Destra e sinistra, il Pd vada oltre la lezione di Bobbio
di Marco Raccagna
NORBERTO BOBBIO È UNO DEI FILOSOFI PIÙ IMPORTANTI DEL NOVCENTO. ED È QUANTO MAI ATTUALE E SIGNIFICATIVO, IN UNA DISCUSSIONE POLITICA PUBBLICA IN CUI TUTTO VIENE FRULLATO E POI CONFUSO, riproporre a 20 anni dalla sua pubblicazione il pamphlet «Destra e Sinistra », nel quale Bobbio con grande lungimiranza indica quale sia la distinzione fondamentale che oppone questi due «vettori» culturali, etici e politici: sinistra= eguaglianza/destra=ineguaglianza. Quella distinzione è valida ancora oggi? Matteo Renzi ha cercato di rispondere a questo interrogativo nella sua prefazione alla riedizione del saggio di Bobbio in uscita per Donzelli. A mio avviso riuscendoci molto bene. Svolgendo considerazioni politiche profonde e di senso sul cosa significhi oggi essere (!) e non solo dirsi sinistra e su quale sia il compito del Pd. Mi ha quindi lasciato perplesso l’analisi di Bruno Gravagnuolo pubblicata ieri su l’Unità. Non perché egli confuti le idee di Renzi, cosa naturalmente legittima, ma perché pare aver letto un testo diverso da quello che ho anche riletto prima di scrivere.
Proverò allora a fare sintesi delle tesi renziane, che in gran parte condivido, e aggiungerò umilmente qualcosa di mio. La parola «sinistra» non è qualcosa da evitare, ma da usare e praticare senza timore alcuno, come laboratorio e azione di chi intende migliorare e trasformare l’esistente, con curiosità e coraggio. L’opposizione eguaglianza/ineguaglianza ha certamente ancora un senso, l’indicazione di Bobbio non è tramontata, anzi è da lì che chi si dice democratico deve partire in un mondo che è sempre più diseguale. Ma non basta più. Vanno aggiunti altri opposti per descrivere le differenze tra sinistra e destra: innovazione/conservazione, avanti/dietro, aperto/ chiuso. La sinistra italiana non abbia paura del presente e del futuro. Il Pd sia allora lo strumento e l’interprete di questo arricchimento del quadro valoriale della sinistra italiana ed anche europea, sappia interpretare un contesto molto cambiato, in cui i vecchi blocchi sociali non ci sono più e tutto è molto più in movimento e scarta improvvisamente, come la pallina in un flipper.
Perché allora Gravagnuolo parla di rivisitazione totale delle idee di Bobbio? Perché si dice in sostanza che Renzi non vede nelle diseguaglianze un problema? Perché si afferma che la tutela e l’affermazione dei diritti si perderanno per strada? Francamente non so. Credo che tutti dovremmo avere l’umiltà e la pazienza di ascoltarci. Ecco allora altri due opposti nuovi per definire sinistra e destra: ascoltare/ignorare, governare/comandare. In gioco c’è il presente e il futuro della sinistra italiana e forse del Paese tutto.
Prendiamoci allora il tempo di analizzare e comprendere meglio il mondo in cui viviamo, che è tutto fuorché semplice e che, forse, proprio quando pare di averlo racchiuso in una definizione, ci sfugge poi di nuovo. Non è che non si è di sinistra se si è contemporanei e figli di questo presente. Diciamocelo intanto. E diciamoci anche che oggi nella dicotomia innovazione/ conservazione c’è davvero moltissimo. Lo sa soprattutto chi in questi anni difficilissimi per tutti si è misurato dai Comuni col governo del territorio e con l’impoverimento delle famiglie e la crescita delle diseguaglianze.
Dovendo ogni giorno compiere delle scelte e agire con forza sul cambiamento e l’innovazione delle politiche, proprio per poter rispondere meglio e nel concreto ai vecchi e nuovi bisogni. Insomma, è stato solo innovando e molto che si è resistito alla crisi. Ed è proprio innovando concretamente che ci si è definiti di sinistra, contro la conservazione dell’esistente, contro i privilegi, contro incrostazioni corporative che a volte anche noi abbiamo troppo garantito, rendendo le comunità troppo ingessate. E a favore della ripartenza degli ascensori sociali che via via si sono fatti sempre meno, a scapito dei più deboli e dei meno tutelati, a cominciare dai giovani e dalle donne, dai bambini e dagli anziani.
