imprese private è l'unica misura con una copertura certa e precisa, l'aumento dell'aliquota sulle rendite finanziarie dal 20 al 26 per cento. Certo, i soldi arrivati sono meno del previsto (circa 2,4 miliardi all'anno, Squinzi li avrebbe voluti tutti e 10 quelli destinati al cuneo fiscale), ma meglio di niente. Ed è a tuttto beneficio delle imprese la scelta di rimuovere la causale dai contratti a termine fino a tre anni, così si evitano i contenziosi di lavoro. Come ha spiegato il premier, è stata un'idea del ministro del Lavoro Giuliano Poletti quella di destinare 500 milioni di euro, cifra rilevante, per un fondo per le imprese sociali. Poletti, che arriva dal vertice della Lega Coop e dell'Alleanza delle cooperative, ha quindi convinto il presidente del Consiglio a dare mezzo miliardo al terzo settore da cui proviene. Come nel caso dell'Irap, se tutto va bene, a trarne beneficio sarà tutta l'economia, ma certo il mondo di provenienza di Poletti ringrazia. Così come sono sollevati i grandi gruppi dell'energia: delle promesse renziane di tagli drastici alla bolletta è rimasto poco. L'annuncio che le piccole e medie imprese pagheranno il 10 per cento in meno di elettricità si fonda un un progetto appena agli inizi: il ministero dello Sviluppo di Federica Guidi ha avviato una consultazione tra i protagonisti del settore (produttori, distributori, intermediari) per limare qualcosa tra incentivi e oneri di sistema e recuperare 1,2-1,4 miliardi all'anno. Nessuna rivoluzione che possa preoccupare i colossi.
Resta da capire quanto guadagneranno le banche scontando le fatture dei debiti arretrati della Pubblica amministrazione.
l’Unità 14.3.14
«Bene 80 euro in busta ma ora niente trucchi»
Davanti alle fabbriche a Bologna, gli operai attendono di vedere lo stipendio di maggio:
«Però non aumentate i costi della benzina e dei servizi»
di Andra Bonzi
Ottanta euro in busta paga in più fanno comodo, a tutti. Una volta di più se prendi uno stipendio inferiore ai 1.500 euro netti al mese. Ma il timore - cresciuto dopo anni di manovre “opache” dei governi precedenti - è che il gruzzoletto entri dalla porta ed esca dalla finestra.
«Ormai abbiamo capito come è il gioco: va a finire che ce li toglieranno da un’altra parte, con l’aumento della benzina o con la tassa sulla casa», scuote la testa rassegnata Samantha. Sono le 17.30, e i lavoratori della Ducati Motor stanno uscendo dai cancelli. Capelli biondi, giubbotto nero coi bordi rossi, la ragazza lavora come impiegata nella fabbrica della “rossa” di Borgo Panigale da 7 anni. Stipendio base: 950 euro, «e sono laureata», aggiunge. La fiducia nel governo - questo come quelli che l’hanno preceduto - è scarsa: «Innanzitutto aspetto fine maggio per vedere se gli 80 euro ci sono davvero - chiude Samantha -. E se ci sono, li metto via: sono fortunata, non ho il mutuo».
«SOLDI GIA’ SPESI, SECE LI DANNO...» Poco più giovane è Carlo: operaio, busta paga di circa 1.400 euro netti. Rientra nella fascia che sarà premiata dallo sconto Irpef. «Di una cosa sono certo: quei soldi sono già spesi - dice Carlo -. Magari farò un’uscita in più, ma il punto è che a fine mese si arriva a secco adesso, e sarà così anche dopo». Ma tra i colleghi, in sala mensa, si è parlato dei primi provvedimenti annunciati dal premier? «In realtà non parlo molto di politica, tutto si è radicalizzato: si è pro o contro Renzi o Grillo, indipendentemente dal merito delle singole proposte», ragiona il lavoratore.
Via Cavalieri Ducati s’intasa di macchine, in tanti indossano il casco e accendono moto e motorini, tutti hanno fretta: c’è la bambina da prelevare all’asilo, la spesa da fare, l’appuntamento da rispettare. Leo (33 anni) e Antonio (26) sono due addetti stagionali: lavorano 4-6 mesi l’anno, a seconda dei picchi produttivi. Non erano al corrente del possibile bonus, ma concordano: «Soldi in più fanno sempre comodo. Non ti cambiano la vita, ma è un aiuto». Ben più esperta Bruna Rossetti, delegata Fiom e impiegata da 26 anni in Ducati. Lei ha un reddito più alto dei 25mila euro lordi richiesti per il taglio Irpef, ma commenta: «È chiaro che sono soldi importanti per le spese, o anche per comprarsi qualcosa in più e rilanciare un po’ i consumi. Ma le coperture ci sono? Spero di sì, se no sono guai».
ALL’EX WEBER INTERESSATI4SU5 Cambia lo scenario, ma la musica resta la stessa. Davanti ai cancelli della Magneti Marelli, all’ex Weber di via Timavo, gli operai che escono dal turno pomeridiano sono un’ottantina. Qui il taglio Irpef avrà «un impatto alto, più o meno quattro operai su cinque», spiega Massimo Monesi, delegato Fiom, ricordando la cancellazione del premio di produzione ormai da due anni.
Massimo ha 35 anni, e da 15 lavora nella fabbrica del gruppo Fiat. «Avere soldi in più è sempre positivo, e 80 euro non sono pochi, non ci si arriva spesso, quando si rinnova il contratto - premette la tuta blu -. Solo che fidarsi è sempre più difficile, speriamo che non ci sia il trucco sotto...». Sonia e Luca hanno una figlia, e lavorano entrambi alla Marelli: lei rientra sotto i 25mila euro lordi annui di reddito, lui no. «Abbiamo letto della cosa - fanno sapere -. Il costo della vita attuale è tale che 1000 euro in più all’anno non ti cambiano la vita...». Come dire: bene, ma non basta per il rilancio dei consumi. Marco, 45 anni, un veterano della Marelli, è molto positivo: «Io credo sia una misura di impatto, fanno molto comodo, ed è una decisa inversione di tendenza, e non mi ricordo provvedimenti simili nel recente passato». Marco confida in Renzi: «Sì, credo che possa cambiare concretamente le cose. Anche perché se fallisce lui ci resta solo il populismo... ». Più tranchant un giovane operaio che sta per riprendere la sua auto in parcheggio: «Cosa ci faccio con mille euro in più all’anno? Ci pago le rate della macchina...». E sgomma via...
Ultima tappa, la Gd, punta di diamante dal packaging e del gruppo Coesia di Isabella Seragnoli. Gli stipendi sono mediamente buoni, ma Fabrizio Torri, disegnatore meccanico e delegato Fiom-Cgil, calcola che, su circa 1.650 lavoratori complessivi, circa 800 rientrino nella platea interessata al bonus. «Mettere i soldi in tasca alle persone è sempre un buon inizio - considera Torri -, a patto che poi non si consideri chiusa così la questione lavoro». Davanti alla macchinetta del caffé, i dipendenti Gd ne hanno parlato molto in questi giorni: «Il governo deve mettere sul tavolo un’idea di sviluppo, una politica industriale. Per esempio, in tanti si sono chiesti perché non abbia ancora citato il nodo delle delocalizzazioni? Insomma, non ci si può accontentare...». Sandra Sandrolini, dal 1988 in Gd, ha un part-time: «Mi farà piacere una busta più pesante - esordisce -, ma è chiaro che se poi aumentano la benzina e il nido siamo daccapo. Bisognerà vedere come viene portata avanti tutta la partita dei contratti e degli ammortizzatori. Poi potremo giudicare ».
l’Unità 14.3.14
La protesta dei pensionati: «Siamo stati dimenticati»
di Massimo Franchi
Non vogliono essere considerati «cittadini di serie B». I 16 milioni di pensionati sono rimasti fuori dal taglio dell’Irpef: per loro non ci sarà l’aumento di 100 euro tanto sponsorizzato da Renzi. E sebbene ieri il premier abbia specificato che non toccherà le pensioni fino a 2.500 euro, i sindacati - in modo unitario - hanno reagito subito. «Nessuna svolta buona per i pensionati e gli anziani. Tra le misure annunciate dal governo per loro non c’è niente ed è ormai del tutto evidente che sono considerati a tutti gli effetti dei cittadini di serie B, non meritevoli di alcuna attenzione», affermano in una nota Spi-Cgil, Fnp-Cisl e Uilp-Uil. «La condizione di milioni di persone a cui sono stati chiesti negli ultimi anni tanti sacrifici non può essere archiviata così. Chiediamo al governo di ravvedersi. Noi non staremo né fermi e né zitti a guardare e subire l’ennesima ingiustizia ai danni di chi ha lavorato una vita versando i contributi e pagando le tasse fino all’ultimo centesimo. È inaccettabile - concludono - che per pensionati ed anziani non ci siano sgravi fiscali».
Sull’argomento è intervenuta anche il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, ieri a Palermo per il congresso della locale Camera del lavoro. «Il governo per favorire la ripresa della domanda in questo Paese dovrebbe fare un passo in più, ovvero guardare ai tanti pensionati poveri che hanno pensioni basse. Anche a loro è dovuta una restituzione fiscale». E ancora nel pomeriggio: «Sembrava che fossimo un Paese in cui proliferavano le pensioni d’oro e tutti i pensionati erano ricchi e felici. In realtà la gran parte delle pensioni sono sotto i mille euro. quindi bisogna maneggiare la materia con grande attenzione».
Una richiesta rilanciata dal presidente della commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano. Il governo, chiede Damiano, «apra un tavolo di confronto con i sindacati per affrontare il tema della indicizzazione delle pensioni. La manovra del governo ha una indubbia valenza sociale: evitiamo di comprometterla con misure sbagliate: è fortemente contraddittorio - spiega - il fatto che, allo stesso tempo, si detassino i redditi medio- bassi dei lavoratori dipendenti e non quelli medio-bassi dei pensionati ».
Repubblica 14.3.14
Anche i pensionati chiedono sgravi fiscali
I sindacati all’attacco: non ce la fanno più, in 15 anni gli assegni hanno perso il 30%
di Luisa Grion
ROMA - Palla al centro per i pensionati, la ventata in arrivo da Palazzo Chigi non li sfiorerà: non saranno chiamati a dare nulla, non riceveranno nulla. Così ha sentenziato il premier Renzi mettendo a tacere con una solo battuta due interlocutori. ll commissario per la spending review Carlo Cottarelli - che solo pochi giorni fa aveva annunciato un prelievo ad hoc sulle pensioni d’oro - e i sindacati che, contenti per gli 80 euro al mese infilati nelle buste paga dei lavoratori, volevano qualcosa anche per i pensionati. Intervenendo aPorta a Porta su Rai Uno, ieri sera Renzi ha risposto alle loro richieste in modo inequivocabile: «Per il momento i soldi in tasca ai pensionati non li metto» ha detto «per loro non cambia niente: non prendono di più e non danno di più» a meno che non incassino «cifre come 8 mila euro al mese ». Stoppato quindi Cottarelli, che aveva annunciato solo un paio di giorni fa un contributo temporaneo sulle pensioni alte per recuperare risorse da destinare a nuove assunzioni. Il commissario aveva assicurato che dall’intervento sarebbe stato escluso l’85 per cento degli assegni, lasciando intuire tagli alle pensioni dai 2.500 euro in su. «Questa cosa non c’è - ha detto Renzi - c’è per Cottarelli forse, ma non per il governo. L'idea che chi guadagna 2900-3000 euro di pensione sia chiamato a versare un contributo va esclusa». Fissato un paletto sulle «pensioni d’oro» resta aperta la questione degli 80 euro netti in busta paga garantiti ai lavoratori che ne guadagno fino a 1500 e non previsti per i pensionati. L’esclusione non piace per niente ai sindacati, batte cassa la leader della Cgil Susanna Camusso: «Per favorire la ripresa il governo deve guardare ai tanti pensionati che hanno pensioni basse. Anche a loro è dovuta una restituzione fiscale». Stessa linea per Cisl e Uil e per i pensionati dei lavoratori autonomi Cupla che ricordano come la «stragrande maggioranza degli assegni stia sotto a mille euro». Le categorie, Spi-Cgil Fnp-Cisl e Uilp-Uil, sono sul piede di guerra. «È evidente siamo considerati cittadini di serie B - commentano - Non staremo né fermi né zitti. È inaccettabile che per i pensionati non vi siano sgravi fiscali, è inaccettabile che si pensi di agire solo sulle pensioni per fiscalizzare gli oneri a carico dei nuovi assunti ». Carla Cantone segretario generale della Spi ricorda a Renzi che: «Negli ultimi quindici anni le pensioni hanno perso il 30 per cento del potere d’acquisto. Spesso rappresentano il vero ammortizzatore sociale della famiglia: ma gli anziani non ce la fanno più, negli ultimi due anni le vendite in nuda proprietà sono aumentate del 23 per cento».
il Fatto 14.3.14
Minoranza Pd, “tutto bene” ma la legge elettorale...
Spiazzati dalle mosse “di sinistra” del primo Ministro, l’opposizione interna si compatta sulle quote rosa: 105 deputati firmano per inserirle
di Wanda Marra
I mille euro annui per chi guadagna fino a 1500 euro mensili, e l’innalzamento del rapporto tra deficit e Pil, come l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, sono segnali che vanno nella giusta direzione. E l’allentamento dei vincoli europei faceva parte anche della nostra campagna congressuale”. Gianni Cuperlo sta per andare a votare. Usa il tono piano ed educato che gli è proprio per esprimere quello che la minoranza dem sta dicendo dall’altroieri, dopo la conferenza stampa pirotecnica di Renzi: il segretario-premier ha promesso cose di sinistra, ha indicato una direzione di marcia condivisibile.
DI PIÙ, HA FATTO sue alcune delle bandiere dei suoi più fieri oppositori. A cominciare da quella di Stefano Fassina sull’allentamento del deficit, che infatti a conferenza stampa appena finita si è trovato improvvisamente a dichiarare in favore di Renzi. Idem per la Camusso, che era pronta a sparare veleno e si è trovata a spargere miele. Un effetto di spiazzamento non senza un certo rammarico. “Noi siamo d’accordo con quello che ha detto Renzi. E non posso pensare che il mio segretario non abbia le coperture” , per dirla con il super bersaniano Davide Zoggia. “Sì, ci sono delle cose che vanno viste meglio. Per esempio, bisogna stare attenti a non toccare troppo le pensioni. E poi bisognerà valutare meglio le misure sul lavoro. Però, va bene”, dice anche Guglielmo Epifani. È evidente dai toni prudenti e dalle espressioni sobrie che lo aspettano tutti al varco. Ma anche che - di fronte a misure largamente popolari, e con le elezioni europee alle porte - non è proprio il caso di attaccare.
SE È PER MASSIMO D'Alema, poi, dopo l’ingresso del Pd nel Pse si è tornati a un’asse privilegiato: sarà proprio il presidente del Consiglio a presentare l'ultimo libro sull'Europa del Lìder Maximo il prossimo martedì.“ Con Renzi condividiamo la necessità di una svolta politica profonda dell’Europa che non continui a essere così lontana dai cittadini ma sia l’espressione democratica della volontà dei cittadini”, diceva ieri lui. Lui, Matteo, peraltro la questione l'ha presa sul serio. Uno degli attuali cavalli di battaglia è diventata proprio l’Europa “dei cittadini e non dei vincoli”. Conoscendolo, è pronto a mettersi alla guida della rivoluzione europea. Da parte dei lettiani, quelli meno vendicativi, poi, è tutto un rammarico: “Erano le cose che volevamo fare noi e non abbiamo fatto”, un ritornello ricorrente. Chi non è spiazzato per niente è il Giovane Turco, Matteo Orfini, che da quando Renzi ha cominciato a parlare di jobs act ha scelto un'altra linea: meglio parlare, dialogare, collaborare, caso mai provare ad influenzare che fare la guerra. E il fatto che quello sul lavoro non sia un decreto, ma una legge delega parlamentare è anche il frutto di un lavoro di mediazione. Non a caso Renzi Orfini lo vorrebbe mettere in segreteria del Pd. Ma quella è un’altra partita, tutta aperta.
Come, al di là di proclami e battimani, sono aperti tutta una serie di fronti: primo tra tutti, la legge elettorale. Cuperlo - mentre approvava #lasvoltabuona - firmava anche un documento con altri 105 parlamentari, per dire che in Senato nella legge vanno inserite le quote rosa. Senza se e senza ma. Come dire, una mano si tende a stringere quella dell’altro, un’altra si usa per preparare lo schiaffo. Lo stesso Cuperlo ieri ha visto pure Bersani. Mentre a Montecitorio - ufficialmente per il convegno sull’Europa con Renzi, Prodi e Napolitano - sono arrivate anche Anna Finocchiaro e Doris Lo Moro. Entrambe hanno in mano la partita dell’Italicum a Palazzo Madama. Entrambe hanno dichiarato battaglia. E con l’occasione ieri hanno confabulato con le colleghe deputate deluse e amareggiate da com’è andata a finire la questione della parità di genere. L’Italicum in Senato è tutta una scommessa. Come pure la riforma della stessa Camera alta. Ma agli oppositori e ai “gufi” variamente individuabili, Renzi fa sempre balenare un problema: se non si fa come dice lui, è pronto a far saltare se stesso. Ma anche - e soprattutto - tutti gli altri.
Repubblica 14.3.14
La minoranza pd ora tifa per Renzi “Ha fegato, Letta doveva fare così”
I rimpianti di Bersani e Epifani . E Vendola: si allevia il dolore sociale
di Carmelo Lopapa
ROMA - Un po’ si lasciano sopraffare dal rimpianto. Un po’ ammettono - a denti stretti e tra loro - che la performance è stata da cavallo di razza. È la sinistra del Pd, alle prese col “pacchetto Renzi” che nel day after pare piombato come un meteorite addosso a quello spicchio di emiciclo, in alto a sinistra. Fossero i soli. Ora anche Nichi Vendola plaude, Angelino Alfano rivendica tutta quella roba come sua e litiga con Forza Italia. Silvio Berlusconi, pur di non complimentarsi col premier, si è chiuso a Palazzo Grazioli tappandosi la bocca.
