Repubblica 26.2.14
Gli invisibili dell’Europa
di Barbara Spinelli
«IL DOLORE sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale dell’Ocse.
Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità - e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva - ma l’ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».
Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo.
«Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica», constata la rivista, «ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista». Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano «efficaci», e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.
Né è solo «questione di comunicazione» sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la «fatica delle riforme» (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi «sono alle prese con resistenze sociali molto forti». Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.
Difficile dar torto alle «forti resistenze sociali», se solo guardiamo le cifre fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20.
Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).
La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta.
Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Euroto.
pa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali «di strada» son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne.
Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.
La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: «L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali» - «l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale». Nessuno sa quale contributo.
Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi «interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale». Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani. Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ‘14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà».
La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.
l’Unità 26.2.14
Bobbio: il rischio di confonderlo con Gaber
di Bruno Gravagnuolo
DESTRA E SINISTRA PER BOBBIO: LA DISTINZIONE REGGE O NO? È questo che dovrebbero chiarire Renzi che «rilegge» Bobbio, e Marco Raccagna, segretario Pd di Imola, che ieri su l’Unità replicava alla nostra lettura della rilettura renziana di Bobbio, uscita ieri l’altro. Il punto è se la sinistra resti imperniata sull’eguaglianza oppure no. E se la destra viceversa sia fondata sul privilegiamento dell’ineguaglianza come virtù dell’incivilimento. Questo aveva sostenuto e non altro Norberto Bobbio nel suo saggio Donzelli, oggi ripubblicato con revisione annessa di Renzi. Bene, tanto Renzi che Raccagna concedono che a sinistra si riparte di lì, dall’eguaglianza. Ma poi «aggiungono» altri «opposti» per descrivere il crinale destra/sinistra: innovazione/conservazione; avanti/ indietro; aperto/chiuso. Raccagna si sbizzarisce, inserendo pure governare/comandare e ascoltare/ ignorare, etc. Già e perché non camminare/star fermi; dire/non dire; gioire /disperarsi; ridere/piangere? Non scherziamo. Così finiamo nel tormentone di Gaber: cos’è di destra, cos’è di sinistra? O nei passatempi tanto cari alla destra e ai liberali, inventati proprio allo scopo di dissolvere e ridicolizzare la famosa distinzione.
Stiamo al tema: «innovazione» di che? «Conservazione di che»? «Avanti verso dove»? «Aperto» e «chiuso» rispetto a cosa? Per Bobbio contava il segno dominante, il senso storico e valoriale prevalente. La destra mette l’accento su ciò che distingue, contrappone e gerarchizza. La sinistra su ciò che rende simili e «orizzontali» gli umani. Per l’una il progresso è nell’asimettria coltivata, per l’altra nell’eguagliamento secundum quid: secondo il proprium di ogni persona. Talché tutti e in egual modo hanno diritto alla loro diversità. E tutti vanno portati verso l’alto, e senza redistribuire tra poveri e meno poveri! È l’eguaglianza stella polare appunto, che in Bobbio reinclude tutte le altre istanze distintive possibili. Sennò dovremo dire che anche Reagan (o il Duce!) erano a sinistra, perché innovavano. Eccome se innovavano.
l’Unità 26.2.14
Civati: «Se fossi stato nel gruppo misto avrei votato no»
di Osvaldo Sabato
Quanti dubbi sul nuovo governo di Matteo Renzi. Anche ieri nel suo intervento alla Camera durante il dibattito sulla fiducia ha voluto ribadire che il nuovo esecutivo «sembra un pasticcio incredibile». Ma alla fine ha dato il suo via libera al governo ammettendo che non è stata una scelta facile. Anzi come spiega lui stesso è stata «molto travagliata». Il parlamentare del Pd Pippo Civati però non ci sta a rispolverare semplicemente la categoria dei «malpancisti». «Qualcuno pensa che tutta la politica sia tattica, ma io ci sono stato male davvero in questi giorni» osserva il deputato democratico «questo per me è un voto contraddittorio rispetto a tante cose che penso».
Infatti il suo è un netto cambio di rotta dopo quanto detto nei giorni scorsi.
«Io ho sempre ripetuto che stavo valutando se votare la fiducia e che personalmente ero per il no e che avrei fatto le valutazioni politiche conseguenti, cioè: Civati se non vota la fiducia non è più legittimo che stia nel Pd. L’ho sentito dire da tanti in questi giorni, me lo hanno fatto capire, ma l’avevo capito anche da solo. Quindi, siccome io penso, per l’ultima volta, che il Pd sia il luogo dove fare il cambiamento della società e ricostruire il centro sinistra ho deciso di votare la fiducia per non sfasciare tutto, perché come dice Bersani: sfasciare il Pd significava sfasciare anche quel poco che di politica resta nel nostro Paese. Però ripeto che se fossi stato uno del gruppo misto avrei votato no».
Per riprendere Bersani l’ha fatto per la “ditta”.
«L’ho fatto per un’idea della politica di fronte a tanta slealtà, a tanti comportamenti tattici, a tanti cambiamenti di casacca interessati, la mia è una posizione totalmente disinteressata, che probabilmente mi fa perdere anche della credibilità dentro il Pd, ma che in questo momento ho ritenuto di assumere di fronte a tanto spaesamento. Sono stato l’unico ad aprire un dibattito sulla questione, ho visto tanti dire ieri (lunedì n.d.r) che questo governo non andava bene, se magari fossero intervenuti una settimana fa avremmo discusso in tanti e non da solo di questa questione, io ho fatto partecipare le persone con una consultazione on line con i nostri che si sono divisi a metà fra la sfiducia e la fiducia, c’è stata un’assemblea a Bologna in cui era chiarissimo che se dentro si sentivano tutti sollevati del fatto che io votassi la fiducia e rimanessi nel Pd, fuori il sentimento era esattamente contrario: volevano che rompessi, che andassi a costruire qualcosa di diverso».
E lei non ha ritenuto di farlo.
«Non l’ho fatto perché penso che il Pd debba porsi la sfida, come ho detto in aula, di ricostruire il centro sinistra e portare il cambiamento vero al governo. Io l’ho ribadito in direzione, ho votato contro, poi non è colpa mia se altri hanno deciso di arrivare fin qui».
A chi si riferisce?
«Allo stesso Renzi. Ma anche alla mozione Cuperlo o comunque ai suoi delegati o ai suoi parlamentari, se avessero fatto decidere alle persone che si sono riconosciute nella mozione Civati tutto questo non sarebbe capitato, lo voglio chiarire fortemente, altrimenti sembro l’incoerente io quando sono incoerenti quasi tutti gli altri».
Ora però è nella difficile situazione di aver detto sì al governo Renzi, ma nello stesso tempo lo contesta.
«Posso dire che il mio è stato un atto di amore verso il Pd, nonostante l’errore che sta commettendo. Mi sembrava un ricatto inaccettabile che dovessi andarmene dal Pd per esprimere una posizione di cui sono convinto. Tutto qua. Non c’è nessuna disciplina di partito è un fatto solo politico. Quando uscirò dal Pd, se mai capiterà, spero mai, lo deciderò io e non perché ce qualcuno che da segretario fa il contrario di quello che aveva promesso una settimana prima. Mi sembra che la rottura l’abbiano consumata altri con una scelta di un governo politico di legislatura, che nessuno ha votato e che sbilancia il Pd verso destra come forse non era mai capitato».
Il suo è un sì condizionato. Ora c’è da approvare le riforme. «Noi non accetteremo sempre il ricatto del voto o così o niente, sennò stiamo anche a casa».
L’è piaciuto il discorso di Renzi?
«Ha detto poco, o nulla. Io non ho capito quali sono i suoi punti programmatici».
Corriere 26.2.14
E Civati ha già pronto il simbolo Ncs, Nuovo centrosinistra
di Maria Teresa Meli
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Qualche problema anche dal Pd. Infatti, mentre la minoranza interna si sta acconciando in qualche modo a un compromesso, tant’è vero che si parla della possibilità di eleggere Pier Luigi Bersani alla presidenza del partito e di utilizzare il dialogante Roberto Speranza in versione anti Stefano Fassina, Pippo Civati ha già pronto il simbolo del Nuovo centrosinistra: è simile a quello del Ncd. Solo che i caratteri sono scritti in rosso e, ovviamente, la sigla è Ncs. Civati lo ha pronto. Non sa ancora se lo userà ma sta lì bello stampato e lo fa vedere sia ai colleghi di Sel che ai grillini dissidenti.
l’Unità 26.2.14
La frustata di Fassina. Ma la sinistra è divisa
L’ex viceministro: «No a deleghe in bianco»
Ma Orfini apre: «Governo pienamente legittimo e politico nel senso più pieno»
Bersaniani critici con le ultime mosse di Cuperlo
di Maria Zegarelli
«La solitudine al comando non funziona. La storia del ventennio alle nostre spalle dovrebbe essere chiara. Non funziona soprattutto quando vogliamo andare contro vento, contro il vento del populismo regressivo. Noi condividiamo, tutti noi condividiamo la responsabilità politica del governo da lei presieduto». Stefano Fassina esordisce così in Aula durante il dibattito sulla fiducia e Matteo Renzi segue con grande attenzione il suo intervento, mettendo da parte twitter, biglietti e bigliettini. Fassina critica la politica europea infarcita di solo rigore, chiede un’altra Europa, «una radicale correzione di rotta» per evitare «il naufragio», una compiuta unione bancaria, con un fondo destinati alle crisi, «golden rule nei bilanci nazionali», revisione del fiscal compact. Ma soprattutto, dice la premier, la sua fiducia non sarà «una delega in bianco, valuterò il merito dei provvedimenti. Il merito guiderà le mie scelte». E quando tocca a Pippo Civati, la cui fiducia arriva dopo un dibattito con la base, i suoi elettori, le parole cambiano, ma la distanza è la medesima. «Ciao Matteo, volevo dirti che stai sbagliando. Anche io ho sognato che la nostra generazione andasse al governo, ma con il voto delle persone e non con una manovra di palazzo che neanche ai tempi di Rumor». Affonda il coltello là dove sa che la piaga duole di più, il vero rammarico del sindaco che sta tutto nell’essere arrivato a Palazzo Chigi senza la legittimazione di un voto, pur nella legittimità della Costituzione. «Oggi - dice .- credo di rappresentare il disagio di molti elettori, non di tutti, del Pd. Disagio che si è manifestato anche in alcuni interventi al Senato e che è molto forte. Se ho deciso alla fine, dopo un lungo travaglio, di votare la fiducia e di prendere anche dei fischi lo faccio perché come ha detto Bersani non si deve sfasciare tutto». Civati ribadisce che continuerà a lavorare per il centrosinistra che prima o poi dovrà presentarsi alle elezioni, quel centrosinistra che è la sua «ossessione», dice. I giovani turchi hanno una posizione diversa, anche rispetto al voto in direzione che secondo loro non poteva che essere «sì». «La vera sfida che il Pd ha di fronte è di “cambiare verso” alla crisi, rottamando idee e ricette che lo stesso Renzi ha coltivato in questi anni - scrive Matteo Orfini su Left Wing - . Su questo si misurerà la capacità del presidente del Consiglio di essere all'altezza del coraggio e della innovazione a cui costantemente si richiama». Secondo Orfini il Pd sta vivendo un passaggio «lacerante ma inevitabile... Figlio dell'incapacità di Letta non di cambiare passo, ma di cambiare la direzione di marcia del suo esecutivo, lanciato contro gli scogli dall'ideologia dell'austerità». Unsì alla fiducia ad un governo «pienamente legittimo», conclude, «politico nel senso più pieno, in cui il ruolo del Pd è assai maggiore di prima. Dunque maggiore sarebbe il prezzo che il Pd pagherebbe al suo fallimento».
Ma quella che è la cosiddetta minoranza del Pd è in subbuglio al suo stesso interno, non solo sul fronte civatiano. Anche tra i cuperliani c’è gran fermento e una nutrita gamma di sfumature e variazioni rispetto alla posizione ufficiale. I bersaniani, che appoggiarono la candidatura dell’ex segretario Fgci per mancanza di alternative, oggi è su Roberto Speranza che puntano guardando al futuro. È a lui che hanno affidato la delicata pratica dei ministri e dei sottosegretari, anche per il rapporto fluido che c’è tra il capogruppo e il premier-segretario, ed è a lui che intendono affidare l’altra pratica, quella interna al partito. Ma soprattutto perché non apprezzato come Gianni Cuperlo ha gestito le dimissioni dalla Presidenza e i suoi colloqui con Renzi rispetto al governo. E adesso che sul piatto ci sono segreteria e presidenza, vogliono giocare direttamente la partita. Renzi in questa avventura al governo vuole avere il partito con sé e quindi una gestione collegiale del partito. I giovani turchi per ora non si sbilanciano, preferiscono aspettare. E su questo i bersaniani la pensano allo stesso modo, soprattutto perché vogliono capire cosa intende Renzi per gestione collegiale, «se intende offrirci posizioni simboliche deve sapere che non siamo interessati», racconta uno di loro. Né intendono seguire, d’altro canto, Gianni Cuperlo nella battaglia contro il doppio incarico segretario-premier. Quello che vorrebbero è entrare pienamente nella gestione attraverso, per esempio, il vero ruolo chiave, l’Organizzazione. Masu questo fronte la strada è sbarrata. Il segretario, che intende restare tale, di fatto darà la gestione del partito ad un uomo di cui si fida ciecamente: Lorenzo Guerini, a cui andrà il coordinamento della segreteria e l’organizzazione, appunto, dato che il «fratello minore» Luca Lotti lo seguirà a Palazzo Chigi. Intanto giovedì ci saranno segreteria e direzione dedicate all’ingresso del Pd nel Pse. Beppe Fioroni è già sul piede di guerra.
il Fatto 26.2.14
Abbraccio Letta-Bersani Il Pd è pronto alla guerra
L’ex segretario del partito ritorna in aula dopo la malattia: “sono qui per Enrico,” chiarisce e sul Primo ministro: “non è umile. Va aiutato”
di Carlo Tecce
I cronisti presidiano il Transatlantico, il corso per lo struscio dei deputati, scrutano l’orologio con ossessione. Ecco, Enrico Letta: no, depistaggio. Corsa verso il corridoio per i fumatori. Ecco, Enrico Letta: no, allucinazioni. E poi accade, e sembrava che non potesse accadere. La porticina che protegge le scale di servizio, via di fuga per i parlamentari, viene spinta con discrezione: ecco, Pier Luigi Bersani.
E l’ex segretario ci mette un paio di secondi per mostrare di essere tornato, e pure in forma: “Io sto bene, voi? Sono qui per salutare Enrico”. E riprende la caccia a Letta in tattico ritardo, mentre Bersani entra in aula e riceve un’ovazione.
I PARLAMENTARI osservano l’angolo a destra di un emiciclo strapieno con il presidente Matteo Renzi che sta per replicare ai 57 interventi. Ora, il momento è perfetto per rubare la scena senza andare in scena. Ecco, stavolta davvero ecco: appare Enrico Letta, fa tre passi, e poi immobile, quasi rigido. Cerca Bersani fra i banchi, quinta fila, e s’avvia di fretta. Non guarda verso sinistra, non guarda verso Renzi. Un gesto formale per Angelino Alfano, tiepido con Graziano Delrio. Cinque forse otto gradini, Bersani s’avvicina e Letta l’abbraccia. Il contrappasso è servito: Renzi, chi? Occorre la moviola per raccontare il tragitto di Letta che, ignora ancora Renzi, e va a prendere posto in quel filotto di seggiole riservate al Comitato dei nove. Non nel gruppo democratico, ma in traiettoria con lo sguardo di Renzi. Adesso è fisicamente lontano dai colleghi di partito. Il presidente s’alza in piedi, prova a non infilare le mani in tasca e comincia a parlare con una lunga premessa. Letta tamburella con le dita. Bersani scherza con la vicina. Renzi cita l’ex amico Enrico di sfuggita, ripete che ne riconosce i meriti. Letta s’impettisce e scivola con la schiena in poltrona, stende le mani contro il tavolo di legno come se fosse in discesa (senza cintura) a bordo di una giostra. Bersani è in posa classica col gomito che sostiene il mento. La platea è gelida. Allora Renzi, che s’era già esercitato su Twitter (come Letta), dà il benvenuto a Bersani e lo utilizza per ramazzare i Cinque Stelle: “Ho perso le primarie contro Pier Luigi, non mi ha espulso perché questa si chiama democrazia interna”. Applausi, automatici: per Bersani, non per Renzi. Letta studia con attenzione un foglio bianco con l’intestazione Camera dei deputati: a ogni sillaba di Renzi ne piaga un lembo. Bersani va a prendere un caffè con i fidatissimi Stefano Di Traglia e Chiara Geloni. Letta accoglie centristi, montiani, leghisti, ex ministri e pure una delegazione di democratici, tanti che l’hanno cacciato pubblicamente in direzione al Nazareno. Bersani è piuttosto loquace, non risparmia nulla a Renzi: “Credo che sia un governo che ha lanciato una sfida seria. E benché mi pare non abbia umiltà, penso che sia un esecutivo bisognoso di aiuto e quindi bisogna dare questo aiuto”. Il discorso di Renzi non ha provocato entusiasmi: “Dobbiamo misurare lo spread fra le dichiarazioni di oggi e i fatti di domani. Ma il partito regge, tranquilli. Anche se il passaggio fra Enrico e Matteo ha ammaccato il Pd”. Ultime pratiche: il voto. La B di Bersani precede la L di Letta. Escono quasi insieme. L’ex presidente s’apparta nei sotterranei con il ministro Maurizio Lupi. Bersani è soddisfatto, e la politica non c’entra nulla: “I medici mi avevano consigliato di provare, mi sembra sia andata bene”. L’ex segretario porta addosso i segni di un’operazione delicata, non voleva mancare, però. E nonostante le cinque ore di viaggio e una fatica non da poco, Bersani ha cercato di convincere Letta: “Enrico, devi venire. Non soltanto per dare il tuo sì a questo governo, devi assistere al dibattito in aula”. E l’indeciso Enrico ha risposto, affermativo: “Ci vediamo in aula”.
LETTA CONTINUA a meditare: meglio fare opposizione da dentro oppure abbandonare il partito? Non ha giudicato il governo di Renzi, ma non smette di rivendicare: “Io e Pier Luigi abbiamo dimostrato la nostra lealtà, che è una categoria politica. Renzi no. E guida la maggioranza che guidavo io”. Dopo il pieno di rancore, Letta prenota un biglietto per Londra.
Corriere 26.2.14
Il ritorno dell’ex leader carica la minoranza: è solo un libro dei sogni
Tanti i dubbi. Epifani: dove trova i soldi? I sì con «riserva» di Fassina e dei civatiani
di M. Gu.
ROMA — Nel Pd lo votano tutti. Ma intanto lo criticano nei capannelli, scherzano sul «Malox» per placare i maldipancia, evocano il collasso del partito e dell’Italia... «Ciao Matteo, devo dirti che stai sbagliando. La nostra generazione sta andando al governo con una manovra di palazzo che neanche Mariano Rumor avrebbe fatto», esordisce in Aula Pippo Civati. Ed è l’annuncio di un voto di fiducia che arriva «per non sfasciare tutto, il Pd e anche il Paese».
La minoranza è spiazzata, smarrita, sgomenta. C’è chi parla con imbarazzo dell’esordio di Renzi e chi indirizza al leader «modesti e sommessi» consigli. Il senatore Paolo Corsini: «Invece di dedicare gran parte del suo tempo a twittare si applichi a studiare i dossier, così da evitare promesse fondate sulla retorica ritrita del sogno».
Nel complesso i toni dei deputati sono meno acidi, eppure il tema — tra gli onorevoli bersaniani, dalemiani, civatiani, bindiani e i pochi lettiani rimasti — è sempre lo stesso. Dove pensa di scovare le coperture economiche? Lo dice Guglielmo Epifani,senza giri di parole: «I titoli di Renzi vanno tutti bene, nel merito però si è tenuto un po’ largo. Dove trova i soldi?». L’ex segretario spiega la freddezza di una parte del Pd con «le modalità della staffetta», eppure non vede alternative: «Su una cosa la sinistra del Pd è compatta, il governo deve andare avanti». Beppe Fioroni, che non vuole «morire socialista» e prepara l’attacco domani in direzione sull’ingresso nel Pse, discetta di quanto «povera» sia stata la replica di Renzi: «Si rivolge all’esterno, additando chi fa parte della classe politica come avversari». Cesare Damiano è preoccupato: «Manca completamente il sociale. E le pensioni? La riforma Fornero va cambiata». Uno sconcerto che riguarda anche la tempistica della riforma elettorale. Stefano Fassina, già viceministro all’Economia, promette che il suo giudizio dipenderà solo dal merito dei provvedimenti: «Il mio voto di fiducia non è il conferimento di una delega in bianco». E più tardi in Aula, rivolto al premier: «Lei ha detto che se il suo governo fallirà sarà colpa sua. Parole coraggiose, ma non è così. Se perderemo la colpa sarà di tutto il Pd... Non lasceremo solo il governo perché la solitudine al comando non funziona». Eccolo, il fantasma contro il quale Bersani si era battuto e che ora ritorna, con forza, anche nelle parole di Massimo D’Alema: «Non è il mio modello. Ma ora c’è e dobbiamo aiutarlo». Quando Bersani riappare a sorpresa in Transatlantico corrono ad abbracciarlo da sinistra e da destra. Renato Brunetta: «Ben tornato amico mio... Serviva qualcuno che venisse a smacchiare il giaguaro».
Bersani parla della staffetta a Palazzo Chigi come di una «ferita da rimarginare» e denuncia la mancanza di umiltà del premier. Ma non strappa, anzi ricompatta la minoranza sul sì alla fiducia per non «lasciare solo» Renzi. Il ritorno del «capo» ha risvegliato gli animi, riacceso suggestioni e tentazioni. Nei capannelli in Transatlantico c’è chi evoca il congresso e si prepara a chiedere a Renzi di rinunciare alla segreteria. E c’è anche chi si spinge più in là, fino a immaginare vecchie leadership che tornano nuove. «Fra tre mesi Letta riappare e organizza l’alternativa a Renzi...», sogna a occhi aperti un cattolico. E il lettiano Marco Meloni, che ha votato per disciplina di partito: «Dov’è la svolta? Abbiamo visto solo l’indeterminatezza assoluta del programma».
Repubblica 26.2.14
Il Partito democratico
“La scissione non ci sarà ma una ferita c’è stata a sinistra serve un’anima”
Cuperlo: non basta arrivare al governo
di Alessandro Longo
ROMA - Nessuna scissione. Gianni Cuperlo non vede nel futuro del Pd alcuna diaspora di dissidenti: Renzi ha vinto, «l’esito del congresso non è messo in discussione». E non resta che sostenere il nuovo premier «con lealtà, per il bene dell’Italia e degli italiani». Civati, Fassina, i malumori dentro il partito? «E’ indubbio che si sia prodotta una ferita», certifica Cuperlo, il quale tuttavia invita a pensare più lungo: «La vera sfida per la nuova generazione è dare anima e un corpo sociale a una sinistra che si è smarrita come l’ombra di Peter Pan nelle luci di Londra».
Cuperlo, iniziamo da Pier Luigi Bersani in aula, dopo la malattia, per votare la fiducia e abbracciare Enrico Letta.
«Gli applausi dell’aula per il suo rientro sono stato il momento più intenso della giornata e forse non solo di questa giornata».
Bersani dice: questo governo non è umile, bisogna aiutarlo.
«E’ vero. Bisogna aiutare il governo a non fallire per il bene del Paese. Renzi ha cambiato abiti, non è più Gian Burrasca. Adesso guida l’Italia, suscita attese che lui stesso ha esaltato affermando che questo esecutivo è l’ultimo treno. Io lavorerò con lealtà perché superi i traguardi che ha indicato. Però lui deve capire che la differenza non la farà la rapidità ma il coraggio di ripensare l’idea di giustizia. Non funziona dire che la diade uguaglianza/diseguaglianza può essere scalzata dalla coppia vecchio/nuovo o lento/rapido. Perché il rischio è quello di farci buscare il Ponente con quel che segue. Il punto è che ridurre la sinistra alla sola leva del governo è stato l’errore più tragico del ventennio e riprodurlo sarebbe sciagurato».
Non vorrei insistere ma i malumori dentro il Pd sono carnalmente e politicamente definiti: Fassina che non dà la fiducia in bianco, Civati che ancora non se ne va ma non è detto che rimanga per sempre. Lei esclude il rischio scissione?
«Io non vedo questo pericolo. Per me non è in discussione l’esito del Congresso. Pongo un tema diverso: senza un’altra cultura del presente e senza una sinistra che pensi l’Europa e il mondo dopo la destra, anche questa sfida di governo subirà il ricatto dell’emergenza».