Repubblica 25.2.14
Se Renzi rilegge Bobbio
di Nadia Urbinati
Vent’anni dopo l’uscita di Destra e sinistra di Norberto Bobbio, l’editore Donzelli ripubblica una nuova edizione con una introduzione di Massimo L. Salvadori e due commenti, uno di Daniel Cohn-Bendit e uno di Matteo Renzi. Un’edizione ritagliata perfettamente sui tempi della politica: la nascita del primo governo Renzi e le imminenti elezioni per il Parlamento europeo. Un’edizione che, inoltre, ci offre l’opportunità di conoscere meglio il nuovo Presidente del consiglio e segretario del Pd, di comprendere le sue coordinate ideali e culturali, le sue aspirazioni politiche. Questo suo intervento è a tutti gli effetti un Manifesto del partito democratico come egli lo vuole. Sono due i paradigmi centrali che fanno da architrave della sinistra renziana: la revisione a trecentosessanta gradi della filosofia dell’eguaglianza sulla quale Bobbio aveva costruito la dicotomia e, in conseguenza di ciò, la ridefinizione della coppia destra/ sinistra.
La revisione di Renzi è molto decisa e tranchant, agilissima e dotata di potenti forbici che tagliano via complessità ostiche e qualche secolo e diversi decenni di storia sociale. Va tuttavia valutata non per il rigore della ricostruzione storica, ma per il messaggio che propone. Destra e sinistra, scrive Renzi, non sono più coincidenti con la libertà individualista in un caso e la libertà che riposa su premesse di eguaglianza nell’altro. Questa dicotomia bobbiana, spiega, apparteneva a un mondo in cui le menti e le idee si situavano in blocchi e classi. Oggi c’è più complessità e quelle due grandi idee, messe in quella relazione, non servono a orientarci né nel giudizio né nella scelta. Sembra quasi che il liberismo stesso come ideologia appartenga a un tempo passato, che sia stato il marchio degli anni di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan; un residuo (come anche il suo nemico principale, il comunismo) del tempo in cui Bobbio formulò la diade destra/sinistra. Oggi il liberismo è nelle cose, non più solo un’ideologia. La nuova sinistra deve partire di qui, da quel che c’è per andare avanti: e quel che c’è è appunto il lascito liberista dal quale non si può prescindere. Ecco perché la dicotomia di Bobbio èpassé.
Il lascito non è fatto di classi o di “blocchi” ma di individui distribuiti sulla scala sociale. Renzi usa due immagini: quella spaziale di alto/basso e quella temporale di avanzamento/stagnazione. Gli attori della prima immagine sono gli “ultimi” e i primi; quelli della seconda sono individui liberi da lacci e ambiziosi lottatori per vincere la gara della vita. La diade di cui la nuova sinistra sembra aver bisogno è più marcatamente liberale di quella bobbiana e attenuata dalla solidarietà morale cristiana. Si ripropongono in questo manifesto le distinzioni, radicate nella cultura politica italiana, tra due modi di leggere la società e quindi la distinzione destra/sinistra. In un caso la distinzione parte dai principi dell’89: eguale libertà nei diritti di individui-cittadini che, diversi per culture e scelte di vita e diseguali nelle condizioni sociali, cercano attraverso lo stato e la politica (la democrazia) di creare condizioni istituzionali, civili e sociali affinché la loro diversità non si traduca in diseguaglianza di potere. Nell’altro caso, invece, la distinzione parte da premesse che si propongono come correttive della tradizione settecentesca: gli “ultimi”, una categoria che non appartiene né alla sinistra né alla politica, ed é morale ed evangelica, hanno bisogno di essere spinti in alto. Gli “ultimi” non sono come gli “umili” manzoniani, però, perché individua-listi che vogliono sbloccare le relazioni e farsi strada nel mondo. In questa lotta la sinistra ha un compito solo: quello di non perdere il “contatto con gli “ultimi”. E per farlo deve sostituire le teorie tradizionalmente sue (anche quella liberalsocialista e quelle legate agli “anni sessanta e settanta”) per abbracciare “la lingua della solidarietà” della chiesa di papa Francesco. La solidarietà giunge quando gli individui cadono. Qui sta la sinistra, più che a preparare le condizioni affinché la loro lotta sia condotta su un piede di parità e il merito sia meritato.