Guglielmo Epifani quasi sprofonda in un divanetto di Montecitorio, ancora negli occhi lo show del premier. Davide Zoggia, in piedi, lo ascolta. «Per me - ammette l’ex leader della Cgil - lui è abile. Anche troppo abile, per i miei gusti. Diciamo che ha lanciato l’amo». Attendista, Epifani. Ma pian piano si fa spazio anche l’ammirazione: «Quello che ha fatto lui sulle rendite dovevamo farlo noi». E Zoggia: «Beh, sì, ammettiamolo, sulle rendite dovevamo farlo noi vent’anni fa». Arriva Giorgio Santini, senatore pd, un passato in Cisl. Allarga le braccia: «Ragazzi, diciamolo: finalmente un premier di sinistra». Ma c’è poca voglia di ridere. Ed Epifani, con una battuta: «Già, un premier di sinistra con un governo di centrodestra...». Poi, più serio. «No, davvero, ieri mi domandavo: quello che ha fatto lui doveva farlo Letta. Concentrare i soldi su una o due cose, invece di disperderli in rivoli. Ancora non ho capito perché non l’abbia fatto». La domanda retorica cade nel vuoto. Epifani si spinge oltre. «Comunque sì, bisogna dirlo: Renzi ha fegato. Lui davvero pensa che avendole dette, queste cose non si possono non fare». E Santini: «Bisogna che riesca, per tutti». «È evidente», replica Epifani. In un mix di scetticismo e speranza, da ultima spiaggia. A un certo punto della mattinata a Montecitorio compare Pierluigi Bersani, che poi non parteciperà ma solo per ragioni personali al voto di fiducia al governo. In uno dei corridoi si ferma a colloquio con Maurizio Migliavacca, pensieri attraversati quasi da incredulità: «Dove cavolo li ha trovati questi soldi?» E poi, rivolgendosi all’ex sottosegretario pd Stefano Fassina: «E voi, Stefano, non li potevate trovare voi questi soldi?» Fassina tace. Del resto è la giornata in cui anche Gianni Cuperlo, leader della minoranza, pare deporre la baionetta. «Ci sono molte cose di sinistra tra quelle annunciate da Renzi. La cosa principale è che il governo ha messo in pista provvedimenti che redistribuiscono risorse». Così, a fine giornata solo la sortita di Massimo D’Alema esce dal coro. «Il Pd rischia di deperire con Renzi premier e segretario, la leadership si è trasferita a Palazzo Chigi: io credo nei partiti forti» afferma l’ex premier a Rainews 24, che però conclude: «Oggi noi abbiamo il dovere di sostenere lui, il suo governo e il suo sforzo di imprimere una svolta al Paese». E alla fine anche Nichi Vendola, pur premettendo che ci vorrebbe di più per chi un lavoro non ce l’ha, è pronto ad ammettere che «ottanta euro nella busta paga di chi è più debole sono una buona notizia, soprattutto se dopo gli annunci seguiranno fatti».
Dentro il governo, Angelino Alfano veste i panni del paladino anti-tasse e rivendica. «C’è tanto di Ncd nei provvedimenti che il governo ha adottato, tagli per 10 miliardi alle tasse riducendo la spesa: è la nostra ricetta, la ricetta del centrodestra». E attacca Berlusconi: «Forza Italia si schiera ufficialmente contro la riduzione delle tasse, è una notizia. Ci spiace ». Beccandosi gli affondi degli ex amici. Il consigliere berlusconiano Giovanni Toti: «Non siamo noi le sentinelle anti-tasse che si sono addormentate nel turno di guardia». Giancarlo Galan, sferzante: «Il carnevale è finito 10 giorni fa, qualcuno informi Alfano per favore».
l’Unità 14.3.14
Ora per il leader e per tutto il Pd si apre un tempo nuovo
di Claudio Sardo
LA MANOVRA ECONOMICA ANNUNCIATA DA RENZI SEGNA IL VERO INIZIO del suo governo. E speriamo che possa aprire per l’Italia una stagione di rilancio e di equità dopo le fatiche di Letta (sul cui lavoro poggia comunque ogni ipotesi espansiva di oggi). Le diapositive proiettate l’altra sera a Palazzo Chigi non svelano ancora i dettagli e le esatte coperture degli sconti fiscali promessi ai lavoratori con i redditi più bassi. Tuttavia, il cuore è stato lanciato oltre l’ostacolo. Davanti ai cittadini italiani, all’Europa, ai mercati, il presidente del Consiglio ha messo la faccia su un programma coraggioso, che non viola gli accordi europei ma li forza fino al limite. Il rischio, o forse addirittura l’azzardo, è evidente per un Paese indebitato come il nostro e di fronte a perduranti incognite finanziarie su scala mondiale. Ma attendismo e prudenza possono essere oggi rischi persino maggiori, visti gli squilibri sociali, la caduta della domanda interna, l’affanno delle imprese.
Al di là delle critiche estetiche al premier- venditore, il piano di Renzi ha il carattere di una sfida nazionale. Che punta a riattivare il motore stesso della fiducia popolare. Non solo per Renzi ma per l’intero Pd si apre un tempo nuovo. I numeri in Parlamento restano problematici, tuttavia la sfida è così impegnativa da mettere in gioco l’identità stessa del Pd e la sua ambizione di «partito della nazione ». Il congresso è finito per sempre. Ed è finito anche il post-congresso. Le smanie di rivincita, il fastidio per le opinioni diverse, insomma tutto ciò porta a guardare dentro o dietro produce soltanto autolesionismo. Se Renzi avesse dato un’altra impronta al suo «atto primo», se questo non avesse un segno sociale così forte e «di sinistra», forse si potrebbe discutere ancora. Ma la riuscita di questo piano è ora la frontiera della sinistra. Può essere la sinistra, nel punto più critico di questa crisi drammatica, il motore di una ricostruzione e di uno sviluppo nuovo?
Renzi deve tenere alta la concentrazione e il ritmo del governo. Se non dovesse farcela, nessuno si illuda che al Pd verrà concessa un’altra possibilità a breve. Ma anche Renzi deve capire che il governo da solo non basta. Non può farcela da solo, senza partiti, senza corpi intermedi, senza rappresentanze di interessi e di valori. Chi pensa questo non ha i piedi a terra. Anzi, ha un’idea distorta del potere e pensa di colmare i vuoti della politica con la demagogia o con la pedagogia (ricordate il fallimento del «riformismo dall’alto»?). La nuova fase chiede a tutti nel Pd un salto di qualità. Lo chiede al segretario-premier, ai suoi sostenitori della prima e della seconda ora, agli antagonisti delle primarie. Indebolire il premier non porta vantaggi a nessuno. Ma al tempo stesso Renzi non può pensare che qualunque apporto autonomo, qualunque critica, qualunque miglioramento alla brutta legge elettorale votata dalla Camera, siano atti di sabotaggio. Un governo forte è compatibile con un Parlamento dotato di autonomia e interprete della Costituzione. E può essere aiutato da un partito vivo, non ridotto a platea plaudente. Anche perché ci vorrà molta forza per tenere sui binari questo programma economico e sociale. Ci vorrà forza per sostenere in Europa che la manovra a favore dei lavoratori va finanziata con un maggior deficit. Ci vorrà forza per evitare che nel 2015 la copertura dei 10 miliardi intacchi la spesa sociale. Serve un partito radicato. E autonomo rispetto a quei poteri esterni ea quel pensiero unico che vogliono catturare presto o tardi tutti i nuovi attori. Il Pd deve essere un appiglio, un propulsore del governo innovatore.
Deve essere uno strumento di difesa. Non è un caso che Renzi abbia deciso con i suoi ministri una manovra così coraggiosa e controcorrente, mentre invece con Berlusconi abbia concordato una legge elettorale sgangherata e di dubbia costituzionalità. Se il Pd e il Senato cambieranno nei punti cruciali la legge elettorale non saranno «disfattisti» ma daranno una mano importante all’impresa di Renzi. Disfattisti sono semmai coloro che consigliano il premier di tenersi stretto l’asse preferenziale con Berlusconi sulle riforme, benché questo porti a un Porcellum-bis. In Parlamento peraltro stanno maturando novità importanti. Sulla rottura istituzionale di Berlusconi la destra si è spaccata (e il Pd non ha interesse a ricomporla sotto l’egida del Cavaliere).Una parte dei grillini ha rotto con il dispotismo di Grillo&Casaleggio e aperto un dialogo con Sel. Il Pd deve aiutare Renzi a guadagnare una centralità nella transizione. Tenere Berlusconi al tavolo delle riforme è importante. Ma a Berlusconi non si può concedere un potere di veto sulla legge elettorale. Questo trasformerebbe il governo stesso in una sorta di condominio Renzi-Berlusconi. E oggi, dopo il varo di questa manovra economica, sarebbe un contorcimento inspiegabile. Il telaio della riforma elettorale va forzato nei punti che possono finalmente consentire una svolta di sistema, cioè la fuoriuscita dal Parlamento dei nominati e dal bipolarismo coatto. Il Pd è «partito della nazione» se aiuta Renzi a sviluppare la sua forza innovativa oltre i limiti che lui stesso si pone.
l’Unità 14.3.14
D’Alema: Pd rischia di deperire con Renzi segretario e premier
Il presidente della Feps: «Si possono avere opinioni diverse ma non significa che non si possa lavorare insieme per obiettivi condivisi»
di Caterina Lupi
Non ha cambiato opinione, Massimo D’Alema, continua a pensare che Matteo Renzi sia adatto per stare a Palazzo Chigi ma non per guidare il Pd. Anzi, per il suo voler essere entrambe le cose, il partito rischia di «deperire», secondo l’ex premier. In un’intervista a RaiNews24, D’Alema racconta: «Dissi che Renzi poteva essere un buon candidato per guidare il governo, ma che certamente non sarebbe stato una buona soluzione per guidare il partito. Con il doppio incarico rivestito dal premier, è il parere del presidente della Fondazione ItalianiEuropei, il Partito democratico corre il rischio «di deperire, perché sostanzialmente sta perdendo di peso, di significato, dato che la leadership si è spostata a palazzo Chigi e non ne esiste nessuna nel partito. Perciò resto di un’opinione diversa rispetto a quella di Renzi», precisa, lui che crede «nella necessità di partiti forti». Il rapporto con Renzi è stato controverso fin da quando l’allora sindaco di Firenze l’aveva messo in prima fila tra i dirigenti da «rottamare», anche se non ne parla più. Ora D’Alema non è neppure parlamentare, ma, da uomo di partito, assicura che darà una mano: «Sono abituato a collaborare alla vita democratica. Il congresso si è concluso e ognuno di noi ha il dovere di collaborare all’unità del partito e per il suo successo. D’altro canto quando Renzi perse le primarie ricordo che si impegnò nella campagna elettorale a sostegno di Bersani. Quindi oggi noi abbiamo il dovere di sostenere lui, il suo governo e il suo sforzo di imprimere una svolta al Paese».
Anzi, D’Alema è insolitamente dialogante con il premier, lo ringrazia per aver deciso di partecipare alla presentazione del suo ultimo libro, Non solo euro, martedì prossimo a Roma. «Ha letto le bozze emi ha detto di conviderlo» e sembra sincero, osserva, «Renzi mi ha detto di volere avere un’occasione per parlare in pubblico dell’Europa » in un dialogo (ardito) col presidente della Feps (il centro studi dei progressisti europei). «Ringrazio Renzi. È un segnale che si possono avere opinioni diverse ma non significa che non si possa lavorare insieme per obiettivi condivisi», ha aggiunto.
Come «la necessità di una svolta politica profonda, di una Europa che non continui ad essere così lontana dai cittadini e dominata da una tecnocrazia non trasparente», spiega D’Alema avvertendo: alle europee presentarsi «come il fronte dell’europeismo tradizionale » con Barroso, «sarebbe perdente ». Piuttosto «vogliamo rappresentare un’alternativa alle politiche di austerità e a un’Europa che ha assunto la stabilità monetaria come unico obiettivo e non quelli del lavoro, dell’occupazione e della crescita». Ma, secondo D’Alema, la migliore risposta agli euroscettici «è che torni ad esserci un confronto tra destra e sinistra». Sul fronte delle rigide regole europee, non si tratta di violarle, ma di «cambiarle», con il peso di «una coalizione di forze in grado di imporre il cambiamento». E sul 3%, un obiettivo da ottenere a Bruxelles è che «gli investimenti non vengano considerati spesa pubblica».
Certo sull’efficacia delle misure annunciate da Renzi mercoledì l’ex presidente del Copasir è cauto: «È stato un Consiglio dei ministri programmatico, una novità introdotta da Renzi» piuttosto che varare decreti e ddl, ma «vedremo concretamente i testi, gli articolati e il Parlamento li giudicherà». E vediamo se riesce a concretizzarli. Per esempio si può ridurre la spesa pubblica, ma tagliare gli investimenti «è una follia». D’Alema, non a caso, augura a Renzi «di raggiungere lo stesso risultato che raggiungemmo noi con i governi dell' Ulivo quando portammo al 46% del Pil la spesa pubblica, oggi è al 53% lo è diventata coi governi Berlusconi».
il Fatto 14.3.14
D’Alema: “Grazie a Matteo perché presenta il mio libro”
“RINGRAZIO Renzi perché ha voluto presentare il mio nuovo libro sull’Europa, è un segnale che in un partito si possono avere opinioni diverse ma non significa che non si possa lavorare insieme per obiettivi condivisi”. Così ieri Massimo D’Alema, a Rainews24 . “Gli ho fatto vedere le bozze e mi ha detto che lo condivide, è stato lui a dirmi che vuole avere una occasione di dialogo pubblico sull’Europa e lo faremo martedì prossimo”. “Con Renzi condividiamo la necessità - ha continuato D’Alema - di una svolta politica profonda dell’Europa che non continui a essere così lontana dai cittadini ma sia l’espressione democratica della volontà dei cittadini: “Le società più diseguali sono anche le più infelici e c'è bisogno di una forza che promuova più uguaglianza tra i cittadini: l’uomo è più importante delle cose e la sinistra è più che mai necessaria”.
La Stampa 14.3.14
Il premier e l’eutanasia dell’avversario
Renzi e la strategia che rende gli altri superflui
Dai partiti ai sindacati agli industriali: dopo il muro contro muro alla fine si allineano
di Mattia Feltri
Uno degli aspetti notevoli della vicenda è che il leader della Cgil, Susanna Camusso, si mostrava donna di buona volontà. Con Matteo Renzi, diceva, il dialogo è possibile. Bisogna confrontarsi.
Bisogna vedere le proposte. Una procedura conosciuta sotto il nome di concertazione, soltanto che il presidente del Consiglio non aveva intenzione di concertare alcunché. Nessun incontro a favore di telecamere, niente strette di mano e nemmeno dichiarazioni congiunte di impegno condiviso eccetera. «Renzi deve sapere che se le risposte ai lavoratori non arrivano o se si tolgono risorse ci sarà un problema di risposta al mondo del lavoro». La dichiarazione non agilissima ma senz’altro belligerante era arrivata dalla Camusso lunedì e già mercoledì, dopo l’eccentrica conferenza stampa di Palazzo Chigi, la medesima Camusso si scappellava: «Sembra il nostro programma». Un programma elaborato dal premier intanto che su twitter avvisava di non essersi mai iscritto alla Cgil: «E’ un rischio che non corro, né io né loro». Alla sfrontatezza un po’ grossier di Renzi, la Camusso ha risposto ieri con controllata soddisfazione: «Sembra il nostro programma». E farebbe bene a preoccuparsene: vista l’aria, si faticherebbe a credere a un Renzi che si ispiri alla Cgil; piuttosto si penserebbe che il più grande e prestigioso sindacato d’Italia stia esaurendo l’energia, se le cose vanamente predicate per anni le fa un capo di governo sotto i quaranta (sempre che le faccia).
A due settimane e mezzo dall’insediamento, l’impressione consolidata è che Renzi persegua l’eutanasia dell’avversario. Vuole abolire tutto ciò che non gli appartiene o non gli è utile, e lo fa brutalmente o con tattica melliflua. Confindustria per esempio non ha rimediato successi più corposi di quelli conseguiti dalla Cgil. Renzi aveva definito «penultimatum» quelli di Giorgio Squinzi sulla riduzione dell’Irap, e se proseguissero «ce ne faremo una ragione». Probabilmente nessun predecessore di Squinzi aveva dovuto sopportare un simile aprioristico disprezzo, e poi incassare una riduzione dell’Irap più marginale di quella dell’Irpef. E intanto, illustrando il suo piano, Renzi spiegava di aver ricevuto l’incoraggiamento di «molti imprenditori», senza pronunciare nomi, tantomeno quello di Squinzi. Questa è la cura che il premier riserva alle parti sociali e quanto a quella riservata alle opposizioni interne del suo partito si sa: Stefano Fassina, fatto fuori con un pronome di tre lettere (chi), mercoledì si è complimentato col capo per la «direzione giusta» e ieri lo ha addirittura esortato a tirare dritto davanti «alle odierne valutazioni della Bce e alle ricorrenti e fallimentari raccomandazioni della Commissioni europea». E pure Gianni Cuperlo si è ritrovato all’angolo e ha pensato di intestarsi la linea del governo. «Ci sono molte cose di sinistra», ha detto elogiando la «rotta giusta». Proprio come la Camusso spera di sottolineare il buon calibro della minoranza, quando forse, invece, risalta il passo di un leader con l’ambizione di interpretare meglio degli altri ogni ruolo, governo e opposizione, maggioranza e minoranza, sinistra e destra (formidabile: ieri sia F.lli d’Italia sia il Nuovo centrodestra hanno rintracciato nei propositi del governo tracce profonde del loro passaggio).
A che serve il sindacato? A che servono i dissidenti se la loro linea diventa ufficiale sulle questioni più cicciose? A che serve il Parlamento se il secondo maggior partito di opposizione, Forza Italia, ha stretto un patto sulle riforme istituzionali e sulla legge elettorale? A che serve se c’è una parte di destra (Ncd) che con Renzi governa, una parte di destra (Forza Italia) che con Renzi riforma, una parte di destra (F.lli d’Italia) che con Renzi non fa nulla ma ci trova qualche familiarità? Alla fine rimane la pattuglia di Sinistra ecologia e libertà, strutturata giusto per la guerriglia, e l’esercito del Movimento cinque stelle impegnato però a discutere di macroregioni, a espellere i dubbiosi e a rifiutare qualsiasi contaminazione, che poi vorrebbe dire condizionamento. Tutto sembra stare in pugno in Renzi. Si prende quel che serve e butta quel che non serve. Reinterpreta il rito sacerdotale della conferenza stampa, lo trasforma in un messaggio alla nazione e, se i giornalisti trasecolano per mancanza di fogli excel, lui si sconcerta giusto un pochino; poi alza lo sguardo e proclama ai «cari italiani» ciò che davvero conta. Si fa l’informazione da sé. E il cronista di sé medesimo come di sé medesimo è controparte e oppositore. Se dura, un fenomeno da studiare.
Corriere 14.3.14
Rimborsi, archiviazione per Civati e altri 32 ex consiglieri regionali
Il giudice per le indagini preliminari ha accolto la richiesta di chiudere l’indagine aperta a carico dei politici accusati di spese allegre
di Redazione Milano online
qui
il Fatto 14.3.14
L’intervista Aldo Masullo, filosofo
“La sinistra non pensa, twitta E per questo non vince più”
di Antonello Caporale
Perché la sinistra arriva sempre divisa agli appuntamenti importanti e la destra riesce sempre a mimetizzare le differenze? Perché a quelli di sinistra non piace quasi mai vincere e a quelli di destra invece quasi sempre? E perché due persone di sinistra non riescono a tacere ciò che le separa e invece due di destra coprono ogni diversità oltre la ragionevole soglia della logica? Sono frequently asked questions. Domande ricorrenti e ormai banalizzate. Con le divisioni ultime della lista Tsipras, proprio mentre la campagna elettorale per le europee sta per avere inizio, l’antico dilemma si fa questione urgente da affrontare.