E’ una sfida nata in modo cruento.
«E’ indubbio che si sia prodotta una ferita. Noi avevamo chiesto a Letta una ripartenza di fronte al conflitto tra Renzi e il governo. Il segretario ha voluto chiudere quella stagione e ha chiesto un mandato per sé dicendo che era l’unico modo per avviare le riforme e dare un senso alla legislatura. In democrazia conta la legittimazione. Renzi il congresso lo ha vinto con consenso larghissimo mentre io allora spiegavo che non stavamo scegliendo il premier ma una guida per il Pd. Io ho perso ma sul punto avevo ragione: Renzi ha guidato il Pd per due mesi e da lì ha spiccato il balzo per altro. Adesso lavoriamo perché il governo riesca nei suoi obiettivi ma anche per capire quale futuro ci sia per il primo partito della sinistra».
E il Pd chi lo guida?
«Sarà Renzi a dare un’indicazione. Il mio problema, a due mesi dal Congresso, non è chi guida il partito ma che partito abbiamo in mente. Tutto questo nella cornice di una crisi che ha travolto il ceto medio, infragilito la percezione della democrazia, restituito l’Europa ai suoi fantasmi novecenteschi. L’insieme di queste cose non lo racchiudi in un programma, fosse pure di legislatura, ma deve rifondare l’economia e la politica. La domanda è quale ciclo storico si aprirà dopo la peggiore crisi dell’ultimo secolo. Per noi in quel nuovo ciclo diritti e cittadinanza saranno leva della crescita e anche la via per praticare ancora partecipazione e civismo. Questa maggioranza ha delle potenzialità e dei limiti perché la visione che la ispira non è solo la nostra. E però le grandi riforme non sono neutre, hanno un segno e per realizzarle servirà un governo di centrosinistra. Anche per questo è indispensabile che il partito non si rinchiuda solo dentro le istituzioni».
C’è chi dice: belli i titoli del programma di Renzi. Ma dove sono i soldi?
«Nelle condizioni in cui si trova il Paese se ti impegni a fare dieci devi fare dieci. Se evochi il taglio del cuneo fiscale a due cifre poi devi essere conseguente. Ma Padoan è il miglior ministro dell’Economia che si poteva trovare».
Il governo Renzi arriverà a fine legislatura?
«Non è la domanda di oggi. Questo governo si è insediato. Il tempo delle parole si è consumato e ogni giorno deve portare una prova di concretezza».
Corriere 26.2.14
Governo Renzi
L’ambasciatore degli Stati Uniti: faremo di tutto per sostenerlo
di M.Antonietta Calabrò
ROMA — Arriva nel pomeriggio al Centro studi americani di Roma e non si sottrae alla domanda sul nuovo esecutivo, l’ambasciatore degli Stati Uniti John Phillips. «Gli Usa», ha detto , «faranno tutto il possibile per sostenere gli sforzi del nuovo governo Renzi» perché «per l’Italia la crescita è essenziale per la creazione di posti di lavoro». Phillips ha naturalmente sottolineato che gli Stati Uniti lavorano a «stretto contatto» con tutti i premier italiani nell’ambito di un «rapporto di stretta cooperazione» e «intendono lavorare con questo premier al pari di quanto hanno fatto con Enrico Letta e i suoi predecessori». Washington «si attende di fare lo stesso con Renzi», ha aggiunto, ma l’ambasciatore ha messo in evidenza anche: «I nostri obiettivi sono gli stessi».
L’occasione è la presentazione del volume La lezione di Obama (Come vincere le elezioni nell’era della politica 2.0) , un libro scritto a quattro mani dal direttore relazioni internazionali dell’Eni, Stefano Lucchini, e dell’analista di politica estera Raffaello Matarazzo, con una postfazione che se non ci fosse stata (il libro è uscito a gennaio), si sarebbe dovuta inventare. Perché scritta dal professor Roberto D’Alimonte, della Luiss, il guru dei flussi dei voti, che ha lavorato alla scrittura dell’Italicum, la nuova legge elettorale presentata dal segretario del Pd, che ha letteralmente fatto da levatrice al nuovo governo. Si parla della campagna del 2012 che ha portato alla rielezione di Obama per il secondo mandato, ma naturalmente l’attenzione dei relatori (anche il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi) è per i possibili paralleli con l’Italia, in un futuro che potrebbe anche essere prossimo. D‘Alimonte ha spiegato che la campagna vittoriosa di Obama è stata basata sul web e che «Renzi conosce queste nuove dinamiche e certamente le userà».
Corriere 26.2.14
Un governo del premier che sprona le Camere con le urne sullo sfondo
di Massimo Franco
La tentazione di porsi come capo di un governo contro il cosiddetto «Palazzo» rimane vistosa. Ma si avverte, da parte di Matteo Renzi, anche la presa d’atto di dipendere dai voti del Parlamento e dunque di non potersi fare troppi nemici; e di essere circondato da un corposo scetticismo sulla possibilità di durare per l’intera legislatura. Dall’equilibrio che riuscirà a trovare tra la sua doppia identità si capiranno anche il futuro del governo e della legislatura. L’ex segretario del Pd, Pierluigi Bersani, tornato per votare la fiducia dopo un’operazione, ha sintetizzato il problema con una metafora. «Da domani», ha detto, «gli italiani vorranno misurare lo spread tra parole e fatti».
Renzi ne è consapevole. E nel discorso di ieri, più applaudito di quello al Senato ma a tratti fumoso e verboso, ha cercato di mettere qualche punto fermo. Le ferite nel Pd, però, rimangono aperte, nonostante il voto compatto a favore del governo. L’abbraccio in Aula tra Bersani e l’ex premier Enrico Letta ha misurato la distanza e il gelo tra presidente del Consiglio ed ex maggioranza del partito. Per paradosso, in queste prime ore a emergere non è tanto il sostegno del Pd a Renzi, ma quello di Forza Italia, che pur stando all’opposizione lo abbraccia in nome della riforma elettorale: benché non sia ancora chiaro se avverrà con la rivoluzione del Senato.
L’asse con Silvio Berlusconi sarà messo alla prova fin da metà marzo, quando il cosiddetto «Italicum» approderà alla Camera. In parallelo, la scommessa è di produrre provvedimenti che diano il segnale immediato di un cambio di passo. Già venerdì dovrebbe essere approvata una riduzione del cuneo fiscale delle imprese di circa dieci miliardi di euro. In parallelo dovrebbe partire un piano edilizio teso a garantire maggiore sicurezza nelle scuole; e a produrre posti di lavoro. Sui costi, tuttavia, è nebbia fitta. Pensare che i progetti renziani possano essere realizzati a costo zero è illusorio.
Il premier si limita a dire che «la stabilità della sicurezza scolastica è più importante della stabilità dei conti». È un’impostazione che sconta la prospettiva delle elezioni europee a fine maggio; e che potrebbe accentuarsi con l’avvicinamento alle urne. Ad apparire sempre più evidente è la volontà di Renzi di pilotare questa fase da Palazzo Chigi. Temeva di arrivare al primo appuntamento col voto, sovrastato e logorato dal governo di Enrico Letta. Adesso, invece, punta tutto su quelle elezioni per ricevere la legittimazione popolare che le primarie non possono sostituire. Il passo successivo è di approvare un sistema di voto maggioritario, d’accordo con Berlusconi, e teso a ridimensionare lo spazio delle forze minori.
Se poi le riforme segnassero il passo o si affacciassero difficoltà crescenti, Renzi può giocare la carta del voto politico anticipato. Il suo calcolo è che comunque lo farebbe da presidente del Consiglio. A quel punto la coabitazione tra l’identità di premier del Parlamento e quella di presidente anti-Palazzo non avrebbe più ragione di continuare. Renzi potrebbe togliersi i panni istituzionali e indossare gli altri, più congeniali, da politico che parla all’opinione pubblica; e che chiede voti contro chi non lo ha fatto governare come voleva. È un gioco molto azzardato, ma anche ieri il presidente del Consiglio ha rivendicato quasi il dovere di rimettere in discussione tutto. D’altronde, l’azzardo gli piace, e finora gli è andata bene: basta che vada bene anche all’Italia.
Corriere 26.2.14
I propri interessi come ideologia
di Ernesto Galli della Loggia
Un Paese ha bisogno di élite e al tempo stesso di una burocrazia. E come esistono élite ed élite , così esistono burocrazie innovative e burocrazie arteriosclerotizzate: ha fatto bene Giuliano Amato a sottolinearlo nella sua intervista di lunedì al Corriere . Solo un micidiale semplificatore come Lenin o forse un addicted al blog di Beppe Grillo possono pensare che per amministrare uno Stato possa bastare l’esperienza di una cuoca (anche se alla cuoca il primo era pronto ad affiancare il plotone d’esecuzione, mentre il secondo forse è disposto, più mitemente, ad accontentarsi di Internet).
Il problema dunque non è burocrazia sì o no. Nel caso dell’Italia il problema è innanzitutto un problema di formazione e di reclutamento. Le burocrazie che danno buona prova di sé sono dappertutto quelle reclutate su base rigidamente meritocratica: cioè attraverso corsi di studi seri ed esami severi. L’esempio classico continua a essere (pur con qualche smagliatura) la burocrazia francese con le diverse Alte Scuole alle sue spalle. La prima defaillance del nostro sistema sta proprio qui. Da noi, infatti, non solo a cominciare dal curriculum scolastico e universitario il criterio del merito è virtualmente scomparso, ma veri esami d’ingresso degni di questo nome si fanno ormai esclusivamente in pochissime amministrazioni. Ancora resiste bravamente, ad esempio, la Banca d’Italia, ma già gli Affari esteri e la Magistratura — dove una volta entrare costituiva una prova non indifferente, e dove la carriera e la progressione retributiva non conoscevano l’anzianità — si sono arrese ai tempi nuovi.
In questo vuoto di meritocrazia il fattore decisivo da cui sempre più dipendono ingresso e carriera nell’alta burocrazia è diventato il mix formato da origine sociale, relazioni familiari e politica. Si tratta di un mix micidiale. Per due ragioni. Da un lato perché di fatto così si sancisce l’esclusione dall’élite del Paese di coloro che provengono dalle classi meno abbienti e comunque meno favorite, realizzando una selezione di tipo classista non in base alle capacità, che è l’opposto di quanto dovrebbe avvenire in una democrazia (e di quanto, tra l’altro, avveniva e in non piccola misura nel Regno d’Italia. Alberto Beneduce, grand commis degli anni Trenta, ad esempio, che ebbe nelle sue mani metà dell’economia italiana e la cui grande opera Amato giustamente ricorda, era figlio di un tipografo napoletano).
La seconda ragione sta nel fatto che con una burocrazia la quale, essendo di scarsa qualità e potendo vantare pochi meriti propri, dipende dalla politica per il proprio reclutamento, per la sua ascesa ai vertici nonché — nel caso dei luoghi di comando ministeriale, dei gabinetti, degli uffici legali, ecc. — per il restarvi un numero illimitato di anni, con un simile stato di cose va ovviamente a farsi benedire la necessaria distinzione tra politica e amministrazione. La seconda, che deve tutto alla prima, non avrà mai il coraggio di prenderla di petto e di opporsi con forza alle sue ragioni in nome dell’interesse generale — come invece sarebbe necessario. Ne diventerà invece serva, anche se naturalmente una serva padrona. Cioè l’alta burocrazia si abituerà — dietro l’ossequio formale ai politici — a fare in realtà soprattutto il proprio comodo e il proprio interesse, a tessere le proprie relazioni, favorire i propri amici, in ultimo accrescere il potere dei suoi membri. Dando vita per l’appunto a quella oligarchia di cui oggi soffre l’Italia.
Corriere 26.2.14
Gotor: sul governo la manina di Berlusconi e le impronte del conflitto di interessi
«Bisogna denunciare l’anomalia del ministro Guidi»
di Monica Guerzoni
ROMA — «Ho votato la fiducia per disciplina di partito».
Avrebbe volentieri votato no al governo Renzi, senatore Miguel Gotor?
«Disciplina di partito è per me un termine nobile. La mia fiducia è all’energia del premier e alle sfide che lancia, ma non è una fiducia in bianco. Valuterò di volta in volta».
Lei è un parlamentare del Pd...
«Sì, ma ho due grandi perplessità. La prima riguarda non certo lo stile di Renzi, perché queste sono sciocchezze, quanto la vaghezza dei contenuti. La seconda è il problema del ministro dello Sviluppo, portatrice di un conflitto di interessi evidente di natura familiare».
Sta dicendo che Federica Guidi dovrebbe dimettersi?
«Non sta a me chiederne le dimissioni, ma sul governo ci sono le impronte del conflitto di interessi e di una intesa con Berlusconi, il quale non a caso avrebbe detto “abbiamo un ministro”. Questa anomalia va denunciata. Purtroppo il sistema di potere italiano ha difficoltà a recidere il cordone ombelicale che lo lega a Berlusconi».
E Renzi?
«La sua ascesa è passata attraverso una interlocuzione con l’ex premier: così lo ha rimesso al centro della dialettica politica. Il governo Renzi nasce con la manina di Berlusconi».
Letta per i primi mesi ha governato con Berlusconi in maggioranza...
«Poi però, facendolo uscire dalla maggioranza, ha fatto una operazione politica di grande valore, che Renzi ha vanificato e che è stata da molti dimenticata».
Nel merito, come giudica le proposte di Renzi?
«Mi ha colpito il discorso del Senato, con pochi contenuti programmatici».
Pochi contenuti? Taglio a doppia cifra del cuneo fiscale, restituzione integrale dei debiti della pubblica amministrazione, rivoluzione fiscale, ristrutturazione delle scuole...
«Tutti titoli. Le coperture economiche dove sono? Il sussidio universale di disoccupazione costerebbe 18 miliardi, i debiti della pubblica amministrazione 40, il cuneo 30... Visto che siamo quasi a cento miliardi sarebbe interessante sapere cosa ne dice Padoan, il nuovo ministro del Tesoro. E che ne è stato della lotta all’evasione? Noi sosterremo Renzi nella misura in cui i fatti diverranno realtà».
Può durare fino al 2018?
«D’istinto penso che avrà difficoltà ad arrivare al 2018 e che questo governo abbia una dimensione elettorale di medio periodo. Le medie intese rendono la maggioranza al Senato numericamente stretta, risicata, sottoposta ai venti e ai rischi della navigazione politica. La mia sensazione è che Renzi stia governando con i voti presi da Bersani nel 2013, tanto disprezzati, e con i programmi di Letta».
C’è chi pensa che il lungo abbraccio alla Camera tra Letta e Bersani disegni uno scenario futuro, dentro o fuori il Pd. E lei?
«Chi è animato da uno spirito riformista e ragionevole si sente ben rappresentato da quell’abbraccio».
Ci vede un ticket?
«L’Italia ha bisogno come il pane di persone perbene e di una classe di dirigenti seria. La cifra che unisce Enrico e Pier Luigi è la serietà, coniugata al riformismo. Insieme sono portatori di una idea di Pd e del ruolo che il partito deve avere nella politica e nella società, una idea che io trovo convincente. Hanno lavorato bene insieme e vorrei che tornassero a farlo. Spero che il tempo sia galantuomo con entrambi».
Renzi vuole restare segretario, ma nel Pd c’è già chi parla di congresso.
«Sulla segreteria e sul congresso deciderà Renzi, l’investitura popolare delle primarie gli dà la forza politica e la responsabilità di prendere una decisione».
Secondo lei, deve lasciare il Nazareno?
«Ho visto il precedente di Ciriaco De Mita, che fu al tempo stesso presidente del Consiglio e segretario di un grande partito come la Dc. Decideranno Renzi e la direzione, ma sarebbe opportuno che i due ruoli restassero autonomi, perché l’identificazione trasforma il partito nel comitato elettorale di un leader».
Pensa che Renzi voglia andare a votare?
«Quel che voglio dire è che i premier passano, è importante invece che il Pd resti e che sia in forze. In un Paese di partiti personali e leaderistici il nostro è una anomalia felice ed è bene che rimanga tale. È un problema che Renzi ha ben presente, ne sono certo».
Se dovesse riaprirsi la partita della segreteria chi sarebbe in campo? Letta, Bersani, Zingaretti?
«Questo è il tempo del sostegno al tentativo di Renzi come premier, una fiducia che riguarda la responsabilità di perno che il Pd ha assunto e da cui non dobbiamo fuggire. Letta e Bersani però hanno ancora molto da dire nella politica italiana. Questo è un film di avventura e loro avranno un grande ruolo da protagonisti».
Il finale?
«Non lo abbiamo ancora visto» .
Repubblica 26.2.14
L’intervista “Berlusconi mi ha telefonato e non vi dico per chi ho votato”
Il ministro Guidi: nessun conflitto, Ducati vende a Stato e privati
di Roberto Mania
ROMA - «Lo sa che sto sicuramente battendo un record? Il governo ha appena ottenuto la fiducia e contro di me sta arrivando la prima mozione di sfiducia individuale presentata dai Cinque Stelle». Federica Guidi, neo ministro dello Sviluppo economico, è seduta alla scrivania del suo grande ufficio al primo piano del ministero di Via Veneto. Non attende nemmeno la prima domanda per parlare del suo caso.
Già, ma non poteva che essere così dati i suoi potenziali conflitti di interesse. Non l’aveva messo in conto?
«Guardi, le voglio dire le cose come stanno. Le voglio rispondere di “pancia”».
Lo faccia. Resta il fatto che le cose sono semplici: l’azienda della sua famiglia, la Ducati Energia, non solo opera in settori di competenza del ministero di cui lei ora ha la responsabilità ma ha anche numerose commesse con aziende pubbliche, Enel, Terna, Poste, Ferrovie oltre a diversi Comuni e società municipalizzate. Lei non vede il conflitto di interessi?
«Non c’è nessun conflitto di interessi, né dal punto di vista tecnico, né sotto il profilo delle opportunità. L’azienda della mia famiglia ha cambiato costantemente pelle negli ultimi dieci anni. In questi anni non abbiamo mai chiuso un bilancio in rosso. Io non sono mai stata azionista e fino a sabato scorso ero un dirigente con uno stipendio di 4.300 euro al mese».
Ora è il ministro che può favorire l’azienda di suo padre. Questo è il problema.
«L’Italia rappresenta per la Ducati Energia meno di 20 milioni di euro di fatturato su un totale consolidato di 147 milioni. E in Italia ha clienti come Enel o Ferrovie ma anche privati».
Si rende conto che molto delle sue decisioni avranno un impatto diretto sull’attività della sua famiglia?
«La Ducati vende le stesse tecnologie all’Enel come al Mev che è un ente elettrico del Kuwait. Partecipa alle gare internazionali dove ci sono concorrenti di tutto il mondo. Non c’è alcuna connessione. E poi mi sono dimessa da tutti gli incarichi».
Anche Berlusconi si dimise. Ma non è un bel precedente.
«Posso rispondere solo per quello che faccio io».
Ha conosciuto Delrio quando la Ducati fece l’accordo per la fornitura ai Comuni delle biciclette elettriche?
«Anche questo è un misunderstanding. Ho conosciuto Delrio quando ero presidente dei Giovani industriali dell’Emilia Romagna e lui sindaco di Reggio Emilia. L’accordo di cui parla era tra l’Anci e il ministero dell’Ambiente, la Ducati ha solo fornito le biciclette».
La Ducati Energia è un’azienda che ha molto delocalizzato. Come potrà chiedere agli imprenditori di restare in Italia?
«Io ho sempre parlato di multi localizzazione non di delocalizzazione. Se non l’avessimo fatto non saremmo riusciti a difendere l’occupazione. Oggi la Ducati ha 800 dipendenti di cui 250 in Italia. Non abbiamo mai licenziato nessuno. Ma se non avessimo accettato la sfida della globalizzazione noi, come altri, avremmo rischiato di morire. Questo è il mondo».
Il sottosegretario Delrio ha annunciato che su alcune sue decisioni in odore di conflitto di interessi vigilerà palazzo Chigi. Ne avete parlato?
«No».
E Renzi le ha detto qualcosa dopo le polemiche sulla sua nomina?
«Mi ha detto di lavorare e di stare tranquilla.
“A me interessa che tu lavori”, mi ha detto».
La Ducati ha crediti nei confronti della pubblica amministrazione? Che rapporto ha lei con Berlusconi?
«Quando ero presidente dei Giovani ho incontrato tutti. Tra questi anche Berlusconi. Che avrò visto una decina di volte, non di più».
Si da del tu o del lei con Berlusconi?
«Del lei. Io non sono mai stata ad Arcore».
Il Cavaliere a proposito della sua nomina avrebbe detto: “Ho un ministro pur stando all’opposizione”.
Che ne pensa?
«Non mi interessa quello che avrebbe detto. È vero che Alfano, non Berlusconi, mi propose di candidarmi ma io dissi di no. Con Alfano sono amica,come con Enrico Letta».
Manterrà la delega alle Comunicazioni?
«Non lo so. Deciderà il Consiglio dei ministri».
Cosa ha votato alle ultime elezioni?
«Non glielo dico».
Ha partecipato alle primarie del Pd?
«No».
Ha sentito Berlusconi dopo la nomina a ministro?
«Sì, mi ha chiamato, come tanti altri, per dirmi “in bocca al lupo”».
Squinzi, il presidente della Confindustria, l’ha chiamata?
«No. Non frequento più Confindustria».
Perché ha accettato l’offerta di Renzi per fare il ministro?
«Perché mi piace l’idea. Sento il peso della sfida ma ho accettato istintivamente di seguire Renzi».
Cosa le piace di Renzi?
«La sua capacità di semplificare, di sdrammatizzare».
Un politico che possa rappresentare un modello per lei?
«Matteo Renzi. Mi pare un politico diverso da quelli che ho incontrato nella mia precedente attività».
il Fatto 26.2.14
Guidi, ministro di Renzi o del Cavaliere?
di Loris Mazzetti
Che sorpresa vedere il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Delrio intervistato su Rai3 da Lucia Annunziata prima che il governo Renzi riceva la fiducia dal Parlamento. Incidente diplomatico? Tradimento delle regole imposte da Renzi? No, avanscoperta per sondare il terreno, per capire le reazioni utili alla preparazione del discorso per la fiducia al Senato del giorno dopo. Delrio avrebbe dovuto dare garanzie sul conflitto d’interessi del ministro Federica Guidi, informando gli italiani del controllo diretto di Renzi sugli atti futuri del ministero dello Sviluppo economico che ha anche la delega alle Comunicazioni, ovvero le tv, cioè gli interessi di Berlusconi.
ERA PIÙ semplice e meno impegnativo nominare al posto della Guidi qualcuno al di sopra di ogni sospetto, ma col piffero che B. avrebbe annunciato: “Faremo un’opposizione costruttiva”. È lecito pensare che Renzi e Sua Emittenza, nei minuti in cui sono rimasti a quattrocchi durante la consultazione, abbiano parlato anche della Guidi. In quel ministero ci cade sempre uno di fiducia del Cavaliere: più della Guidi chi altro? Una a cui Forza Italia aveva proposto la candidatura all’Europee. “Abbiamo un ministro anche stando all’opposizione ” così ha esultato Berlusconi alla lettura dei nomi dei
ministri. Mentre Mediaset continua a cavalcare indisturbata nelle praterie delle frequenze, della pay-tv e della Borsa, la Rai, che ha già messo da parte i problemi sanremesi, è già tutta proiettata su cosa accadrà con il nuovo premier: i direttori cominciano a sentire scricchiolare la loro poltrona e fra poco partirà, come al solito, il salto sul carro del vincitore. Nel frattempo mi piacerebbe che si ringraziassero, per la costanza, i 9 milioni di telespettatori (media delle cinque serate) che hanno seguito Sanremo nonostante una presenza di pubblicità degna di una tv commerciale e non del servizio pubblico. Celentano ci ha insegnato che anche sulla pubblicità si può avere creatività e non solo mettere in fila un fiume di break. È obbligo della Rai ricordare cosa distingue la tv di servizio pubblico dalla tv commerciale. La Rai, oltre ad avere funzioni informative e di intrattenimento, “ha anche il dovere di formare e acculturare allo scopo di presentare un insieme equilibrato di intrattenimento, cultura, divertimento e informazione”. Infarcendo un programma, che dovrebbe essere il fiore all’occhiello del servizio pubblico, con tanta pubblicità si dà l’alibi a chi vorrebbe che dal 2016 il canone venisse frazionato tra più emittenti.
il Fatto 26.2.14
Ma che stai addì?