Anche un liberalsocialista accetta l’individualismo dell’intraprendenza e anche la rivoluzione dell’89 era nata per dare alla persona singola il potere di fare responsabilmente la sua strada. Però, nonostante questa similitudine, le soluzioni restano diverse: poiché in un caso, le forze su cui contare sono politiche e sociali, nell’altro caso sono morali e soggettive, come per esempio “l’ambizione”. Renzi inserisce qui la prospettiva del merito. È una prospettiva di riuscita che non fa centro sull’eguaglianza delle opportunità ma su una base di energia personale in una lotta quasi darwiniana per salire su, per non essere “ultimi”, per vincere. Herbert Spencer e il vangelo tornano a fare coppia, come successe ancora in passato, per esempio a fine Ottocento, quando cominciò la costruzione della società che ha partorito quella in cui ci troviamo oggi.
In questo scenario dove le categorie interpretative sono morali piuttosto che sociali, l’eguaglianza sembra obsoleta — e non serve neppure per comprendere i nuovi movimenti xenofobi e populisti, scrive Renzi. Eppure, questi movimenti sono il frutto di una lettura identitaria dell’eguaglianza, sono anzi la miglior prova di quanto bisogno ci sia di tenere insieme eguaglianza e libertà, stato sociale e diritti individuali. In questa cornice, anche il merito trova la sua giusta collocazione, perché se dissociato dall’eguaglianza delle opportunità (che il mercato non crea spontaneamente) esso diventa un passaporto per l’affermazione di chi si trova già in condizioni di vantaggio. Renzi si richiama ai democratici americani, i quali non potrebbero proprio distinguersi dai repubblicani se non mettessero a loro fondamento non solo la Costituzione ma prima ancora la Dichiarazione di Indipendenza, una dichiarazione di eguaglianza nella libertà. Liberalsocialisti come Bobbio e Amartya Sen, che Renzi menziona, non avrebbero dubbi a trovare qui le sorgenti non rinsecchite di una società democratica giusta. Ecco perché per un democratico senza l’accoppiamento con l’eguaglianza, il merito (e la stessa libertà) non è una condizione di giustizia; mentre per un liberale il merito come riuscita individuale senz’altra considerazione lo è. Ancora qui passa oggi la differenza tra destra e sinistra, tra Sen e Bobbio da un lato e Hayeke Nozick dall’altro.
il Fatto 25.2.14
Il governo Renzi e il potere di tradire
di Barbara Spinelli
È fatale: una volta che hai scelto Tony Blair come modello, per forza approdi al tradimento. Tradimento della sinistra e dell’Europa che pretendi risuscitare, tradimento di promesse fatte nelle primarie o nei congressi.
Non dimentichiamo il nomignolo che fu dato al leader laburista, negli anni della guerra in Iraq: lo chiamarono il “poodle di Bush jr”, il barboncino-lacchè sempre scodinzolante davanti alla finte vittorie annunciate dal boss d’oltre Atlantico.
NON DIMENTICHIAMO, noi che ci siamo imbarcati nel bastimento della Lista Tsipras, come Blair lavorò, di lena, per distruggere il poco di Unione europea che esisteva e il poco che si voleva cambiare.
Fu lui a non volere che il Trattato di Lisbona divenisse una vera Costituzione, di quelle che cominciano, come la Carta degli Stati Uniti, con le parole: “Noi, il popolo...”.
Fu lui che si oppose a ogni piano di maggiore solidarietà dell’Unione, e rifiutò ogni progetto di un’Europa politica, che controbilanciasse il potere solo economico esercitato dai mercati e in modo speciale dalla City.
Renzi è consapevole di queste cose, o parla di Blair tanto per parlare? E il ministro degli Esteri Mogherini in che cosa è meglio di Emma Bonino, che al federalismo europeo ha dedicato una vita e possiede una vera competenza? Federica Mogherini ha concentrato i suoi interessi sulla Nato innanzitutto, e poi sull’Europa.
Chissà se è consapevole della degradazione dell’Alleanza atlantica, nei catastrofici dodici anni di guerra antiterrorista. Ma ancor più inquietante è la rinuncia, in extremis, a Nicola Gratteri ministro della Giustizia.
Questo sì sarebbe stato un segnale di svolta. La sua battaglia contro il malcostume politico e le mafie è la risposta più seria che l’Italia possa dare ai rapporti dell’Unione che ci definiscono il paese più corrotto d’Europa.