Aldo Masullo, studioso della fenomenologia dell’uomo, filosofo con intensi trascorsi in
politica, cultore del pensiero progressista, è saggio e ha l’età (novant’anni) per agevolare una prospettiva, illustrare una possibilità e forse un rimedio.
La destra non ha alcuna ansia di cambiare l’esistente. Essa è anzi chiamata a conservare, mantenere integri i rapporti sociali come sono. Il suo impegno incide nel dettaglio e non nella prospettiva.
La destra dunque non ha l’onere di elaborare il nuovo.
Non gli frega nulla del nuovo, non ci pensa, non è suo affare. Conservazione. La parola stabilisce i criteri dei confini. Si sposta poco, e quel poco diventa il necessario. Sul necessario si trova sempre il più vasto accordo.
Siamo noi di sinistra ad avere ambizioni smodate, come Renzi.
Renzi e la sinistra abitano in due edifici separati. Lasciamolo stare e badiamo a noi. Vogliamo cambiare le cose, trasformare la società. Teorizziamo quindi ipotesi di sovvertimento dei rapporti di forza. Vogliamo trasformare il mondo, e invece sembriamo custodi dell’immobilismo. Per trasformare devi immaginare, parlare, dire cose. Per dire devi pensare. La sinistra non sa cosa dire perché ciò che deve dire è ancora tutta da inventare.
La sinistra non pensa più.
Il pensiero non è una macchina e internet ci ha suggerito modalità veloci di espressione e apprendimento. Siamo abituati a rispondere con un sì o un no.
Il dramma del pensiero veloce.
Ci frega l’assenza di confronto. Esistevano i seminari. Erano un modo per azzerare ogni gerarchia e avanzare le opinioni in un confronto orizzontale. Vede lei occasioni di questo tipo?
Alla Leopolda c’erano dei tavoli circolari.
Scempiaggini, quella era scena pura, teatro, finzione. Il pensiero nasce dalla riflessione e dal confronto. Non riflettiamo più né ci confrontiamo più.
Siamo impegnati su twitter.
Ecco, bravo. L’origine veloce delle idee, anzi la filosofia del monosillabo. Ti piace questo? Sì mi piace. No, non mi piace.
Siamo senza un pensiero ma litighiamo uguale.
Litighiamo sempre noi di sinistra perché in assenza di un obiettivo comune elaboriamo differenze quotidiane su ogni singolo dettaglio. Perciò non arriviamo mai uniti al traguardo.
Quando c’è odore di elezioni la destra si ricompatta, nasconde ogni rancore, annienta ogni cattiveria.
Per quelli là il gioco è più facile. Le posso dire che quando vivevamo identificando l’obiettivo comune con un dogma, parlo del Pci, qualcosa di virtuoso nel vizio esisteva. C’era il dogma. Chi obbediva era dentro, chi lo rifiutava era fuori. Almeno esisteva il dogma .
Io e lei andremo divisi alle urne.
Io non so ancora chi votare, ecco il punto del non ritorno. Prima si discuteva della ragione di dare la preferenza a quella forza politica. Oggi è il baratro: avanziamo come zombie. Nebbia assoluta. Sempre meno persone sanno come fare, cosa fare.
Il pensiero veloce frantuma le identità. Internet annienta le classi sociali.
Frantuma ogni concezione comunitaria, distrugge la coesione, gli obiettivi comuni, la stessa idea che esiste un medesimo orizzonte. C’era la classe operaia che riteneva, per poter migliorare la sua condizione, di affidarsi a una forza politica. Chiedeva di essere rappresentata, produceva istanze.
Oggi non è così.
Oggi riteniamo che tutto si possa fare con una macchina elettronica. Ma con la tastiera di un intelligentissimo computer che interagisce, connette mondi, costumi, geografie, non riesci a elaborare un pensiero. Pensare non è come calcolare.
Noi di sinistra siamo destinati alla sconfitta. Ci divideremo sempre.
Se non inventiamo orizzonti possibili. Se non pensiamo a cosa fare, a quali trasformazioni dare gambe e forza, siamo destinati a dividerci.
Dobbiamo tenerci Renzi.
Renzi, appunto.
Lei a maggio voterà la lista Tsipras?
Mi sembra un movimento piuttosto improvvisato. Detto ciò, sa che davvero non so cosa fare?
il Fatto 14.3.14
Il terreno scivoloso delle “quote rosa”
di Bruno Tinti
QUOTE ROSA. Vergognati, si deve dire quote di genere. Si, va bene, ma mi sembra... Porcomaschiosciovinista, lo sai che fino al 1946 le donne non potevano votare? Sì, lo so ma... E lo sai che fino al 1963 le donne non potevano fare il magistrato? Lo so sì, ma... Sei come tutti gli altri. Stai attento a quello che dici... Occhi lampeggianti. Sono scappato. Però...
1946, 1963. Adesso tutte le donne votano. E, adesso, in magistratura ci sono più donne che uomini. Le cose sono cambiate. E, se mi guardo intorno, vedo che gli squilibri non dipendono dal sesso ma dalla povertà, dalla mancanza di istruzione e dalla corruzione. È disuguaglianza di persone, non di uomini e donne.
Se ti guardi intorno... Lei mi direbbe: ma che rilevanza ha questo tuo guardarti intorno? È forse uno strumento di valutazione dello squilibrio sociale tra uomini e donne? Naturalmente no, risponderei, è solo una sensazione fondata sulla mia limitata esperienza. Esattamente come la tua e come quella delle persone che combattono la stessa crociata. E come quella delle altre persone che considerano le quote di genere indebiti privilegi.
Perché qui sta il punto: esiste davvero una situazione di disuguaglianza che deve essere sanata? Se ci fosse, non ci sono dubbi: artt. 3 e 51 della Costituzione, “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso... È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli... che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”; e “Tutti i cittadini dell’uno o dell’a l t ro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza... A tale fine la Repubblica promuove… le pari opportunità tra donne e uomini”. Ma “rimuovere gli ostacoli” e “promuovere le pari opportunità” non può consistere nel garantire ad alcuni cittadini situazioni di privilegio rispetto ad altri. Il privilegio è, per sua natura, disuguaglianza. E può giustificarsi solo quando serve a rimuovere una disuguaglianza originaria e ingiustificata. Parcheggiare l’automobile è diritto di tutti; ma i posti sono pochi e molti non ci riescono. La legge però garantisce un posto a una categoria di persone che hanno più difficoltà di altre a parcheggiare lontano dalla loro abitazione: i portatori di handicap. Solo che l’handicap è scientificamente accertato e documentalmente provato; e, quando lo si allega falsamente, si commette un reato.
COME ACCERTIAMO concretamente la presunta disuguaglianza tra uomini e donne? Come giustifichiamo il privilegio concesso alle donne, in violazione proprio di quell’art. 3 che si assume violato? Sensazioni, percezioni, atti di fede non sono una buona ragione per creare una situazione di disuguaglianza; perché questo sono le quote di genere, un vantaggio senza merito. E poi: se il privilegio sessuale garantisse uno spazio riservato, indipendente dal merito; quanto dovrebbero durare queste quote rosa? Quando si riconoscerebbe che la disuguaglianza di genere non esiste più? Con che mezzo lo si riconoscerebbe? Nuovo atto di fede? Dai tempi di Goffredo di Buglione le crociate sono state una pessima idea: alla fine hanno sempre vinto i cattivi.
Corriere 14.3.14
Gotor: le assemblee non si suicidano
Faremo una battaglia e poi ci conteremo
intervista di Monica Guerzoni
ROMA — «Non sarà semplicissimo far passare la riforma del Senato, ma dobbiamo farcela assolutamente».
State già issando le barricate per fermare Matteo Renzi?
«Nel ‘900 sono rarissimi i casi di assemblee parlamentari che si sono suicidate».
Lo dice da storico o da parlamentare della sinistra pd, senatore Miguel Gotor?
«La legge elettorale condiziona la qualità della democrazia e i suoi cambiamenti materiali. Con il disegno di legge del governo si va verso un presidenzialismo di fatto, senza contrappesi».
Lei la vota, la riforma?
«Un senatore non legherà mai il suo nome a un possibile disastro istituzionale».
Se non passa, Renzi lascerà la politica.
«Il premier è furbissimo e ha stretto con Berlusconi un patto molto forte, ma ho paura che finisca uccellato come D’Alema».
Il Pd non lavora per impedirlo?
«Bisogna modificare prima il Senato e solo dopo approvare l’Italicum. Se Berlusconi rompe il patto e la riforma non si fa, restiamo con una legge elettorale inapplicabile».
Ma il Senato volete cambiarlo, o no?
«Sì. Il problema è che Berlusconi non vuole e dobbiamo stanarlo. Qual è il vero punto dell’accordo tra lui e Renzi?».
Sospetta un patto per andare al voto?
«Sarebbe da indagare quali sono gli effettivi contenuti di questo patto, sull’altare del quale si è già ceduto troppo. La legge elettorale approvata dalla Camera rischia di farci perdere».
Berlusconi non vuol toccare le soglie.
«Le soglie non piacciono a Ncd, M5S e popolari Per l’Italia. È un sistema che legittima le liste civetta, come “Forza Roma”, ”Viva Renzi” o “Berlusconi ti voglio bene”. Non potremo garantire la governabilità che promettiamo».
Il voto segreto sarebbe un bell’aiutino, ma al Senato non c’è...
«Il voto palese rende tutto più limpido. Daremo il massimo per migliorare i difetti, faremo una battaglia a viso aperto e poi ci conteremo. Meglio prevenire, che curare le ferite».
E le liste bloccate?
«In nove anni di Porcellum non c’è stato comizio in cui il Pd non abbia promesso “mai più”. Il segretario del mio partito è anche il mio padrone, come nel partito azienda di Berlusconi... Ma la cosa più miope è che il paracadutato si sente irresponsabile e il cittadino, che non ti ha votato, ti sputa in faccia. Una cosa gravissima, che va corretta».
Renzi pensa che sia gravissimo sabotare la legge.
«Mi dispiacerebbe se la nostra battaglia venisse letta come una lotta di minoranza, bersaniani contro renziani».
Come dobbiamo leggerla?
«La mia paura è che la riforma del Senato non si fa e che Berlusconi, leone ferito, ci porta a votare con una legge che ci fa perdere. Se accade, in un anno e mezzo ti sei giocato Bersani, Letta e Renzi».
Corriere 14.3.14
Italicum, la fronda dei 21 senatori pd
Il documento lanciato dal lettiano Russo: prima la riforma di Palazzo Madama
Ma Forza Italia avverte: se la legge elettorale slitta, il patto con Renzi è a rischio
di M.Gu.
ROMA — La porta di Palazzo Madama è strettissima e Renzi lo sa. Per questo ha alzato l’asticella, fino a legare il suo futuro alla riforma del Senato: «O passa, o lascio». Gli inquilini di Palazzo Madama non l’hanno presa benissimo e lo aspettano al varco. Il disegno di legge che chiude l’era del bicameralismo non piace a larga parte del Pd, dove gli avversari preparano la battaglia sul calendario e sulla legge elettorale. Il voto segreto non c’è, eppure a Palazzo Chigi già si studiano le contromosse per fiutare inghippi, disinnescare trappole e spezzare assi trasversali su parità di genere, soglie di sbarramento e liste bloccate.
La prima sfida è quella della tempistica: votare subito l’Italicum o dare la precedenza alla riforma del Senato? Un largo fronte di senatori «dem», che include la presidente Anna Finocchiaro, spinge per aprire le danze con la revisione del bicameralismo. Rischia di allargarsi la fronda di 21 senatori di tutte le aree del Pd, renziani di stretta osservanza esclusi, che chiedono — con un documento trasversale promosso dal lettiano Francesco Russo — di vincolare l’Italicum alla riforma del Senato, così da non lasciare la partita in mano al Cavaliere. Bocciano la tentazione di ricorrere a una doppia maggioranza, rilanciano il conflitto di interessi. I firmatari assicurano «impegno e lealtà assoluta al governo», ma piantano con forza i loro paletti su Titolo V e «storture del Porcellum» da superare.
Anche Ncd vuole votare prima il Senato e poi l’Italicum, a costo di sfidare la ferma ostilità di Forza Italia. «Se slitta la legge elettorale si allenta il patto tra Renzi e Berlusconi — avverte Maurizio Gasparri —. Qui al Senato il premier lo vedo un po’ in difficoltà... Nel Pd c’è un congresso permanente, che innesca continue faide. Renzi metta ordine in casa sua, perché è lì che ha i problemi più grandi». Tensione alta. La minoranza del Pd vuole stanare Berlusconi e scacciar via il fantasma del voto anticipato. I senatori di Forza Italia invece, che si vedono vicini alla meta, temono che salti tutto.
La parità di genere dovrebbe passare. Su soglie, premio e primarie obbligatorie per legge tutto può invece succedere. «Il vero vulnus è l’impossibilità di scegliere i parlamentari» attacca Russo, che chiama la legge «Verdinellum» dal nome del luogotenente berlusconiano Denis Verdini. «Ma niente imboscate...», promette il senatore lettiano. E Pier Luigi Bersani, gran regista della minoranza, ha dovuto smentire l’intenzione di ordire «complotti» ai danni del premier.
I senatori sono nervosi e cercano il pelo nell’uovo: nel Pd in diversi hanno notato come la bozza di riforma del Senato sia stata lanciata sul sito del governo senza essere stata votata dal Consiglio dei ministri. Chi lamenta «l’approssimazione» del testo, chi ci legge il tentativo di portare a un monocameralismo puro e chi osserva come il progetto sia stato elaborato non da costituzionalisti, bensì da tecnici della Camera distaccati presso il ministro Boschi. «La riforma non è popolare — conferma Pippo Civati —. Renzi non può dire “o la votate, o cade il governo”, se non sceglie la strada del dialogo non gliela votano. È una forzatura cambiare la Costituzione per tenere su il governo». Forza Italia teme che la futura assemblea delle autonomie, formata da sindaci e «governatori», sarà sempre in mano al centrosinistra. Gaetano Quagliariello, Ncd, taglia corto: «È un modello che non ha senso». Malumori bipartisan, che potrebbero convergere sui progetti di Sacconi e Calderoli, oppure deflagrare in un conflitto con i deputati: i socialisti Buemi e Barani, da fazioni opposte, propongono di abolire la Camera...
La Stampa 14.3.14
La soglia del 3% l’incubo del Cavaliere
Se passasse al Senato per il voto europeo poi se la ritroverebbe anche per le politiche
di Ugo Magri
Grande allarme a destra suscitano le parole serali del premier. Non sui tagli alle tasse e sulla scommessa di fare centro là dove il Cavaliere fallì, ma sulla soglia di sbarramento alle elezioni europee. «Credo si stia chiudendo al 3 per cento», è stato vago Renzi da Vespa, precisando che toccherà al Senato occuparsene, e non si sa come andrà a finire... Ecco, appunto: non si sa. Cioè può accadere che martedì a Palazzo Madama venga abbassato il quorum per accedere al Parlamento di Strasburgo, con grande giubilo dei partiti minori e altrettanto scorno di Forza Italia. La revisione della legge elettorale per l’Europa è sollecitata dal fronte delle donne, le quali mirano a introdurre perlomeno lì l’alternanza di genere nelle candidature (lunedì alla Camera sull’«Italicum» vennero respinte). I partiti centristi ne profitterebbero per dare, tanto che si mette mano alla legge, una limatina alla soglia di sbarramento, abbassandola dal 4 per cento al 3. E il 3, a quel punto, diventerebbe la regola aurea di riferimento pure per le elezioni nazionali: come insistere sull’astruso 4,5 dell’«Italicum» se per accedere all’Europa fosse sufficiente un punto e mezzo in meno? Un’ombra inquietante si allungherebbe sul patto tra Matteo e Silvio, che il secondo ha siglato anche nella prospettiva di vendicarsi sui «traditori» alfaniani. Invece di far fuori il Nuovo centrodestra, Renzi dà l’impressione di tenere aperti i due forni, quello col Cavaliere e l’altro con i suoi avversari. Agli occhi dei «berluscones», così il premier scherza col fuoco perché su questo non si transige, avverte Gasparri. A casa del Cavaliere se n’è parlato, la questione risulta ben presente, figurarsi se l’ambasciatore Verdini non avrà messo in guardia il premier.
La speranza berlusconiana è che tutto si sistemi, magari grazie a uno slittamento dei tempi al Senato, in modo da spingere fuori tempo massimo le eventuali modifiche della legge per le Europee (si vota il 25 maggio, e le candidature andranno presentate tra un mese). Berlusconi non ha la minima voglia di duellare col più giovane avversario. Prova ne sia la smentita di ieri all’alba: mai nemmeno pensate certe battute velenosette nei confronti di Renzi, che i giornali gli attribuiscono. Colpisce l’ansia di scaglionarsi agli occhi del premier, che fa il paio con il silenzio del Cavaliere sulla frustata economica, con la totale assenza di pubblici giudizi dal leader dell’opposizione. Non fosse per le dichiarazioni del pugnace Brunetta, Forza Italia si segnalerebbe per il vuoto pneumatico. E d’altra parte, fa notare uno dei personaggi più in vista, «come è possibile votare le riforme istituzionali con Renzi, e nel frattempo tentare di sgambettarlo sull’economia? Perché, se lui cade, addio riforme...». Un grave dilemma strategico, la cui soluzione «purtroppo non è matura».
La Stampa 14.3.14
I guai giudiziari fanno vacillare l’alleanza-ombra con Berlusconi
di Marcello Sorgi
Renzi assicura che il governo è in linea con gli impegni assunti in sede europea, ma proprio dall’Europa (Unione e Bce) arriva qualche scossa d’assestamento dopo il giorno dei grandi annunci. Al ministero dell’Economia sono al lavoro per trasformare in testi di provvedimenti le novità illustrate dal premier nella conferenza stampa-show di mercoledì sera: per ottenere un via libera sicuro da Bruxelles infatti è necessario, non solo dimostrare che il taglio delle tasse per i ceti più deboli, ottenuto con misure straordinarie, non altererà l’equilibrio dei conti italiani del 2014, ma anche che negli anni successivi le misure decise rientreranno nell’ordinaria amministrazione.