La lingua vuota del Rottamatore
di Franco Arminio
La crisi dell’Italia è troppo profonda per poterne uscire con soluzioni semplicistiche, tutte mirate sull’effetto immediato che possono avere sui media, vecchi e nuovi. Con la lingua di Renzi si possono vincere le primarie, si possono fare titoli di giornale, si può fuggire dalla politica, ma forse non si può dare al mondo un’altra luce, un’altra storia. I giovani renziani non somigliano agli italiani che abbiamo conosciuto nelle sezioni del Partito comunista. Sono verbosi, come erano verbosi i vecchi comunisti, ma in loro tutto sembra orientato alla vendita di un prodotto, più che a una visione della società. I vecchi comunisti pure ti volevano vendere la loro idea, che alla fine era sempre quella del cambiamento, ma prima ti facevano una lunga analisi della società capitalistica. Qui, invece, non si capisce di che cambiamento si tratta. L’unica cosa chiara è che deve essere veloce, istantaneo: invece del caffè fatto con la macchinetta, quello solubile, invece della camomilla che deve stare in infusione, la polverina che si scioglie nell’acqua calda. Renzi è un rottamatore, ma in realtà non è in conflitto con nessuno. Il Cavaliere un nemico, anche se inesistente, comunque lo indicava. Il suo era il popolo della libertà contro gli oppressori comunisti ossessionati dalle tasse.
Con i giovani renziani anche l’attitudine di Berlusconi di cambiare idea velocemente si è molto affinata. Il corruttore lussurioso ancora si giustificava dicendo che lo avevano male interpretato. Renzi è talmente avanti che rottama ogni giorno anche le affermazioni del giorno precedente. La faccenda incredibile è che tutto questo avviene senza che la cosiddetta società civile si scandalizzi più di tanto. Anzi, la sensazione è che la vacuità delle lingue dei dominanti sia specchio della vacuità delle lingue dei dominati. Moro non parlava come si parla al bar. E neppure De Mita, che al bar però giocava a carte. La novità tra i vecchi e i nuovi democristiani è che i nuovi parlano come si parla al bar o nei quiz televisivi.
Si dice che nei momenti di crisi e di confusione a un certo punto arriva l’uomo forte. Da noi è arrivato l’uomo che fa politica fuggendo dalla politica. La sua animosa fuga riesce a nascondere la drammatica indigenza lessicale che invece esibiscono i suoi seguaci. La caratteristica di questa lingua è che non si traveste come fanno altre lingue: Cuperlo parla un italiano che non esce mai dal guscio e la lingua di Casini sa di preservativo. Anche Grillo sembra aver esaurito le sue risorse linguistiche: il vaffanculo era efficacissimo all’inizio, adesso sa di stantio. La lingua dei renziani non dice nulla, è un riassunto che di volta in volta si compone di una sola parola: velocità, rottamazione, semplicità, futuro, vincere, cambiare. Renzi non studia, mette una sola parola sul foglio bianco, una parola che riassume il mormorio dell’Italia post-politica di cui lui è indubbiamente il più brillante interprete. In attesa della necessaria creazione di nuova lingua di sinistra (per la quale la lista Tsipras è una bella occasione) per ora gli unici competitori rimasti sulla scena sono Grillo e Berlusconi, fieri antipolitici, ma incapaci di fare riassunti così lapidari.
RENZI È COME quelle strisce che si mettono nelle feci per vedere se c’è il sangue. Lui non è la cura, è un reagente chimico che ci parla della stanchezza degli italiani ammorbati da una politica che ha parlato lungamente e fumosamente. Opportunamente Marco Belpoliti su Doppio zero scrive che “milioni di persone lo sostengono non per ragioni ideologiche (parola obsoleta, per il momento), non perché bello (non lo era neppure Berlusconi), non perché programmatico (chi ricorda solo una sua proposta?), ma perché reagisce allo stato di cose presente”. Renzi “reagisce, non agisce”.
Molti pensano che possa ben governare. È un pensiero da rispettare, anche se è formulato pensando agli aspetti contingenti dell’esistenza. Comunque, ammesso che un governante ci riesca a portare un poco fuori dalla crisi economica, poi cosa facciamo? Cosa ce ne facciamo di una società senza lingua e senza profondità? I politici chiusi dentro le schermaglie quotidiane della politica sono ripetitori dell’ovvio. La politica uccide la lingua e per capire quanto è banale la lingua dell’uomo politico medio basta sentirlo parlare di cinema o di poesia o di un paesaggio o di un bambino. Davanti a questo compito la lingua del politico diventa stucchevole, intimamente impropria. Vedremo se Renzi riuscirà ad aprire le sue parole mantra e a farne uscire altre, piene di anima e di sangue. Le strade della civiltà non si fanno solo con le pietre e l’asfalto, si fanno anche con la lingua: è grazie alla lingua che abbiamo dominato il mondo e ora forse è il caso di dare spazio al pensiero, di dismettere volontariamente un antropocentrismo che è diventato autodistruttivo. Non sarà certo Renzi il protagonista di questa stagione, speriamo che faccia bene il poco che può fare.
il Fatto 26.2.14
Piovono pietre
La guerra tra renzini e grillini: c’è sempre chi sta peggio
di Alessandro Robecchi
Quanto a “superamento delle contrapposizioni ideologiche” (un must del nuovo corso, per cui Berlusconi puzza un po’ meno, o bisogna farsi piacere l’olezzo perché serve alle riforme) non siamo messi benissimo. A quanto pare le contrapposizioni ideologiche, considerate cosa brutta e cattiva, si sono solo spostate da un’altra parte, occupano altri angoli della scacchiera, ma siamo sempre lì: allo scontro tra tifoserie, agli striscioni esposti, alle scaramucce, per fortuna soltanto dialettiche, tra fazioni. Ora, archiviata la contrapposizione con il signore di Arcore, ridiventato con un colpo di reni padre della patria – un condannato in Cassazione che va a fare le consultazioni al Quirinale, per dire – la guerra delle parole si sposta sul fronte Pd-Cinque Stelle, con tanto di fuoco di sbarramento, colpi di mortaio, gas venefici. Osservando da fuori l’ardita battaglia, e avendo il privilegio di non stare né su una trincea né sull’altra, si possono elencare alcune pratiche di combattimento, ricavandone via via stupore, o scoramento, o addirittura sincero divertimento, essendo una partita in cui non mancano gli autogol. Prima, però, una premessa: non è esatto parlare di “scontro ideologico” perché di ideologia (che non è una parolaccia, lo dico per i nati nell’epoca di Candy Candy) ce n’è pochina. Si tratta piuttosto di una guerra per il controllo del territorio. I grillini vedono in Renzi la minaccia di uno capace di parlare anche al loro popolo e riprendersi spazio nel loro cortile. I renzini vedono nei grillini l’unica opposizione fastidiosa, essendo ormai quella di Silvio profumata di lavanda. Insomma, territorial pissing. Un conflitto in cui si troverà in mezzo chi non sta né con gli uni né con gli altri: gravi danni per la popolazione civile. Si impari poi l’uso delle armi. Tra queste, la più micidiale: il peggismo. Qualunque cosa si rimproveri a uno, quello si alzerà a dire che c’è qualcosa di peggio. Il discorso di Renzi non piace? Ecco subito i renzini all’arrembaggio che strepitano: “Allora meglio il vaffanculo?”. Le epurazioni dei senatori grillini dissidenti non piacciono? Ecco subito i grillini inalberarsi: “E l’epurazione di Letta?”. Non se ne esce. È come a un seminario sul colera qualcuno si alzasse contestando: “E la peste allora?”. Se il relatore si piega alla protesta e dice, ok, parliamo della peste, ci sarà qualcuno che si alza a dire: “E il virus Ebola, allora?”. E via così, non si finisce più, perché qualcosa di peggio si trova sempre.
Se poi chi rimane in mezzo alla sparatoria ha la pretesa assurda di leggere e commentare la vita politica, le cose si complicano. Bei tempi quando si contestavano ai commentatori ragionamenti, parole e argomenti. Ora no. Ora è invalso il vezzo di contestare non ciò che viene scritto, ma ciò che non viene scritto. Non attacchi abbastanza Grillo. Non attacchi abbastanza il Pd. Come se, sputando fiele sulla parte opposta, si pretendesse da terze parti una specie di manuale Cencelli del commento, un bilancino, una par condicio. Come si vede, dire che c’è un “superamento delle contrapposizioni ideologiche” è una mezza scemenza e l’altra metà è pura, cristallina stupidità. Ognuna delle fazioni in lotta sembra stupita, quasi offesa, che non si stia dalla sua parte, una cosa che accade di solito nelle sette religiose. È così incrollabilmente convinta di essere nel giusto che considera ogni parola fuori dal proprio coro “intelligenza col nemico”. E sarebbe già qualcosa, perché in tutto questo bailamme di intelligenza ce n’è pochina.
il Fatto 26.2.14
La sfida
Maggioranze friabili, il rischio di Matteo
di Wanda Marra
Una, due, tre. Nessuna. Doppia maggioranza, di governo e per le riforme, maggioranze variabili. I teorici della politica e i renziani di stretta osservanza in queste settimane si sono spinti a teorizzare per il governo neonato una molteplicità di piattaforme e di possibilità. Renzi dovrebbe governare con Ncd, fare le riforme con Forza Italia e incassare su alcuni provvedimenti il voto di Sel (magari pronta a spaccarsi) e dei Cinque Stelle (con masse di fuoriusciti pronti a cadere tra le braccia di Matteo). Ma se il buongiorno si vede dal mattino, questo doppio/triplo salto mortale si preannuncia difficilissimo. Già dal dibattito alle Camere. Che ha fatto emergere distinguo, perplessità, critiche già nella presunta maggioranza. E insulti a cielo aperto da parte dei Cinque Stelle. Entusiasti in genere gli esponenti di Forza Italia, da Paolo Romani in Senato a Michaela Biancofiore alla Camera, che si sono prodotti in annunci di sfiducia con rammarico. E però il vero orizzonte dei berluscones l’ha chiarito Renato Brunetta intervenendo ieri alla Camera: “Si faccia la riforma elettorale e poi si vada subito al voto”.
È TUTTO DA VEDERE se Renzi è d’accordo, o se invece preferisce rallentare l’iter della legge in Senato, per arrivare fino al 2015 e poi valutare. Ma è chiaro che se gli interessi divergono per gli amici/nemici di Forza Italia basta far mancare l’annunciato soccorso all’occorrenza su alcuni provvedimenti per affondare il governo. “In Ncd i governativi sono già minoranza”, andava dicendo ieri un esponente di spicco del partito . In tutti i loro interventi in Aula i soci di maggioranza ci hanno tenuto a ribadire la loro “fiducia per responsabilità”. Unita alla richiesta di fare la riforma del Senato dopo l’Italicum. Renzi non ha assicurato nulla, non ha firmato nessun accordo. Però le divergenze programmatiche sono enormi: il neo premier promette lo ius soli, e gli alfaniani dicono di no; vorrebbe le unioni civili per i gay e si trova di fronte allo stesso muro. Senza parlare del fatto che in blocco si sono espressi contro qualsiasi forma di patrimoniale, rendite finanziarie incluse. E insomma, come fa Renzi a far approvare qualche provvedimento in queste condizioni? Il dibattito parlamentare ha poi messo in evidenza la contrarietà assoluta del Movimento 5 Stelle . Da “Wanna Marchi della politica” a “bugiardo” gli hanno detto praticamente di tutto. Tanto che il premier in Aula ieri ha preso carta e penna e ha mandato un pizzino a Luigi Di Maio: “Scusa l’ingenuità, caro Luigi. Ma voi fate sempre cosi? Io mi ero fatto l’idea che su alcuni temi potessimo davvero confrontarci...”. Come dire, sta venendo meno l’illusione che i grillini in Senato possano arrivare a sostegno.
ALL’INIZIO del “piano inclinato” che ha portato il segretario del Pd a Palazzo Chigi i renziani erano pronti a scommettere su una trentina di grillini in arrivo. Poi sono diventati 15, poi 8, poi 4. Ieri a Palazzo Madama la fiducia non l’ha votata neanche uno. Stessa questione per Sel. I renziani si illudevano di spaccarla. Ma Sel, che aveva qualche tentennamento, si è ricompattata. E adesso è tutta una riunione in Transatlantico tra Gennaro Migliore e Pippo Civati. Perché il Pd, in questo momento è pieno di spinte centrifughe. Civati vagheggia da tempo un’uscita a sinistra. E ieri si è rivisto l’asse Letta-Bersani. Entrambi per i noti motivi ce l’hanno a morte con l’ex Rottamatore. Entrambi con i rispettivi fedelissimi (vedi un Fassina in aula che annuncia voto contrario su alcuni provvedimenti) nutrono sogni di vendetta e di rivincita. Se andasse male e si tornasse al voto, la partita sarebbe tutta da giocare. Last but not least, per dirla all’inglese, lunedì sera Renzi a Palazzo Madama ha preso 169 voti, 4 meno di Letta. Ha perso due voti del Gal. Ma soprattutto gli 11 voti dei Popolari di Mauro sono essenziali per arrivare alla maggioranza di 161. E i Popolari - con Mauro fatto fuori dal ministero della Difesa e forse persino dalla lista dei sottosegretari - sono quelli con più riserve sulla pratica. “Beh non è stata così entusiasmante come ci aspettavamo”, ammetteva ieri sera qualche renziano.
Repubblica 26.2.14
Dal Berlusconi galante a Renzi quando la politica si fa coi pizzini
Il premier scrive bigliettini al 5Stelle:“ Ma voi fate sempre così?”
di Filippo Ceccarelli
SCUSA l’ingenuità, caro Luigi - così si rivolge, a suo modo preveggente, il premier Renzi al vicepresidente cinquestelle della Camera Di Maio - ma voi fate sempre così?»...
Pissi pissi bau bau, ma per iscritto. Quindi il capo del nuovo governo, che ha una calligrafia piuttosto volitiva e quasi tutta in stampatello, continua: «Io mi ero fatto l’idea che su alcuni temi potessimo davvero confrontarci, ma è così oggi per esigenze di comunicazione o è sempre (sottolineato, ndr) così ed è impossibile confrontarsi? Giusto per capire. Sul serio, senza alcuna polemica”. Firmato: Matteo.
Poi piega il foglio, chiama il commesso d’aula e per il bigliettino comincia un’avventura che dagli scranni del governo, a Montecitorio, è destinata a concludersi su Facebook. Infatti Di Maio, che ha una scrittura piuttosto infantile, risponde: «Ciao, 1) guida al regolamento: i banchi del governo devono essere liberi da deputati quando qualcuno parla in aula. Il governo è tenuto ad ascoltare i deputati. La Boldrini doveva richiamare la Polverini. Non lo ha fatto. 2) - e qui anche Di Maio scrive in stampatello - Forse non è chiaro che in un anno abbiamo visto di tutto. Abbiamo visto la tua maggioranza votare in 10 mesi: 2,5 miliardi di euro di condono alle slot-machine. 7,5 miliardi di euro alle banche. 50 miliardi di euro per gli F35. Che ti aspettavi, gli applausi?». Ma il giovane presidente, di cui pure è conclamato il gusto per il rischio, insiste con il più antico sistema di comunicazioni. Altro foglietto, altrimenti detto «pizzino», altra penna, che stavolta è rossa, e altro messaggio: «Capisco. Se vedi occasioni reali (sottolineato, ndr) di dialogo, nell’interesse dei cittadini (a me della parte mediatica interessa il giusto, ognuno fa la sua parte), fammi sapere. So che parli con Giachetti - se ti va bene utilizziamo lui come contatto. Se ci sono cose fattibili insieme, alla luce del sole, nell’interesse degli italiani, io ci sono. Buon lavoro». Ari-firmato, Matteo.
Di Maio, che dal vivo è molto meno scostante di quanto appaia in prosa, replica: «Io parlo con Giachetti perché lavoriamo insieme ogni giorno. Come tanti nostri colleghi lavorano in commissione. Il Parlamento serve a questo. Però ora basta con questi biglietti berlusconiani. ci vediamo alla prova dei voti, in aula, davanti al paese intero». Segue freddamente la sigla LDV. Ma come Lenin nel 1917 a quel punto il vicepresidente dell’assemblea ha già deciso di proclamare unilateralmente la fine della diplomazia segreta.
Ora è chiaro che da tempo immemorabile nelle lunghe sedute i parlamentari si scambiano bigliettini. Andreotti, per dire, lo faceva spesso. La storia ha tramandato un suo perfido foglietto inviato a Ingrao sui voti raggiunti dal Pci nel suo paese, Lenola, appena 7 su 3000; così come risale al Divo un commento agrodolce su Emma Bonino, «Metà Giovanna d’Arco e metà Vispa Teresa». Allo stesso modo Ugo La Malfa teneva anche gli originali delle risposte, oggi consultabili negli annali della Fondazione, tra cui un Napolitano che a proposito di Moro, dopo il discorso sulla Lockheed (1977), gli scriveva: «E’ questo l’uomo di cui mi parlavi sere fa? Ahimè...». Altri tempi, altre figure, ma più che altro quei pochi i bigliettini di cui si sapeva erano rivelati addirittura postumi. Mentre oggi sono all’ordine del giorno; con il che Di Maio si riferisce a Berlusconi probabilmente per via del mini-carteggio intercettato da potenti teleobiettivi in una delle prime sedute della XVI legislatura (2008). Allorchè, rivolgendosi alle graziose onore volesse De Girolamo e Giammanco all’apice del successo politico e del collegato surriscaldamento psicoemotivo, il Cavaliere si lasciò andare: «Care Nunzia e Gabry state molto bene insieme! Grazie per restare qui ma non è necessario. Se avete qualche invito galante per colazione vi autorizzo (sottolineato, ndr) ad andarvene». E sul retro: «Molti baci a tutte e due!!! Il “vostro” presidente». A riprova che il guardare dal buco della serratura sarà pure maleducazione, ma conferma i più spassosi dubbi.
Da quel momento in poi, grazie al supporto tecnologico che sempre più metteva in scacco il regime delle apparenze e delle finzioni, s’è aperta una stagione di diffusi e per alcuni versi anche preziosi disvelamenti bigliettineschi. Per sommi capi: un messaggio di Anna Finocchiaro a Luigi Zanda con lamentale veltroniane su certi incarichi attribuiti al senatore La Torre; poi dei complimenti di Fini («bravo!») a Casini dopo un intervento sull’arresto o meno dell’onorevole Cosentino; quindi, nei primi giorni del governo Monti, una specie di profferta con cui un entusiastico Enrico Letta («Per ora mi sembra tutto un miracolo!») si rendeva disponibile a compiti di collegamento; e infine i simpatici rallegramenti che il senatore Naccarato offriva sempre a Casini: «Bravo Pier, ti sei cucinato Monti».
Se ne parla per uno o due giorni, poi tutto si dimentica. Qualcosa resta, ma nella confusione o forse nella convenienza. Renzi ci ha provato, i grillini gli hanno fatto uno scherzo, ma al dunque se si rileggono quelle povere parole viene perfino il sospetto che i due fossero non si dice qui d’accordo, ma almeno consapevoli che sarebbe potuta finire in quel modo.
Forse pure questa è post-politica. Pissi pissi, bau bau con dispositivo a breve scadenza. Con le sue sintesi obbligate e il suo circuito chiuso, nell’insorgente cultura dei bigliettini e della trasparenza obbligata si misura il senso di una politica inesorabilmente diminutiva, rimpicciolita e in qualche modo anche rassegnata al proprio immiserimento.
Repubblica 26.2.14
Il governo senza portafoglio
di Tito Boeri
IL GOVERNO Renzi è nato senza un ministro per gli Affari europei forse perché il Presidente del Consiglio ha voluto prendersi in prima persona anche questa responsabilità. Il nuovo governo dovrà, in ogni caso, compiere i primi passi a Bruxelles se non vuole vedersi dettata l’agenda da altri. Ha bisogno di aprire immediatamente un negoziato con la Commissione europea anche per solo pensare di raggiungere i due ambiziosi traguardi che si è prefisso.
Saldare subito tutti i debiti commerciali della Pa verso le imprese e ridurre il cuneo fiscale di almeno 10 miliardi. Il negoziato non riguarda tanto lo sforamento del vincolo del 3 percento di disavanzo nel 2014 (troppo presto per aprire questo fronte), quanto la programmazione dei fondi strutturali. Vediamo perché.
I due impegni presi da Renzi nel suo discorso al Senato hanno lanciato il cuore oltre l’ostacolo. È impensabile raggiungerli subito senza aumentare il disavanzo. La spending review difficilmente potrà tagliare le spese per più di 3-4 miliardi nel 2014 e la paventata armonizzazione delle aliquote sulle rendite finanziarie vale qualche centinaio di milioni perché in gran parte è una partita di giro (l’aumento delle tasse sui titoli di Stato fa aumentare gli interessi che lo Stato deve pagare sulle nuove emissioni). Mancano perciò all’appello almeno 6 miliardi di taglio del cuneo da finanziare. Renzi ha anche promesso il saldo dei debiti residui della Pa verso le imprese. Dato che questo debito in parte è legato a spese per investimenti che vanno ad aumentare il deficit, questa operazione farà aumentare ulteriormente il disavanzo.
Da ieri, inoltre, c’è un fatto nuovo che rende il raggiungimento di questi obiettivi ancora più difficile. Le previsioni di primavera della Commissione europea, rese pubbliche mentre Renzi parlava alla Camera, comportano una drastica revisione degli scenari di finanza pubblica per il 2014 presentati dal governo precedente. Con una crescita del solo 0,6 percento (rispetto all’1 percento troppo ottimisticamente contemplato dal governo Letta), il disavanzo a politiche invariate nel 2014 salirebbe di circa 5 miliardi avvicinandosi pericolosamente al 3 percento. In principio, quindi, anche senza il taglio del cuneo fiscale, ma l’accelerazione dell’operazione sui debiti della Pa, ci potrebbero essere gli estremi per richiedere una manovra correttiva volta a far rispettare il vincolo del 3 percento. E un governo che non ha ancora fatto nulla, che non ha ancora attuato alcuna riforma strutturale e che ha già deciso di far aumentare il debito pubblico nel 2014 di 30 miliardi (per effetto dell’operazione debiti della Pa), non ha certo le carte in regola per presentarsi a Bruxelles e chiedere una interpretazione più flessibile delle regole fiscali dell’Eurozona.
È anche discutibile che una eventuale maggiore flessibilità concessaci a Bruxelles risolverebbe il problema. Spesa pubblica o tagli di tasse finanziati in disavanzo non hanno effetti positivi sull’economia se non vengono percepiti come duraturi dalle imprese e dalle famiglie. Intuitivamente sono interventi che verranno prima o poi accompagnati da nuove tasse e, quindi, si mettono i soldi da parte per pagarle in futuro. E come può essere credibile un governo di un paese che ha un debito pubblico al 130 percento del Pil quando taglia le tasse in disavanzo? L’unico modo per avere effetti sull’economia e non preoccupare i mercati consiste nell’avere un piano di rientro di questo disavanzo, con tagli di spesa graduali, ma inesorabili che intervengono nel giro di due o tre anni al massimo, come ad esempio nelle proposte di Roberto Perotti su lavoce.info. Se il governo Renzi ha questo piano, dovrà avere la forza di renderlo pubblico al più presto, sapendo che è un’operazione che ha un costo politico non indifferente soprattutto in vista delle elezioni europee.
Una cosa che però il governo può fare e che ci permette di prendere due piccioni con una fava è negoziare il pagamento immediato (frontloading) di almeno la metà delle risorse stanziate dal bilancio comunitario per i fondi strutturali e destinate al nostro paese nell’esercizio 2014-2020, ottenendo che queste risorse vengano destinate a saldare i debiti commerciali della Pa. Si tratta di una chiara operazione a favore dello sviluppo in un momento in cui le nostre imprese faticano ad accedere al credito. Vale circa 30 miliardi, esattamente quanto ci serve per chiudere la partita. Potrebbe il governo al contempo anche ridiscutere le regole che impongono il cofinanziamento da parte del beneficiario delle risorse dei fondi strutturali. Questa è una richiesta legittima da parte di paesi che stanno compiendo progressi nel ridurre il debito pubblico. E in effetti il nostro paese, saldando i debiti residui della Pa con una migliore programmazione dei fondi strutturali, non farebbe altro che ridurre il debito pubblico implicito.
Non sappiamo se Renzi vorrà dotarsi di un sottosegretario per gli Affari europei per gestire meglio questa delega. Certo il ministro Padoan dovrebbe pensare di dotarsi di un sottosegretario ai pagamenti dei debiti della Pa, cui affidare il compito di monitorare i progressi compiuti dalle amministrazioni centrali e, ancor di più, da quelle locali nel saldare i propri debiti attingendo il più possibile ai fondi strutturali. E dovrà questo viceministro soprattutto vigilare affinché il problema non torni a ripetersi in futuro. Non ci sono purtroppo segnali che il flusso dei ritardi nei pagamenti si sia arrestato.