Non è ancora chiaro chi abbia lavorato contro la nomina di Gratteri. Forse il Quirinale, per fedeltà alle Larghe intese; di certo le destre di Alfano e Berlusconi, con il quale Renzi vuol negoziare le riforme della Costituzione.
È stato detto che non è bene che un pm diventi guardasigilli. Anche qui, la rimozione e l’oblio regnano indisturbati: nel 2011, il Quirinale firmò la nomina del magistrato di Forza Italia Nitto Palma, vicino al premier Berlusconi e Cosentino.
Evidentemente quel che valeva per Nitto Palma è tabù per Gratteri. Il veto al suo nome è ad personam, e accoglie la richiesta della destra di avere un ministro “garantista” (garantista degli imputati di corruzione, di voto di scambio, di frode fiscale, ecc).
Al suo posto è stato scelto un uomo di apparato, Andrea Orlando, che solo da poco tempo si occupa di giustizia, che ha fatto la sua scalata prima nel Pci, poi nel Pds, poi nei Ds, poi nel Pd. Nel governo Letta era ministro dell’Ambiente. Auspica – in profonda sintonia con Berlusconi – la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale e la separazione delle carriere dei magistrati.
INFINE IL MINISTRO dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Recentemente ha preconizzato l’allentamento delle politiche di austerità, che aveva difeso per anni. Non ha neppure escluso l’utilità di una patrimoniale. Ma di questi tempi tutti, a parole, sono contro l’austerità.
Vedremo cosa Padoan proporrà in Europa: come passerà – se passerà – dalle parole agli atti. Al momento non vedo discontinuità tra lui e Fabrizio Saccomanni. Naturalmente può darsi che Renzi farà qualcosa di utile per l’Italia: prima di tutto su lavoro e fisco. Non mi aspetto niente di speciale sull’Europa, per i motivi che ho citato prima.
Non credo nemmeno che creda in quel che è andato dicendo per mesi: “Niente più Larghe Intese!”, o “Mai a Palazzo Chigi senza un passaggio elettorale”.
Altrimenti non avrebbe guastato tante parole nel giro di poche ore, giusto per andare a Palazzo Chigi e presentarsi – terzo premier nominato – in un Parlamento di nominati.
l’Unità 25.2.14
Ius soli
L’Arci: via la Kyenge e il ministero, brutto segno
Di donne al governo ne manca una: Cécile Kyenge. Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci protesta non tanto per la sua estromissione, quanto per la cancellazione del ministero dell’Integrazione. «È una brutta notizia per la nostra democrazia», dice in una nota, ricordando che in un Paese dove vivono circa 5 milioni di persone di origine straniera, «non si è riusciti a far approvare dal Parlamento quella riforma della legge sulla cittadinanza per la quale la campagna “L’Italia sono anch’io”, di cui è stato portavoce l’attuale sottosegretario alla presidenza Graziano Del Rio» e per la quale sono state raccolte più di 200mila firme. «Negli ultimi due governi, prima di questo, l’istituzione di un ministero ad hoc- continua - aveva quantomeno fatto sperare che a questi temi venisse data l’attenzione che meritano», anche poi la ministra Kyenge «ha dovuto scontare una carenza di strumenti e risorse che ne hanno fortemente indebolito l’efficacia». La risposta avrebbe dovuto essere «non la soppressione del ministero, un suo rafforzamento». Tutte le competenze, invece, restano ora nella mani del Viminale, tornando così ad una logica di mero ordine pubblico. Deludere ancora le aspettative sullo ius soli, valuta l’Arci, «sarebbe un colpo durissimo per tutti quei bambini di origine straniera che si aspettano di vedersi riconosciuto questo diritto fondamentale».
Repubblica 25.2.14
Il Cavaliere plaude al discorso di Renzi “Ha fatto come me, ha parlato all’Italia”
Nessun timore reverenziale verso l’aula”. E Verdini rassicura i colleghi: il patto sull’Italicum tiene
di Carmelo Lopapa
ROMA — Gli è piaciuto eccome, quel trentanovenne che ha quasi sfidato il Senato. «Ha piglio deciso, coraggio, ha avuto la spregiudicatezza di affrontare per la prima volta l’aula senza alcun timore reverenziale», commenta Silvio Berlusconi con chiunque lo chiamasse nel pomeriggio dopo i 70 minuti di Matteo Renzi a Palazzo Madama.