Con l’approvazione alla Camera della legge elettorale e con la definizione dei tagli alle tasse, Renzi si è lasciato alle spalle un primo passo importante del suo percorso da presidente del Consiglio. Dettaglio più, dettaglio meno, il tasso di novità impresso all’attività del governo è evidente. Ma adesso, prima del secondo passo, è necessario fare i conti con le difficoltà che si presentano all’orizzonte. Oltre al delicato rapporto con le autorità europee, c’è il problema del mormorìo di fondo, che attende a Palazzo Madama la legge elettorale appena approvata e la riforma del Senato. Come per l’Italicum, Renzi deve ottenere il consenso dei suoi alleati di governo, a partire da Alfano e Ncd, e dell’alleato-ombra Berlusconi. Un contestato aiuto esterno, che ha fatto vivere momenti di tensione nelle assemblee del gruppo Democrat, ma alla fine è servito al premier a portare a casa la riforma. È precisamente questa seconda gamba del governo che rischia di essere più debole nei giorni a venire. Non è un mistero che aprile sarà per il Cavaliere un calvario dal punto di vista giudiziario. Dal 2 è atteso al processo per la compravendita dei senatori di Napoli. Il 10 il Tribunale di Milano dovrebbe decidere se consentirgli di scontare in affidamento ai servizi sociali la condanna definitiva per frode fiscale. Il governo Letta entrò in difficoltà l’estate scorsa proprio dopo la condanna definitiva in Cassazione di Berlusconi. Anche in questo caso, con quel che si prepara nelle aule di giustizia, Renzi dovrà mettere in conto molto più di una fibrillazione nel suo consolidato rapporto con il Cav.
Corriere 14.3.14
Contromossa di Berlusconi
Pronto a correre alle Europee
Voto del 25 maggio, paletti di FI alla modifica della legge
di Paola Di Caro
ROMA — Da una parte Matteo Renzi che occupa la scena ogni giorno di più, con armi a disposizione sempre più potenti, a partire dall’aumento di 80 euro in busta paga che scatterà proprio da maggio. Dall’altra, l’eclissi obbligata di Berlusconi — sia che venga condannato a scontare la pena ai servizi sociali che agli arresti domiciliari — proprio nei mesi clou della campagna elettorale. Infine, la possibilità che al Senato passi la riforma della legge elettorale per le Europee che impone l’alternanza di genere nelle preferenze e un abbassamento della soglia di accesso dal 4 al 3%. La morsa che stringe Forza Italia è potente in vista del voto del 25 maggio, e nonostante i sondaggi vedano il partito ancora a un livello di consensi importante, la preoccupazione per il primo passaggio elettorale di peso dopo le Politiche è forte.
Anche per questo, Silvio Berlusconi sembra aver deciso che per competere al meglio serve il suo nome, da spendere e mettere a frutto. Non solo nel simbolo di Forza Italia, dove potrebbe apparire il marchio dei Club, quel «Forza Silvio» che tanto gli piace. Ma anche come aspirante candidato. «Non è possibile che io non possa presentarmi in Europa», ripete a ogni piè sospinto il Cavaliere. E, a quanto dicono i suoi, nonostante le possibilità di vedere accolta dagli uffici elettorali e, su ricorso, dai Tar la sua richiesta sia prossima allo zero, Berlusconi presenterà la sua candidatura per le elezioni.
La legge Severino, appunto, esclude la possibilità che per sei anni l’ex premier si candidi a cariche elettive, ma Berlusconi non si arrende: male che vada, dicono i suoi, si monterà una rumorosa battaglia sulla sua esclusione. E questo, proprio nei giorni in cui verrà deciso il suo destino giudiziario: Berlusconi potrebbe andare di persona all’udienza del 10 aprile del Tribunale di sorveglianza, dove i legali sono ottimisti sulla concessione dei servizi sociali nonostante non ci sia stato ancora atto di pentimento: «Non può esserci formalmente — spiegano — perché abbiamo ancora i ricorsi pendenti presso le Corti europee».
Dunque la campagna sulla candidatura diventa uno degli strumenti per rimettere al centro della scena una Forza Italia che, questo vorrebbero nello stato maggiore, metterebbe il veto alla candidatura ai parlamentari in carica, a partire da Fitto che invece andrebbe volentieri alla «conta» delle preferenze vista la forza indiscussa sul territorio (ieri un colloquio tra lui e Berlusconi si è concluso con un nulla di fatto). Ma a rendere il quadro ancora incerto è la discussione al Senato per modificare la legge elettorale delle Europee: gli azzurri sono contrari sia all’alternanza di genere nelle preferenze, sia soprattutto all’abbassamento della soglia dal 4 al 3%, che peraltro ieri Renzi ha dato già quasi per fatta: «Credo si stia chiudendo al 3%, ma non so come andrà a finire». Sulla carta, la contrarietà a soglie basse è anche del Pd (i partiti grandi perderebbero qualche seggio a danno dei piccoli che riuscirebbero a entrare nel Parlamento europeo), ma il rischio vero che paventano Berlusconi e i suoi è che la modifica — molto gradita invece alla Lega, e sicuramente utile anche per il Nuovo centrodestra — sia il cavallo di Troia per applicarla anche all’Italicum quando andrà al voto al Senato. «Sia chiaro — già tuona Gasparri — per noi sarebbe inaccettabile, i patti non erano questi».
La Stampa 14.3.14
Il cerchio tragico del Cavaliere
di Michele Brambilla
Se un giorno un regista vorrà portare in teatro la storia di Silvio Berlusconi, dovrà probabilmente chiedere aiuto a uno psicologo, più che a un politologo, per allestire l’atto finale.
Dovrà infatti districare un mistero che non sta nei corridoi dei palazzi della politica, ma nei meandri, ben più oscuri, di una mente. Con quale criterio, o meglio sotto quali impulsi un uomo di un simile carisma, e di un così travolgente successo, ha scelto la sua ultima compagnia di giro?
Ieri a Fiumicino è stata arrestata una donna che nel 2010 l’allora presidente del Consiglio si portò in Canada, nel codazzo della delegazione ufficiale, nientemeno che al G8. Dissero che era la sua «dama bianca» e, in quel contesto internazionale, non sembrava portare altre credenziali che l’avvenenza. Ora quella donna è stata trovata in possesso di ventiquattro chili di cocaina. Ce li aveva nel trolley e nello zaino, e quando i finanzieri glieli hanno scoperti, ha esclamato «mi hanno fregata», aggiungendo subito dopo di essere stata probabilmente messa in mezzo da qualche narcotrafficante. Può darsi che sia così, e se è così le auguriamo di poterlo dimostrare.
Ma se la notizia di quest’arresto fa tanto scalpore – paradossalmente – è perché non sorprende più di tanto. Voglio dire: è sorprendente che non sorprendano certe frequentazioni di Berlusconi. Da cinque-sei anni ad oggi, ne abbiamo viste troppe. Pusher ed escort che filmano il premier a letto con il cellulare; prostitute professioniste che hanno il suo numero privato di cellulare e lo chiamano a notte inoltrata a Parigi per avvisarlo che una minorenne è stata arrestata per furto; uomini dei servizi che mandano dossier; ricattatori, millantatori, perfino improvvisati sequestratori. Di gente di questa pasta si è attorniato, chissà perché, l’ultimo Berlusconi. Se Bossi è finito ostaggio di un cerchio magico, il Cavaliere si è scelto un cerchio tragico.
Ma Bossi, pover’uomo, era malato, e qualcuno ha avuto perlomeno il pretesto di doverlo accudire. Berlusconi era invece un uomo forte e in salute (vorremmo tutti arrivare, alla sua età, con quelle energie), ancora carismatico, ricchissimo, potente. Eppure, in un attimo si è rovinato. C’è una data precisa: 25 aprile 2009. Quel giorno Berlusconi aveva l’Italia in mano. Governava il Paese con una maggioranza devastante; aveva gestito benissimo la prima emergenza del dopo-terremoto all’Aquila; a Onna celebrò l’anniversario della Liberazione in un modo che lasciò senza argomenti pure molti dei suoi nemici di sinistra. Berlusconi era dunque all’apice della propria parabola. Il giorno dopo finì chissà come a Casoria alla festa di una diciottenne che lo chiamava Papi. Il suo declino è cominciato lì.
Non che Berlusconi sia finito, intendiamoci. Conta ancora, e potrebbe perfino rivincere le elezioni. Ma in quali condizioni si ripresenterebbe sulla scena, non lo sappiamo. Difficilmente potrebbe esporsi in prima persona. È sul viale del tramonto e sono state le sue ultime scelte, più che l’offensiva di nemici a volte non migliori di lui, a farglielo imboccare.
Ha perso molti alleati. Cominciò Casini. Poi Fini. Poi perfino i fedelissimi Alfano, Schifani, Lupi. Ha perso anche molti altri compagni di viaggio: intellettuali, giornalisti, soprattutto tanti elettori. A tutti costoro, la ridotta del Cavaliere ha dato dei traditori, degli opportunisti, dei venduti alla sinistra. La verità è però che sono stati in molti, in questi anni, a chiedersi con dolore: ma chi si è messo a frequentare Berlusconi? Perché è passato da Melograni, Colletti, Pera, Martino, Urbani e Ferrara a Lele Mora, Tarantini, Lavitola e Ruby rubacuori? Non si tratta di un giudizio morale né tantomeno moralistico: si tratta di dubbi sulle capacità di poter guidare un Paese.
In Italia c’è stato un antiberlusconismo militante e spesso fazioso che ha finito per diventare un’ossessione per alcuni e un mestiere per altri: quando (e se) si farà una commedia su Berlusconi, anche di questo bisognerà tenere conto. Ma chi si ostina a non ammettere che il Cavaliere ci ha messo del suo, nega l’evidenza. Che cosa poi sia stato, a spingerlo a rovinarsi con olgettine e ruffiani, non lo sappiamo: forse il sentirsi onnipotente, più probabilmente l’angoscia della fine che si avvicina per tutti, e che è ancor più dolorosa per chi dalla vita ha avuto tutto.
il Fatto 14.3.14
Il libro
Anticipiamo un brano di “Oltre la siepe”, il libro che esce oggi per Chiarelettere di Mauro Gallegati, economista che ha collaborato con il premio Nobel Joseph Stiglitz
L’alternativa alla disoccupazione c’è: basta lavorare meno (tutti)
di Mauro Gallegati
Nel 1930 Keynes ipotizzava che la tecnologia avrebbe permesso di ridurre la settimana lavorativa a quindici ore. Penso avesse ragione. E allora perché non è successo? La produttività genera profitti, disoccupazione e benessere. Un imprenditore che riesca a introdurre un’innovazione tecnologicamente efficiente che gli permetta di risparmiare, ad esempio, sul costo del lavoro, riesce a vendere il proprio prodotto a un prezzo più basso dei concorrenti, pur mantenendo il medesimo profitto unitario. Il consumatore, qualora volesse, potrebbe consumare lo stesso prodotto a un prezzo inferiore. Il suo reddito disponibile dopo l’acquisto sarebbe più alto. Oppure potrebbe lavorare di meno, perché tanto ha bisogno di meno denaro. Ciò vale però solo se esiste un solo prodotto; diversamente si possono acquistare altri beni con i soldi così risparmiati. Qui sorge il problema: e se il prezzo più basso si ottenesse espellendo manodopera, tra cui il nostro consumatore-lavoratore? Da disoccupato non riuscirebbe a consumare che il sussidio. O si trova un nuovo lavoro o se ne inventa uno o vive sulla tecnologia, bene parzialmente comune.
La tecnologia consente a chi la introduce di far profitti, ma crea allo stesso tempo una diminuzione della domanda che va sostenuta. Se il mercato fosse capace di riequilibrarsi non ci sarebbero problemi. Purtroppo la realtà si rifiuta spesso di adeguarsi alle prescrizioni della teoria economica dominante. Se l’imperativo è non ridurre la domanda, dobbiamo inventarci modi per dare più soldi anche a persone che devono passare buona parte della loro vita in un posto di lavoro non proprio indispensabile. E questo processo nega la possibilità di ridurre le ore di lavoro. Quindi si deve ricorrere al debito, che diventa lo stigma per le nuove generazioni a meno di annullare, o quasi, i tassi di interesse. Solo una volta che sia stata raggiunta la coscienza del limite imposto alla crescita del Pil dalla non riproducibilità delle risorse e dall’economia dell’abbastanza, ci si può iniziare a chiedere a quali condizioni potremmo lavorare di meno e con soddisfazione. Al fine di raggiungere questo obiettivo, nuovi, e spesso inutili, lavori sono stati creati.
La tecnologia continua a migliorare e le attività manuali e amministrative stanno scomparendo. Il problema è che troppo poco dei recenti guadagni derivanti dal progresso tecnologico sono stati goduti dalle persone in termini di tempo e risorse per godersi la vita al di fuori del lavoro. La disoccupazione tecnologica e il problema della sostenibilità finirà col costringere le società dei paesi ricchi a rivisitare un sistema che privilegia l’incremento del potere d’acquisto dei salari sul benessere. Un sistema diverso potrebbe consentire alle famiglie di ottenere una parte maggiore del reddito, mentre si lavorerebbe molte meno ore di quanto si fa oggi, anche attraverso la redistribuzione del reddito. I robot non sono in arrivo per tutti i posti di lavoro. E quelli creati saranno magari più remunerativi. Per alcuni il nuovo lavoro sarà coinvolgente anche se temo che la sua qualità, almeno per la gran parte, peggiorerà: le macchine sopportano senza lamentarsi i lavori inutili. Purtroppo non consumano beni e servizi.
Supponiamo di vivere in un’economia il cui Pil vale 1.500 miliardi di euro, viene prodotto da 22 milioni di persone che lavorano ciascuna per 1700 ore l’anno, cosicché i suoi 60 milioni di abitanti guadagnano 25.000 euro, lordi, a testa, con 3 milioni di disoccupati involontari e 2 di lavoratori scoraggiati. La settimana lavorativa si riduce ope legis del 20 per cento (cioè le ore lavorate diventano 1360). Si lavora quindi dal lunedì al giovedì e ovviamente aumentano le ore dedicate al tempo libero. Cosa posso attendermi? Intanto la scomparsa di disoccupati e scoraggiati. Quel 20 per cento di lavoro in meno verrebbe rimpiazzato dai nuovi assunti. Non c’e quindi da attendersi una riduzione del Pil per questa via, se i nuovi assunti sostituiscono il 20 per cento dei vecchi lavoratori. Se ci fosse una completa e perfetta redistribuzione del lavoro non si ridurrebbe la quantità di beni e servizi prodotti.
l’Unità 14.3.14
Fini-Giovanardi
Lorenzin tenta il colpo di mano
Oggi in Cdm la ministra della Salute proverà a reintrodurre le «tabelle»
Scontro con Orlando
di Anna Tarquini
Colpo di mano per «ripristinare» la legge Fini Giovanardi sulle droghe appena dichiarata incostituzionale dalla Consulta? È quello che potrebbe accadere questa mattina nel Consiglio dei ministri convocato per le 10 e 30 con all’ordine del giorno l’esame di «Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza». Alla base c’è lo scontro aperto tra Beatrice Lorenzin e Andrea Orlando. Il ministro della Salute vuole ripristinare le norme spazzate via dalla Consulta che prevedevano l’equiparazione tra le droghe pesanti e quelle leggere riguardo al consumo e allo spaccio reintroducendo le tabelle; il ministro della Giustizia è invece per una soluzione più ragionata, anche perché l’indicazione dei giudici supremi che hanno bocciato la Fini Giovanardi era motivata anche con la necessità di snellire la popolazione carceraria. Ricordiamo che l’Italia è stata condannata da Strasburgo per le condizioni disumane delle carceri e che lo Stato italiano sarà condannata a pagare una maxi multa per violazione dei diritti umani, se la situazione delle nostre prigioni non verrà sistemata entro il maggio del 2014.
Un blitz, che il ministro Lorenzin giustifica così: «È necessario ed urgente diradare le nebbie che da qualche giorno si sono addensate sull’attività di migliaia di operatori sanitari e di pazienti in una materia sulla quale non è possibile non avere certezza disciplinatoria». Spiega la nota del ministero: «La sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Fini Giovanardi esclusivamente per motivi procedurali. E ha determinato in modo automatico la cancellazione dell’intera disciplina amministrativa diretta a regolare, tra l’altro, la detenzione e la dispensazione dei farmaci a base di stupefacenti nonché di quelli utilizzati per la terapia del dolore, con un grave impatto sull’attività dei professionisti sanitari e dei pazienti bisognosi di cure. La pronuncia ha inoltre cancellato le due tabelle contenenti l’elenco delle sostanze stupefacenti, in particolare tutte le nuove droghe sintetiche classificate negli ultimi anni che, allo stato, non possono pertanto essere più considerate tali. Tale situazione è stata posta all’attenzione del ministro della Salute dalle principali categorie di professionisti sanitari e di pazienti, che attendono un intervento urgente da parte del governo ».
Con lo stop alla Fini-Giovanardi è tornata in vigore la Iervolino-Vassalli, come modificata da referendum del ’93 che abolì il carcere per l’uso personale e fa scendere la pena massima da 20 a 6 anni. L’effetto immediato della sentenza della Corte Costituzionale sarebbe anche quello di svuotare le carceri italiane dove, da un calcolo approssimativo, i detenuti per spaccio e consumo dono circa il 30%. Le associazioni sono allarmate. «Dopo la recente sentenza che ha dichiarato incostituzionale la legge Fini-Giovanardi - afferma il capogruppo Sel in Commissione Giustizia Daniele Farina - abbiamo ripetutamente chiesto al governo un provvedimento urgente per intervenire sul comma 5 dell’art. 73 sui fatti di lieve entità, modificato per decreto e incongruo rispetto alle norme tornate in essere dopo la Consulta, e di intervenire sulla situazione dei condannati in via definitiva in base alla legge bocciata dalla Consulta». «Oggi il Consiglio del Ministri - prosegue -, avvia l’esame di un decreto-legge che ha come obiettivo la modifica della Legge Fini-Giovanardi. Apprendiamo, però, che il centrodestra di governo, annidato nel ministero della Salute, vorrebbe utilizzarlo per un ritorno alla legge bocciata recentemente dalla Corte Costituzionale. Sarebbe un’inaccettabile riproposizione di posizioni sconfitte dall’esperienza e dalla storia. È incomprensibile come si possano ripresentare politiche che tanti costi e danni hanno provocato e che sono state velocemente abbandonate in numerosi Paesi del mondo. Ci auguriamo, anche dopo la recente decisione del governo di non impugnare la legge regionale abruzzese, che il premier Renzi impedisca questo ritorno al passato».