La Stampa 26.2.14
Renzi promette dieci miliardi di tasse in meno sul lavoro
Ma senza tagli l’Ue dirà no
di Alessandro Barbera
qui
il Fatto 26.2.14
Bocciato in economia
Il dilettante allo sbaraglio
Renzi, turista a Montecitorio
Il Presidente del Consiglio è più cauto coi deputati ma resta ancora vago sul programma
di Fabrizio d’Esposito
Da vera calamita di sogni, l’avvento di Matteo Renzi a Montecitorio, per la fiducia, attira persino Gigi Marzullo, seduto su un divano in Transatlantico. “La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?”. Il premier è come se scegliesse entrambe le opzioni. Sogni, sogni, sogni. Dopo lo spartito berlusconiano, con tinte forlaniane per la noia, suonato lunedì al Senato, l’orecchiante Renzi plagia anche il modello veltroniano. A cominciare dal banco invaso da libri, giornali (ovviamente stranieri, il francese Le Monde, che fa tanto figo), spremuta d’arancia, tablet, smartphone e portatile Apple. Sembra il tavolino del bar interno della Feltrinelli, non il banco del governo. Con la cultura si mangia, altro che Tremonti.
RISPETTO A PALAZZO Madama, il premier tenta di correggere alcuni difetti estetici. Da grande incassatore, accoglie le critiche e non infila più le mani in tasca. Cravatta viola, Renzi ascolta paziente ben cinquantasette interventi e si alza in piedi per la replica quando mancano dieci minuti alle cinque della sera. Altra correzione: cerca di asciugare il discorso a braccio e si ferma a cinquanta minuti, almeno dieci in meno del Senato. Il cambio di passo iniziale è evidente. Da Gigliola Cinquetti a Lapo Pi-stelli. La prima citazione stavolta è per il politico fiorentino che lo scoprì (naturalmente pugnalato e tradito): “Poi ho pensato che entrando in quest’aula, a me non era capitato né da turista, né quando collaboravo con l’onorevole Pi-stelli , si prova un senso di stupore vero”. Lo stupore per la bellezza, per Firenze capitale, il Salone dei Cinquecento, Leonardo e Michelangelo. È l’abbrivio che conduce il premier stupito al veltronismo a 24 carati. Un classico: don Milani, cui “Walter” prese “I care”. Renzi se la cava con “sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è la politica”. Insieme però è una parola che stona, accostata al premier. La sua immagine di ieri è perlopiù solitaria, circondato dalle amazzoni silenti del suo governo. C’è Alfano che rimane in piedi perché indispettito dalla Pinotti che gli ha rubato il posto accanto a “Matteo”. E c’è poi la scena madre dell’ovazione all’abbraccio tra Bersani e Letta. Il premier continua a incassare e va avanti per la sua strada di parole e aggettivi (“devastante”, “gigantesca”). Rivendica ancora un volta la vittoria della sua generazione Erasmus, agganciandola stavolta alla tragedia di Falcone: “Avevo dieci anni, fin da bambino mi interessavo di politica, chiamate pure il Telefono azzurro”.
Le citazioni sono tutte buoniste: Scalfaro, La Pira, Berlinguer, Moro. Più che un dibattito sulla fiducia sembra un seminario sulla semantica, sull’origine delle parole: “Onorevole, io non ho il diritto di chiamarmi in questo modo, ma voi siete onorevoli, degni di onore”. I pilastri sono sempre due: la scuola e l’Europa: “La stabilità delle aule scolastiche è più importante del patto di stabilità”. Il gruppo grillino si mette a ridere sulla “maestra come punto di riferimento”. Continua il duello tra loro e Renzi, che poi li include nel “circuito culturale della Famiglia Addams”.
IL REPERTORIO renziano è sostanzialmente quello di Palazzo Madama: la speranza, le tasse da ridurre, la giustizia. C’è la novità dei tre tweet: il mondo che “corre a una velocità doppia”, l’Italia che paga le sue difficoltà e infine le responsabilità di chi ha governato negli ultimi quindici anni. Il peccato originale di andare a Palazzo Chigi senza elezioni ha una spiegazione disarmante, cinica: “Se ci fossimo ritrovati nelle stesse condizioni di un anno fa, dopo le elezioni, il problema si sarebbe riprodotto tale e quale”. Meglio evitare, quindi. Renzi cita pure Chesterton, scrittore amato dai ciellini: “Il mondo finirà per la mancanza di meraviglia”. Il veltronismo è onorato con i volontari, le altre citazioni per Pina e Fatima. Disabilità, integrazione, un Paese “semplice e coraggioso”. La fiducia passa con 378 sì. Due renziani, Guerini e Lotti, non fanno in tempo a votare perché impegnati in una riunione per decidere viceministri e sottosegretari. Davanti al premier rimane un libro destinato a diventare un cult di governo: L’arte di correre del maratoneta giapponese Haruki Murakami. Ricorda tanto il Fini scoperto con un mattone di Kazuo Ishiguro sul cruscotto dell’auto. Titolo: Gli inconsolabili.
Il Sole 26.2.14
Il battesimo del mercato
di Isabella Bufacchi
Per il battesimo di fuoco del premier Renzi sul palcoscenico delle aste dei titoli di Stato bisogna attendere domani quando il Tesoro emetterà il nuovo BTp decennale, molto sensibile alla politica e al rischio-Italia.
Ciò che il CTz, che andrebbe "rottamato", non è.
Il BTp decennale, più di ogni altro titolo di Stato, racchiude un valore fortemente segnaletico sulle reazioni dei mercati alle scorribande politiche e al gradimento degli investitori nei confronti del rischio-Italia. La durata è tra quelle più gettonate, la liquidità è elevatissima e i grandi portafogli lo prediligono perchè corredato dal BTp future. Tutto quello che il CTz non offre.
I nostri Certificati zero coupon non piacciono molto agli stranieri. Sono illiquidi. La formula del bond senza cedola è atipica e a stento riesce oggi ad attrarre il risparmiatore ex- BoT-people. Il CTz è collocato esclusivamente presso gli italiani, dicono fonti bene informate. Questo può spiegare perchè il CTz viene venduto in asta solitamente 6-8 punti sopra il rendimento dei BTp con vita residua di due anni. Forse anche per questo il Tesoro è intenzionato a ridurne l'ammontare in circolazione: «Il 2014 vedrà un aumento dei volumi dei CTz in scadenza, rispetto al 2013, con rimborsi pari a oltre 56 miliardi...Le emissioni nette dei CTz a fine 2014 risulteranno pertanto negative» e lo stock in circolazione diminuirà, si legge nelle linee guida 2014 del Tesoro sulla gestione del debito pubblico.
L'asta di oggi dei CTz è comunque andata bene, i rendimenti sono scesi al minimo storico: il tasso di assegnazione, al netto delle commissioni, è stato dello 0,82% mentre al lordo delle commissioni - tasso al quale guardano i traders - è stato dello 0,93 per cento. Decisamente più appetibile di quello dei titoli di Stato a due anni dell'area dell'euro "core": la Germania per esempio ha collocato il suo ultimo Schatz lo scorso 12 febbraio a un misero 0,11%.
I CTz si sono allineati alla curva dei rendimenti dei titoli di Stato italiani che sulla parte breve è scesa molto (e lo si vedrà anche oggi con l'asta BoT ) riflettendo le aspettative del mercato sulla politica monetaria molto accomodante della Bce: tassi bassi e se necessario più bassi e nuovi interventi per contrastare il rischio di deflazione e per aumentare l'offerta di credito a condizioni migliori nell'Eurozona periferica.
Va detto che il "risk on" è contagioso come il "risk off". E l'arrivo di Renzi a Palazzo Chigi coincide con un mercato di ottimo umore sull'euro e sull'Eurozona periferica: questa volta il contagio è un elemento esterno benefico su un'Italia che arranca, con la sua crescita molto sotto la media europea, con la sua perdurante instabilità politica, le sue riforme al rallentatore, con un debito/Pil che negli ultimi anni è salito invece di calare superando probabilmente quest'anno il picco del 133 per cento. Tuttavia un effetto-Renzi sul mercato secondario dei titoli di Stato, più segnaletico per il rischio-Italia rispetto alle aste, c'è stato ed è stato positivo finora: i mercati scommettono su un'accelerazione del cammino delle riforme strutturali grazie a Renzi. Giuseppe Maraffino e Fabio Fois di Barclays Research in una nota ieri hanno calcolato che dall'inizio della crisi politica, innescata il 13 dicembre con la caduta di Letta, il rendimento del BTp decennale è calato dal 3,71% al 3,55% (il livello più basso dal 2006) prima di risalire attorno al 3,62% ( sotto il profilo tecnico pesa negativamente l'arrivo del nuovo BTp decennale in asta domani): in questo oeriodo la performance del BTp decennale è stata migliore rispetto a quella non soltanto dei Bund tedeschi (lo spread si è ristretto di 10 punti) ma soprattutto rispetto ai Bonos spagnoli con lo spread contro BTp che si è stretto di circa 4 centesimi. «L'effetto Renzi va misurato con l'andamento dei BTp rispetto ai Bonos», sostengono gli analisti di Barclays, ricordando come la Spagna ha fatto in passato qualche fuga in avanti quando il mercato ha creduto di più nella capacità di Madrid di realizzare le riforme strutturali. Ora spetta a Renzi guidare la fuga in avanti.
Corriere 26.2.14
Renzi, ovvero la rivoluzione della forma
di Aldo Grasso
Ha lasciato il segno, se il giorno dopo il mondo dei media e della politica si sono buttati a capofitto nell’esame diagnostico degli interventi di Matteo Renzi al Senato e alla Camera (immagini, parole e sospiri), traendone spesso auspici infausti: atteggiamento anomalo e irrispettoso, discorso vacuo, esibizione teatrale, incompetenza, rottura degli schemi. Hoc erat in votis : era quello che Renzi desiderava.
L’altro ieri, la contiguità con il festival di Sanremo e la citazione di Gigliola Cinquetti mi avevano subito fatto pensare a una «strategia Littizzetto»: Renzi dice le parolacce (l’irritualità che tanto ha dato fastidio alla signora Polverini, tanto per citarne una) e costringe il Parlamento a fare la parte di Fazio, a fingere di scandalizzarsi. E invece qualcuno si è davvero scandalizzato.
Dal punto di vista comunicativo, la mossa che ha più spiazzato è che Renzi ha rovesciato la forma con il contenuto. Renzi, più o meno consapevolmente, ha provato ad aggiornare uno degli spunti più famosi di McLuhan, quello riassunto dallo stranoto e abusato slogan «Il medium è il messaggio». A ben guardare, gli argomenti che ha presentato nei suoi due discorsi contano molto poco, sono quasi un accessorio, inevitabile quanto in fondo superfluo. La sola cosa che importava era il tono, la forma, l’amore per la battuta dall’effetto facilmente prevedibile o per il passaggio emotivo da telefilm americano. Di più, Renzi conta in quanto icona, in quanto lì, pura potenza che si presta (con un certo grado di ottimismo della volontà) a diventare atto nelle operazioni di governo. Renzi, di fronte alle Camere, è puro gesto, mezzo (ancora) senza contenuto.
Figlio della cultura pop, da Mtv ai fumetti, dagli U2 a Fonzie (con un eloquio allisciato da un Baricco e animato da un Farinetti), a Renzi interessava porre delle distanze, segnare un territorio, ribadire che il sindaco d’Italia può anche permettersi un «monocolore Renzi», dove ministri e Parlamento, come vogliono le dinamiche della comunicazione moderna, sono al contempo spettatori e protagonisti, senza troppe distinzioni di ruolo. A parte il ministro Pier Carlo Padoan (scelto da altri), nessun ministro gli deve fare ombra.
Discorso leggero, poco istituzionale, niente politichese, programmi generici («titoli» secondo Brunetta), ma grande attenzione all’immaginario. Renzi ha una solo contenuto da comunicare: il dinamismo. Che è la cosa che spiazza di più i grillini, li irrita, li mette di fronte alla loro loquace inazione. Renzi ha scelto di parlare a braccio: il discorso non letto è quello che permette di usare il maggior numero di registri verbali e di sfruttare l’informale. Senza volgarità, senza urlare, senza agitare cartelli o altri simboli, il premier ha messo l’istituzione di fronte alla sua vecchiezza: persino la Lega, persino i grillini sono parsi figli di un antico sistema (mai vista poi un’istituzione dove ognuno fa i cavoli suoi, dove regna lo sbadiglio, dove si parla per frasi fatte). Al Parlamento italiano serve Checco Zalone non La grande bellezza ! Nella sua esposizione, Renzi aveva in mente tre pubblici: i telespettatori, cui si è rivolto con un piglio da talk show , i parlamentari (con una concentrazione particolare su M5S, quasi a vendicare la noia dello streaming ), se stesso. Renzi si piace, e questo è il suo vero punto debole. Ama ascoltarsi, si compiace delle battute che fa: il discorso per chiedere la fiducia al Senato è durato 58 minuti, almeno 20 minuti di troppo (i 20 dedicati a se stesso).
Non è detto che questo stile, il ribaltamento tra forma e contenuto, porti a frutti reali. Come sempre, in ogni forma di comunicazione, arriva il momento in cui il concreto deve prendere il posto dell’astratto, altrimenti si crea un circolo vizioso, il serpente si mangia la coda. Ieri, nella replica alla Camera, era troppo ego-riferito e compiaciuto. Un po’ facilone, forse, ma finalmente felice di decidere e di rischiare.
Renzi è un leader carismatico come Berlusconi. E come Berlusconi ha già ottenuto un risultato: farsi scrutare in maniera ossessiva dai media, essere al centro del palcoscenico. Berlusconi si è perso per strada, bruciato dalla vicinanza e dalla morsa morbosa dei media, da pasticci irrisolti, da una squadra vecchia e inadeguata. Per un vero uomo politico arriva il momento in cui, come suggeriva Baltasar Gracián, bisogna parlare come quando si fa testamento: meno parole, infinita saggezza. E questa sarà la prova decisiva per Renzi.
il Fatto 26.2.14
Susanna Camusso
La Cgil si fa in quattro, la conta su Landini riapre il congresso
di Salvatore Cannavò
Riunioni separate, atti “secretati”, accuse contrapposte. È una Cgil molto nervosa quella che riunisce oggi il Direttivo nazionale per discutere della consultazione sull’Accordo del 10 gennaio. Una Cgil nervosa e divisa almeno in quattro pezzi. Per tutta la giornata di ieri, infatti, i locali di Corso Italia hanno visto riunioni contrapposte di ben quattro aree organizzate di cui tre sostengono lo stesso documento congressuale. È stata la stessa Susanna Camusso a dare appuntamento ieri pomeriggio a i “centri regolatori”, cioè i segretari nazionali di categoria, regionali e di grandi città, avendo cura che fossero gli esponenti a lei fedeli. Una riunione in cui sono emerse perplessità sulla scelta di scontro frontale con Landini anche se, al momento, questa area maggioritaria non vede differenziazioni al proprio interno L’altra riunione è stata indetta invece da Nicola Nicolosi, membro della segreteria ma che lavora, invece, a una mediazione tra Camusso e Landini. Riunione parallela anche per l’area “filo-Fiom”, coordinata da Gianni Rinaldini, che al congresso in corso ha presentato l’emendamento contro l’accordo. In mattinata, invece, si è tenuta la conferenza stampa della piccola minoranza interna del “Sindacato è un’altra cosa ”, guidata da Giorgio Cremaschi, e le cui parole fanno capire il clima di tensione che si respira: “La Commissione nazionale di garanzia - hanno spiegato infatti Fabrizio Burattini e Barbara Pettine, esponenti di minoranza dell’organismo di controllo - ha deciso di secretare i dati dei congressi nazionali. Oggi (ieri, ndr.) avremmo dovuto visionarli ma ci è stato letteralmente impedito. Per questo abbiamo abbandonato i lavori della Commissione”.
I dati, che secondo quanto è possibile ricostruire, si riferiscono al 60% dei congressi di base, sono stati tenuti
riservati sia per non interferire con il Direttivo di oggi ma anche per permettere alla stessa Camusso di illustrarli direttamente alla stampa domani mattina. Alcune indiscrezioni dicono che i votanti complessivi sono stimati in circa 2 milioni (sui 5,7 milioni di iscritti) e che il documento di maggioranza avrebbe ottenuto più del 95%. Ma il dato sensibile sarà il risultato degli emendamenti “filo-Fiom”. Su questo voto si giocherà la composizione dei futuri gruppi dirigenti. Ma molto dipenderà anche dall’esito della consultazione sull’Accordo del 10 gennaio. Landini chiede che sia votato solo dai diretti interessati mentre nella riunione di ieri Camusso ha proposta la formazione di due urne, una per i lavoratori dell’industria e l’altra per il resto delle categorie. Inoltre ha proposto anche che si tengano le assemblee unitarie con Cisl e Uil in cui a presentare i contenuti dell’Accordo, sarà chiamato solo un esponente senza poter illustrare il parere contrario. Una modalità che la Fiom ha già detto di rifiutare dicendosi pronta a disertare il voto. Allora, anche il congresso sarà superato.
Repubblica 26.2.14
Utero in affitto, primo sì del tribunale “Non è reato se il bimbo nasce all’estero”
Milano, assolta la coppia che si era rivolta a un centro in Ucraina
di Emilio Randacio
MILANO - Hanno provato in tutti i modi ad avere un figlio. La moglie si è prima sottoposta a cicli di «stimolazione ormonale», rischiose per una donna affetta da una «patologia autoimmune». Poi, hanno provato con un ginecologo naturopata (esperto in medicina complementare). Niente ancora. Per A. C. e S. B., coppia milanese, non rimaneva che provare tecniche di procreazione «medicalmente assistite», praticabili solo all’estero. E così si sono rivolti prima a un centro statunitense, e dall’ottobre del 2009 presso la clinica Biotexcom di Kiev, dove dopo diversi incontri, i coniugi hanno sottoscritto «un contratto di maternità surrogata con ovodonazione». Un accordo per ottenere un «utero in affitto». A una donna è stato così impiantato il seme del futuro padre. La scelta è ricaduta su una «volontaria, maggiorenne, con piena capacità giuridica». Alla madre prescelta - individuata anche dopo diversi colloqui - , sono stati poi corrisposti, «oltre ai costi della clinica, il rimborso delle spese sostenute per un costo complessivo di 30 mila euro». Opportunità «pienamente conforme alla legge ucraina», ma vietata nel nostro paese. E qui sono iniziati i guai con la giustizia italiana. Perché la coppia, per non destare sospetti, ha anche simulato una vera gravidanza, con la signora che ha iniziato a indossare «un cuscino addominale in gommapiuma».
Tutto è stato studiato nei dettagli. Fino al 2010, quando il piccolo è nato in una clinica di Kiev, e i genitori hanno provato a trasferirlo in Italia. Pur avendo tutti i documenti ucraini in ordine, all’ambasciata italiana è stato dichiarato che il neonato era frutto di un parto naturale, avvenuto in terra ucraina per puro caso, al termine di un viaggio turistico. Agli attenti funzionari, vista anche l’età della neo mamma, sorge più di un sospetto, e segnalano l’anomalia alla procura milanese. I genitori, nel giro di pochi mesi, vengono prima indagati e poi rinviati a processo. L’accusa è quella di «alterazione di stato di un atto di nascita». Non proprio bruscolini. Rischiano da 5 a 15 anni di carcere, e soprattuttodi perdere l’affidamento del piccolo. La legge vuole essere severa, sul tema, per combattere il traffico di minori. Il 15 ottobre scorso è arrivato il verdetto. Nonostante la procura avesse chiesto due anni e 3 mesi di carcere per entrambi, la quinta sezione penale li ha assolti (difensori i legali Francesco e Luigi Isolabella). «Nel caso in esame - osserva il Tribunale - l’atto di nascita è stato formato nel rispetto della legge del luogo ove il bambino è nato, all’esito di una procreazione medicalmente assistita conforme alla lex loci».
Anziché alterazione di stato - è scritto nelle motivazioni da poco depositate, con giudice estensore Giuseppe Cernuto - , il reato commesso è «quello di false dichiarazioni ai funzionari dell’ambasciata». Reato minore e perseguibile solo con querela del Ministero degli Esteri. In questo caso assente: da qui l’assoluzione.
Una decisione non facile quella dei giudici milanesi. Il tribunale dei minori di Brescia, tre mesi fa, in un caso praticamente identico, ha invece tolto il minore ai genitori e li ha rinviati a giudizio per lo stesso reato del caso milanese. La coppia di un paesino vicino a Crema, questa volta, per riuscire ad avere un figlio si era fatta seguire dalla medesima clinica specializzata di Kiev. Stesso iter, stessa denuncia all’anagrafe falsa. In questo caso, però, i magistrati hanno effettuato un test del Dna che ha anche dimostrato come non ci fosse compatibilità con quello del padre.
La Stampa TuttoScienze 26.2.14
Tre genitori per un figlio sano
“È eugenetica”. “No, è terapia”
Si discute negli Usa se legalizzare la manipolazione del Dna mitocondriale
di Paolo Mastrolilli
Bambini creati in laboratorio, con il Dna di tre genitori. Non è un film di fantascienza, ma una possibilità concreta, che da ieri le autorità americane stanno discutendo per decidere se legalizzarla negli Stati Uniti. I suoi sostenitori, che l’hanno già sperimentata sulle scimmie, la definiscono come un grande progresso della scienza per evitare le malattie ereditarie. I suoi avversari la bocciano come manipolazione da ingegneria genetica.
Tutto è cominciato nel laboratorio di Shoukhrat Mitalipov, alla Oregon Health & Science University di Portland. Lo studioso è partito dall’evidenza che molti bambini nascono con difetti dovuti al Dna mitocondirale delle madri e ha cercato il modo di evitare queste malattie genetiche ereditarie.
Il Dna si divide in nucleare e mitocondriale: il primo contiene la maggior parte dei geni da cui vengono i tratti della persona, mentre il secondo ha 37 geni coinvolti nella produzione delle proteine che consentono alle cellule di respirare. I difetti di questo Dna, che solo le madri passano ai figli, sono responsabili di diverse malattie, in alcuni casi molto gravi, come epilessia e cecità. Mitalipov quindi ha messo a punto una tecnica che consente di aggirare il problema.
In sostanza ha preso il Dna nucleare della madre e lo ha trasferito nell’ovulo di una donatrice che conteneva Dna mitocondriale sano. Quindi l’ha unito al seme del padre. In questo modo sono nate tre scimmie che hanno l’eredità genetica di tre esseri: il seme del padre, il Dna nucleare della madre e quello mitocondriale della donatrice. Mitalipov ora vorrebbe il permesso per replicare questa tecnica negli esseri umani e quindi ha chiesto alla Food and Drug Administration di studiare la questione. Ieri, dunque, l’organismo del governo americano che regola le pratiche mediche e farmaceutiche ha iniziato una revisione di due giorni, alla fine della quale esprimerà il suo giudizio.
Una tecnica simile era già stata usata alla fine degli Anni 90, portando alla nascita di circa 100 bambini. Nel 2001, però, la Fda aveva ordinato alle cliniche della fertilità di interromperla o passare attraverso un normale processo di approvazione. Ora i nuovi esperimenti di Mitalipov hanno riaperto la questione, che così è tornata sul tavolo della autorità americane.
Lo studioso di Portland sostiene che è sbagliato parlare di figli con tre genitori, perché i tratti genetici ereditari più importanti vengono dal Dna nucleare e quindi il padre e la madre restano fondamentalmente due. La donatrice si limita a dare un piccolo contributo che serve ad evitare malattie. Non è una «modificazione dei geni, ma piuttosto una loro correzione». Infatti si tratta di riportare alla normalità dei geni mutati, rimpiazzandoli con quelli della donatrice sana. In altre parole è come curare una malattia, rimediando ad un difetto subentrato con il tempo nell’organismo femminile.
Altri studiosi, come Jeremy Gruber del Council for Responsible Genetics, o Marc Darnovsky del Center for Genetics and Society, non sono d’accordo. Secondo loro, la modificazione genetica avviene, anche se si tratta solo del Dna mitocondriale, e quindi i figli finiscono per avere davvero tre genitori. Questo ha un impatto non solo sulla loro esistenza, ma anche su tutte le generazioni future che discenderanno da loro.