Lo ha ascoltato bene, chiuso nello studio di Arcore, da dove si muoverà non prima di domani. Ha preso appunti. «Certo, dovrà dimostrare di saper fare quel che promette» dice a Giovanni Toti col quale per primo tira le somme del discorso appena sentito. «Ma mi piace, fa come me: parla al Paese, ai cittadini e non ai parlamentari che si trova davanti». Il Cavaliere parla di un «linguaggio nuovo», di contenuti comunicati con un «piglio mediatico innovativo», diretto. Per non dire del modo in cui ha liquidato i grillini. Altro discorso le riforme. Al leader forzista e ai suoi non è sfuggita affatto la voluta genericità dietro la quale si è tenuto il premier, pur promettendo che l’Italicum sarà approvato. C’è allarme tra loro. Alla fine, Denis Verdini — che ha ascoltato il conterraneo con attenzione e prendendo appunti — ha rassicurato i colleghi: «Vedrete che il patto tiene e al voto si tornerà entro un anno». Il fatto è che, parlando proprio coi senatori forzisti, ieri si aveva l’impressione che Renzi fosse piaciuto più al capo che ai parlamentari. «Ha fatto un comizio più cheun discorso, programma impossibile » dice Annamaria Bernini, «vaghezza, né carne né pesce» taglia corto la portavoce Deborah Bergamini. Anche il consigliere Giovanni Toti attacca, «poche soluzioni e pasticciate». Ma il capogruppo Paolo Romani, pur scettico sui «contenuti impossibili», alla fine riconosce: «Chapeau sulla comunicazione, è un fuoriclasse». Il senatore Paolo Bonaiuti, concittadino del premier, plaude al «discorso semplice, che è indizio di bravura, e diretto: molto da sindaco-premier». Berlusconi avrebbe voluto esserci, in aula, non può più dopo la decadenza. In serata manda per il voto sulla fiducia la sua “ombra”, la senatrice Maria Rosaria Rossi. Raccontano che al leader non sia sfuggito un dettaglio: Renzi non lo ha mai citato parlando di riforma della giustizia. L’ha considerata una sorta di tregua, di promessa di non aggressione. Di giustizia però è probabile che il Cavaliere torni a lamentarsi a breve, se è vero quel che trapela dagli uffici giudiziari di Milano. Nei giorni scorsi i suoi avvocati avevano depositato la richiesta per consentirgli di volare il 6-7 marzo al congresso Ppe di Dublino. Ma nulla è cambiato rispetto all’istanza (rigettata) di un mese fa per Bruxelles, Berlusconi resta condannato in via definitiva, privo di passaporto e dunque — questo l’indirizzo di Milano — anche questa richiesta verrà rigettata nelle prossime ore.
l’Unità 25.2.14
Lucia Annunziata: «Discorso deludente certo non da premier»
«Ha detto cose senza capo né coda. Roba da kamikaze per uno che si presenta senza neanche essere stato eletto»
di Alessandra Rubenni
Al telefono Lucia Annunziata sembra sconcertata. «Diciamo la verità, è stato un discorso senza capo né coda, infarcito di storielle riciclate», esordisce la direttrice dell’Huffington Post, stavolta dalla parte dell’intervistata.
Cosa ne pensa dell’intervento del premier al Senato?
«Circolano già molti dubbi sul percorso di Renzi, anche tra i suoi sostenitori, fra i quali mi vanto di essere stata anche io. Finora c’era una certezza, quella che fosse un maestro di comunicazione. Il suo intervento mette in dubbio anche questo: da maestro della comunicazione o non ha fatto i compiti a casa, oppure questa era una favola».
Che cosa non ha funzionato?
«Era un discorso non preparato, a braccio, una roba da kamikaze per uno che si presenta al Paese senza neppure essere stato eletto. E si suppone che chi non è andato a votare alle primarie non lo conosca neanche. Un discorso improvvisato, tecnicamente senza capo né coda, infarcito di storie, storielle e aneddoti già usati molti volte. Ad esempio il punto centrale sulla bellezza dell’Italia lo ha ripreso dal discorso di addio a sindaco di Firenze. La storia della bambina senza cittadinanza che a scuola siede allo stesso banco della coetanea italiana, l’abbiamo sentita molte volte. Potrei fare vari esempi di storie riciclate. C’è stata una trascuratezza formale molto forte».