Repubblica 14.3.14
Finale Ligure, il branco torna in classe gli amici festeggiano con torta e striscioni
Liberi gli allievi accusati di violenza. La vittima: per quella scuola la colpa è mia
di Massimo Calandri
FINALE LIGURE (SAVONA) - I compagni di classe avevano preparato uno striscione da appendere in aula («Bentornati!») e persino una torta, ma il preside ha detto che non c’era niente da festeggiare. Così al pomeriggio sono andati a casa di uno di loro, che agli arresti domiciliari non potrebbe ricevere visite però doveva essere un segreto, invece le fotografie dei brindisi e dei coriandoli sono finite su Facebook e ora lo sanno tutti. Che i quattro presunti violentatori sono tornati a scuola, accolti dagli altri studenti come eroi, martiri, fratelli. Applausi, pacche sulle spalle, risate, auguri. E la ragazzina trascinata a forza nello spogliatoio dei maschi, molestata da quelli coi pantaloni abbassati, soccorsa in lacrime da un insegnante preoccupato dalla grida? Lei non frequenta più la scuola. Ci aveva provato, trovando il coraggio chissà dove, dopo aver denunciato il branco. Ma è durato un paio di giorni. Il tempo di leggere i messaggini di minaccia sul cellulare, di sentire su di sé quegli sguardi torvi, i commenti maligni alle spalle, certi sorrisi sprezzanti che ti viene solo da piangere. «Nessuno che mi abbia chiesto: come ti senti? Vuoi parlare con me?».
A sedici anni, si è arresa ad una violenza due volte crudele, ha perso anche quella che credeva fosse la sua amica per la vita. «Avevo bisogno di lei più che dei miei genitori», racconta. «Invece è stata la prima a voltarmi le spalle». Adesso tutti i giorni mamma e papà l’accompagnano in auto in un istituto molto lontano dal Migliorini di Finale Ligure, l’alberghiero al centro di questa storia disperata, nera. «Vorrei solo tornare a vivere come una ragazza della mia età», chiede. Prova a sorridere: «Perché in questa nuova scuola hanno subito capito che ero io, che ero quella di cui scrivevano i giornali. Sono stati gentili, mi hanno fatto sentire una di loro. Per fortuna ci sono molte più ragazze». Ma a casa spiegano che dopo aver saputo che i quattro ex compagni di classe sono tornati liberi, la piccola ha smesso di dormire la notte. Vomita, ha frequenti crisi di panico. «E se loro vengono a cercarmi anche qui?», domanda. Ha cominciato un delicato percorso con l’aiuto di una psicologa, che però non può ancora affrontare con lei il trauma subìto perché quella è una vicenda che andrà prima chiarita in tribunale. Alla fine dell’anno scolastico dovrebbe arrivare la chiusura delle indagini del Tribunale dei Minori, il processo comincerà in autunno.
Nel frattempo i quattro studenti sotto accusa - il più piccolo ha 14 anni, il più grande 16 - sono tutti tornati in classe lunedì mattina. Tre di loro hanno l’obbligo, finite le lezioni, di non uscire di casa. Il sabato precedente avevano ottenuto di lasciare le comunità dove i magistrati avevano preferito inserirli dopo l’arresto. «Di nuovo a casa e a scuola perché sono innocenti », traducono troppo in fretta i compagni all’ingresso dell’istituto. Liberi, innocenti. Lo striscione, la torta, la festa. «Quella si è inventata tutto», giurano gli amici. «È sempre stata una bugiarda. Anche alle medie aveva tirato fuori una storia del genere, non era vero niente».
Ieri i ragazzi sono stati ascoltati dal consiglio dell’istituto, che ha aperto un’indagine disciplinare interna. Il clima dell’incontro è stato molto «sereno », hanno precisato gli avvocati dei quattro. Naturalmente. Luca Barberis, il preside del Migliorini, ha deciso di non commentare. Mai più. «Tengo troppo al recupero dei quattro studenti accusati e della ragazza. E voglio tutelare anche tutti gli altri ». Alcuni insegnanti avrebbero proposto di tentare nuovamente il recupero a scuola della sedicenne vittima della violenza, ma è impossibile. «Mi dispiace che sia successo. Era solo uno scherzo, forse abbiamo esagerato ma non volevamo fare del male a nessuno», ripete uno degli accusati. «Voglio solo studiare, non perdere quest’anno scolastico. Ho fatto troppi giorni di assenza, ho sempre avuto dei bei voti: pensate davvero che mi daranno delle insufficienze?», chiede un compagno, che dev’essere quello di 14 anni perché sembra proprio un bambino. «Io so solo una cosa: che arriverà il processo, e forse cambierà anche la mia vita», fa sapere un altro attraverso il suo legale. Ma nessuno - nessuno - spende una sola parola per la ragazzina.
«Non sono mai arrivati messaggi di solidarietà, di scusa di amicizia. Da nessuno, mai. Ed è passato un mese e mezzo»: Maria Teresa Bergamaschi è l’avvocato che assiste la vittima. La sedicenne non ha più il vecchio telefonino, nessuno conosce il suo nuovo numero. Ma qualcuno potrebbe chiamare a casa per offrire un po’ di conforto. «La scuola, ad esempio. Invece non si sono fatti sentire. E per lei è un altro dolore».
La Stampa 14.3.14
Majdan insegna anche a Mosca che bisogna scacciare la paura
La poetessa russa Ol’ga Sedakova legge dal suo Paese la rivolta ucraina: da noi nessuno dice se lo stalinismo è buono o cattivo
di Ol’ga Sedakova
Alla luce del Majdan la società russa (non dico il governo ma la società) offre uno spettacolo vergognoso. Sono parole dure ma non intendo sfumare. Naturalmente questa è la mia personale opinione e ben pochi in Russia saranno d’accordo con me. Molti - e molti di quelli che di solito si considerano intellettuali e «democratici» - saranno già offesi dal titolo della mia nota: la luce del Majdan! I roghi del Majdan, il fumo del Majdan, nel migliore dei casi il dramma del Majdan: questo dovrebbe andargli bene. Quello che so del Majdan lo so dai miei carissimi amici che hanno passato questi mesi sulla piazza, lo so dalle trasmissioni in diretta dal luogo degli avvenimenti, lo so dai commenti di V. Silvestrov e tutto questo mi spinge a parlare della luce del Majdan. Naturalmente io qui ho in mente il Majdan mansueto e tenace e non le sortite dei gruppi estremi, sulle quali da noi si tende a concentrare tutta l’attenzione.
Innanzitutto è la luce del superamento della paura. Della vittoria del Majdan come vittoria sulla paura ha scritto Konstantin Sigov. Quando, in questi giorni, leggevo le agenzie con le riflessioni dei miei illuminati compatrioti sui fatti di Ucraina (più avanti cercherò di elencare i loro argomenti), chissà perché mi frullavano in testa i versi di T.S. Eliot dai Quattro quartetti, a proposito della «sapienza dei vecchi». Mi ricordavo confusamente questi versi:
«do not let me hear
Of the wisdom of old men…»
Ho capito perché mi sono venuti in mente quando ho letto fino in fondo:
«Non voglio sentir parlare
della saggezza dei vecchi, ma della loro follia,
la loro paura della paura e della frenesia,
la loro paura del possesso,
di appartenere a un altro, o ad altri, o a Dio».
Non si tratta del fatto che i nostri commentatori sono vecchi, ma che l’unica saggezza sulla quale si basano è la saggezza della paura. Loro guardano il Majdan - l’avvenimento del superamento della paura - con gli occhi di chi non è ancora uscito dalla paura. Non vedono quello che c’è ma quello che ne potrebbe conseguire (ed è chiaro che non ne uscirà niente di buono). Georges Nivat ha scritto che il Majdan è la possibilità di un nuovo respiro per l’Europa che, dopo i due traumi del XX secolo, nazismo e comunismo, vive di compromessi e non ha più ideali. Ha scritto che questa possibilità è poco verosimile. Lui non si aspetta un nuovo respiro che si opponga al male. L’Europa si basa sul compromesso anche come possibilità di pace interiore. È troppo forte la paura di nutrire qualsiasi entusiasmo. E in Russia lo è ancora di più. Il Majdan è la luce della speranza. Sperare in qualcosa di diverso da quello che abbiamo già visto sembra follia. Ricordiamo i precedenti: dopo la rivoluzione di Febbraio è venuto l’Ottobre (è l’argomento usato più spesso) o, in altre parole, dopo la fase idealista della rivoluzione vengono la dittatura e il terrore. E poi la guerra civile, lo sfacelo del Paese…
Da nessun’altra parte si teme la rivoluzione come in Russia. E abbiamo dei buoni motivi per preferire qualsiasi cosa alla guerra e alla rivoluzione. È l’esperienza di varie generazioni. Ma la speranza agisce a dispetto di tutti i precedenti e i presupposti. Una speranza così in Russia non c’è. Ci sentiamo come su un treno che va all’impazzata dove lo portano senza che nessuno ci chieda niente, e tutto questo evidentemente sfugge al nostro controllo.
La luce del Majdan è anche la luce della solidarietà. Abbiamo letto delle meravigliose espressioni di questa solidarietà nelle notizie provenienti dal Majdan. Una solidarietà che non conosceva limiti di ceto e nazionalità. In Russia non abbiamo esperienza di solidarietà, anche nel passato quasi non ce n’era.
La luce del Majdan è anche la luce dell’umanità riabilitata. L’intellettuale russo vive in un’atmosfera di ironia globale, di profondo scetticismo e cinismo. I comportamenti e le forme di espressione alti, ispirati all’ideale, chiaramente non gli infondono fiducia. L’immensa piazza che canta insieme con fervore l’inno nazionale, o che recita il Padre nostro, non si sposa col concetto di «attuale» e «moderno». Troviamo delle repliche in cui gli eventi ucraini sono definiti «arcaici» e «antiquati». E come no! Per noi sono attuali il grottesco crudele e la pagliacciata.
Un altro motivo ricorrente tra quelli che non amano il Majdan, è la complessità. Non è tutto così semplice, ci ricordano, non esiste il male assoluto, né il bene assoluto… Sia gli uni che gli altri hanno torti e ragioni, l’importante è che vivano in pace. In pace con dei ladri matricolati? E mi limito a considerare le reazioni degli intellettuali. Non voglio neppure parlare di quelli che discorrono di «euro fascismo», eccetera. Quelli, ho gran paura, sono la stragrande maggioranza. Diciamo che sono vittime dell’«informazione» ufficiale. La «guerra mediatica» della propaganda ufficiale ha vinto senz’altro. Mi soffermo solo su uno dei leit motiv più diffusi perché è un po’ più complesso del solito «fascismo» e «antisemitismo» del Majdan. Si tratta della russofobia.
Mettere sotto accusa i cleptocrati e praticanti nazionali di quello stile di vita che convenzionalmente chiamiamo «stalinismo» (ossia di uno Stato che non pone limiti al proprio potere, che non risponde davanti alla popolazione né la informa delle proprie iniziative, mentre il suddito deve essergli «supinamente fedele») viene recepito come azione «antirussa». E questa purtroppo non è una questione di poco conto. Un regime di questo tipo viene sostenuto da Mosca, ed è verso un simile regime che la Russia si muove sempre più compatta. La distinzione definitiva tra «russo» e «sovietico» da noi non ha avuto luogo. La gente del Majdan ha intrapreso il tentativo di staccare «ucraino» e «sovietico». Questo tentativo, come si vede dagli ultimi avvenimenti, non verrà perdonato.
Corriere 14.3.14
Mafie e clan, addio libera Hong Kong
Un direttore in fin di vita, pressioni crescenti
Così Pechino mette le mani sull’ex colonia
di Guido Santevecchi
Mafie e sicari tengono sotto scacco Hong Kong e la libera stampa. Kevin Lau, l’ex direttore del Ming Pao è stato pugnalato in strada. Il caso fa discutere e rischia di mettere in ginocchio la già tesa relazione con la Cina. (Nella foto, dipendenti di Ming Pao con la prima pagina del loro giornale in segno di protesta per l’aggressione dell’ex direttore).
Non è stato difficile arrivare a Kevin Lau, l’ex direttore del Ming Pao pugnalato sei volte alla schiena e alle gambe il 26 febbraio in una tranquilla strada di Hong Kong. All’ufficio informazioni dell’Eastern Hospital un impiegato si fa ripetere il nome, controlla l’elenco e scrive su un foglietto: 8° piano, blocco F, stanza n° 2, poi indica l’ascensore senza fare domande. Saliamo, davanti al reparto terapia postoperatoria l’odore forte dei fiori: sono ammucchiati intorno a un tavolo che sembra un altare. Sulla parete decine di biglietti di auguri in cinese e inglese: «Tieni duro direttore», «We shall overcome». La porta della corsia è chiusa, davanti c’è un poliziotto abbandonato sulla sedia. «Siamo amici del direttore». L’agente si alza, digita il codice sulla porta e ci accompagna, dandoci le spalle. In una fondina dietro la cintura esibisce una pistola a tamburo: il primo segno di sicurezza intorno a un uomo che è stato a un centimetro dalla morte ed è al centro di un caso che sta scuotendo Hong Kong e la sua già tesa relazione con la madrepatria cinese.
Davanti alla stanza del paziente altri tre agenti armati. Intorno al letto colleghi, il fratello, la moglie Vivian, anche lei giornalista. Kevin Lau è ancora pallidissimo, sta raccontando agli amici di aver ricevuto quattro litri di sangue: «Sangue nuovo, uomo nuovo», mormora e tutti ridono. Poi ricorda: «Sono salvo per un centimetro, un osso ha deviato il coltello. Ho le ossa dure io...». Vorremmo chiedere perché lo hanno aggredito con un pugnale lungo sedici centimetri. Una vendetta per le inchieste sulla corruzione a Hong Kong e in Cina pubblicate dal Ming Pao ? Era appena stato rimosso dalla direzione, una decisione politica? Il fratello, con una mascherina da sala operatoria davanti alla bocca ci saluta: «Non può parlare ora, leggete il Ming Pao , Kevin riprenderà a scrivere, racconterà lui».
L’agguato si è svolto a Tai Hong Street. Alle 10.30 del 26 febbraio Kevin Lau, 49 anni, era passato a fare colazione al solito posto. Il punto dove è stato pugnalato per sei volte è a cento passi dal comando della Maritime Police, una strada elegante dove ora sono parcheggiate una Ferrari e una Rolls. Il sicario è sceso dalla moto guidata da un complice, ha colpito, è risalito ed è fuggito.
La polizia di Hong Kong ha sostenuto subito che lo stile è delle Triadi, le organizzazioni mafiose cinesi. Ha spiegato che l’obiettivo non era uccidere, ma punire: i fendenti alle gambe hanno tagliato tendini e nervi, Kevin Lau non potrà camminare per almeno due anni. Dopo giorni di polemiche per la passività degli investigatori, mercoledì il capo della polizia Andy Tsang ha chiamato la stampa e ha annunciato: nove arresti, sette a Hong Kong e due a Dongguan in Cina, la città del vizio e del sesso. Ieri altri due arresti. I due sicari hanno ricevuto un milione di dollari hongkonghesi a testa (100 mila euro) per il lavoro sporco: «L’ordine era di lasciarlo invalido ma vivo. E non abbiamo trovato legami tra l’agguato e il suo lavoro di giornalista, ma neanche altri motivi per ora».
«La mia famiglia ed io non siamo coinvolti in alcuna faccenda finanziaria, in nessuna storia extra-coniugale. Mi hanno colpito per come dirigevo il giornale», ha risposto con un comunicato Kevin Lau.
A Hong Kong non abbiamo trovato nessuno disposto a credere alla versione della polizia. Dice Phyllis Tsang, reporter del Ming Pao : «Sì, lo stile è da Triadi, ma chi è il mandante? La proprietà ci aveva comunicato la rimozione di Kevin il 6 gennaio; sostituito da un nuovo direttore malaysiano, uno che non conosce bene Hong Kong. Uno choc, pensiamo che l’editore voglia cambiare la linea». Sham Yee-lan è la presidentessa della Journalist Association della città: «Ci sono 25 giornali che vendono tre milioni di copie al giorno a Hong Kong, su sette milioni di abitanti. La stampa qui è sempre stata importante. Ora Pechino vorrebbe il cuore della gente di qui e per questo cerca di controllare l’informazione. A diversi proprietari di quotidiani, radio e tv sono stati concessi incarichi politici dal governo centrale cinese. E a quelli che non si adeguano viene tolta la pubblicità. L’Apple Daily , molto critico con la politica cinese, l’anno scorso ha perso 20 milioni di euro di pubblicità. Intere campagne cancellate da banche e aziende statali. Un assedio, Hong Kong era al 18° posto nel mondo per libertà di stampa nel 2002, ora è caduta al 62° e peggiora sempre».
Perché ora? Tutto sommato il ritorno alla madrepatria nel 1997, dopo l’era coloniale britannica, era andato bene con la formula di transizione «Un Paese due Sistemi». «Si sta decidendo il futuro: nel 2017 dovrebbero svolgersi elezioni a suffragio universale, in base agli accordi; ma Pechino vuole controllare la selezione dei candidati, per questo le serve anche una stampa amica. Vogliono farci scegliere tra una mela bacata e un’arancia marcia», spiega il professore di scienze politiche Joseph Cheng della City University.
Non è d’accordo Jia Xi Ping, direttore di Ta Kung Pao , giornale filo-cinese. Jia arriva dal Quotidiano del Popolo , organo comunista di Pechino. «Assalto alla libertà di stampa? Non lo vedo. Hong Kong è tornata alla Cina da 17 anni, è naturale che l’influenza di Pechino sia cresciuta. Non nego che ci siano differenze culturali tra una storia di capitalismo e una di comunismo. Ma il problema è che qualcuno pensa che Hong Kong possa votare come una nazione indipendente: non lo è». Su Kevin Lau però, anche al giornale comunista non hanno dubbi: «Un gentleman, l’aggressione c’entra con il suo lavoro», ci assicura la editorialista Yip Chug Man.
I colleghi di Kevin Lau hanno dato alla polizia una decina di servizi pubblicati dal giornale negli ultimi tempi. C’è anche la famosa inchiesta di gennaio sui conti segreti di miliardari e politici cinesi e hongkonghesi rintracciati alle British Virgin Islands. E molti altri casi locali e non. «Purtroppo la polizia di qui non è mai stata capace di risolvere i casi di aggressione ai giornalisti, c’è stato chi ha avuto le dita tagliate, chi è stato colpito con mazze, migliaia di copie bruciate, cercano di cavarsela con “motivi personali” anche per Kevin», dice lo scrittore Ching Cheong. Ma perché accoltellare un ormai ex direttore, dopo che la storia sui conti segreti alle Virgin Islands è uscita? «Ci sono migliaia di documenti su quei conti ancora da pubblicare, le sei coltellate a Kevin sono un avvertimento a rinunciare a una seconda puntata». «Badi bene, non sto accusando il governo di Pechino, ma qualcuno che non vuole altre rivelazioni».
Ultima tappa nell’ufficio di un uomo con un passato nei servizi segreti occidentali. Niente nomi: «Devo passare da Pechino tra qualche giorno...». Spiega: «Ho studiato un po’ il caso: la pista, dai conti delle Virgin Islands, arriva fino al grande scandalo di corruzione per la costruzione della ferrovia ad alta velocità in Cina, roba di miliardi. Anche su questo aveva indagato Ming Pao. Le Triadi sono state il braccio, ma il motivo dell’agguato è fuori da Hong Kong».