L’impatto non è solo psicologico, ma anche medico, e finora questi due aspetti non sono stati studiati a sufficienza. I 100 bambini nati con una tecnica simile alla fine degli Anni 90, infatti, non sono stati sottoposti a ricerche approfondite e comunque sarebbe impossibile valutarne gli effetti sui discendenti. Per queste ragioni, che sono insieme etiche e mediche, gli oppositori come Gruber e Darnovsky ritengono che la Fda non avrebbe dovuto neppure prendere in considerazione la richiesta di Mitalipov: si tratta di una alterazione del Genoma che è stata proibita 15 anni fa da un accordo raggiunto in sede Onu.
La Fda si è presa due giorni di tempo per ascoltare le parti coinvolte, farsi la propria opinione ed emettere il verdetto. E’ facile prevedere, però, che la sua pubblicazione sarà solo l’inizio delle polemiche.
Repubblica 26.2.14
Gad Lerner: “Dalla piazza al web ecco l’informazione del futuro”
Stasera “Fischia il vento” su “ laEffe” e Repubblica.it
di Carlo Brambilla
MILANO. Come l’inviato di una volta. Col suo nuovo programma Fischia il vento, in onda da stasera alle 21,30 su laeffe, la televisione di Feltrinelli, sul canale 50 del digitale terrestre e in contemporanea su Repubblica.it, Gad Lerner abbandona definitivamente il talk-show e i salotti televisivi per tornare sulla strada, nella bufera, in mezzo alle tempeste di questo nostro tempo, là dove le cose accadono. Dieci puntate, tutti i mercoledì, per raccontare “dal basso”, fuori dai teatrini televisivi, dove tutti recitano ormai una parte definita, come cambia veramente l’Italia. Il titolo del programma non vuole solo evocare bufere, ma anche la crescente speranza di riscossa. «All’interno del peggioramento delle condizioni di vita degli italiani stanno sorgendo - racconta Lerner - numerose forme meravigliose di mutuo soccorso, solidarietà tra i cittadini, comunità di caseggiato, forme di autocura , che vogliamo raccontare e che si producono spontaneamente in attesa delle risposte della politica».
Il programma, il primo prodotto quest’anno da laeffe, è registrato nei giorni precedenti alla messa in onda. Questo consente di realizzare una televisione più pensata. Di qualità. Una trasmissione costruita durante il montaggio, utilizzando le immagini realizzate dai giovani film-maker che accompagnano il conduttore. Con ricchezza di interviste. Grazie alla sinergia di due editori come Feltrinelli e la Repubblica. A cominciare dagli approfondimenti fatti con autori Feltrinelli e con le firme di Repubblica. «Penso a Baricco e a Saviano, a Recalcati, a Benni, a Enzo Bianchi o a Vito Mancuso, per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Ma anche a molti altri». Il tentativo di incrociare, per la prima, volta un programma televisivo col principale sito di informazione italiano. Spiega Massimo Razzi, direttore della divisione digitale di Repubblica: «Non ci limiteremo a trasmettere in contemporanea il programma. Produrremo approfondimenti, backstage, dialoghi coi lettori. Un prima e un dopo trasmissione». In una sorta di redazione aperta gli spettatori avranno la possibilità di ricostruire e rielaborare in temi proposti. La prima puntata, stasera, racconterà il passaggio dall’Italia di Berlusconi a quella di Matteo Renzi. L’eterno bisogno di un uomo forte. Il paradosso di un politico professionista visto come paladino della lotta contro la casta. «La sua capacità di scompaginare il recinto delle appartenenze politiche verrà raccontata nello stile di
Fischia il vento - spiega Lerner. andando per esempio dentro la sezione del Pd di Firenze dove Renzi è iscritto. Ma anche tra i militanti di una sede di Forza Italia». E ascoltando alcuni commenti eccellenti, come quello del politologo fiorentino Giovanni Sartori, che giudica con durezza il suo giovane concittadino: «Renzi è un peso piuma, malato di velocismo, che si sgonfierà rapidamente, mentre invece abbiamo bisogno di qualcuno che sia bravo». Manon si parlerà però solo di Renzi. Gad Lerner sarà in viaggio sul treno ad alta velocità che ha portato artigiani e commercianti a mani-festare, la settimana scorsa, in piazza del Popolo, a Roma. In piedi, sul treno traballante, col suo taccuino da cronista».
«La nostra rete è on air dal maggio del 2013 - racconta Riccardo Chiattelli, direttore di laeffe. – Una televisione che vuole offrire degli strumenti per capire e conoscere il mondo, con tante storie, molte domande e tutta la curiosità e la visione dell’editore Feltrinelli. Informazione, cultura, fiction e innovazione sono gli ambiti tematici intorno ai quali vogliamo costruire il nostro racconto televisivo».
Repubblica 26.2.14
Opera di Roma, sciopero confermato e i sindacati “ribelli” attaccano: “C’è una manovra contro Muti”
Il teatro: “La trattativa è stata abbandonata da loro”
di Anna Bandettini
ROMA. Ci sono accuse, anche pesanti, recriminazioni, richieste, illazioni e dieci domande sul futuro del teatro. C’è molto per prevedere il peggio. Ieri i sindacati Fials-Cisal, Libersind-Confsal e Cgil-Slc del teatro dell’Opera di Roma (rappresentano 250 lavoratori su 490 dicono loro; molto meno per altri: all’ultima protesta si dice che non erano più di una trentina) hanno ribadito lo sciopero su tutte le cinque recite di Manon Lescaut dal 27 febbraio all’8 marzo. «Dovrebbe esserci una convocazione dal sindaco Marino per congelare la protesta», hanno detto in una animata conferenza stampa i tre rappresentanti sindacali con indosso una t-shirt con la scritta: “I love Riccardo Muti” perché, hanno spiegato: «abbiamo fondatissimi motivi per ritenere che vi sia in atto una manovra per fare sì che il maestro abbandoni il teatro dell’Opera. Se la convocazione di Marino non arriverà, avremo la conferma che vogliono che Muti se ne vada», hanno ripetuto seguendo un oscuro teorema e tirando in ballo il Maestro, nonostante in teatro si tema il contrario, e cioè che il direttore d’orchestra - in questi agitati giorni ha continuato a lavorare e ieri ha diretto la prova generale- potrebbe decidere di andarsene sì, ma solo se non ci dovessero più essere le condizioni per lavorare e lavorare bene.
Gli scioperi su Manon - costano al teatro circa un milione di euro, tra cast, personale e allestimento (280mila euro, grazie anche agli sponsor che hanno fornito capi di abbigliamento per i costumi) - sono confermati «perché non abbiamo altra scelta», ha ribadito come un mantra Lorella Pieralli della Fials Cisal, insieme ai colleghi (tra cui Pasquale Faillaci della Slc-Cgil, cognato dell’ex-sovrintendente). Hanno avuto l’immediata solidarietà dell’ex- sindaco Alemanno (“pronti a barricate”) e di Fratelli d’Italia, ma anche la replica del sindaco Marino il quale aveva parlato di liquidazione coatta in caso di sciopero: «In questo momento chi lavora con altissima qualità all’Opera- ha detto il sindaco- deve capire che ci sono decine di migliaia di persone che non hanno lavoro o hanno il problema di una casa e per il Comune investire 16 milioni e mezzo nel bilancio 2014 del teatro è un impegno notevole. Trovo sia necessario un atto di responsabilità da parte di tutti».
Molte le accuse dei “ribelli”: non riconoscono il sovrintendente Carlo Fuortes, che ieri ha incontrato il neoministro Franceschini, come interlocutore («uomo sbagliato al posto sbagliato»), accusato di non dare risposte «alla richiesta di sapere qual è il progetto produttivo triennale» (anche se l’Opera smentisce: «è stato loro inviato il 14 gennaio scorso») e di fare «una drastica riduzione degli organici, per esternalizzare la produzione», mentre il teatro ribatte che si tratta di «41 pensionamenti e 24 pre-pensionamenti». Dicono che non c’è trattativa in corso ma dall’Opera si precisa che sono stati convocati più volte, l’ultima il 19 febbraio. Dichiarano che la legge Bray (quella che prevede un contributo ad hoc per i teatri i crisi a patto di un piano di risanamento) «distrugge la lirica a favore dei comitati d’affari», ma senza dire quali. Chiedono: «vogliamo ancora essere un teatro di produzione di eccellenza o un centro di assemblaggio e circuitazione di strategie affaristiche decise altrove?». E alla domanda su come rientrare dal deficit di 10 milioni e 418mila e dai quasi 30 di debito patrimoniale propongono: «Produrre di più spendendo meno». Oggi parleranno gli altri sindacati, Uil e Cisl, contrari allo sciopero, che raccolgono la maggioranza dei lavoratori. Ma se non ci sarà una schiarita, la liquidazione coatta si avvicina.
l’Unità 26.2.14
La sinistra e l’Europa
di Massimo d’Alema
Davanti agli enormi cambiamenti e ai grandi interrogativi che segnano il mondo globale, le destre europee, incapaci di governare e tenere a bada la crisi, hanno riconquistato una leadership innanzitutto sul terreno culturale e ideologico, riuscendo a utilizzare politicamente il sentimento di paura e il riflesso di chiusura dell’opinione pubblica di fronte al mutamento del mondo.
Da destra è venuta una offerta fatta di antiche e facili certezze: il richiamo alla terra, al sangue, alla religione. Anche il dibattito sulle «radici cristiane» dell’Europa ha finito, da molte parti, per ridurre il riferimento alla religione ad un baluardo identitario, a una sorta di scudo per proteggersi dall’influenza di altre religioni e di altre civiltà. Una deriva che ha accentuato una dialettica negativa con una altrettanto resistente tensione laicista, anch’essa espressione di un’Europa del passato. Penso, infatti, che oggi più che mai ci sarebbe bisogno di un dialogo tra fede e ragione, ma tra una fede religiosa aperta e universale, portatrice di speranza, e una ragione capace di reagire alle paure irrazionali, riproponendo il valore della scienza e della storia.
Ma a livello dell’Unione, è soprattutto l’affermarsi del pensiero neoliberista che ha predicato il primato dell’economia sulla politica, ad aver impoverito l’Europa, rafforzando le tendenze tecnocratiche e favorendo una sorta di separazione fra le decisioni europee - appunto tecniche - e il confronto politico e culturale. Intendo quella frattura fra policies e Politics che è stata denunciata come uno degli aspetti più gravi della crisi europea.
A questo punto, spetta ai progressisti riaprire un confronto politico a livello europeo. La politica, infatti, è discussione e scelta fra progetti alternativi, e non può essere sostituita da un groviglio di regole, parametri e criteri, che finiscono per imbrigliare la libertà della decisione e dell’iniziativa. So bene quanto sia stata importante la collaborazione tra le grandi famiglie politiche progressiste e moderate, in particolare tra socialisti e popolari. Una collaborazione che resta condizione decisiva per sostenere il cammino dell’integrazione. Ribadito questo, però, essa non deve impedire un aperto confronto ed anche, se necessario, un conflitto tra diverse proposte di politica economica e sociale.
Insomma, rafforzare la dimensione politica dell’Europa significa rendere più evidente una dialettica tra destra e sinistra. Per parte nostra, significa attaccare un’impostazione neoliberista e una politica della mera austerità, che hanno prodotto guasti molto profondi. Nascondere questi contrasti sotto l’egida di un indistinto linguaggio «europeista» finirebbe soltanto per dare vantaggio alle spinte populiste, che cercano di rappresentare il disagio di chi sta male e di scaricare su questa Europa la responsabilità della crisi sociale.
Dobbiamo, dunque, imprimere una svolta politica al nostro modo di stare in Europa. (…) Non è irresponsabile dire che bisogna uscire dalla gabbia dell’austerità e che una politica di risanamento non può essere seriamente perseguita senza sostenere la crescita e, quindi, senza una interpretazione più flessibile e intelligente dei vincoli sin qui imposti. (…)
La crisi finanziaria ha portato alla luce la debolezza dell’impianto politico europeo, che, paradossalmente, è divenuto più fragile e inadeguato proprio in seguito a due grandi successi dell’Europa: l’allargamento e l’euro. Nel momento più alto dello sforzo di integrazione, sancito dalla nascita della moneta unica, è venuta a mancare quella spinta ulteriore che avrebbe dovuto dare alle istituzioni politiche la forza di guidare la nuova dimensione economica dell’integrazione. È venuto, così, in evidenza il fatto che la moneta unica, senza un coordinamento effettivo delle politiche economiche di sviluppo, senza l’armonizzazione delle regole fiscali e degli standard sociali, senza un significativo bilancio federale dell’Unione, anziché essere il fondamento di una più forte integrazione, ha finito per accentuare gli squilibri e le diseguaglianze fra aree con diversi livelli di produttività e di competitività. La dottrina di Maastricht, applicata alla crisi, ha rivitalizzato, invece che annientare definitivamente, il virus letale dell’Europa: il nazionalismo economico.
Le classi dirigenti, e in questo senso anche la famiglia socialista deve riconoscere i propri errori, non hanno compreso, oppure hanno sottovalutato o rimosso, il fatto che l’allargamento dei confini dell’Unione coinvolgeva Paesi in gran misura estranei allo spirito europeista così come si era venuto definendo nella lunga collaborazione del dopoguerra, e privava una parte della sovranità gli stati membri, in particolare del potere fondamentale di coniare moneta. Tutto ciò richiedeva un salto di qualità verso l’unione politica, strumenti efficaci di governo e possibilità di decisione libera dal potere di veto di singoli Paesi. Richiedeva un maggior rafforzamento delle basi ideali e culturali dell’Unione, l’assunzione reale di quell’insieme di principi di libertà e di diritti individuali e collettivi che sono rimasti nella Carta di Nizza più come testimonianza di cosa potrebbe essere l’Europa, che come fondamento del suo agire effettivo.
Anche per questo, per questo deficit di politica, la dimensione della governance economica ha preso il sopravvento e l’illusione tecnocratica che si possa governare attraverso un insieme di criteri e di vincoli ha finito per prevalere e imprigionare l’Europa.(…)
Tecnocrazia e populismo sono diventate le due facce della crisi democratica dell’Europa: è il tema della democrazia che si presenta in tutta la sua forza dirompente. Esso mette a nudo l’esistenza di quel deficit democratico che è la caratteristica e la contraddizione più profonda del capitalismo globale. La democrazia si indebolisce anche perché il potere reale si sposta verso i centri della finanza internazionale. Questo finisce per svuotare di poteri e di ruolo gli Stati nazionali e la politica torna ad essere dominata dall’ideologia, proprio perché spesso vuota di contenuti reali e di poteri effettivamente esercitabili. Spettava e spetta all’Europa colmare questo deficit democratico, sviluppando un potere sovranazionale in grado di ristabilire un primato della politica sull’economia. Invece l’Europa conservatrice e neoliberista si è ridotta ad amministrazione, burocrazia, tecnocrazia, incapace di proporre scelte reali e alternative possibili intorno alle quali mobilitare l’opinione pubblica. Così i cittadini avvertono un senso di impotenza nei confronti di istituzioni e decisioni pure così rilevanti per la loro vita, sulle quali, tuttavia, non sono in grado di esercitare né influenza né controllo. Allora come meravigliarsi che prenda campo la rivolta populista?
Naturalmente, le risposte devono essere date nel merito dei problemi che riguardano la vita delle persone. Ma la condizione affinché questo possa accadere in modo efficace sta nel rafforzamento della dimensione politica dell’Unione. Molto si può fare nell’ambito dei Trattati esistenti, pur consapevoli che è matura l’esigenza di progettare, con gradualismo e realismo, un nuovo patto istituzionale tra i Paesi membri. Siamo convinti che, con i suoi squilibri, le sue asimmetrie e i suoi vuoti normativi, il Trattato di Lisbona non delinei ancora il quadro democratico di cui l’Europa ha bisogno. Tuttavia, esso rappresenta un progresso rispetto al passato, perché offre nuovi strumenti e lascia spazio sia a miglioramenti sia alla possibilità di un consolidamento della dimensione sociale e democratica, oltre che della proiezione internazionale dell’Unione. (…)
A queste proposte, va aggiunto il capitolo cruciale della governance della zona euro. È necessario rafforzare la sua dimensione politica e, nello stesso tempo, evitare che nasca una «Unione nell’Unione», facendo in modo che gli organismi dell’area dell’euro si collochino all’interno delle istituzioni comuni dell’Ue, nelle quali sono rappresentati anche Paesi che non condividono la moneta unica.
La Stampa 26.2.14
L’accusa del’Onu a Israele
“Ciò che Israele fa a Gaza e Ramallah equivale all’apartheid”
L’americano inviato speciale delle Nazioni Unite Richard Falk punta il dito contro il trattamento imposto dagli israeliani alla popolazione che vive nei Territori: “Una sistematica oppressione nei confronti dei palestinesi”
di Maurizio Molinari
qui
Repubblica 26.2.14
Gerusalemme
“Sovranità d’Israele sulla Spianata delle moschee”
Esplodono gli scontri tra palestinesi e polizia: feriti
GERUSALEMME - Scontri e feriti ieri sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, dopo le voci di un’irruzione di estremisti ebraici pronti a innalzare la bandiera d’Israele nel luogo dove sorgono la Cupola della Roccia e la Moschea al Aqsa, terzo sito sacro all’Islam. Le voci coincidevano con la provocazione di un deputato dell’ala radicale del Likud, Moshe Feiglin, che proprio ieri discuteva alla Knesset un progetto di legge teso ad “applicare la sovranità israeliana” sul luogo santo. Nel 2000 una provocazione simile di Ariel Sharon contribuì a innescare la seconda Intifada, dopo la “passeggiata di Sharon” scortato da guardie armate sulla Spianata delle Moschee. Da quando nel '67 Israele conquistò Gerusalemme Est, per ordine di Moshe Dayan la sacra montagna è amministrata dal Waqf, l’autorità religiosa giordana. Gli ebrei possono visitarla, ma non andare a pregarvi.
Stando alla polizia israeliana, gli scontri ieri si sono conclusi con due feriti lievi fra gli agenti. Fonti palestinesi calcolano invece 15 feriti da pallottole di gomma e quattro arresti. L’incursione è condannata dal presidente dell’Anp Mahmoud Abbas: «Crea un’atmosfera che aumenterà le violenze e l’odio».
La Stampa 26.2.14
Natalie Portman “Com’è difficile girare il mio film a Gerusalemme”
Esordio da regista con la vita di Amos Oz, ma sale la protesta degli ortodossi
Per Natalie Portman primo film da regista
di Maurizio Molinari
qui
l’Unità 26.2.14
Blindati russi a Sebastopoli presto un nuovo governo
L’ex pasionaria per ora fa un passo indietro, l’ultra destra presenta il conto della sua forza in piazza E un ex pugile è già in corsa per la presidenza
di Marco Mongiello
BRUXELLES. La Russia «lavori costruttivamente con noi per garantire un’Ucraina unita». Con questo appello rivolto a Mosca ieri il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, ha dato voce alla preoccupazione dell’Europa e degli Stati Uniti per la reazione del Cremlino dopo il rovesciamento del regime del presidente ucraino filorusso Viktor Yanukovich. Ieri il presidente russo Vladimir Putin si è riunito con suoi ministri e con i vertici della sicurezza per fare il punto della situazione. «Noi non interferiremo», ha rassicurato il ministro degli Esteri russo Sargei Lavrov, chiedendo all’Occidente di fare lo stesso. Ma a Sebastopoli, in Crimea, un blindato russo della vicina base militare è arrivato nella piazza centrale e, secondo alcuni siti locali, altri blindati sono stati avvistati all’ingresso della città. Anche ieri inoltre ci sono state manifestazioni per chiedere l’intervento del Cremlino contro la nuova leadership europeista che ha preso il potere a Kiev.
Nella Repubblica autonoma di Crimea, dove la maggioranza della popolazione parla russo, ci sono le basi militari e la flotta sul Mar Nero di Mosca. Ieri, secondo diverse fonti, si sono mosse anche altre navi militari russe con a bordo soldati e forze speciali. Lunedì il presidente russo Dmitri Medvedev aveva avvertito che la situazione in Ucraina «rappresenta una minaccia per i nostri interessi e per la vita e la salute dei nostri cittadini» e ieri una fonte ufficiale del Cremlino ha confermato al Financial Times che «se l’Ucraina si divide questo scatenerà una guerra. Per prima cosa perderanno la Crimea perché noi andremo a proteggerla come abbiamo fatto in Georgia». Nel 2008 le forze armate di Mosca hanno attaccato la Georgia per proteggere la minoranza separatista russa dell’Ossezia del Sud.
Nel suo appello Barroso ha affermato che ora la priorità e quella di rispettare e preservare «l’unità territoriale del Paese». Bruxelles sta facendo pressioni su Kiev per accelerare la transizione politica, ma la formazione del nuovo governo di unità nazionale prevista ieri è stata rimandata a giovedì a causa delle divergenze di opinione tra i tre partiti di opposizione. Nell’annunciare la decisione il capo del Parlamento e presidente ad interim, Oleksandr Turcinov, ha anche lanciato l’allarme sui «pericolosi segnali di separatismo» emersi in alcune aree del Paese.
La rappresentante Ue per la politica estera, Catherine Ashton, in questi giorni a Kiev, ha incontrato le opposizioni. La prima cosa che ha detto è stato un richiamo ai leader a «lavorare insieme», includendo nel governo anche rappresentanti del partito di Yanukovich. La Ue, ha continuato, «si aspetta di vedere presto un nuovo governo. Ovviamente questo deve essere inclusivo e deve avere tutta l’expertise che sarà necessaria». Per Bruxelles infatti è necessario che nel nuovo esecutivo ci sia qualcuno che abbia la necessaria esperienza e autorevolezza per gestire la delicata fase economica del Paese.
Le finanze pubbliche dell’Ucraina hanno bisogno di 35 miliardi di dollari per evitare la bancarotta e in questi giorni la comunità internazionale sta preparando un piano di salvataggio con l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale. Ieri è arrivato a Kiev anche il vicesegretario di Stato americano, William Burns, e presto sarà raggiunto anche dal ministro degli Esteri britannico, William Hague. I deputati ucraini si sono trovati d'accordo invece nell’approvare una mozione che chiede al Tribunale penale internazionale dell’Aja di processare l’ex presidente Viktor Yanukovich per crimini contro l’umanità, insieme all’ex ministro dell’Interno, Vitaly Zakharchenko, e all’ex procuratore generale di Kiev, Viktor Pshonka. Secondo i parlamentari la repressione delle proteste di piazza Maidan ha causato oltre 100 morti e duemila feriti.
«YANUKOVICHLEAKS» Yanukovich, prima scappare dalla sua villa fuori Kiev per andare a nascondersi nell’est del Paese, ha cercato di distruggere 200 faldoni di documenti compromettenti che sono stati gettati nel fiume vicino alla sua residenza. Ieri i documenti sono stati recuperati e ora una squadra di giornalisti li sta studiando e mettendo online sul sito yanukovychleaks.org. Il nuovo presidente sarà eletto il prossimo 25maggio e ieri la commissione elettorale ha dichiarato ufficialmente aperta la campagna elettorale. Unico candidato finora è l’ex pugile Vitali Klitschko. A correre per l’incarico potrebbe essere anche l’ex premier e leader della rivoluzione arancione, Yulia Timoshenko, l’ex ministro degli esteri e leader dello stesso partito della Timoshenko, Arseni Yatseniuk, che però è ancora in predicato per diventare premier e il re del cioccolato Petro Poroshenko.
l’Unità 26.2.14
Piazza Maidan diffida dei vecchi politici, gelo per Yulia
di Umberto De Giovannangeli
Un Paese senza governo. Una piazza che contesta i vecchi leader. L’estrema destra che alza il prezzo per dare il via libera ad un esecutivo di transizione. E, sullo sfondo, minaccioso, i carri russi a Sebastopoli. L’Ucraina del dopo-Yanukovich non trova pace. Neanche nella Kiev «liberata». La «Giovanna d’Arco» di Piazza Maidan, Yulia Timoshenko, simbolo della Rivoluzione arancione del 2004, non riesce a tenere unita un’opposizione dalle tante anime, e dagli altrettanti appetiti di potere. Il rinvio nella formazione del governo di transizione è legato a questo scontro per la leadership della «nuova Ucraina» più che alla trattativa in corso fra Unione europea, Stati Uniti e la Federazione Russa per scongiurare una devastante guerra di secessione. L’ex premier ha scelto di fare un passo indietro, rinunciando a correre per la poltrona di primo ministro, ma questo non è bastato ai suoi competitori.