E dal punto di vista dei contenuti?
«È stato molto deludente. Capisco che Renzi volesse fare la parte del sindaco, ma al Paese deve dare un progetto. Anche il tema dell’Europa lo ha appena sfiorato. Spinelli non lo ha neppure citato per nome. Non ha detto cosa siamo e cosa andremo a fare in Europa, quali sono le idee nuove, quella che è la sua visione dell’Italia tra 15 anni. Dal punto di vista economico ha fatto proposte molto forti, ma senza fornire un numero. Si può anche dire di voler ridurre il cuneo fiscale del 10%, ma se non si dice in che modo...».
Questa è una bocciatura politica.
«Ero fra i suoi sostenitori ma ha detto cose senza capo né coda. Non ha fatto i compiti a casa. Roba da kamikaze per uno che si presenta senza neanche essere stato eletto»
«Di certo è stato un discorso improvvisato, non all’altezza di un premier arrivato all’incarico con il suo discutibile percorso. Abbiamo conosciuto Renzi che voleva rottamare il mondo, ci siamo girati e lo abbiamo ritrovato al centro mondo che voleva rottamare. E al solito la conclusione è che sarebbe colpa dei talk show e dei giornalisti. Ma per cortesia... ».
Non crede sia stato nello stile di Renzi?
«I suoi già dicono che questo è lui e così ha parlato al Paese. Ma io Renzi lo conosco e non voglio “Renzi”, oggi voglio un premier. Chi si appresta a governare deve avere un patto con il Paese. Purtroppo non abbiamo conosciuto di più il suo programma. Renzi si vanta della sua età, ma la forza di chi è giovane sta nel saper crescere, non nel restare giovane per sempre. Quella di oggi (ieri, ndr) doveva essere una grande occasione. Ed è andata persa».
il Fatto 25.2.14
Profum elettorale
di Antonio Padellaro
Non sorprende che i primi sondaggi siano favorevoli al nuovo premier, visto che il primo discorso parlamentare di Matteo Renzi ha il profumo del discorso elettorale. I segnali non mancano. Quel suo parlare a braccio e con la mano in tasca, innanzitutto, come un sindaco che si rivolge ai bravi cittadini delle mille Rignano italiche e non ai poco bendisposti membri del Senato di cui con l’abituale ruvidezza ha già preannunciato la cancellazione. E poi quel vasto programma che non a caso accompagna alle due magiche parole: “sogno” e “coraggio” e che sembra dire: votatemi. Per carità, sentimenti che si addicono al vivace trentottenne che (parole sue) se non avesse fortemente sognato di sedere un giorno a Palazzo Chigi oggi farebbe ancora politica in provincia. Come si può, allora, non plaudire al taglio del 10 per cento del cuneo fiscale, al saldo dei debiti della Pubblica amministrazione o al piano per l’edilizia scolastica? Ma i sogni costano e il Sindaco d’Italia si è ben guardato dallo spiegare dove mai troverà quel centinaio di miliardi, a dir poco, necessari alla bisogna. Lo stesso scaltro stile, sia detto senza offesa, di quando Berlusconi prometteva l’abolizione dell’Ici senza dire con quali soldi, ma poi vinceva le elezioni. Infine, Renzi si è fatto troppi nemici, soprattutto nel Pd e lo sa benissimo. Impensabile che un tipino del genere si faccia rosolare a fuoco lento come un Letta qualsiasi. Resterà in sella il tempo necessario per approvare la nuova legge elettorale e dimostrare la nequizia dei partitini. Più o meno fino al prossimo ottobre. Scommettiamo?
il Fatto 25.2.14
Rnzi mini-Caimano al Senato
Il premier incaricato annuncia all'Aula, a cui chiede la fiducia, cge la farà fuori poi
di Fabrizio d’Esposito
L’immagine più efficace arriva dai banchi di Forza Italia, orfani del Condannato decaduto. Matteo Renzi parla ormai da trenta minuti e i senatori azzurri sono ancora assorti, chi a braccia conserte, chi con le mani sul banco davanti. Le loro facce sorprese è come se esclamassero: “Finora uno così ce l’avevamo noi, adesso sta dall’altra parte”. Il Renzi primo tenta di incantare il Senato con un discorso sì berlusconiano, ma con quella noia da effetto Valium tipica dei democristiani alla Forlani. Una bestia strana, surreale. Un estraneo, non un marziano, che inizia in “punta in piedi” e fa l’orecchiante dalla memoria strepitosa per più di un’ora.