Come finirà? Lo scrittore Ching Cheong scuote la testa: «Un Paese, un sistema. Addio a Hong Kong e alla sua stampa libera».
Guido Santevecchi
Repubblica 14.3.14
Le mamme Medea
Donne che uccidono i figli
di Concita de Gregorio
L’ultimo
caso è il triplice delitto della mamma di Lecco ma sono decine gli
episodi simili avvenuti in Italia di recente. Ecco perché, dalla
tragedia greca alla cronaca nera, la madre infanticida mette a nudo la
debolezza della condizione femminile. E la nostra difficoltà a capire il
più estremo e inaccettabile dei gesti
Quello che davvero fa
cambiare canale o voltare pagina non è il racconto di come una donna
abbia ucciso i suoi figli. Ai dettagli degli omicidi ci si è lentamente
assuefatti, un doping omeopatico che li ha resi agli occhi di molti
persino attraenti. Lo testimoniano, purtroppo implacabili, i numeri:
migliaia e migliaia di visualizzazioni online, milioni di persone
all’ascolto dei programmi che ricostruiscono il delitto. Share da
record. Plastici della casetta di Cogne e dirette da Avetrana. La retina
collettiva degli spettatori del mondo intero, del resto, è abituata dal
cinema e dalla diretta della realtà a montagne di cadaveri e ad
esecuzioni individuali con pubblico esultante, a smembramenti torture e
agonie di ogni genere. Non è dunque solo il racconto della morte quel
che risulta inguardabile, nemmeno quando si tratta di bambini.
È il
fatto che siano le madri a uccidere i loro figli ciò che fa portare la
mano alla bocca e a dire no, non posso crederci, è contro natura, una
madre non può.
Invece può. Una madre può: i grandi tragici, migliaia
di anni fa, lo mettevano davanti agli occhi della comunità,
rappresentavano in teatro una realtà da testimoniare e insieme
esorcizzare. Si legge nelle Sacre scritture. Oggi succede un giorno sì e
un giorno no, in Italia: quattro volte alla settimana si consuma un
delitto o un tentato delitto di genitori su figli bambini. Sei volte su
dieci sono le madri a provare ad uccidere o a farlo. Sei su dieci. Padri
e madri, almeno in questo terribile angolo buio, sono quasi alla pari.
Allora ricominciamo daccapo.
Nella storia della madre che ha
accoltellato le tre figlie e le ha ricomposte sul suo letto nella casa
di Lecco ad essere inascoltabile è che ancora una volta, di nuovo, si
dica che è stato un raptus. La litania rassicurante e fasulla del
raptus. La follia che tutto spiega, tranquillizza. Era matta, ecco
perché. Non ci riguarda, era pazza. A noi non capita, noi siamo sani. E
non importa se dice che voleva sottrarre le figlie al destino di
miseria, se nel pianto spiega che temeva che avrebbero finito per
prostituirsi, che non ce la faceva più da sola non aveva come crescerle,
non avenova nessuno. Non importano le parole comprensibili, disperate.
Era pazza e basta, perché una madre non può.
Invece può.
Duecentocinquanta (è una cifra imprecisa, forse debole per difetto, una
media dei dati forniti dalle associazioni che si occupano di
infanticidio: qualcuno dice duecento, qualche altro trecento e del resto
molte morti sono archiviate come accidentali) sono i bambini uccisi dai
genitori negli ultimi dieci anni, lasciamo da parte le centinaia di
tentativi non riusciti. Parliamo solo di madri, ora. Erano tutte donne
in condizione di povertà estrema? No, a cominciare dal caso di Annamaria
Franzoni: non tutte. Erano straniere, immigrate, “non italiane” come
Eda, la madre di origine albanese delle tre bambine di Lecco? No. Nella
larghissima maggioranza sono donne nate in Italia da genitori italiani.
Erano, sono donne che vivono in periferie degradate, ai margini, magari
al Sud? No. I luoghi dei delitti, dal 2013, sono Desio, Bologna,
Venezia, Foggia, Lecco, Roma, Merano, Genova, Grosseto, Cosenza, la
provincia di Milano, la provincia di Lecco, di nuovo Lecco e via così,
da Nord a Sud, dalle città ai paesi. Ci si vuole concentrare sul fatto
che nell’area di Lecco si sono consumati tre infanticidi in dieci anni?
Si può farlo, ma credo si possa escludere il raptus di follia
contagioso, con epicentro a Lecco.
Piuttosto questa tragica
statistica potrebbe dare qualche altro elemento su cui pensare. Per
esempio il come. Tutte le madri che hanno ucciso i loro figli lo hanno
fatto con le mani. La maggior parte di loro col coltello, o con le
forbici. Hanno tagliato. Uccidere con una lama è una modalità precisa: è
molto difficile, intanto. Spingere nel vuoto, sotto un treno, sparare,
avvelenare sono gesti di un istante. Usare le mani o impugnare una lama
richiede un accanimento, uno sforzo fisico. D’altra parte è allo stesso
modo che si viene al mondo: con accanimento, sforzo fisico e alla fine
con un taglio.
Christina, di Merano, aveva 39 anni quando ha
accoltellato suo figlio di quattro con lo stesso coltello con cui aveva
imburrato le fette biscottate della colazione. Daniela, 43, ha ucciso il
figlio di 11 con le forbici, a Rovito provincia di Cosenza. Ne aveva 36
la madre che, a Bologna, ha sgozzato i figli di cinque e sei anni, li
ha adagiati sul letto matrimoniale e col quella stessa lama si è uccisa.
Bologna, la città del processo a Lucia Cremonini, condannata per
infanticidio nel Settecento. Era una strega, dicono le cronache d’epoca.
Una strega? Bologna, la città di Grazia Verasani, scrittrice che inFrom
Medea ha raccontato la storia - poi restituita in un film e in uno
spettacolo di teatro - di quattro donne rinchiuse trecento anni dopo,
alla fine del 1900, nell’ospedale psichiatrico di Castiglion delle
Stiviere. Adriana Pannitteri, giornalista, ha parlato con molte altre di
loro e ne ha scritto. «Ti verrà naturale essere madre, mi dicevano,
invece non veniva». «Stavo tagliando le arance per la spremuta, ho avuto
un buio come quanto continua a uscire l’acqua ed esce dalla vasca e non
fai niente». «Ero completamente sola». «Piangeva e piangeva, non sapevo
più cosa fare».
Non è vero che venga sempre naturale, non si diventa
madri solo col parto e per istinto di natura. A volte, spesso, è
difficile. A volte qualcosa si rompe. Quando la casa ha un odore cattivo
le cose marciscono e non c’è un fuori per te, c’è solo un dentro.
Quando tutti attorno ti dicono è un momento passerà, non sei felice del
bambino?, quando il medico ti consiglia di riposare di più e ti congeda
con due gocce. E non c’è un vicino non c’è un’amica, non c’è un lavoro
fuori. Se non sai come fare a portare trenta euro a casa, e i figli
chiedono. Se invece ce li hai ma ti sembra che i soldi non servano a
comprare quello di cui hai davvero bisogno. Ecco. A volte passa, è vero,
è una fase. Altre volte resta, imputridisce, annebbia. L’istinto di cui
parlano non lo trovi. I figli però invece ci sono, eccoli, sono usciti
dal tuo corpo, sono tuoi. Un pezzo, una proprietà - per allucinata
estensione. Poi non sempre, per fortuna, ma a volte si fa buio. Un buio
che non si può raccontare, dopo. Bisognerebbe vederlo prima. Il vero
enigma non è cosa succeda quando le madri recluse diventano, titolano i
giornali, mostri assassini. L’enigma forse è cosa succeda alle “persone
normali” tutto intorno: quelle che non vanno mai fuoristrada, che non si
alzano la notte quando sentono urlare. Che non s’impicciano, che
salutano educate, che dicono l’ho vista ieri a scuola stava benissimo, è
incredibile.
La vera domanda è come nessuno si accorga mai di
niente, prima, e si sgomenti tanto, dopo. Come possano dire, tutti
quanti e sempre: è stato un raptus di follia e poi tornare a dormire,
cambiare canale. Dice don Gino Rigoldi che bisogna ricominciare ad
immaginare case “di cortile”, per i giovani. Costruire luoghi da cui si
possa uscire e stare insieme, a una certa ora del giorno, in uno spazio
condiviso. Parlarsi, guardarsi. Come si faceva una volta nei paesi
quando la sera, all’ora della veglia, le madri e le nonne uscivano per
strada portando da casa la sedia di paglia e sedevano a osservare i
figli e i nipoti giocare. Diceva Franco Basaglia che nella malattia
della solitudine il vuoto che spaventa davvero non è il vuoto dentro ma
il vuoto fuori: nella comunità e persino nella famiglia. Quello che
manca, quello che davvero ci manca, è lo sguardo dell’altro che si
accorge di noi e ci fa esistere.
Repubblica 14.3.14
L’amore divorante che si trasforma in desiderio di morte
di Massimo Recalcati
Potremmo
definirlo “complesso di Medea” quello che porta le madri a uccidere i
propri figli rovesciando d’un sol colpo la catena della generazione: ti
ho dato la vita e ora ti do la morte. È a Corinto nel 431 A.C. che
Euripide mette in scena la tragedia di Medea. In essa si narra la
vicenda di una donna che non può sopportare il tradimento del suo uomo
Giasone e che per vendetta uccide spietatamente i suoi figli. La spinta
verso il figlicidio è provocata dalla ferita causata dal trauma
dell’abbandono. Se di fronte all’amore che univa nell’idillio iniziale
Medea a Giasone il coro poteva ricordarci che «è la più grande delle
fortune quando una donna va d’accordo con il proprio uomo», Medea dopo
il tradimento, subito come una ferita insanabile, ci mostra che «quando
una donna si vede tradita nell’amore, la sua ferocia non conosce
limiti».
Nel suo caso è la follia della gelosia a pervertire la
funzione dell’accudimento e della protezione della vita che caratterizza
la funzione materna. Ma quale verità profonda si annida nel gesto
estremo di Medea? In esso dobbiamo vedere emergere tutta la differenza
che separa l’essere donna dall’essere madre. Alla luce della
psicoanalisi sappiamo quanto problematico sia per una donna diventare
madre senza perdersi come donna. Un tempo era quasi la regola: divenire
madre per una donna significava morire come donna, sacrificare tutta la
propria femminilità all’accudimento della vita dei propri figli. Con la
conseguenza che il legame materno coi figli diveniva a sua volta
patologico, fagocitante, cannibalico. Se, infatti, una donna diventa
tutta madre i suoi figli si troveranno inchiodati nella posizione
insostenibile di chi deve consolare e colmare la vita che a loro si è
dedicata. Il gesto di Medea mostra dunque quanto la non coincidenza tra
donna e madre possa rivelarsi tragica. È perché si è sentita rifiutata
come donna che si cancella come madre cancellando a sua volta anche la
vita dei suoi figli.
Molti casi di cronaca rispondono al complesso di
Medea. Una donna non si può accontentare di apparire agli occhi
dell’uomo che ama solo come una madre. Esige, giustamente, di continuare
a esistere e ad essere desiderata come donna. Sappiamo come la nascita
di un figlio possa destabilizzare anche le coppie più solide. Un uomo
può faticare a riconoscere la donna che amava e desiderava sessualmente
in quella che è divenuta la madre dei suoi figli e una donna può non
riconoscere più nel padre dei suoi figli l’uomo che l’ha fatta
innamorare.
Ma esistono anche altre ragioni che possono animare il
passaggio all’atto del figlicidio. Freud aveva messo in evidenza
l’equivalenza del bambino col fallo. Questa equivalenza significava come
attraverso la maternità una donna avesse la possibilità di superare
l’invidia del pene colmando la propria mancanza con il potere di
generare e accudire la vita. È il senso di pienezza e di gioia che
accompagna ogni maternità sufficientemente buona. Ma questa
rappresentazione del bambino fallo deve essere integrata con qualcosa di
più inquietante che si annida in ogni esperienza di maternità sin dal
momento del concepimento. Il pensiero inconscio (o conscio) di molte
donne relativo al non essere in grado di generare. L’ombra della
deformazione, della mostruosità, del figlio inadeguato o malato, cala
così sul desiderio di maternità. Come se tra il bambino immaginato nelle
sue vesti più ideali (falliche) e il bambino reale vi fosse un divario
impossibile da colmare.
Questo divario è ciò che spiega l’angoscia, a
volte spessa altre più sottile, che può accompagnare il periodo della
gravidanza ma anche quello della “ricerca” di un figlio. Sarò davvero in
grado di generare? Sarò davvero in grado di donare la vita? Dietro
queste domande sorge prepotente la figura della madre primordiale e la
necessità affinché si realizzi un accesso positivo alla maternità che il
cordone ombelicale con questa madre sia stato reciso, ovvero che sia
avvenuta una giusta trasmissione del desiderio tra madre e figlia. Per
diventare davvero madre una donna non può continuare ad essere figlia.
Il giudizio con il quale allora una madre può non tollerare
l’imperfezione del figlio - la sua non coincidenza con il figlio
immaginato, con quello che Silvia Vegetti Finzi definisce il «figlio
della notte» - sino al punto di sopprimerne la vita, riflette spesso il
giudizio severo di cui è stata a sua volta vittima. La volontà
narcisistica di avere un figlio ideale, perfetto, coincidente con il
figlio immaginato, non può accettare il limite costituito dall’esistenza
reale del figlio. L’amore materno che è sempre amore per il figlio
nella sua particolarità anche più difettosa, lascia in questi casi il
posto ad una sua trasfigurazione perversa: la gioia della maternità non è
più quella di donare la vita ma solo quella di avere un figlio ideale.
Se il figlio si discosta da questo ideale deve essere rifiutato. Molte
depressioni post partum parlano di questo rifiuto che trova la sua
manifestazione più crudele nel passaggio all’atto dell’infanticidio.
il Fatto 14.3.14
Massimiliano Fuksas L’architetto licenziato
“La mia Nuvola uccisa dai soliti giochi politici”
di Sandra Amurri
Le sue opere nel mondo raccontano la sua genialità mai disgiunta dall’umanità che le ispira leit motiv del suo definirsi con orgoglio “di sinistra”. Ma un sogno da realizzare lo aveva ancora l’architetto Massimiliano Fuksas: lasciare alla sua città, Roma, nel cuore dell’Eur, Nuvola che galleggia in una teca di vetro e acciaio alta 40 metri, larga 70, lunga 175 che con la sua capienza di 123 mila persone sarebbe diventato il centro congressi più grande d’Europa. Usare il passato è d’obbligo visto che quel sogno forse resterà nel cassetto. Oppure non porterà mai il suo nome perchè da novembre è stato estromesso dall’incarico. Gentile, ironico, chiama le cose con il loro nome senza riverenza.
Nuvola non sarà completata nel 2015, come sostiene il sindaco Marino e non costerà come preventivato 276 milioni di euro?
Dicono che è stato realizzato il 70 per cento del progetto. Non è vero. Dicono che sarà completato nel 2015. Non è vero. Non ci sono i pavimenti, i controsoffitti, gli impianti interni, la strumentazione tecnica che era fuori dall’appalto, i sistemi di sicurezza. Dicono che costerà 276 milioni. Non è vero. Dicono che occorreranno ancora 100 milioni. Non è vero. Tutto è rimasto a com’era circa sette anni fa. Non esiste un cronoprogramma che vuol dire in quanto tempo e con quanti soldi. La società Condotte, la stessa dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, non ha esperienza in questo senso. Era il 2007. Avrebbero dovuto terminare i lavori nel 2010. Che dire? Io so solo che era il 1998, vivevo in Francia, lavoravo in tutto il mondo, volevo costruire un’opera per la mia città. Ho vinto il concorso internazionale. Da allora Eur spa (90 per cento Tesoro, 10 Comune) ha cambiato quattro presidenti, l’ultimo voluto da Rutelli, Paolo Cuccia, e quattro amministratori delegati, ora c’è un commercialista e la città ha cambiato quattro sindaci. Il progetto è nato senza alcuna copertura finanziaria, questa è la verità. A eccezione di qualche soldo arrivato con Roma Capitale. L’opera, che vale 400 milioni, ha bisogno di una legge specifica come per il Maxxi. Invece è gestita da una società, Eur, con un patrimonio inferiore al miliardo.
Infatti dicono che non hanno più soldi per pagarla, quindi Nuvola non porterà più la sua firma? Lei realizza opere in tutto il mondo, aveva mai vissuto una simile esperienza?
Mai. Abbiamo realizzato l’aeroporto di Shenzen in Cina in tre anni e siamo stati pagati regolarmente. A Parigi abbiamo terminato da poco, sono stati inaugurati da Hollande gli archivi nazionali di Francia, tempo cinque anni, progetto compreso. Stiamo facendo il museo del politecnico a Mosca, una torre a Beverly Hills: in nessun Paese hanno questo tipo di grevezze, nessuno ha mai detto ‘gli abbiamo dato troppo adesso ce lo finiamo da soli’. Come dire: ci hai dato l’idea ora la facciamo noi.
Qual è il male italiano?
La presenza dei partiti, macchine per spartizione di incarichi e prebende come ci spiegò bene il grande Berlinguer. Questo deve essere messo lì perché è stato trombato, quello perché è di quel partito e così via. Alla fine non trovi specialisti in management che sanno come si progetta, ma uno che è di Rutelli e uno che è di An, giusto per fare un esempio. La politica negli altri Paesi dà la linea programmatica, chiede ai funzionari se vi sono le coperture e inizia la procedura. Io i politici li vedo solo all’inaugurazione dell’opera.
In sintesi: opera che non vedrà mai la luce e sperpero incredibile di denaro pubblico.
Esattamente. Dicono ancora che costerà 276 milioni, una cifra vale l’altra, tanto chi mai gliene chiederà conto?
Lo ha mai spiegato al sindaco Marino?
Non l’ho mai incontrato. Non mi ha mai fatto una telefonata per chiedermi: che cosa sta accadendo? Ed è stata proprio questa sua dichiarazione a farmi rompere il silenzio rassegnato che mi ero dato.
Eppure Marino è notoriamente una persona onesta, perbene.
Perbene perché non fa la pipì per le scale? Stiamo parlando del minimo garantito. Governare una città è un’altra cosa.
Di Renzi cosa pensa? Crede alle sue promesse?
Non so più che dire, non spero, sono in attesa nel senso di sospeso. Dicono che non esistono più ideologie, mi viene da piangere. Ieri mentre attraversavo Campo de’ Fiori una signora mi ha gettato le braccia al collo. L’ho riconosciuta solo dallo sguardo: era una ragazza che manifestava con me contro l’invasione del Vietnam. Ecco, non mi sarei ricordato una ministra. Come dire: siamo esuli di un sentire comune.