SCONTRO DI POTERE Il presidente ad interim Olexander Turchynov, perde sempre più potere. L’agenda sembra ormai dettata più che dal presidente della Rada, lo stesso Turchynov, dall’ala radicale di Piazza Maidan: ottenuto lo spodestamento di Yanukovich, ora non intende lasciarsi liquidare dalla politica. A raffreddare l’ottimismo per un veloce compromesso benedetto dagli oligarchi, che vedeva in dirittura d’arrivo per la poltrona di premier Arseni Yatseniuk o Petro Poroshenko, sono giunti ieri i diktat di Pravyi Sektor, Settore destro, con le voci del leader Dmitri Yarosh che aspirerebbe allo scranno di vice primo ministro. I gruppi radicali della piazza esigono che nel nuovo governo non sia presente nessuna delle 100 persone più ricche del Paese e hanno annunciato che la rivoluzione va avanti. Pravyi Sektor e Spilna Prava (Causa comune) hanno dichiarato inoltre di voler monitorare con i propri attivisti le elezioni presidenziali che si terranno il prossimo 25 maggio. Yatseniuk, al momento comunque il favorito rispetto all’oligarca Poroshenko, ha fatto sapere in ogni caso che nel nuovo governo di unità nazionale saranno presenti esponenti di Maidan. Si fanno tra gli altri i nomi della cantante Ruslana, del rettore dell'università Sergei Kvit o la coordinatrice del servizio medico Olena Musiya. Ma al di là del peso politico reale degli esponenti della società civile, è il ruolo di Pravyi Sektor e quello di Svoboda di Oleg Tyahnybok a suscitare le maggiori preoccupazioni, sia nelle regioni russofone del Paese (a causa della legge approvata con urgenza l’altro ieri che vieta il russo come lingua ufficiale), sia all’estero. Anche se Tyahnybok, numero uno della destra populista, ha dichiarato che non sarà presente nelle file governative, lo slittamento verso l’ultranazionalismo ha cominciato a preoccupare l’Europa. D’altro canto, a scontrarsi in queste settimane con la polizia sono stati principalmente gli attivisti di formazioni paramilitari bene addestrate, afferenti agli ultranazionalisti di Svoboda, del Pravy Sektor o di Spilna Sprava, fautori della «Ucraina agli ucraini», segnati dai miti razziali otto-novecenteschi distillati dai teorici locali dello Stato etnico, profondamente russofobi, polonofobi e antisemiti.
POLTRONA AMBITA La sfida vera è quella del 25 maggio. La sfida per la Presidenza. Yulia Timoshenko dovrà fare i conti con avversarri agguerriti. Il primo dei quali è il leader del Partito moderato Udar, Vitali Klitschko: ex-campione di pugilato molto apprezzato nel Paese ed in Europa (è in buonissimi rapporti con la cancelliera tedesca, Angela Merkel). Altro candidato con ambizioni di vittoria è il Capo del Partito nazionalista Svoboda, Oleh Tyahnybok.Epoi c’èun confronto ancora aperto nel Partito democratico-socialpopolare Batkivshchyna, il partito di Timoshenko. Prima della liberazione dell’eroina della Rivoluzione arancione, in «pole position» era dato il leader del partito, Arseni Yatseniuk.
Un peso importante nel determinare i nuovi equilibri di potere l’avranno gli oligarchi economici, soprattutto quelli attivi nel settore energetico (uno su tutti Dmitri Firtash), prima sostenitori di Yanukovich oggi alla ricerca di nuovi leader da sponsorizzare.
il Fatto 26.2.14
La parte orientale
Karkov aspetta i soldati russi “Ci difenderanno dai fascisti”
di Carlo Antonio Biscotto
Qualche giorno fa Robert Fisk scriveva sull’Independent che, a differenza di quanto sta avvenendo in Siria, non ci sono in Ucraina due religioni o due etnie che si scontrano per la supremazia e che quindi più remoto sarebbe il rischio di una guerra civile. E ancora ieri – sempre sull’Independent – Mary Dejevsky osservava che, malgrado i tragici avvenimenti degli ultimi giorni, l’Ucraina ha ancora una fortissima identità culturale che unisce il popolo sotto un’unica bandiera. A leggere le corrispondenze che giungono da alcune zone del Paese – in particolare quelle di Claire Gatinois per Le Monde – la situazione sembra un pochino diversa. Nella parte orientale dell’Ucraina, quella che confina con la Russia, l’uscita di scena di Yanukovich non è stata accolta con manifestazioni di giubilo. A Karkov domenica scorsa un certo Viktor, stesso nome del deposto Yanukovich, non ha festeggiato, ma con gli occhi pieni di lacrime si è messo a frugare nell’armadio, ha tirato fuori una divisa da ufficiale dell’Armata Rossa e l’ha indossata con fierezza. Poi è sceso in piazza e ha festeggiato insieme a molti concittadini i 96 anni dell’esercito sovietico. “All’epoca della seconda guerra mondiale avevo dieci anni, ma credo di avere il diritto di vestirmi da ufficiale dell’Armata Rossa”. Viktor e molti altri manifestano in piazza contro Maidan, il movimento popolare nato dalla contestazione contro il presidente Yanukovich. Viktor e gli altri concittadini filo-russi proteggono la statua di Lenin che, stando a quanto affermano, alcuni rivoltosi avrebbero intenzione di abbattere. Ma in realtà la statua di Lenin non sembra correre alcun pericolo. Serhiy Jadan, poeta e scrittore, autore, tra l’altro, de La route du Donbass, elemento di spicco di Maidan a Karkov, non crede che abbattere la statua di Lenin sia una buona idea: “In questa parte dell’Ucraina la storia e i simboli sovietici sono importanti”, spiega. “C’è una situazione completamente diversa da quella di Kiev”.
IL CORSO DEGLI EVENTI a Karkov ha avuto aspetti contraddittori, quasi schizofrenici. C’era chi ballava per le strade e inneggiava alla libertà e chi non nascondeva il dispiacere e il timore per il futuro. Lo stesso sindaco, Guennadi Kernes, prima di far perdere le sue tracce, si è fatto vedere a piazza della Libertà della “sua” città con l’arroganza e la baldanza del liberatore. Ha arringato la folla riunita intorno alla statua di Lenin “per proteggerla dai fascisti” che volevano abbatterla e si è rivolto anche ai rivoluzionari ”filo-Maidan”, riuniti sull’altro lato della piazza. I primi applaudivano, i secondi fischiavano; molti urlavano ”Kernes, il tuo posto è in prigione” e altri rispondevano in coro: ”Kernes, Kernes, che dobbiamo fare? Dacci le armi, siamo pronti a combattere”. E di tanto in tanto si sentiva intonare in coro: “Gloria all’Ucraina!”. Invano il sindaco ha tentato di avviare un dialogo tra le due contrapposte fazioni. È riuscito solamente a evitare gli scontri e gli spargimenti di sangue. Poi è sparito insieme al governatore. Le divergenze sono politiche, ideologiche, ma anche economiche. Viktor rimpiange i tempi passati e non ne fa mistero: “All’epoca del comunismo a nessuno importava da dove venivi; il comunismo si fondava sull’amicizia tra i popoli”, dice. “Mio figlio fa il soldato nell’esercito russo; sarà lui a proteggermi. Saranno quelli come lui a rimettere al loro posto i nazionalisti che vogliono distruggere il Paese”.
Accanto a lui il settantasettenne Vladimir critica Yanukovich, ma per ragioni diverse da quelle di Maidan: “Ci aveva promesso che avrebbe firmato un trattato commerciale con la Russia, ma ci ha deluso. Rischiamo di finire tra le braccia di una Unione europea in crisi. Se entreremo in Europa saremo più poveri”, conclude.
Repubblica 26.2.14
Il Parlamento sotto scacco della piazza, la lotta senza fine tra i due poteri di Kiev
Rinviata la formazione del governo. “L’Aja processi Yanukovich”
di Bernardo Valli
KIEV. IN PARLAMENTO ci si accapiglia e tormenta per fare un governo che deve piacere alla Piazza, non provocare troppo il Cremlino e attirare aiuti finanziari occidentali. Vasto programma dal quale dipende l’immediato corso della rivoluzione. In preda a dubbi, timori e contrasti i deputati hanno preso tempo. Dovevano decidere ieri, ma si pronunceranno con cinque giorni di ritardo, a fine settimana. Sanno di essere scrutati dagli uomini mascherati con le spranghe di ferro (e col kalaschnikov, secondo i russi) ritti sulle barricate della Majdan. I gruppi radicali, articolati in centurie, non si fidano. Loro hanno fatto da detonatore alla rivoluzione e adesso rappresentano l’ala intransigente. Sono guardiani rigidi e sospettosi. Si sono ben guardati dallo smontare l’accampamento nel cuore della capitale e sono in stato d’allerta nell’attesa che quell’assemblea di opportunisti si pronunci. Non è stata tolta né una tenda né una barricata. Si aspetta il governo che non arriva e di cui già si diffida.
PER la Majdan, la Piazza, quelli della Rada, il Consiglio, così si chiama il Parlamento, sono in gran parte arnesi del vecchio regime che hanno cambiato casacca. Sono passati dal Partito delle regioni di Viktor Yanukovich, il presidente destituito e in fuga, al Partito della Patria di Yiulia Timoshenko, personaggio riscattato da trenta mesi di prigione, quasi un eroe, anche se gli intransigenti della rivoluzione la considerano un “Putin in gonnella”. Non è un’oligarca che ha fatto fortuna nell’oscuro mercato del gas, proveniente dalla Russia? Ieri è arrivata davanti al Parlamento in Mercedes nera, scortata da una manciata di altre Mercedes. Era esausta e suscitava rispetto. Ma questa è una rivoluzione delle classi medie, dei borghesi con pochi o senza soldi, perché il Paese è sull’orlo del fallimento, e sono loro a patirne insieme agli operai disoccupati. Gli oligarchi, come Yiulia Timoshenko, possono riscuotere applausi per la loro condotta politica nei momenti di intenso nazionalismo (efficace rimedio per i frustrati), e tuttavia non godono di una popolarità stabile.
Per la Majdan gli oppositori moderati durante il vecchio regime e presenti in Parlamento non sono troppo affidabili. Ne è la prova il fatto che abbiano approvato l’accordo di giovedì scorso. «Se la sono fatta sotto», dice con un’espressione ancora più cruda un miliziano che conta parecchi amici tra gli ottanta morti della rivoluzione. Si riferisce al documento redatto con la mediazione dei ministri degli esteri europei. Un compromesso ambiguo che lasciava al potere Yanukovich ancora per un anno. È stata la Majdan a bloccare l’accordo e a provocare nella notte stessa il crollo del regime. Poche ore dopo il Parlamento che aveva approvato per anni le leggi di Yanukovich l’ha destituito da presidente e adesso lo vuole far giudicare dalla Corte penale internazionale per delitto di massa. Un’ondata trasformista ha cambiato il Parlamento, che legifera per la rivoluzione. Ad affidargli questo ruolo è stato il vuoto di potere creatosi con la fuga del presidente e dei suoi più stretti collaboratori. La sola istituzione era la Rada.
Una giovane donna, un’economista, chiede con un cartello, davanti all’edificio neoclassico dove sono riuniti i deputati in seduta quasi permanente, la dissoluzione della Rada ed elezioni legislative immediate. Le chiedo perché mai dovrebbe essere giudicato fuori legge un parlamento che sta per nominare il primo potere esecutivo della rivoluzione. La risposta è fulminea: «Non ci rappresenta, è composto di traditori». Dalla piccola folla raccolta su piazza della Costituzione si stacca un uomo d’età ansioso di correggere la sentenza senza appello: «No, non traditori, ma opportunisti, comunque non attendibili». Ci sono di fatto due centri di potere a Kiev: uno sulla Piazza e l’altro in Parlamento. Uno intransigente e l’altro moderato. Non sarà facile metterli in sintonia. Per questo tarda la formazione del nuovo governo, benché non ci sia tempo da perdere. Il Paese ha bisogno di soldi e gli indispensabili aiuti internazionali dipendono dalla credibilità di chi comanda a Kiev. E per ora non c’è un governo.
Come accade sulla Majdan anche al Cremlino aspettano il risultato della Rada. Putin e i suoi vogliono sapere con chi avranno a che fare nei tentativi di salvare il salvabile nel rapporto con l’infedele sorella ucraina. Da come si risolverà la crisi dipenderà il progetto di Unione euroasiatica destinato a recuperare in una struttura più elastica le ex repubbliche dell’Urss. Non solo la rottura del legame con l’Ucraina, venendo a mancare la principale sponda europea, comprometterebbe l’ambiziosa idea di Putin, ma rafforzerebbe la resistenza delle repubbliche asiatiche (come il Kasakistan e l’Uzbekistan) ai tentativi di Mosca di imporre la propria sovranità o stretta influenza. L’esempio di Kiev sarebbe contagioso. Forse lo è già. La posta in gioco è quindi enorme. Da qui l’incertezza dei responsabili russi nell’affrontare la crisi. I loro interventi sono rivelatori. Le minacce economiche intimidatorie e i ripetuti rifiuti di avere a che fare con i “banditi e i fascisti” dell’insurrezione nazionalista, si alternano con propositi più calibrati, con giudizi meno drastici, non distensivi ma non più così definitivi. Almeno per ora non si vogliono rompere irrimediabilmente i ponti. Lo stesso accade nelle province ucraine orientali filo russe dove le prese di posizione contrarie al Parlamento lasciano aperti ampi spiragli. Non tendono chiaramente a una secessione. Si avverte che l’assemblea è chiamata a deliberare per una rivoluzione che diffida dei suoi deputati. Tra i quali ci sono anche dei filo russi, sia pure adesso in trascurabile minoranza, dopo la svolta trasformista. La Crimea è un caso a parte, più che filorussa è russa, e ha una sua autonomia. È una carta da giocare. Mentre non lo sono le altre province ucraine, a Est e a Ovest.
Le rivoluzioni hanno fretta per definizione e per istinto bruciano via via i loro capi. Quella ucraina non si discosta dalle altre, ma ha una singolarità: chi ne deve interpretare le aspirazioni è un’assemblea estranea alla sua pur breve storia. Come probabili primi ministri si parla in queste ore di Arseny Yatseniuk e di Petro Poroshenko. Il primo, Yatseniuk, è un avvocato di 39 anni con una carriera eccezionale: è stato direttore della Banca centrale, ministro degli Esteri, speaker del Parlamento e capo del partito di Yiulia Timoshenko quando nel 2011 lei è stata condannata. Durante l’insurrezione è stato uno dei quattro principali uomini politici ad appoggiarla. Ma ha poi firmato l’accordo che dava respiro a Viktor Yanukovich. Arseny Yatseniuk è tenuto in grande considerazione dagli americani. Il secondo candidato, Poroshenko, è un oligarca, grande produttore di cioccolato. Un miliardario che ha diretto i servizi di sicurezza, è stato ministro degli Esteri e dell’Economia, e che ha appoggiato sia la “rivoluzione arancione” del 2004 sia l’insurrezione del 2013 fin dall’inizio. Appartenendo al club degli oligarchi, moderni feudatari senza monarca, potrebbe operare efficacemente nella rete dei suoi simili, nelle province dell’Est e dell’Ovest, al fine di tenerle unite.
Repubblica 26.2.14
Sebastopoli
Tra i ribelli della roccaforte filo-russa “Siamo pronti a riprenderci l’Ucraina”
Arrivano i blindati di Mosca. E la Crimea sogna la secessione
di Nicola Lombardozzi
DAL NOSTRO INVIATO SEBASTOPOLI (CRIMEA) — Sventolano le bandiere russe su un primo lembo dell’Ucraina ribelle. «E non ci fermeremo, arriveremo fino a Kiev per liberarla», urla un ragazzo biondo più esagitato degli altri, tra questa folla disarmata ma feroce che si sta ammassando sul lungomare. Li rincuora la posa solenne della statua di Pavel Nakhimov, ammiraglio dello zar, che quasi due secoli fa fece strage di navi turche, inglesi e francesi, prima di morire per difendere questa città e tutta la Crimea. Ma sono ancora più rassicuranti le sagome grigie di quelle navi da guerra russe alla fonda, che innalzano la Croce di Sant’Andrea blu su fondo bianco, la bandiera voluta da Pietro il Grande. Una donna in colbacco di pelo smanetta a lungo su un vecchio binocolo da teatro e lo punta sulla tolda del maestoso incrociatore lanciamissili “Moskva”, ammiraglia della Flotta russa nel Mar Nero. Poi riferisce a tutti la buona notizia: «Si stanno muovendo, vedo spostamenti di munizioni, truppe d’assalto sul ponte. Ci libereranno dai fascisti». Si illude, sta sognando, ma ci sono già diecimila persone a sognare con lei. Alcuni indossano divise e innalzano gloriosi stendardi della Armata Rossa evocando una seconda guerra di liberazione contro gli ucraini dell’Ovest a cui non hanno mai perdonato la collaborazione massiccia con le truppe naziste dopo l’invasione del ‘41. Ed è una festa quando arriva, rumoroso e spettacolare, un autoblindo dell’esercito russo che attraversa tutto il viale Lenin e si piazza davanti al centro culturale “Casa Mosca”. «Misura precauzionale», dice lo stato maggiore di Mosca, ma la piazza ci vede l’avanguardia dell’atteso arrivo dei nostri.
Un paio di giovani che ostentano le magliette a righe orizzontali della Marina di Mosca racconta di aver fatto un’incursione davanti alla caserma dei parà del reggimento 810 che si trova alle porte della città: «Sono pronti a intervenire». Non vuol dire molto ma è vero comunque che tutti i 25mila militari della base navale russa sul Mar Nero sono in stato di pre-allerta: annullate le licenze, intensificate le esercitazioni, raddoppiata la sorveglianza anche alle abitazioni degli ufficiali e delle loro famiglie.
Blindati e posti di blocco della polizia sono stati piazzati lungo la strada che collega al capoluogo Simferopoli. Con chi stanno? Ufficialmente gli agenti dipendono dal ministro dell’interno nominato a Kiev dopo la fuga di Yanukovich, Arsenij Avakov ma, almeno a Sebastopoli, non lo prende sul serio nessuno. «Non accetteremo mai ordini da quelli lì» dice il capo della polizia cittadina Aleksandr Gonciarov prendendosi un applauso interminabile. Non collaboreranno alla ricerca del presidente deposto che si aggira da queste parti come un animale braccato. Ma non lo proteggeranno nemmeno. «Yanukovich finirà al tribunale dell’Aja? Peggio per lui, non ha saputo proteggere il popolo da quei fascisti che vengono da Ovest», ti spiegano cercando di interpretare il sentimento di Putin.
Intanto Sebastopoli ha già fatto la sua secessione. Lunedì, su questa stessa piazza una sorta di assemblea popolare ha costretto alle dimissioni il sindaco e ha eletto un popolare uomo d’affari locale Aleksej Cjalyj, 53 anni, cittadino russo. Basterebbe il suo passaporto a rendere illegittima questa scelta. Ma Cjalyj si comporta come un sindaco vero. Coordina le manifestazioni, discute soprattutto con gli attivisti di Ruskij Blok, il movimento politico più legato alla Russia. Cittadini russi come lui ce ne sono sempre più in Crimea dove, sin dalla rivoluzione arancione del 2004, Putin ha avviato una campagna su larga scala di russificazione rendendo facile e vantaggioso ottenere la doppia cittadinanza.
Ma è tutta la Crimea che freme. A Kerch, che Stalin onorò del titolo di città eroica dell’Unione Sovietica, la bandiera ucraina è stata ammainata dopo minacciose manifestazioni di piazza da tutte gli edifici pubblici. A Simferopoli dove il governatore si dice fedele al governo di Kiev “quale che sia”, i ragazzi di Ruskij Blok e del Partito comunista hanno circondato la grande statua di Lenin nel cuore del centro storico. Non sono armati ma hanno l’aria decisa: «Nessuno la butterà giù».
Ma è davvero possibile una secessione della Crimea? Nei contatti segreti che in queste ore si svolgono freneticamente tra oligarchi dell’Est e dell’Ovest del Paese si dice che una divisione traumatica dell’Ucraina procurerebbe una catastrofe economica per tutti. Ma molti finiscono per ammettere: «La Crimea, al limite, potrebbe anche essere sacrificata».
Terra dei Tartari che Lenin galvanizzò nella sua politica di esaltazione delle minoranze e che annesse alla Repubblica di Russia, fu teatro di una delle più spettacolari deportazioni staliniane del dopoguerra. I Tartari furono distribuiti tra la Siberia e varie repubbliche asiatiche dell’Urss, accusati a ragione di aver appoggiato i tedeschi durante l’invasione. La Crimea fu popolata sempre più da russi, diventò il luogo di villeggiatura preferito dalla nomenklatura ma anche dai normali cittadini sovietici che trovavano a prezzi accessibili, spiagge, sole e mare come da nessun altra parte dell’impero. Fu Nikita Krusciov, ucraino di nascita, famoso per le sue nuotate nel mare di Crimea con l’aiuto di una gigantesca camera d’aria per camion a fare da salvagente, a sconvolgere le cose decidendo nel ‘54 di spostare la Crimea dalla giurisdizione della Federazione russa a quella di Ucraina. Decisione amministrativa impalpabile quando sia Ucraina che Russia facevano parte dello stesso blocco sovietico. Fu nel ‘91, dopo la fine dell’Urss e l’indipendenza delle 15 repubbliche che la componevano, che i russi realizzarono con dispiacere profondo che da quel momento in poi le loro vacanze in Crimea sarebbero state vacanze all’estero.
Per questo, anche a Mosca, sono molti a non capire cosa c’entri la piazza ribelle di Kiev con una terra che vide le esperienze militari del giovane Tolstoj, che ospitò i grandi nomi della storia e della cultura russa, il vertice di Jalta, che insomma è russa per definizione.
Il mantenimento della base navale, affittata dal governo di Kiev a Mosca al prezzo di 98 milioni di dollari l’anno fino al 2017 è sempre stato ritenuto a livello popolare una sorta di sopruso imposto alla nazione sorella. Può essere arrivata l’occasione per rimettere le cose a posto. La folla di Sebastopoli comincia a crederlo davvero. Dall’alto, l’ammiraglio Nakhimov sembra approvare.
La Stampa TuttoScienze 26.2.14
Ieri come oggi
Bulgakov narra la rivolta di Kiev
La direttrice del museo dedicato allo scrittore: “Nel romanzoLa guardia bianca, sulla guerra civile del 1918, troviamo le stesse dinamiche di adesso”
di Anna Zafesova
«Fu grande e terribile l’anno 1918 dalla nascita di Cristo, il secondo dall’inizio della rivoluzione». Tatiana Rogozovskaya ripete uno degli incipit più famosi della letteratura russa, scandisce le parole che conosce a memoria. Siamo già nel «secondo anno» della rivoluzione nata sul Maidan nel 2013, e la vicedirettrice del Museo di Mikhail Bulgakov a Kiev la vive in un curioso spazio «a tre dimensioni», letteratura, storia e cronaca: «Abbiamo ricostruito gli eventi narrati nel romanzo attraverso i giornali dell’epoca, quasi ora per ora, e le vicende degli ultimi giorni non sono solo parallele a La guardia bianca, coincidono letteralmente».
Nella sua casa di Kiev Rogozovskaya – che offre subito la scelta tra chiamarla Tatiana Abramovna, alla russa, o Tetiana, in ucraino – ha accesa la radio, la tv e Internet. «Ho scoperto Facebook in questi giorni, mai usato prima. Non avevo la forza di guardare e non riuscivo a staccarmi, piangevo, pregavo e scrivevo agli amici». I suoi colleghi e le sue colleghe erano a poche centinaia di metri, in piazza. «Giorno e notte, a turni». E lei presidiava il fortino del museo: «L’abbiamo tenuto sempre aperto, salvo l’ultimo fine settimana, quando il comune ci ha ordinato di chiudere. A un certo punto è arrivata una scolaresca delle medie, le scuole erano chiuse per i disordini e la prof ha portato i ragazzi da noi».
Forse era il miglior posto dove andare, nella Kiev dilaniata dagli scontri. Il primo romanzo di Bulgakov, l’unico pubblicato durante la sua vita e quello che l’ha reso famoso (il Maestro e Margherita uscì solo nel 1968), è ambientato nella Kiev della guerra civile, invasa a turno dai tedeschi, dai nazionalisti inebriati dall’improvvisa libertà, dai bolscevichi, dai monarchici che vogliono difendere l’ordine che non c’è più. La «città dei giardini più magnifici del mondo» vive una carneficina precipitando nel caos, dove «chi sparasse a chi nessuno lo sapeva». «Era proprio come nel romanzo, potevi uscire a comprare lo zucchero e non tornare», racconta Tatiana. Ogni ora arrivavano voci di carri armati, di truppe che entravano in città, la metropolitana era ferma e bisognava attraversare a piedi i ponti. «Sentivo i colpi, i cecchini sparavano alla gente in piazza, e poi il fumo nero che avvolgeva tutto». Cosacchi, ufficiali, nazionalisti, studenti che si arruolano con la rivoluzione per venire falciati dalle pallottole, quelli che volevano la Russia, quelli che volevano l’Europa, quelli che sognano l’Ucraina senza nessuno, bande di miliziani, saccheggiatori semplici, ultras, poliziotti, «qualche colore in meno rispetto alle vicende di Bulgakov», ironizza Tatiana, «ma tanta violenza e paura». E poi ancora, gli attivisti che sparivano durante la «tregua» con il governo, e anche qui c’è la citazione appropriata: «Di notte scomparivano e di giorno saltava fuori che erano stati ammazzati».