LA CITAZIONE d’esordio è impensabile. Gigliola Cinquetti. “Non ho l’età per sedere al Senato”. Il premier under 40 mette le mani in tasca, poi gesticola, riprende i fogli. Pretende di andare a braccio e forse anche per questo non buca lo schermo. Dà l’impressione che per lui Palazzo Madama sia solo un pretesto, per oltrepassarlo e rivolgersi altrove, con toni da comizio. I senatori vengono schiaffeggiati con una promessa crudele: “Vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’aula”. È il primo annuncio: l’abolizione del Senato concordata nel percorso delle riforme. Il leghista Calderoli borbotta. Non si trattiene: “Tanto è una balla”.
L’ossessione di Renzi è inseguire i voti persi del Pd a favore dei grillini. Di qui un’infinita serie di riferimenti contro la Casta. Per il premier prevalgono i mercatini rionali su quelli finanziari. Non solo. Il sindaco di Firenze s’inerpica su un faticoso sentiero dedicato all’importanza della scuola. Si scaglia contro la burocrazia dei ministeri, invocando lo spoil system, ma usa il verbo più burocratico che esiste. Recare. “Ogni settimana mi recherò in una scuola diversa, comincerò da Treviso”. L’edilizia scolastica, poi. Più che un sindaco, sembra un assessore provinciale all’Istruzione. È qui che il discorso comincia a perdere quota. In tribuna la moglie Agnese vaga con lo sguardo per tutto l’emiciclo. Il fido Carrai, invece, accanto a lei, è meno distratto. “Avete mai parlato con un insegnante?”. I senatori del Movimento 5 Stelle ridono tutt’insieme. Un boato. Il presidente Grasso è costretto a intervenire. Tutto il discorso è un duello continuo con i grillini. L’unico segno di vita nel surreale pomeriggio renziano. Dalle due alle tre. Un’ora e qualche minuto di intervento. “Eravamo a un bivio”. È la spiegazione del letticidio nel senso di Enrico. “O si andava alle elezioni, oppure...”. Interruzione. Grillina, ovviamente. Renzi ribatte: “A differenza vostra noi non abbiamo mai paura di presentarci alle elezioni. Siamo abituati, voi no e lo avete dimostrato in Sardegna, Basilicata, nelle province di Trento e Bolzano”. Sintesi: noi siamo democratici sul serio, dice Renzi, voi no. Chiarisce anche: “Se perdiamo non cerchiamo alibi, se perdiamo è solo colpa mia”. Il primo applauso, blando, arriva tardi. In un’apologia dell’europeismo che va oltre il semestre fatidico. L’ambizione, a parole, è guidare il continente nei prossimi decenni. Stavolta la citazione è per gli Stati Uniti d’Europa di Altiero Spinelli. Il premier si rimette subito sulla carreggiata dell’uomo semplice, estraneo alla Casta. La politica esca dai talk-show e pensi ai genitori che la mattina accompagnano i figli a scuola. Dopo il verbo “recare” tocca a uno più insolito, rubato a Renzo Piano, archistar e senatore a vita. Rammendare. Rammendare un intero Paese che non è finito, non è morto. La scintilla continua a latitare. Il berlusconismo da comizio è comunque ingessato dall’ansia da prestazione. I ministri, al banco del governo, hanno facce torve o sonnolente. Molti hanno lo sguardo basso, fanno finta di prendere appunti. Renzi è seduto tra la Mogherini e Alfano. Quest’ultimo è stato fatto alzare ma poi è riuscito lo stesso a sistemarsi vicino al premier. A rimarcare la continuità. Dal governo Letta-Alfano a quello Renzi-Alfano.