Cosa vuol dire essere un architetto di sinistra?
Al di là di ogni retorica vuol dire che ogni progetto che fai è legato al contesto, alle persone che ci lavoreranno e ci vivranno. Il mio cliente non è il sindaco, è l’essere umano.
il Fatto 14.3.14
Peggy, è rimasto solo il nome
Venezia, gli eredi Guggenheim chiedono il ritiro della donazione al museo: “non rispettate le sue volontà”
di Carlo Antonio Biscotto
Peggy Guggenheim, il cui vero nome era Marguerite, ha svolto un ruolo di straordinaria importanza nella storia dell’arte del Novecento. Ricca e affascinante ereditiera americana - suo padre aveva avuto la malaugurata idea di attraversare l’Atlantico a bordo del Titanic - Peggy, nata nel 1898 ed è morta a Padova nel 1979, ha collezionato mariti, amanti, cani e opere d’arte. Quale sia stata la collezione a lei più cara non è dato sapere con certezza. Sono tutti passati a miglior vita. Le opere d’arte moderna invece furono riunite a Venezia, a Palazzo Venier dei Leoni che affaccia sul Canal Grande.
Purtroppo - come riporta Le Monde in un articolo a firma Harry Bellet - secondo alcuni suoi discendenti, la collezione non ha più nulla a che vedere con il gioiello voluto da nonna Peggy e ora la spinosa questione è in mano agli avvocati e ai giudici che dovranno decidere se revocare la donazione fatta da Peggy Guggenheim alla Fondazione Solomon Guggenheim, accusata tra l’altro di “violazione di sepolcro”.
NEL 1976, PEGGY aveva deciso di mettere fine a decenni di polemiche con la Fondazione newyorchese di suo zio Solomon, donando allo zio, con riserva di usufrutto, il palazzo veneziano e tutto quanto conteneva. Ma il passaggio di proprietà era sottoposto a tre precise condizioni, la principale delle quali vietava di smembrare la collezione e prestare singoli pezzi. La sola eccezione era prevista per la statua equestre in bronzo di Marino Marini, ”L’angelo della città”, che in particolari occasioni poteva sfilare in processione lungo il Canal Grande.
Fu la stessa Peggy Guggnheim nelle sue “Memorie” a chiarire come stavano le cose: “Siamo giunti a un accordo. La collezione resterà intatta a Venezia e a mio nome, ma sarà amministrata dalla Fondazione Guggenheim. Nulla dovrà essere toccato”. Quando era ancora in vita, la stessa Peggy Guggeheim aveva rifiutato di prestare un Picabia, un Dalì e un Ernst all’amico André Breton, spiegandogli: “Non presto mai singoli pezzi della collezione. La collezione rappresenta un unicum che desidero sia esposto nella sua totalità”.
Alla sua morte, avvenuta il 23 dicembre 1979, l’urna funeraria di Peggy fu sepolta, nel giardino del palazzo accanto alle tombe dei suoi amati cani, e la Fondazione Solomon Guggenheim comiciò ad amministrare la collezione. Peggy aveva avuto due figli - Simbad e Pegeen - dal primo marito Laurence Vail. La figlia Pegeen ha avuto tre figli dal primo marito, il pittore francese Jean Helion, e un altro figlio, Sandro, dal secondo marito, l’artista britannico Ralph Rumey. Furono i nipoti che, in occasione di una visita a Venezia nei primi anni Novanta, constatarono che lo spirito della collezione della nonna non era stato rispettato . L’ala del palazzo dedicata alla figlia Pegeen, morta prima della madre, era stata svuotata delle opere, il giardino trasformato in una caffetteria, alcune opere trasferite e altre opere estranee alla originaria collezione esposte nel palazzo. In breve Palazzo Venier dei Leoni, riflesso del gusto personale di Peggy e del gusto di un’epoca, era diventato la banale dependance di un qualunque museo americano.
I NIPOTI SI RIVOLSERO al Tribunale di Parigi. All’iniziativa giudiziaria non si associarono gli eredi di Simbad la cui figlia, Karole Vail, lavora come conservatrice della Fondazione Solomon Guggenheim di New York dal 1997. Nel 1996 le parti raggiunsero un accordo che obbligava la Fondazione Solomon Guggenheim a consultare sempre i discendenti di Peggy Guggenheim prima di prendere qualunque decisione riguardante la collezione. Tutto bene, quindi? Niente affatto. Nel 2013, in occasione di una visita alla Biennale di Venezia, i discendenti di Peggy Guggenheim hanno scoperto che 75 delle 181 opere esposte nel palazzo figurano “donate da Hannelore Schulhof” e che il giardino nel quale riposa Peggy è occupato da una serie di sculture provenienti in gran parte dalla collezione dei miliardari texani Patsy e Raymond Nasher. All’ingresso del giardino, accanto al cancello, una placca in metallo dice “The Nasher Sculpture Garden”. Da qui nasce l’accusa di “violazione di sepolcro”.
Ai nipoti di Peggy non è restato che rimettere tutto in mano agli avvocati, i quali hanno chiesto al tribunale di Parigi - prima udienza fissata il 21 maggio prossimo - di revocare l’originaria donazione della nonna. La battaglia legale si prevede lunga e senza esclusione di colpi.
La Stampa 14.3.14
Problema: quanto ci costa l’ignoranza matematica?
Se lo domanda la Gran Bretagna. E per rispondere chiede aiuto in Cina
di Vittorio Sabadin
Più di metà degli adulti inglesi non sa contare e non è in grado di aiutare i figli a fare i compiti di matematica a casa. Molti non sanno calcolare il resto quando pagano nei negozi, pesare e misurare gli ingredienti di una ricetta di cucina, o trasformare le libbre in chilogrammi. Si è calcolato che questa diffusa ignoranza di ritorno può costare cara: solo per la Gran Bretagna, 20,2 miliardi di sterline l’anno, l’1,3 % del prodotto interno lordo.
La scuola inglese ha ancora gravi problemi che spiegherebbero perché l’ignoranza dell’aritmetica sia così diffusa, ma gli esperti ritengono che la situazione non sia migliore nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti. La matematica è sempre stata una delle materie più ostiche è c’è ancora la convinzione che impararla o ignorarla sia in fondo lo stesso. Per fare moltiplicazioni, divisioni o radici quadrate c’è la calcolatrice dello smartphone, e nella vita di tutti i giorni non capita mai di dover venire a capo di una funzione trigonometrica.
Anche calcoli che una volta bisognava fare da soli, come dividere i chilometri percorsi per i litri di benzina, per sapere quanto consuma l’auto appena acquistata, ora li fa il computer di bordo e c’è la sensazione diffusa che conoscere la matematica non serva a un bel nulla.
La National Numeracy, un ente no profit che si batte da anni per migliorare la conoscenza dei numeri tra gli adulti inglesi, ha però lanciato un serio allarme: se non si fa qualcosa, i danni per l’economia potrebbero diventare ancora più gravi e potremmo non essere più in grado, nelle attività quotidiane, di comprendere cose mediamente complesse come un piano di investimento dei risparmi che ci venga proposto.
Il rapporto (divulgato alla vigilia del 3-14, il 14 marzo nella codifica inglese, ma anche il numero del pi greco e la data di nascita di Albert Einstein), dipinge una realtà davvero preoccupante: metà degli adulti in età da lavoro ha le conoscenze matematiche di un bambino delle elementari e il 30% non è in grado di fare le operazioni più semplici. I teenager hanno livelli di conoscenza largamente inferiori ai loro coetanei degli Anni Settanta e la situazione tende a peggiorare.
Eppure, è dimostrato che chi comprende la matematica guadagna di più e ha più probabilità di trovare lavoro. Anche il fatturato e i guadagni delle aziende migliorano se il personale ha familiarità con i calcoli, perché si commettono meno errori e si individuano nuovi possibili introiti. National Numeracy, con l’appoggio del governo, si è dunque dato l’obiettivo di migliore le conoscenze matematiche di un milione di adulti nell’arco di cinque anni, cominciando da un semplice test messo online che consente a chiunque di capire se la sua familiarità con i calcoli è quella di un moccioso delle elementari o di un brillante sedicenne di Eton.
Terminato il quiz, si può accedere a programmi che migliorano l’apprendimento e a esercizi che non richiedono più di 20 minuti al giorno.
Molte aziende hanno chiesto ai loro dipendenti di fare il test e di seguire il percorso didattico che ne segue. Convinto che l’ignoranza della matematica sia un problema serio per il Paese, il governo ha anche ingaggiato sessanta insegnanti di lingua inglese di Shanghai, la città con gli studenti più bravi in aritmetica del mondo. Verranno in Inghilterra a incontrare i loro colleghi e a spiegare come si insegna la scienza dei numeri.
Forse, dovrebbero portare con loro anche qualche mamma-tigre cinese, che insegni ai genitori come si fa a pretendere il giusto impegno, anche in matematica, da un figlio che va a scuola.
La Stampa 14.3.14
Eppure siamo tutti condannati all’utopia
di Marc Augé
Obbligandoci a porre di nuovo la questione dei fini può aiutarci a definire un programma per sfuggire alla crisi, economica e culturale
Si potrebbe ipotizzare che il rifiuto di pensare come un tutt’uno il problema dell’economia e quello dell’educazione sia la causa profonda dei nostri fallimenti in entrambi i campi. Dissociarli significa infatti cedere alla grande tentazione postmoderna: rifiutare di porsi la questione delle finalità. Nelle situazioni di povertà che viviamo oggi è inevitabile che la priorità venga data agli obiettivi a breve termine e ai modi di raggiungerli (aiuti d’emergenza, piani sociali, formazione professionale permanente). Ma nel contempo si passa sotto silenzio la questione del sapere in vista di cosa si lavora o si studia.
È considerata una sorta di lusso, un sogno da intellettuali idealisti a beneficio di altri sognatori, un sogno che bisogna in fretta dimenticare per ripiegare prontamente sugli obiettivi a breve termine. Come in altri ambiti, il problema dei fini ultimi è abbandonato alle divagazioni talvolta letali dei fanatici e dei folli.
La conseguenza non è da poco. Nel momento in cui si invocano requisiti di redditività per giustificare i ridimensionamenti che provocano un calo del potere d’acquisto, a sua volta causa del rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella sua fase attuale), le politiche educative sono sempre meno orientate all’acquisizione del sapere in sé e per sé. Tale orientamento si sviluppa con sempre maggior rapidità e, negli ambienti «economicamente svantaggiati», per riprendere un eufemismo corrente, i bambini hanno una possibilità alquanto scarsa se non nulla di accedere a determinati tipi di insegnamento. I sociologi hanno potuto notare come, in un Paese quale la Francia, il sistema educativo tenda oggi non a diminuire bensì a riprodurre le disuguaglianze sociali. Certo, noi viviamo nell’epoca dell’apertura dell’insegnamento superiore alle masse, ma il tasso di fallimento nei primi due anni è considerevole. L’apertura delle università a tutti, inoltre, è ufficialmente considerata come un mutamento della loro vocazione: le si invita a rispondere anzitutto ai bisogni del mercato del lavoro.
Forse un giorno ci ricorderemo che non v’è altra finalità per gli uomini sulla Terra se non l’imparare a conoscersi e a conoscere l’universo che li circonda – compito infinito che li definisce come umanità alla quale e della quale ciascuno di essi è partecipe. La conoscenza è l’unico modo di conciliare le tre dimensioni dell’uomo: individuale, culturale e generica.
Non è irragionevole pensare che, se decidiamo di sacrificare tutto all’istruzione, alla ricerca e alla scienza, facendo investimenti massicci e senza precedenti, nel settore dell’insegnamento a ogni livello, avremo più occupazione e maggior prosperità. L’ideale della conoscenza non ha bisogno di disuguaglianze sociali o economiche ma, all’opposto, tali disuguaglianze sono fattori di stagnazione, sono ostacoli, una notevole dispersione di energia, un attentato al potenziale intellettuale dell’umanità. È certo, invece, che lasciare aumentare lo scarto tra i più istruiti e i non istruiti significa aggravare irrimediabilmente l’impoverimento della stragrande maggioranza.
Questa idea ha un che di utopico, è vero, perché le politiche reali sono ben lungi dal muoversi in quella direzione, e perché assistiamo ogni giorno alle follie causate dal settarismo e dall’ignoranza. Tuttavia, obbligandoci a porre nuovamente la questione dei fini, l’utopia può aiutarci a definire un programma. In fondo, quali individui mortali, siamo tutti condannati all’utopia. In vista di cosa viviamo? Malgrado la forma interrogativa, questa domanda è l’unica risposta - risposta critica, risposta di crisi - che si possa dare a coloro che pretendono di gestire la nostra vita quotidiana e al contempo di incaricarsi del nostro avvenire.
Dunque come si profila oggi questo avvenire? È probabile che la crisi firmi l’atto di morte dell’ultimo «grande racconto», per citare l’espressione di Lyotard. L’ultimo grande racconto è il grande racconto liberale per il quale Fukuyama ha azzardato la definizione di «fine della storia». La fine della storia consisteva nella constatazione di un presunto accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Questa forma definitiva si riassumeva nella combinazione di democrazia rappresentativa e mercato liberale. Ma non è vero che ci stiamo muovendo verso la democrazia universale così concepita. Nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica, il potere economico e il potere politico si concentrano in pochi punti nodali. Ciò che comparirà, che è già comparso, all’orizzonte delle nostre aspettative, non è una democrazia diffusa su tutta la Terra bensì un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi. L’esistenza di tre sfere sociali, con tutte le loro tensioni e contraddizioni interne, e l’enormità del divario che cresce tra esse, in un universo socio-economico in espansione, contrastano con le dimensioni limitate del pianeta: ecco cosa la crisi ci ha manifestamente rivelato o confermato.
A forza di ignorare il tempo, a forza di cullarci nell’illusione di un eterno presente, come ci incita a fare la molteplicità dei messaggi e delle immagini istantanee o la metafora delle stagioni, ricorrenti in ambito politico, sportivo, letterario e in altri settori, rischiamo di scoprire un giorno che i problemi attuali non erano che le premesse di uno sconvolgimento più radicale. Ho parlato di tre sfere sociali, ma il termine «classe», nel linguaggio del secolo scorso, o, meglio ancora, quello di «Stato», nel linguaggio del XVIII secolo, sarebbero più appropriati. Questi termini hanno comunque il vantaggio di rammentarci che, su qualunque continente ci si trovi, noi viviamo anzitutto un ridimensionamento al quale il nostro sguardo non si è ancora abituato e di cui la crisi è una delle conseguenze.
L’utopia di domani ha, perlomeno, trovato la sua collocazione: il pianeta in quanto tale. Non possiamo ancora sapere se sarà per il meglio o per il peggio, se l’utopia nera dell’oligarchia planetaria si compirà, come sembra stia per accadere, oppure se, in seguito a un capovolgimento storico imprevisto, forse grazie a qualche importante scoperta scientifica, si delineeranno nuove convergenze tra il pensiero dell’universale e l’azione politica.
Le sue opere nel mondo raccontano la sua genialità mai disgiunta dall’umanità che le ispira leit motiv del suo definirsi con orgoglio “di sinistra”. Ma un sogno da realizzare lo aveva ancora l’architetto Massimiliano Fuksas: lasciare alla sua città, Roma, nel cuore dell’Eur, Nuvola che galleggia in una teca di vetro e acciaio alta 40 metri, larga 70, lunga 175 che con la sua capienza di 123 mila persone sarebbe diventato il centro congressi più grande d’Europa. Usare il passato è d’obbligo visto che quel sogno forse resterà nel cassetto. Oppure non porterà mai il suo nome perchè da novembre è stato estromesso dall’incarico. Gentile, ironico, chiama le cose con il loro nome senza riverenza.
Nuvola non sarà completata nel 2015, come sostiene il sindaco Marino e non costerà come preventivato 276 milioni di euro?
Dicono che è stato realizzato il 70 per cento del progetto. Non è vero. Dicono che sarà completato nel 2015. Non è vero. Non ci sono i pavimenti, i controsoffitti, gli impianti interni, la strumentazione tecnica che era fuori dall’appalto, i sistemi di sicurezza. Dicono che costerà 276 milioni. Non è vero. Dicono che occorreranno ancora 100 milioni. Non è vero. Tutto è rimasto a com’era circa sette anni fa. Non esiste un cronoprogramma che vuol dire in quanto tempo e con quanti soldi. La società Condotte, la stessa dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, non ha esperienza in questo senso. Era il 2007. Avrebbero dovuto terminare i lavori nel 2010. Che dire? Io so solo che era il 1998, vivevo in Francia, lavoravo in tutto il mondo, volevo costruire un’opera per la mia città. Ho vinto il concorso internazionale. Da allora Eur spa (90 per cento Tesoro, 10 Comune) ha cambiato quattro presidenti, l’ultimo voluto da Rutelli, Paolo Cuccia, e quattro amministratori delegati, ora c’è un commercialista e la città ha cambiato quattro sindaci. Il progetto è nato senza alcuna copertura finanziaria, questa è la verità. A eccezione di qualche soldo arrivato con Roma Capitale. L’opera, che vale 400 milioni, ha bisogno di una legge specifica come per il Maxxi. Invece è gestita da una società, Eur, con un patrimonio inferiore al miliardo.
Infatti dicono che non hanno più soldi per pagarla, quindi Nuvola non porterà più la sua firma? Lei realizza opere in tutto il mondo, aveva mai vissuto una simile esperienza?
Mai. Abbiamo realizzato l’aeroporto di Shenzen in Cina in tre anni e siamo stati pagati regolarmente. A Parigi abbiamo terminato da poco, sono stati inaugurati da Hollande gli archivi nazionali di Francia, tempo cinque anni, progetto compreso. Stiamo facendo il museo del politecnico a Mosca, una torre a Beverly Hills: in nessun Paese hanno questo tipo di grevezze, nessuno ha mai detto ‘gli abbiamo dato troppo adesso ce lo finiamo da soli’. Come dire: ci hai dato l’idea ora la facciamo noi.
Qual è il male italiano?
La presenza dei partiti, macchine per spartizione di incarichi e prebende come ci spiegò bene il grande Berlinguer. Questo deve essere messo lì perché è stato trombato, quello perché è di quel partito e così via. Alla fine non trovi specialisti in management che sanno come si progetta, ma uno che è di Rutelli e uno che è di An, giusto per fare un esempio. La politica negli altri Paesi dà la linea programmatica, chiede ai funzionari se vi sono le coperture e inizia la procedura. Io i politici li vedo solo all’inaugurazione dell’opera.
In sintesi: opera che non vedrà mai la luce e sperpero incredibile di denaro pubblico.
Esattamente. Dicono ancora che costerà 276 milioni, una cifra vale l’altra, tanto chi mai gliene chiederà conto?
Lo ha mai spiegato al sindaco Marino?