C’era tutto: la caccia ai provocatori, i feriti nascosti nelle case per salvarli dalla rappresaglia, quelli che gridavano «Germania, vieni a opprimerci pur di difenderci dal contagio moscovita» e quelli pronti a fermare la «plebe che odia tutto quello che è russo». «Bulgakov era veramente un profeta», commenta Pogozovskaya. Il minuscolo museo, che poi è la casa dei Bulgakov attribuita nel romanzo autobiografico alla famiglia Turbin, è appollaiato sulla ripida discesa Andreevsky, si sale dal Maidan e poi si rotola a picco verso il Podol, il quartiere popolare sul Dnepr, stessi indirizzi della rivoluzione del 1918 e di quella di 96 anni dopo. La casa dello scrittore che ha cantato Kiev, «la Città» come è chiamata in La guardia bianca, è visitata soprattutto da turisti europei e russi. Bulgakov era un russo che riteneva l’ucraino «quella lingua turpe», un monarchico, un anticomunista, uno che nella nuova cultura nazionale non trova posto. Qualche anno fa qualcuno ha sporcato di vernice la lapide: «Ma non erano nazionalisti, erano barbari, gente che non legge nulla. Qualcuno ha anche distrutto la lapide del poeta ucraino Shevchenko, se dobbiamo giudicare da questo il nazionalismo...». Il guardiano del museo è stato picchiato la notte prima: «Erano i titushki, i banditi di Yanukovich». Ma cosa volevano dal museo? «Nulla, picchiano chiunque solo perché passano da lì. Una mia amica abita di fronte alla sede del governo, vedeva i titushki che trascinavano nel suo cortile i passanti, donne incluse, per riempirli di botte, non poteva fare niente. Sono dei criminali ai quali il governo aveva promesso di ripulire la fedina penale se facevano il lavoro sporco».
Adesso, nella nuova Ucraina, si vedono, per dirla di nuovo con Bulgakov, gli ufficiali «con i segni delle mostrine appena strappate», e quelli che «all’improvviso non si ricordano più come parlare il russo», dopo che Yanukovich è fuggito dal campo come i comandanti della Guardia bianca. «Certo se proibiranno di parlare in russo come propone qualche nazionalista sarà dura», ride Tatiana. Ma non ci crede. Con l’arrivo dell’indipendenza chiese a un amico (e passa all’ucraino): «Ma mi picchieranno come russa o come ebrea?». L’amico rispose: «Ti hanno già picchiato? No? E allora zitta».
Repubblica 26.2.14
Le piazze di Kiev e di Caracas
di Moisés Naìm
«L’America Latina non è competitiva nemmeno con le sue tragedie», mi ha detto cinicamente un amico. Si riferiva al fatto che laggiù la povertà non è infernale come quella africana, i conflitti armati non sono minacciosi come quelli asiatici e i terroristi non sono suicidi come quelli del Medio Oriente. È per questo che il resto del mondo normalmente non si cura più di tanto dei problemi di questo continente. Altrove le tragedie sono più gravi o hanno maggiori probabilità di coinvolgere altri Paesi.
In questi giorni, le orribili immagini della repressione che insanguina le strade di Caracas partono svantaggiate rispetto a quelle che arrivano da Kiev, quando si tratta di contendere l’attenzione di giornalisti e politici. Gli eventi in corso in Ucraina sono più sanguinosi, le immagini più drammatiche e la contabilità dei morti più tragica: in Ucraina le vittime si contano a decine, mentre in Venezuela fino a questo momento sono 14. Ma c’è di più: a Kiev sono in gioco le frontiere dell’Europa, la sua sicurezza energetica, l’egemonia della Russia sui Paesi dell’ex Unione Sovietica e la reputazione di Vladimir Putin dentro e fuori la Russia. Quello che succede in Venezuela non è altrettanto pericoloso. Per molti, le strade piene di giovani che protestano sono un episodio di più dell’ormai annoso confronto tra un Governo che ama i poveri e detesta gli Stati Uniti e un’opposizione che alcuni giornalisti hanno l’abitudine di descrivere come una “classe media” che non riesce a vincere le elezioni. È una descrizione inesatta. La metà dei venezuelani è contro il Governo di Nicolás Maduro. Lo dimostrano tutti i sondaggi e i risultati elettorali. Nonostante i suoi ben documentati abusi, trucchi e brogli, il Governo vince le elezioni con un margine ristrettissimo: Nicolás Maduro è arrivato alla presidenza con un vantaggio di appena l’1,5 percento sul candidato dell’opposizione.
Aggiungo che la “classe media” è ben lungi dal rappresentare la metà della popolazione e questo significa che la metà dei venezuelani che ha dimostrato di essere contro il Governo include necessariamente milioni di quei poveri che Maduro dice di rappresentare.
È questa la metà del Paese i cui figli sono in piazza a protestare contro un regime che li reprime come se fossero un nemico mortale. E forse lo sono davvero, perché rappresentano l’avanzata di una società che non tollera più un regime che da quindici anni abusa del proprio potere e i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti: ha condotto il Venezuela al primato mondiale per inflazione, omicidi, insicurezza e mancanza di beni fondamentali (dal latte per i bambini all’insulina per i diabetici). Tutto questo nonostante possieda le maggiori riserve petrolifere del mondo e nonostante il Governo detenga il controllo assoluto di tutte le istituzioni dello Stato. Usa il potere per comprare voti, mandare in carcere gli oppositori o chiudere canali televisivi, invece di usarlo per creare prosperità per tutti. La carestia, la paura e l’assenza di speranza sono arrivate a livelli insopportabili.
Le proteste degli studenti sono il simbolo di un regime che ha perso il messaggio politico principale su cui Hugo Chávez aveva fondato la sua popolarità: la denuncia del passato e la promessa di un futuro migliore. La denuncia del passato ormai politicamente non dà più frutti, perché il passato è il chavismo. I venezuelani con meno di trent’anni (la maggioranza della popolazione) non hanno conosciuto altri Governi che quelli di Chávez o di Maduro. E i risultati catastrofici della loro gestione sono sotto gli occhi di tutti: per questo le promesse del regime non sono più credibili. I giovani sanno che se le cose continueranno così il loro futuro non sarà migliore. E l’unica promessa del Governo a cui prestano fede è quando dice che non intende cambiare rotta.
Sorprendentemente e inavvertitamente, le lotte e i sacrifici dei giovani venezuelani potrebbero avere conseguenze anche al di fuori dei confini nazionali. Sfidare il Governo di Maduro vuol dire sfidare la grottesca influenza di Cuba sul Venezuela. Senza gli smisurati aiuti economici del Paese sudamericano, l’economia cubana sarebbe già crollata. Se il Venezuela cambiasse regime, anche sull’isola caraibica le cose cambierebbero. Per i fratelli Castro la massima priorità è avere a Caracas un Governo che continui ad appoggiarli. E come sappiamo il Governo cubano ha decenni di esperienza nella gestione di uno Stato di polizia repressivo e abile nella manipolazione politica e nella “neutralizzazione” fisica o morale dei suoi oppositori. È difficile immaginare che queste tecnologie cubane non siano state esportate in Venezuela. O in altri Paesi dell’America Latina.
Cuba però non esporta solo tecniche repressive. Esporta anche cattive idee politiche ed economiche. Senza il petrolio gratuito che riceve dal Venezuela, L’Avana non avrebbe tutta questa influenza a livello continentale.
Il momento più buio della notte è quello che precede il sorgere del sole. E il Venezuela sta attraversando momenti molto bui. Ma forse l’alba sta per arrivare. E se arriverà, l’America Latina dovrà essere riconoscente a quei giovani venezuelani che non hanno avuto paura di sfidare un Governo che fa di tutto perché abbiano paura.
La Stampa 26.2.14
Pechino, la passeggiata del presidente
“Compagno Xi, metta la mascherina”
di Ilaria Maria Sala
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Corriere 26.2.14
Smog da coprifuoco
Mascherine di protesta sulle statue cinesi
Ma il presidente Xi passeggia in centro
di Guido Santevecchi
PECHINO — È un coprifuoco sanitario quello che è stato consigliato a decine di milioni di cinesi. Da sette giorni le città del Nord e del Centro del Paese sono avvolte, nascoste alla vista, da una massa di smog di colore opprimente, tra il bianco sporco e il giallognolo. L’inquinamento ormai è stabile su Pechino: in 189 dei 365 giorni dell’anno scorso i livelli di PM 2,5 sono stati definiti «allarmanti» dall’ufficio ambiente della capitale; in 54 giorni sono stati «gravi». Il picco ieri, con 444 particelle inquinanti del diametro di 2,5 micron concentrate in un metro cubo d’aria. Il pulviscolo ultrasottile denominato PM 2,5 è il più pericoloso, perché si infila in profondità nei polmoni e poi entra nel sangue: l’Organizzazione mondiale per la sanità sostiene che sopra 20 l’aria è inquinata; oltre 300 non si dovrebbe uscire di casa.
La gente si avventura lo stesso, munita di mascherine da sala operatoria, altre di stoffa, alcune con filtri antigas di tipo militare. L’amministrazione cittadina ha dichiarato «l’allarme arancione», ordinato la chiusura di 147 fabbriche, introdotto la circolazione a targhe alterne. Senza risultato.
In questo clima da coprifuoco, definito «Airpocalypse» dai residenti stranieri, ieri verso mezzogiorno è comparso il presidente Xi Jinping. L’uomo più potente della Repubblica popolare si è fatto una passeggiata in centro, nella zona di Nanluoguxiang vicino alle Torri del Tamburo e della Campana, popolari tra i turisti e tra i giovani pechinesi. Un fatto insolito per i dignitari del nuovo impero cinese, un’innovazione introdotta da Xi alla ricerca di popolarità e di un’immagine presidenziale all’americana. Ma questa volta il presidente, nonché segretario generale del Partito comunista e capo della Commissione militare, sembrava aver preso come modello più che Obama il mitico Winston Churchill che andava a visitare le strade di Londra bombardata durante il blitz nazista. La sortita era stata attentamente preparata, nelle foto scattate dai telefonini e messe subito in Rete dai passanti si sono viste anche le telecamere di due squadre della tv di Stato che poi ha mandato in onda l’evento al tg. Xi non aveva mascherina, naturalmente, e la sua visita è stata interpretata come solidarietà con la gente preoccupata dall’aria cattiva. Un giornale di Pechino ha scritto: «Il presidente respira la stessa aria, condivide lo stesso destino» del popolo.
I dati ufficiali dicono che lo smog si estende su oltre un milione di chilometri quadrati di zone ad alta densità abitativa; 33 città sono in stato d’emergenza.
L’aria irrespirabile ha dato alla testa a qualcuno. Alla televisione l’altro giorno è comparso il generale Zhang, esperto dell’Università nazionale di difesa, per dire che questa nebbia cancerogena è un’ottima protezione contro le armi a guida laser degli americani. L’ufficiale, sommerso da critiche e ingiurie sul web, ha cercato di giustificarsi sostenendo che la frase era stata estrapolata da un ragionamento strategico più ampio. Ma anche la Cctv, tv di Stato, qualche settimana fa sul suo sito aveva scritto che la nebbia sporca «unisce il Paese perché è dovunque, dalle città ai villaggi di campagna; rende uguale la gente perché l’aria cattiva la respirano ricchi e poveri». Dopo le proteste l’articolo è stato cancellato.
La censura ha ordinato di rimuovere anche i risultati di uno studio dell’Accademia delle Scienze che la settimana scorsa ha descritto Pechino «ai limiti dell’inabitabilità per l’uomo». Probabilmente farà la stessa fine un’altra ricerca pubblicata ieri, secondo la quale lo smog sulle coltivazioni agricole ha lo stesso effetto del fallout nucleare: il processo di fotosintesi è danneggiato, le piante crescono meno e si ammalano.
Nel campus dell’università di Pechino ieri avevano la mascherina anche le statue di Cervantes e dell’eroe rivoluzionario Li Dazhao. Le aveva messe uno studente di psicologia che ha raccontato: «Mi sentivo così depresso, ho sentito il bisogno di fare qualcosa». Ha avuto un’idea rivoluzionaria anche il signor Li Guixin, abitante della provincia dello Hebei: ha fatto causa al governo locale. Un tribunale sta studiando l’ammissibilità del caso.
Corriere 26.2.14
L’eccesso di notizie semina ignoranza
di Claudi Magris
Non è strano che la cultura possa essere indebolita da un eccesso di informazione che impedisce di selezionare e di riflettere e mette in difficoltà i tempi dell’autentica cultura, che non è cumulo di nozioni bensì capacità di critica e autocritica, passione e distanza. Cultura, diceva Lin Yutang, è amare e odiare con fondamento. È strano invece che a impoverirsi paurosamente sino al ridicolo sia l’informazione, anche la pura e semplice informazione priva di riflessione.
È indubbio che oggi si disponga di strumenti incredibilmente veloci di informazione, come quelli offerti dai motori di ricerca. Questi ultimi sono un grande aiuto in ogni cosa, forniscono fulmineamente notizie e dati che altrimenti potremmo acquisire solo con un lungo, faticoso e incerto lavoro. Come tutti, accade anche a me di ricorrere spesso e utilmente, sia pure con l’aiuto materiale altrui, ai motori di ricerca per le cose di cui scrivo.
Quelle informazioni, certo, non sono ancora cultura, ma ne sono la premessa. Ma stranamente oggi è proprio l’informazione a regredire paurosamente, come se, invece di disporre di strumenti così funzionali, vivessimo in un mondo senza comunicazione, senza libri, senza giornali, senza radio e tv, senza internet.
Nel loro libro La cultura si mangia (Guanda) Bruno Arpaia e Pietro Greco citano impressionanti e comici esempi di incredibile ignoranza. Una deputata del Pd della scorsa legislatura, interrogata alla tv su che cosa sia una sinagoga, risponde: «È il luogo in cui le donne musulmane vanno a pregare il loro Dio». Cinquanta, forse anche cento anni fa, anche una persona analfabeta o quasi avrebbe saputo, sia pure rozzamente, che la sinagoga ha a che fare con gli ebrei.
Un’altra esponente politica, alla domanda su chi sia Netanyahu risponde «il presidente dell’Iran». Qui il meccanismo è chiaro: avrà aperto una volta un giornale, avrà visto un titolo a grandi lettere tipo «Netanyahu protesta con l’Iran» o cose del genere, e allora nella sua testa i due termini si sono associati, come paglia, fieno, destra, sinistra nelle esercitazioni dei soldati di leva un secolo fa.
Arpaia e Greco simpatizzano col centrosinistra, ma per equità non risparmiano l’ignoranza dovunque la trovino; ovviamente nel loro libro ci sono esempi altrettanto clamorosi che riguardano esponenti di centrodestra. Di recente Umberto Eco, sull’«Espresso», ricordava come nei quiz, trasmessi in tv in prima serata, alcune persone, indicate con nome e cognome, dimostravano di credere che Mussolini fosse ancora vivo alla fine degli anni Ottanta o Novanta.
Il guaio forse peggiore è che queste persone non sono fuggite nel deserto a nascondere la vergogna per essere state colte in tale inconcepibile ignoranza; forse saranno state magari lusingate di essere apparse, sia pure con ludibrio, in tv. Ma possono consolarsi, perché sono in buona compagnia in tutto il mondo. È spesso la classe dirigente o quella che si ritiene tale o destinata a diventarlo, che affolla i banchi riservati agli scolari con le orecchie d’asino. Una giovane donna di famiglia ebraica, i cui bisnonni sono morti in un lager, dimostrava di sapere assai vagamente chi era Hitler. Quando insegnavo al Bard College, un grande college americano dove ha insegnato ed è sepolta Hannah Arendt, su 39 graduate solo uno sapeva chi era stato Tito e nove non sapevano chi era Stalin.
È difficile capire come ciò possa succedere, visto che oggi è ancora più facile e rapido sapere chi era Stalin. Forse oggi c’è un grande squilibrio tra domanda e offerta, soprattutto in campo culturale. Pochissimi vanno in libreria a chiedere un libro per un loro reale interesse, pochi vanno in libreria con delle richieste personalmente motivate. In genere si va per chiedere ciò che viene prepotentemente offerto, e i motori di ricerca presuppongono un’iniziativa del consumatore, presuppongono che sia lui o lei a porre la domanda, anche se rispondono spesso scaricando a loro volta un’offerta gonfiata e dunque talora pure fuorviante. Ma neppure ciò spiega veramente come mai nell’epoca del saper tutto si sappia sempre meno.
Repubblica 26.2.14
Ritratto dell’editore mentre esce la sua raccolta di saggi dedicati alla letteratura italiana tra Settecento e Ottocento
L’altro Giulio
C’era una volta Bollati l’uomo che non era Einaudi
di Alberto Asor Rosa
Giulio Bollati è una delle figure più singolari della cultura italiana del secondo Novecento. Questa affermazione, per me di solare evidenza, mi tornava in mente, leggendo le pagine dell’ultima sua raccolta di saggi, L’invenzione dell’Italia moderna. Leopardi, Manzoni e altre imprese ideali prima dell’Unità, recentemente propostaci da Bollati Boringhieri (con una prefazione di Alfonso Berardinelli, pagg. 224, euro 22). Ma, naturalmente, soprattutto se dovessi rivolgermi a un lettore di oggi alle prime armi, suggerirei di leggere questo volume prima o dopo, o comunque a riscontro, con l’altro suo, curato ab origine dallo stesso autore (1983), e abbastanza recentemente anch’esso ripubblicato, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione (introduzione di David Bidussa, Einaudi). L’accostamento fra “storia” e “invenzione”, come spiega lo stesso autore – e con questo stiamo già nel pieno della ricerca bollatiana – è di origine manzoniana (ma tornerò più avanti su questo intreccio di temi).
Giulio Bollati era un uomo imponente, sia fisicamente sia intellettualmente. L’ho conosciuto quando si preparava l’uscita del mio saggio su “La cultura”, secondo tomo del quarto volume della monumentale Storia d’Italia. Bollati allora (1974-75) era già da tempo il pezzo più grosso della casa editrice Einaudi dopo l’altro Giulio: lo guardavo da una rispettosa distanza. Bollati mi dimostrò in quattro e quattr’otto come lui intendesse il lavoro editoriale. Annullate di colpo tutte le distanze, mi chiese se ero d’accordo che fosse lui apreparare l’inserto fotografico del mio volume. Figuriamoci. Ne nacque così quella galleria di foto eccezionali, tutte dedicate a Torino (non a caso: suo grande odio-amore; ma più amore che odio), che, preceduta da una limpida ed efficace introduzione (e con la sapiente collaborazione di Agnese Incisa), spostava di per sé l’asse della storia culturale italiana contemporanea dai suoi luoghi più tradizionali (poniamo: Milano, Firenze, Roma) a questo più periferico e al tempo stesso, come dire?, sostanzialmente più centrale. Ebbi esperienza così, d’un colpo solo, del modo assolutamente fuori del comune con il quale Bollati concepiva il discorso culturale: a formare il quale convergevano in lui, con intuizione straordinariamente moderna, vettori di diversa origine e competenza. Ad esempio, appunto, la fotografia. Ricorderò appena, accanto all’esperienza precedente, i tomi 1 e 2 del secondo volume degli Annali della Storia d’Italia, tutti dedicati a “L’immagine fotografica” (accanto a lui, in questo caso, un sapientissimo Carlo Bertelli, Einaudi, 1979), una vera e propria monumentale “storia dell’Italia contemporanea” attraverso i volti, i gesti, i vari modi di atteggiarsi, comportarsi, lavorare e... morire, di molteplici italiani ritratti da professionisti, dilettanti e famigliari.
Questo modo preciso, circostanziato, efficace, e al tempo stesso allusivo e profondo, di affrontare i propri temi si ritrova nella sua produzione storico saggistica. Non v’è ombra di dubbio che al centro dei suoi interessi restano dall’inizio alla fine, nei vari campi che ha affrontato, un interrogativo, una domanda: com’è fatto, anzi, forse sarebbe più esatto dire, come diavolo è fatto quel coso, o quell’insieme di cosi, che tradizionalmente si definisce “l’italiano”? (e, naturalmente, da qui in poi le domande si devono intendere nel senso più largo: cultura, politica, ideologia, comportamenti civili e... incivili). Per cui, se si dovesse ricostruire una genealogia del suo pensiero e della sua opera, io non esiterei a considerare da ogni punto di vista fondativo il suo saggio, indubitabilmente geniale, “L’italiano”, apparso nel 1972 nel primo volume della Storia d’Italia Einaudi, questa grande fucina di ricerca e di rinnovamento per la nostra cultura, a sua volta inconfondibilmente denominato “I caratteri originali” (impronta francese, certo; ma anche un grande contributo italiano: Romano, Vivanti; lo straordinario geografo Lucio Gambi; e in primis Giulio Bollati).
Intorno a “L’italiano” ruotano tutti i saggi che compongono i due volumi precedentemente richiamati: sia quelli che lo precedono e lo preparano (le introduzioni aLa Crestomazia italiana. La prosa di Giacomo Leopardi, 1968, e a Le tragedie di Alessandro Manzoni,
1965), sia quelli che lo seguono e in un certo senso lo rafforzano e ulteriormente lo dimostrano (i saggi su Vittorio Alfieri e Alessandro Manzoni, 1989 (tutti raccolti, questi, nel volume Bollati Boringhieri, di cui all’inizio salutavamo l’uscita). In tutti questi casi il discorso si colloca, anche sulla base delle competenze specialistiche dell’autore, in una mobile e fecondissima zona di confine fra cultura italiana e cultura francese. In questo modo si rivela un altro aspetto della personalità bollatiana. L’uomo dell’editoria, il polemista e moralista, l’originale cultore della ricostruzione e documentazione fotografica, rivela una cultura di primissimo ordine, ai limiti della raffinatezza filologica. L’“italiano” di cui lui parla non è dunque un’astrazione ideologica. È il frutto sapiente di una combinazione di fattori psicocaratteriali, culturali e storicopolitici, gestita con mano sicurissima.
Termino con una considerazione, che forse non piacerà o piacerà poco sia agli uomini della Einaudi sia a quelli della Bollati Boringhieri: quanto bisognerà aspettare per vedere raccolti nello stesso volume (se necessario due), con cronologie e apparati bibliografici, e una scelta delle lettere da lui e a lui inviate, tutti i saggi di cui abbiamo qui discorso, e altri ancora qua e là sparsi? La personalità, l’uomo, lo meriterebbero.
la Repubblica 26.2.14
Lingua Madre
Se i ragazzi italiani non sanno l’italiano. Secondo l’indagine Pisa, sono uno su cinque
Luca Serianni: “Drammatico divario Nord - Sud”
di Simonetta Fiori
Immaginiamo una festa con un centinaio di studenti, tutti del secondo anno delle superiori. Venti di loro non sanno l’italiano.
No, non è una festa cosmopolita con quindicenni che arrivano da tutto il mondo. Si tratta di adolescenti italiani, un quinto dei quali ha problemi con la lingua madre. Un dato evidenziato dalle ultime rilevazioni Pisa, ma curiosamente passato sotto silenzio (si tratta dell’indagine internazionale promossa dall’Ocse per valutare il livello di istruzione degli adolescenti dei principali paesi industrializzati). Naturalmente il fenomeno non è uniforme sul piano geografico e sociale. «È drammatica la distanza tra i licei del Nord-Est e gli istituti professionali del Mezzogiorno», dice Luca Serianni, insigne storico della lingua e autore di saggi sull’insegnamento dell’italiano nelle scuole (L’ora d’italianoe Leggere scrivere argomentare, entrambi pubblicati da Laterza; e con Giuseppe Benedetti Scritti sui banchi, Carocci). Ma cosa significa non sapere l’italiano? Serianni pesca tra i quotidiani degli ultimi giorni. «Alla fine delle scuole superiori un ragazzo dovrebbe essere in grado di capire un articolo di fondo».
E invece?
«E invece molti arretrano davanti alle prime parole astratte. Parole come “esimere” o “desumere”, che sono mattoni fondamentali per la costruzione di un discorso argomentativo. O parole meno usuali come “facezie”, che possono dare alla frase una connotazione ironica. O, guardi qua, “deflagrante” e “propedeutico”: chi può capirlo? Per non dire di “pàupulo”: si tratta del verso del pavone, ma ho dovuto consultare il vocabolario anche io».
Sta dicendo che i giornalisti dovrebbero scrivere in modo più chiaro?
«No, i giornali offrono una pluralità di registri linguistici che tutti i diciottenni scolarizzati dovrebbero essere in grado di padroneggiare. Ciò significherebbe molte cose. Essere informati su argomenti ritenuti essenziali. Individuare una linea dell’articolista ed eventualmente dissentirne. Cogliere le risorse espressive messe in atto da chi scrive: paradosso, satira, indignazione».
In realtà i test Pisa sono meno impegnativi di un editoriale. Prendiamo la tabella sul vaccino contro l’influenza: non richiede finezze interpretative.
«Sì, si tratta di un testo trasparente, con poche subordinate e nessuna parola desueta. È preoccupante che non l’abbia capito tra il 33 e il 40 per cento dei quindicenni meridionali. Forse gioca anche il fattore dell’ansia, comprensibile in ragazzi alle prese con i test».
Qual è il problema più grave nell’italiano scritto degli adolescenti?
«Il deficit principale non è l’ortografia, su cui la scuola insiste molto. Un problema ricorrente è la violazione della coerenza testuale, che è poi l’incapacità di argomentare gerarchizzando le questioni trattate. Anche nei temi di intonazione intimistica sorprendono le frasi prive di senso compiuto. Mi viene in mente il tema di un’alunna quattordicenne di un liceo pedagogico. “Noi ragazze siamo molto diverse dai maschi... perché noi cerchiamo sempre l’abbraccio, il bacetto che ci fa sentire al sicuro da tutte le cose che ci sembrano brutte. Al contrario i maschi...” e qui mi sarei aspettato: “sono insensibili”, “pensano soprattutto al sesso”. Niente di tutto questo. “Al contrario i maschi cercano di dare il meglio di loro, ma alla fine non ci riescono”. La ricostruzione dello specifico maschile s’è perduta per strada...».
Forse si può intuire, ma certo è detta male.
«Le cose certo non migliorano con i temi su questioni sociali. Questa volta siamo in una quarta ginnasio, alle prese con un tema su “L’uomo e l’ambiente”. Scrive un ragazzo: “Secondo me si dovrebbe fare la macchina ad acqua ed elettricità per guarire l’ambiente, ma è solo che i politici non vogliono, perché finché c’è il petrolio che è l’unica fonte di energia esistente e la più sfruttata”. Lasciamo perdere tutti gli errori sintattici e lessicali. Quel che davvero non va è la storia della macchina ad acqua, con il facile qualunquismo contro la politica. Siamo sicuri che, diventato adulto, il nostro ragazzetto non sarà tra quelli pronti a giurare sul metodo Stamina?».
Ma in questo caso la lingua è solo parte del problema.
«È una parte essenziale. Conoscere la propria lingua - per tornare alla domanda iniziale - significa padronanza del ragionamento e delle risorse espressive più adeguate per illustrarlo. Tenga conto che un bambino italofono si affaccia alla scuola elementare con un dotazione di 2000 parole, che sono quelle che ti permettono di sopravvivere: il 90 per cento dei discorsi prodotti comunemente dagli adulti. Alla fine della scuola dell’obbligo, questo patrimonio dovrebbe essere molto più ricco».
Cosa non va nell’insegnamento dell’italiano a scuola?
«Si insiste troppo sulla teoria grammaticale, specie nella scuola media e nel biennio. Talvolta si sfiora l’ossessione su nozioni di analisi logica del tutto inutili: è davvero fondamentale distinguere il complemento di compagnia dal complemento d’unione? Bisognerebbe soffermarsi di più sulla componente semantica, permettendo in questo modo di affinare la padronanza lessicale. E poi scrivere bene implica leggere bene. E leggere bene significa andare oltre il testo letterario, che pure io amo molto».
Più saggistica e meno Dante?
«Dante è fondamentale, ma nel triennio delle superiori bisognerebbe leggere anche una rivista come Limes, ossia articoli di geopolitica e sociologia, storia economica e storia della scienza. Brani che possano offrire modelli di organizzazione linguistica del pensiero complesso. Paradossalmente questa operazione è più facile negli istituti tecnici che non nei licei, in cui è tuttora centrale il percorso letterario, com’è giusto che sia. Mi rendo conto che rinnovare l’impostazione didattica nelle quattro ore del triennio liceale è alquanto difficile».
Ma l’italiano si può studiare con metodi mutuati dall’apprendimento di lingue straniere?
«In qualche caso sì. Mi è capitato di proporre esercizi in cui si richiede allo studente di integrare il testo con la parola mancante, oppure di individuare l’intruso secondo le modalità dell’enigmistica. Alcuni vocaboli sono davvero stranieri nell’orizzonte linguistico e culturale di un adolescente. Se prendo un vecchio scritto di Tommaso Padoa Schioppa, m’imbatto in parole come “lapidario”, “antinomia”, “conscio”, “blandire”, “anomalo”, “convenzione”. Forse bisognerebbe scegliere un elenco di parole da salvare, proponendole ai ragazzi come si fa con i vocaboli di un’altra lingua».
Siamo già a un livello avanzato.
«Sì, prima occorrerebbe cimentarsi con esercizi più pedestri. Come il riassunto, genere che prediligo: verifica la comprensione, educa alla sintesi correggendo la tendenza alla verbosità e aiuta a selezionare le notizie più importanti. La sua pratica andrebbe estesa oltre la scuola media. Ed è più utile del tema generico, come l’esempio che le ho appena fatto sull’inquinamento: anche io in quei casi non saprei cosa scrivere, se non ovvietà sostenute con fervore retorico. E per la correzione, suggerirei ai professori anche la matita verde».
Nel senso?
«Va bene il rosso e il blu, ma evidenzierei con il verde la scrittura più espressiva e meno scontata. Anche per evitare di trasformare il compito in un camposanto pieno di croci».
I nostri adolescenti hanno problemi con l’italiano pur essendo costantemente immersi nella scrittura dei social network. Certo, si tratta di una lingua diversa.
«Diciamo che è un italiano diverso da quello argomentativo. È però sempre un aspetto di scrittura, che non interferisce con l’altro codice. Sicuramente non fa danno. E favorisce il gioco di parola, che è pur sempre un esercizio linguistico».
In un libro recente Si dice? Non si dice? Dipende Silverio Novelli teorizza un italiano tridimensionale: quello del sì (bisogna dire così, facciamocene una ragione), quello del no (così è vietato), e quello del «dipende» (territorio immenso che include il digitale).
«Nessuno di noi parla o scrive sempre la stessa lingua. Quando faccio lezione non dico mai “chi se ne frega”, cosa che mi capita di dire a casa. Anche se i miei studenti - beata ingenuità - ritengono che sia un’ipotesi del tutto impensabile».
Repubblica 26.2.14
Il futuro dell’umanità in quindici modelli
Dalla Cina al Brasile, l’atlante del sociologo De Masi in “Mappa Mundi”
di Giovanni Valentini
In un mondo e in un’epoca in cui tutti sono scontenti, smarriti, arrabbiati, ciò che manca è un modello di vita per «l’ideazione di un futuro felice». Siamo in mezzo al guado perché «il vecchio tarda a morire e il nuovo tarda a nascere». E perciò il sociologo Domenico De Masi ci offre questa sua enciclopedica Mappa Mundi(Rizzoli, pagg. 880, euro 21), contro il disorientamento e la paura. Una lettura tanto istruttiva quanto edificante e piacevole, densa di storia, cultura e filosofia.
Se Benedetto Croce s’incaricò di spiegare «perché non possiamo non dirci cristiani», qui sul filo dell’ironia esistenziale De Masi illustra le ragioni per cui – nell’ordine - non possiamo non dirci indiani, cinesi, giapponesi, classici, ebrei, cattolici, musulmani, protestanti, illuministi, liberali, capitalisti, socialisti, comunisti, postindustriali e infine brasiliani. Il suo è un avvincente excursus nella storia dell’umanità, attraverso quindici modelli, o “schemi concettuali” come li definiva il filosofo bulgaro Cvetan Todorov, scelti fra i più collaudati e decisivi. Ed è anche un’occasione intellettuale per riordinare le idee, per catalogare e sistematizzare i “miti” prodotti nel corso dei secoli dalla ragione o dalla fede.
Qualcuno forse potrà trovare eccessivo il ruolo che l’autore ha attribuito alle religioni nella composizione di alcuni modelli. Ma è lo stesso autore a prevenire questa eventuale osservazione: oltre a essere una teologia che esplora il rapporto tra l’uomo e la sfera ultraterrena, la religione è anche «una visione complessiva della vita e del mondo» e dunque un modello – appunto – che corrisponde a un sistema di regole.
«Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove vuole andare», ammoniva Seneca nella citazione che apre il libro di De Masi. E allora questo atlante sociologico funge proprio da “navigatore” per individuare la via d’uscita e approdare a un nuovo modello di vita, da costruire sulla base di una ineludibile contaminazione culturale. Non a caso nell’ideogramma cinese la parola “crisi” si compone di due elementi: pericolo e opportunità.
Le coordinate che l’autore propone al lettore sono la cultura della saggezza e quella della bellezza. «Un nuovo modello di vita» avverte De Masi, «non nascerà a caso e all’improvviso: nascerà sulle spoglie di tutti i modelli precedenti, attraverso uno sforzo di creatività collettivo». Lo strumento privilegiato, a suo parere, non può che essere la moderna agorà costituita dalla Rete, perché «nella società postindustriale non è lecito accollare ai soli intellettuali l’onere di elaborare un modello di vita adeguato ai tempi nuovi».
Al fondo di questa ricerca, c’è l’aspettativa di un mondo più equo e solidale, in cui si possano ridurre le differenze fra le classi sociali e magari superare le reciproche indifferenze. Spiega De Masi nella conclusione: «Tra i quindici modelli che ho scelto, ho incluso il Brasile perché anticipa situazioni che la società postindustriale estenderà sempre più a livello planetario», a cominciare da quella mescolanza di razze che il Paese sudamericano ha sperimentato fin dal Cinquecento con il meticciato. Nella sua visione, il Brasile diventa così «un esempio precursore ed eloquente» che, nonostante lo scandalo del divario tra ricchi e poveri, la violenza e la corruzione, «coltiva una concezione poetica, allegra, sensuale e solidale della vita, una propensione all’amicalità e alla solidarietà, un atteggiamento improntato alla cordialità».
Con la memoria del meridionale che ha assistito al dramma dell’emigrazione di massa, il sociologo ricorda infine le sofferenze dei compaesani che partivano per l’America stivati nel fondo dei transatlantici, dove avrebbero trascorso le settimane del viaggio. Quando i passeggeri di prima classe si radunavano per il pranzo nel loro ristorante, agli emigranti veniva concesso di uscire sul ponte per prendere una boccata d’aria. Alcuni di loro, come per un riflesso condizionato, si dirigevano istintivamente a poppa per guardare verso l’orizzonte da cui provenivano. Altri, invece, andavano a prua nella speranza di avvistare il profilo della terra promessa. Ecco, questo libro è idealmente dedicato ai “lettori di prua”: a tutti coloro cioè che aspirano a un modello di vita migliore.
Corriere 26.2.14
Accettare i propri errori è il segreto della mente di chi prevede il futuro
Due persone su cento hanno super attitudini
di Massimo Piattelli Palmarini
Il fisico Niels Bohr amava dire: «È arduo fare previsioni, specie per il futuro». Questa sua boutade è stata, invece, presa molto sul serio da gruppi di esperti previsori (economisti, meteorologi, allibratori, agenti di borsa) coordinati negli ultimi anni da cinque università americane che competevano tra di loro in un torneo. Una sola di queste ha infine primeggiato su tutte le altre: l’Università della Pennsylvania a Filadelfia, unica oggi a vedersi rinnovato il contratto con la Iarpa (Intelligence advanced research projects activity), ente sotto l’egida governativa dell’ufficio del direttore della National Intelligence. Coordinatori del gruppo sono la nota psicologa Barbara Mellers e il non meno noto Philip Tetlock, suo marito.
La Mellers ha presentato i dati più recenti in questi giorni in un seminario all’Università dell’Arizona. Circa tremila previsori, interagenti soprattutto a distanza via internet e blog, ma specialmente un ristretto gruppo di super-previsori, devono attualmente competere con i loro colleghi del ministero della Difesa e di altri enti federali americani. È una sfida non da poco, dato che questi ultimi hanno accesso a informazioni riservatissime, alle quali i super-previsori coordinati dalla Mellers non hanno accesso. Ogni previsione, riguardante cruciali eventi geopolitici, ha una precisa scadenza temporale, quindi viene sempre il momento per giudicare quali e quante previsioni risultano giuste o errate. Un campioncino delle previsioni richieste, ancora in corso: «La Grecia uscirà dall’unione monetaria europea?», «Stati Uniti e Unione Europea concluderanno un solido trattato economico?», «La Turchia si darà una nuova costituzione?». Ciascuna di queste previsioni ha una precisa scadenza, che non viene rivelata.
Ne è venuto fuori l’identikit psicologico del super-previsore, attributo che è emerso in circa il 2% di tutti i partecipanti (i dati non coperti da segreto e i metodi adottati sono accessibili a tutti sul sito goodjudgmentproject.com ). Di anno in anno, le loro previsioni sono diventate sempre più accurate. Barbara spiega: «Innanzitutto aggiornano continuamente le loro previsioni, quasi ora dopo ora, in base alle informazioni che si accumulano. A differenza della maggior parte di noi, non danno maggior valore alle informazioni che confermano la loro precedente stima. Considerano equanimemente tutte le informazioni, anche e specie quelle che smentiscono le loro precedenti previsioni. Non danno alcun segno di over-confidence (in italiano tradurrei con sicumera) e sono molto propensi a rivelare i motivi delle loro previsioni, le basi delle loro intuizioni e dei processi psicologici di ragionamento che li hanno guidati». Nel successo, si ha sempre una combinazione di fortuna e di talento. La Mellers, Tetlock e numerosi collaboratori, da bravi cognitivisti, si concentrano sul talento. Mellers aggiunge: «La loro intelligenza è fluida, cioè malleabile e pronta ai cambiamenti, la loro conoscenza è specifica al loro campo di expertise ed è cristallizzata, cioè compatta e pronta a inferenze rapide e precise, il loro stile cognitivo è di grande apertura mentale (open-minded), applicano un’attenzione viva e prolungata al problema».
Vari tipi di allenamento sono stati tentati, con successo: insegnare raffinati metodi statistici, mettere in guardia contro le più comuni trappole cognitive, creare gruppi di collaborazione aperta, condividere nel gruppo tutte le informazioni, discutere le proprie motivazioni e dichiarare i propri processi di ragionamento. Aggregare nel miglior modo le previsioni di un intero gruppo per fornire un singolo risultato collettivo non è stato compito facile. La semplice media aritmetica non funziona, formule matematiche assai più raffinate (in parte, capisco, coperte da segreto professionale) sono risultate massimamente soddisfacenti. Quasi lapidaria, Barbara conclude: «Il messaggio chiave è che, sebbene il fare previsioni (forecasting ) sia spesso considerato un problema statistico, in gran parte si tratta di un problema profondamente psicologico. Interventi cognitivi mirati hanno migliorato l’accuratezza delle previsioni e ottimizzato l’aggregazione delle stime di gruppo. Non solo gli Stati, ma anche i grandi complessi industriali e commerciali possono trarre grande profitto da previsioni ben fatte». Il suo traguardo ultimo è il seguente: «Far comprendere ai governi l’importanza di una misura accurata delle previsioni e di un impegno nel cambiare le cose per il meglio». Se le previsioni in corso risulteranno in maggioranza giuste, i super-previsori di Mellers e Tetlock riceveranno un numero ancora maggiore di ottime offerte di lavoro. Già ne stanno ricevendo molte.
La Stampa 26.2.14
Nei laboratori sotterranei s’intreccia la grande caccia alla “Dark matter”
La ricerca della “materia oscura” è il nuovo orizzonte della fisicam delle particelle elementari. Riunito a La Thuile il gotha di studiosi provenienti da istituti scientifici di tutto il mondo
di Francesca Soro
qui
La Stampa TuttoScienze 26.2.14
La Storia è tutta dentro di noi
di Gabriele Beccaria
«Non vogliamo parlare con gli storici. È un motivo d’orgoglio essere oggettivi: si inseriscono i dati e ciò che si ottiene è la storia stessa». Con queste parole al limite dell’arroganza Daniel Falush, ricercatore del Max Planck Institute, ha sintetizzato il grandioso affresco a cui ha contributo: il primo atlante genetico dell’umanità.
Un’avventura negli ultimi 4 millenni che intreccia le vicende di 95 popolazioni e che sta scritta nei filamenti del Dna: ecco perché, delle tradizionali fonti a cui attingono gli umanisti, Falush e i suoi colleghi (Simon Myers della Oxford University e Garrett Hellenthal dello University College di Londra) non sanno che farsene. C’è un altro archivio, alternativo, ed è inciso in noi, a prova di falsificazioni. Combinando i procedimenti veloci di sequenziazione con gli approcci statistici più sofisticati, è stato così materializzato il significato ultimo di guerre e imperi, di migrazioni e commerci: uno scintillante patchwork di incroci che, sedimentandosi nel Genoma, svela la natura meticcia dell’umanità.
La mappa interattiva - raccontata su «Science» - racchiude conferme e sorprese. Molti popoli del Mediterraneo portano in sé i geni degli schiavi africani, deportati dai trafficanti arabi a partire dal VII secolo, mentre fanno eccezione i Drusi del Libano che rifiutarono di diventare complici del commercio di uomini e donne. Negli italiani, invece, c’è un’iniezione di Dna dall’antica Lidia, tra 776 a.C. e 550, prova della colonizzazione etrusca, così come la violenza di tanti invasori ha lasciato nelle carni dei vinti firme ugualmente indelebili: i Greci di Alessandro Magno tra i Kalash del moderno Pakistan nel 326 a.C., i mongoli negli Hazara dell’Afghanistan e negli Uiguri dell’Asia centrale nel XIV secolo, i Thai tra i cambogiani dell’impero Khmer nel secolo successivo.
Analizzando le mutazioni che si verificano nel Genoma a ogni generazione e misurando le lunghezze variabili dei cromosomi, il team ha portato alla luce non solo i mix di popolazioni, ma ha ricavato un orologio biologico dei tempi in cui quegli incontri-scontri sono avvenuti. Così sono bastati 1490 volontari, in Europa, Africa, Asia e Americhe, per ridare vita a epopee e tragedie, dai viaggi sulla Via della Seta, impressi nel Dna dei Tu della Cina, alla colonizzazione del Nuovo Mondo, marchiata nel Dna di Maya.
E ora, svelato il passato, il prossimo salto è nel futuro. Da queste «salse» di Dna si punta a costruire una sterminata banca dati: ci farà capire chi siamo e perché a certe malattie resistiamo, mentre altre potrebbero spazzarci via.
La Stampa TuttoScienze 26.2.14
La biblioteca di Alessandria uccisa dai tagli alla cultura
L’Egitto di età romana come l’Italia d’oggi: secondo una storica americana non fu l’incendio a distruggere la più ricca raccolta di libri dell’antichità ma la decisione dell’imperatore Marco Aurelio di sospendere i finanziamenti
di Vittorio Sabadin
La Biblioteca di Alessandria, il luogo che custodiva la conoscenza nell’antichità, non ha finito eroicamente i suoi giorni in un incendio come i miti e i film di Hollywood ci hanno fatto credere. È deperita lentamente, quasi in modo meschino, distrutta come una qualunque biblioteca comunale dai tagli dei finanziamenti statali, dall’incompetenza e dall’instabilità politica. A rileggerne la storia, riscritta con argomenti convincenti in un saggio della storica Heather Phillips pubblicato dall’Università del Nebraska, sembra di guardare un ritratto dell’Italia di oggi, che è riuscita a fare in pochi decenni i danni che ad Alessandria hanno però impiegato secoli a produrre.
Realizzata intorno al 280 a.C. sotto il regno di Tolomeo II Filadelfo, figlio del capostipite della dinastia tolemaica ellenistica che governò l’Egitto alla morte di Alessandro Magno, la più famosa biblioteca del mondo rappresentava l’ideale greco della conoscenza universale. Poco tempo dopo l’apertura custodiva già 490.000 rotoli in pergamena e papiro di ogni lingua e cultura, e ospitava in modo permanente 100 studiosi di varie nazionalità, a cui offriva, oltre allo stipendio, anche ospitalità e esenzione fiscale. Erano tra i più eminenti professori dell’epoca, che si avvalevano dell’aiuto di decine di dipendenti statali assunti a tempo pieno per catalogare, tradurre, copiare, riscrivere, acquisire nuovi testi per la Biblioteca e per il vicino tempio delle Muse, il Museo.
L’edificio era aperto al pubblico, ma non tutti potevano accedervi: bisogna dimostrare di possedere una buona conoscenza delle cose e una attitudine a impararne altre prima di esservi ammessi. La Biblioteca non era solo un deposito di volumi ben catalogati. Era un centro di cultura e di diffusione del sapere unico nel mondo antico, che attirava a sé il meglio dell’intelligenza umana. Ma la sua epoca d’oro non durò che un paio di secoli, e i guai cominciarono come di solito cominciano per la cultura, con un cambio di governo e con l’instabilità politica.
Nel 48 a.C., quando Giulio Cesare impose Cleopatra come regina dell’Egitto, la popolazione di Alessandria non approvò la decisione e lo costrinse a bruciare le navi nel porto per evitare che cadessero nelle mani degli egiziani ribelli. L’incendio si propagò a 40.000 rotoli custoditi nei magazzini sul molo, appena arrivati per nave o destinati a essere spediti da qualche parte. È con queste fiamme che è nata la leggenda dell’incendio che ha distrutto la Biblioteca, che in quella occasione non patì invece alcun danno serio. Nemmeno Aureliano, che bruciò nel 270 parte di Alessandria nella sua battaglia contro la regina Zenobia, causò danni rilevanti ai testi. Sicuramente meno dell’imperatore Teodosio I, che nel 391 ordinò di mandare al rogo la «saggezza pagana» e fu in parte accontentato. Nel 639, il generale arabo Amr ibn al-As pose fine, in base alle ricostruzioni finora accreditate, all’opera di demolizione.
«Siamo abituati a pensare a un singolo evento catastrofico – scrive Heather Phillips – ma il declino è stato parallelo a quello della stessa città: è stato graduale, burocratico, per nulla eroico». La storica americana sostiene che un danno significativo venne fatto dall’imperatore Marco Aurelio Antonino (121-180), quello che nella finzione del film Il gladiatore viene ucciso dal figlio Commodo nell’accampamento di Vindobona, l’attuale Vienna. Marco Aurelio ordinò di sospendere i finanziamenti al tempio delle Muse, di bloccare gli stipendi dei docenti e di cacciare gli studiosi stranieri, operando il primo importante taglio alla cultura della storia deciso nei palazzi romani.
Di fronte alla prospettiva di uno stipendio risicato e incerto, e a una situazione politica instabile che vedeva la città al centro di continui scontri e lotte di potere, i migliori ricercatori dell’epoca si sono in seguito tenuti ben lontani da Alessandria, dai suoi libri e dai suoi studenti, determinando il progressivo degrado della Biblioteca.
Sembra strano che un imperatore come Marco Aurelio, il saggio filosofo autore dei Colloqui con se stesso, abbia deciso tagli alla cultura pur se in una provincia del regno. Forse è stato qualche suo zelante funzionario. Forse, in mancanza di controlli e nell’inerzia generale, anche ad Alessandria molti professori avevano ormai il doppio lavoro e alcuni dipendenti statali andavano sul molo a pescare, dopo avere timbrato la pergamena di presenza.
Quando nel 639 le truppe del califfo Omar entrarono nella Biblioteca, ha scritto lo storico Luciano Canfora nel libro La biblioteca scomparsa, negli scaffali c’era solo l’ombra della conoscenza di un tempo: i vecchi preziosi manoscritti erano stati distrutti dall’incuria e dal tempo, e restavano solo atti burocratici, letteratura «sacra» e testi di poco conto. Nessuno parlava più il greco, l’ideale della conoscenza universale era di nuovo svanito. Gli arabi alimentarono con i rotoli e i libri il fuoco dei loro bagni termali. Anche dopo secoli di decadenza, ci vollero sei mesi per bruciarli tutti.