Non l’ho mai incontrato. Non mi ha mai fatto una telefonata per chiedermi: che cosa sta accadendo? Ed è stata proprio questa sua dichiarazione a farmi rompere il silenzio rassegnato che mi ero dato.
Eppure Marino è notoriamente una persona onesta, perbene.
Perbene perché non fa la pipì per le scale? Stiamo parlando del minimo garantito. Governare una città è un’altra cosa.
Di Renzi cosa pensa? Crede alle sue promesse?
Non so più che dire, non spero, sono in attesa nel senso di sospeso. Dicono che non esistono più ideologie, mi viene da piangere. Ieri mentre attraversavo Campo de’ Fiori una signora mi ha gettato le braccia al collo. L’ho riconosciuta solo dallo sguardo: era una ragazza che manifestava con me contro l’invasione del Vietnam. Ecco, non mi sarei ricordato una ministra. Come dire: siamo esuli di un sentire comune.
Cosa vuol dire essere un architetto di sinistra?
Al di là di ogni retorica vuol dire che ogni progetto che fai è legato al contesto, alle persone che ci lavoreranno e ci vivranno. Il mio cliente non è il sindaco, è l’essere umano.
Repubblica 14.3.14
Da Anna Frank a Hello Kitty a Tokyo la Shoah è un manga
di Norihiro Kato
Deciso a non fare i conti con il proprio passato, il Giappone ha fatto proprio il personaggio di Anna Frank, trasformandolo in un simbolo “carino”. A fine febbraio a Tokyo sono state danneggiate centinaia di copie del Diario di Anna Frank. L’esaltazione di simboli nazisti da parte dei giapponesi di estrema destra rappresenta un fenomeno nuovo. L’esibizione della bandiera dell’ex alleato di guerra rappresenta un modo indiretto per inneggiare al passato imperialista del Giappone.
Dal mio punto di vista, è anche il sintomo di un fenomeno più ampio. Negli ultimi decenni il Giappone ha messo in atto un meccanismo mirato ad evitare di dover fare i conti con il proprio coinvolgimento nella Seconda guerra mondiale: ha neutralizzato i punti troppo dolorosi attribuendo loro una valenza puramente estetica e innocua - rendendoli “carini”. Tale strategia sembra non funzionare più. Il termine kawaii, che significa “carino” o “adorabile”, si è affermato come centrale per una certa corrente della cultura giapponese negli anni Ottanta - quando i mutamenti del clima sociale e politico stavano spogliando le figure paterne tradizionali dell’autorità di cui avevano goduto sino agli anni Sessanta. “Carinizzare” qualcosa era un modo per renderla innocua senza ricorrere a mezzi antagonistici. Un famoso esempio di questo fenomeno si verificò nel 1988, quando emerse che Hirohito era considerato dalle studentesse “kawaii”, un giudizio che annullava automaticamente il ruolo ricoperto dall’imperatore durante la guerra. “Hello Kitty”, la gattina bianca che indossa un fiocco rosa sull’orecchio, è la massima personificazione della cultura giapponese del “carino”: non ha un passato ed è priva di bocca. Rappresenta l’impulso a fuggire dalla storia e la volontà di smettere di parlarne.
Qualche anno fa, in un saggio dal titolo “Goodbye Godzilla, Hello Kitty”, ho affermato che Godzilla simboleggia i caduti di guerra giapponesi, tornati tra noi per sfogare la rabbia di essere stati dimenticati. Nel 1954, quando fu creato, Godzilla era una creatura spaventosa. In cinquant’anni e dopo ventotto film, Godzilla è stato prima trasformato in un mostro qualunque, poi addomesticato e presentato nei panni di padre comico e affettuoso. In breve, è stato “carinizzato”.
Il Giappone ha “carinizzato” anche Anna Frank. A gennaio il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un articolo sulla popolarità di Anna Frank in Giappone. L’articolo prendeva spunto da un’intervista ad Alain Lewkowicz, il giornalista francese creatore di un’app interattiva per iPad chiamata “Anna Frank nella terra dei Manga”. In Giappone la storia di Anna Frank è sorprendentemente popolare. Tuttavia, stando a Lewkowicz, anziché essere nota per la sua denuncia dell’Olocausto, Anna Frank da noi «simbolizza la massima vittima della Seconda guerra mondiale». Lo stesso ruolo che la maggior parte dei giapponesi si attribuisce, a causa delle bombe atomiche. Il Giappone, afferma Lewkowicz, è una vittima ma «mai un carnefice» e ciò che consente ai giapponesi di sentirsi accomunati agli ebrei europei dal ruolo di vittima è la loro strabiliante e diffusissima (in particolare tra i giovani) ignoranza riguardo agli atti compiuti dal Giappone durante la Seconda guerra mondiale. «Non pensano alle innumerevoli Anna Frank che il loro esercito ha creato in quegli stessi anni in Corea e in Cina», afferma Lewkowicz. È un ragionamento convincente. Ma c’è dell’altro. L’accoglienza riservata dal Giappone ad Anna Frank rappresenta l’ennesimo esempio della “carinizzazione” delle problematiche irrisolte legate alla guerra. Il Diario di Anna Frank ha conosciuto da noi una fama atipica, anche tramite almeno quattro versioni manga e tre cartoni animati che propongono la storia di una ragazza “carina” quanto Hello Kitty.
La recente deturpazione di tutte quelle copie del Diario di Anna Frank potrebbe forse indicare che la “cultura del carino” ha ormai esaurito la propria efficacia. Le contraddizioni che si annidano nella società giapponese dalla sua sconfitta nella Seconda guerra mondiale sono ormai troppo profonde per poter essere ignorate. E mentre i giapponesi si accorgono finalmente che la loro dipendenza dagli Stati Uniti potrebbe non finire mai, e che non si intravedono soluzioni politiche imminenti ai problemi del Paese, tra di loro si diffonde un senso di nichilismo. La politica reazionaria dell’amministrazione di Shinzo Abe ha esacerbato la sensazione che la democrazia giapponese è inefficace. Se c’è qualcosa di positivo che può essere detto riguardo all’episodio di vandalismo del Diario di Anna Frank, è che potrebbe indurre la società giapponese a mettere definitivamente da parte tutta quella “carineria”, e a fare i conti con la vera storia di Anna Frank e delle sue innumerevoli sorelle.
Repubblica 14.3.14
Noi e loro
Jared Diamond: “così gli stranieri ci dicono chi siamo”
Intervista allo studioso americano premio Pulitzer:
“Autonomia, indipendenza, risoluzione dei problemi: la nostra società potrà salvarsi solo ispirandosi alle civiltà degli altri”
di Maurizio Ricci
Il più celebre geografo vivente è, in realtà, un medico mancato, un fisiologo riluttante, un ornitologo troppo pronto a distrarsi e, tutto sommato, non è neanche un geografo, nonostante la cattedra in geografia all’Ucla di Los Angeles. Prima di sbancare il botteghino del libro, spiegandoci che la superiorità dell’Occidente è poco più di un accidente, dovuto principalmente alla presenza di grossi mammiferi da addomesticare (Armi, acciaio e malattie,1998), poi che le civiltà possono anche morire, se non tengono il passo del loro ambiente (Collasso,2005) e, infine, che le società tradizionali hanno parecchio da insegnarci (Il mondo fino a ieri,2013), Jared Diamond, in effetti, aveva iniziato laureandosi in medicina, sulle orme del padre. Scoperto di non avere la vocazione di Ippocrate, il giovane Jared si butta sulla fisiologia ed eccolo in Inghilterra, concentrato sulla cistifellea. Ma quando torna in America si rende conto - «con raccapriccio », racconta - di essere destinato ad occuparsi di vescicole biliari per tutta la vita. Parte per il Perù e, l’anno dopo, per il posto più remoto che gli viene in mente, la Nuova Guinea, terra degli uccelli del paradiso e di tanti meravigliosi pennuti, sua passione dall’età di sette anni. «Dopo un po’, però - spiega - mi sono reso conto che gli uomini intorno erano anche più interessanti ».
Diamond parla un italiano perfetto e, a tratti, anche ricercato. È a Roma, alla Luiss, per tenere un ciclo di lezioni, ma l’italiano lo ha studiato da zero, molto tempo fa, solo per prepararsi a un viaggio e, a casa, a Los Angeles, fa pratica metodicamente, tutte le settimane, con zelo anche maggiore di quello che dedica ai dialetti della Nuova Guinea, il suo terreno di ricerca privilegiato. «Ma l’italiano lo pratico solo per divertimento », spiega ridendo e mostrando una copia de Il deserto dei tartari di Buzzati, che sta rileggendo in questi giorni.
Buzzati, in effetti, è una delle cose che i dialetti della Nuova Guinea non le possono dare. Il suo ultimo libro, però, Il mondo fino a ieri, ci racconta quanto società apparentemente primitive possono aiutarci a vedere in modo diverso e più efficace molte cose della nostra vita. Mi ha colpito quello che racconta della risoluzione dei conflitti.
«In Nuova Guinea, come in molte società tradizionali, si vive in comunità in cui tutti conoscono tutti, di solito da quando sono nati e in cui ci si incontrerà di continuo, probabilmente per tutta la vita a venire. Mantenere invidia, rancore, malanimo, in questa situazione, è potenzialmente esplosivo. Ecco perché, se qualcuno mi ha ucciso un maiale, il problema non è quanto vale il maiale, ma continuare ad avere un rapporto con l’uccisore. L’obiettivo sociale prioritario diventa, così, la soluzione emotiva del conflitto, il suo superamento, trovare il modo di metterselo alle spalle».
Da noi, invece, conta quantificare il danno.
«Certo. L’incidente automobilistico lo hai di solito con qualcuno che non conosci. Ma anche quando ci si conosce - divorzi, liti per l’eredità - liti, odi, rancori ti inseguono per tutta la vita».
Cioè viviamo peggio?
«Il benessere psicologico ne risente. Un mio amico ha avuto la sorella uccisa dai ladri, sessant’anni fa. Non è mai andato in prigione a parlare con i ladri e, ancora oggi, l’odio lo consuma. So di una donna, invece, il cui marito è stato investito da un camionista. Ne hanno parlato, si sono spiegati: vedova e uccisore hanno pianto insieme. Alla fine, la donna ha detto: perdonare è difficile, ma non perdonare è più difficile».
Però, nelle società tradizionali, se i conflitti non li risolvi emotivamente, le conseguenze - faide, guerre - possono essere devastanti, più che da noi.
«Vero. Ecco perché si sforzano tanto di trovare la risoluzione emotiva ».
C’è un altro esempio nel libro, che riguarda l’educazione dei bambini. Lei dice: noi vogliamo controllare e comandare a bacchetta i nostri figli nell’infanzia e, poi, a 16 anni vogliamo che siano autonomi e indipendenti. Difficile. In Nuova Guinea, invece, i bambini sono autonomi e indipendenti fin da piccoli. E fa l’esempio del ragazzino che si offre di fare da guida a un bianco nella foresta e parte per una settimana, senza neanche avvertire i genitori.
«Esatto. È capitato a me».
Ma lei come avrebbe reagito se suo figlio se ne fosse andato con uno sconosciuto per le strade della California?
«Non bene, di sicuro. Ma volevo soprattutto sottolineare un atteggiamento mentale su cui tutti i genitori dovrebbero riflettere».
D’altra parte, come lei ricorda, sono anche società in cui, ad esempio, può essere considerato assolutamente normale strangolare le donne che rimangono vedove.
«Non lo raccomando certamente ».
Insomma, ci sono esempi positivi ed esempi negativi. In questo senso, è un libro strano. Armi, acciaio e malattie era un libro con una tesi suggestiva e precisa per spiegare perché è Cortés che sbarca in Messico e non Montezuma che arriva in Spagna. Collasso ruota intorno a una ricostruzione dettagliata di come società che non si preoccupano del fatto che le loro pratiche non siano ecologicamente sostenibili siano destinate a perire, i Vichinghi in Groenlandia, come gli abitanti dell’isola di Pasqua. Il mondo fino a ieri, invece, manca di una tesi univoca.
«Sono d’accordo, è un libro meno semplice. Forse, perché, in origine, doveva essere soprattutto un percorso autobiografico sulle mie esperienze in Nuova Guinea. Alla fine, è venuto fuori un libro che vuole intrattenere con le sue storie e, contemporaneamente, fornire suggerimenti e insegnamenti».
Un filo che corre lungo tutta la sua opera, però, c’è. Lo potremmo definire: Noi e Loro. Perché abbiamo vinto noi in Armi, acciaio e malattie.
Perché i vichinghi europei, rifiutando deliberatamente di imparare dagli eschimesi (ad esempio, mangiando pesce) si condannano all’estinzione. E altre cose da imparare dai vinti di ieri in questo ultimo.
«Accettando il fascino delle differenze. Quando sono sbarcato per la prima volta in Nuova Guinea loro mi sembravano diversissimi, da come si vestivano a come si comportavano, a come vivevano. Poi, ho cominciato a vedere le somiglianze: in fondo, ridevano come noi. E piangevano anche. Ma ci sono differenze più profonde. Prenda l’amicizia. Noi facciamo amicizia in fretta e poi restiamo amici a lungo, solo per il piacere di vedersi e frequentarsi. In Nuova Guinea, un’amicizia per puro piacere non ha senso. Si è amici solo se c’è un reciproco vantaggio che possiamo scambiarci. Ci ho messo dieci anni per capirlo».
Sarà “Noi e Loro” anche il prossimo libro?
«No. Lo sa che sono vissuto in Inghilterra, negli anni Cinquanta e Sessanta, quando smettevano di essere un impero, in Germania quando alzavano il Muro, in Cile prima di Allende e Pinochet? Vorrei raccontare come le società moderne affrontano le grandi prove di crisi e cambiamento».
È questo il titolo, “Crisi e cambiamento”?
«Probabile. Mi interessa capire quali fattori sono in azione, anche basandomi sulla psicologia».
In che senso la psicologia?
«Mia moglie è psicologa e mi sono convinto che ci sono corrispondenze fra crisi nazionali e crisi personali ».
Difficile pensare a una nazione sul lettino dello psicanalista. Mi faccia un esempio.
«La leadership. La capacità di leadership è un fattore cruciale nelle crisi nazionali, inesistente in quelle personali. Ma prenda la rigidità, la capacità o l’incapacità di sperimentare cose nuove. O anche il senso di sicurezza. O la fiducia».
Quando sarà pronto?
«Nel 2018».
Jared Diamond dialogherà con Piergiorgio Odifreddi durante l’incontro “Come raccontare il mondo del passato” che si terrà a “Libri Come. Festa del libro e della lettura” domenica 16 marzo alle ore 16, all’Auditorium Parco della Musica di Roma
Repubblica 14.3.14
Pirandello inedito su Roma “Provo orrore per le vie e la gente”
ROMA - «Provo orrore per le vie cittadine e la gente che vi cammina». Così Luigi Pirandello (1867-1936) descriveva Roma allo scrittore Massimo Bontempelli in una lettera inedita, scritta nella capitale, nella sua abitazione di via Alessandria 129 il 26 giugno 1910. Il documento è custodito nel Fondo Manoscritti del Getty Research Institute di Los Angeles ed è stato pubblicato sulla rivista Nuova Antologia.
«Lei non sa la selvaggia vita ch’io vivo in questa via remota», continua Pirandello riferendosi al suo domicilio, «un buon tratto fuori di Porta Pia, solo e senza più desiderio di compagnia».
Corriere 14.3.14
Vasco: mi ispiro a Nietzsche per le mie «Dannate nuvole»
Il rocker e l’inno alla vita: non bisogna mai arrendersi
di Andrea Laffranchi
Vasco filosofo. Per la sua ultima canzone, che si intitola «Dannate nuvole» e che si può sentire in radio da oggi, dice di essere stato «ispirato dalla lettura di Zarathustra di Nietzsche».
Non è la prima volta che Vasco cita il pensatore tedesco. Senza mai infilarlo direttamente in un brano, come aveva invece fatto ironicamente Zucchero in «Nice (Nietzsche) che dice», il rocker da quando lo ha scoperto a fine anni Novanta lo ha spesso citato come punto di riferimento culturale.
«Dannate nuvole» è una ballad in cui Vasco riflette sulla vita, sul fatto che tutto avrà fine perché «tutto si deve abbandonare/ niente dura» anche se è difficile perché «non ti ci abitui mai». Ma in fondo va bene così. Perché comunque anche se «non esiste niente/ solo del fumo» e se «sono confuso» perché «niente è vero» non bisogna mollare: «Tu non ti arrenderai». E le nuvole? «Le dannate nuvole rappresentano il mondo nel quale vivo quando non sono coi piedi per terra», spiega Vasco.
Torniamo a volare basso. Musicalmente quello di «Dannate nuvole» è un Vasco con qualche novità. Ballad delicata, niente chitarra nelle prime strofe, né elettrica né acustica. La scarica rock arriva più avanti, con la chitarra di Stef Burns che si sfoga anche in un assolo (forse un po’ gratuito) che porta Vasco verso quel suono più heavy e tagliente che il rocker ha annunciato di voler portare dal vivo. Tutto registrato col produttore storico Guido Elmi fra gli Speakeasy studios a Los Angeles e l’Open Digital di Bologna.
I concerti si avvicinano. Tre all’Olimpico di Roma (la «prima» il 25 giugno) e quattro a S. Siro, la seconda casa di Vasco. Il Kom ha cambiato la band: fuori Maurizio Solieri, il chitarrista che era con lui dagli esordi e il batterista Matt Laug, dentro Will Hunt che darà più spinta alla ritmica con la sua doppia cassa e Vince Pastano alla chitarra ritmica. «Il tema di quest’anno sarà: i cambiamenti. Live Kom è un marchio che rappresenta il più potente concerto rock del mondo. Chi vivrà vedrà. State bene voi che a me ci penso io», dice un sibillino Vasco nel backstage del video di «Dannate nuvole», online anche questo da oggi.
È in arrivo anche il nuovo disco, a tre anni dal precedente «Vivere o niente». «Sarà un grande album, pieno di contrasti, ricco e intenso», anticipa il Komandante. I fan devono aspettare ancora. Uscirà soltanto a novembre, il 4. Vasco prosegue quindi con il suo nuovo modo di proporre le sue canzoni inedite. Non più uno o due singoli che lanciano il disco un paio di mesi prima dell’uscita, ma un processo più dilatato nel tempo. Vasco pubblica brani in libertà, quando il fiuto gli dice che è il momento di farle sentire al pubblico. L’anno scorso è uscito «L’uomo più semplice», dopo l’estate è stata la volta di «Cambia-menti». Ora questo terzo capitolo. E ci sarà sicuramente altro prima di novembre. «Dannate nuvole» sarà disponibile anche come cd singolo, un formato abbandonato dalle case discografiche da qualche anno, privilegio riservato soltanto ad artisti come U2 e Rolling Stones che hanno una fan base di «completisti», disposti a comprare tutto.