IL PREMIER FA L’ELENCO di tutto quello che vorrebbe cambiare per dare un senso alla scadenza del 2018. Qui è Walt Disney. “La differenza tra sogno e obiettivo è una data”. Oltre alla legge elettorale, l’Italicum, ci sono la giustizia, il fisco, il lavoro, la riforma della Pubblica amministrazione e l’azzardo di rendicontare online “ogni centesimo speso”. Per “gli appalti lavorano più gli avvocati che i muratori”. C’è l’immancabile generazione Erasmus, un must del renzismo, e poi da cattolico l’omaggio al papa con “Internet è un dono di Dio”. L’altro giorno, a messa, una signora gli ha detto: “Tu premier è la dimostrazione che chiunque può diventarlo”. Frase a doppio senso. Dal sogno americano a quello di Pontassieve. Renzi, ormai, ha sempre le mani in tasca. Tocca all’elenco delle telefonate fatte da Palazzo Chigi, il primo giorno. Lucia, ragazza sfregiata, i marò, un amico disoccupato. Finale: il contrario dell’integrazione è la disintegrazione e compromesso sui diritti civili. Alla fine, non applaude nemmeno Giovanardi, alleato e sostenitore.
il Fatto 25.2.14
Franceschini alla Cultura sulle orme di De Michelis
di Tomaso Montanari
Come una perversa macchina del tempo, il discorso pubblico sul patrimonio culturale ci ha riportati di peso nei plumbei anni Ottanta. Intervistato dal Sole 24 Ore, il neoministro per i Beni culturali Dario Franceschini non ha trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo”. E ancora: “La cultura è il nostro petrolio”. Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d'occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: “Dario Franceschini = Dir frasi canoniche”.
IL COPYRIGHT della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: “Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica”. Partiva allora il tormentone dei giacimenti culturali, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: “I paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa”. Parole che evocano la privatizzazione dei cosiddetti “servizi aggiuntivi” avviata da Alberto Ronchey su quell'onda, nei primi anni Novanta: un processo che doveva riguardare solo caffetterie e bookshop, e che ha invece finito per fagocitare l'intera vita del sistema museale italiano, inclusa la didattica e la progettazione delle mostre. Per intendersi è come se una scuola pubblica avesse dato in gestione al Cepu non la mensa, ma l’insegnamento stesso. Un’economia di rendita che ha prodotto un oligopolio di concessionari con importanti connessioni politiche (i primi due sono Civita, presieduta da un certo Gianni Letta, ed Electa, di proprietà Berlusconi...), creando pochi posti di lavoro stabili, una produzione culturale di infima qualità (la cosiddetta “valorizzazione”) e non di rado danni materiali al patrimonio: la peggiore delle economie petrolifere.
MA DEGLI ANNI OTTANTA non abbiamo solo i nostalgici: ne abbiamo ancora i protagonisti. Giuliano Amato ha dichiarato ieri al Corriere che “i beni culturali hanno uno spaventoso bisogno di manager dei Beni culturali, non necessariamente chi ha gestito un McDonald’s riesce a esserlo, ma difficilmente può esserlo un bravo archeologo”. Chissà se il giudice costituzionale Amato sa che le sue parole (oltre a cozzare col fatto che il direttore-presidente del più grande museo del mondo, il Louvre, è proprio un archeologo) cozzano con la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, imperniata sul principio che nel governo del patrimonio la “primarietà del valore estetico-culturale non può essere subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici” (così una sentenza del 1986).
Ma il più anni Ottanta di tutti è Matteo Renzi, il quale, nel suo comizietto al Senato, ha biascicato che “se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati”. Una vera telepatia lo unisce a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva “il vicedisastro” e “una delusione continua”: ecco perché lo ha messo a far la guardia al barile del petrolio. Speriamo che ora non gli passi anche un cerino.
l’Unità 25.2.14
Lo stil novo di Renzi e i nodi irrisolti
di Claudio Sardo
UN TEMPO LE PAROLE DI UN PREMIER SERVIVANO PER SPIEGARE, per persuadere, per tentare di superare un ostacolo o delimitare un conflitto. Può darsi che fosse la vecchia politica. Di certo, la crisi di sistema e la sfiducia dei cittadini hanno svalutato tante, troppe parole. Ieri Renzi ha usato le sue per arpionare gli umori dell’uomo della strada, per esibire la forza con cui ha conquistato Palazzo Chigi, per personalizzare l’impresa, per scandire un ritmo (una riforma al mese) che il Parlamento forse non riuscirà a tenere.
È impossibile giudicare il discorso di Renzi con i canoni tradizionali. Si rischia di emettere giudizi impietosi senza neppure aver cercato la chiave comunicativa, la frequenza del messaggio. Che intende collocarsi proprio al confine tra il Parlamento e l’antiparlamentarismo, tra la politica e l’antipolitica, tra un proposito di riscatto e la condivisione del rancore popolare. Qui sta la vera rottura con le narrazioni della sinistra. Ferita insanabile secondo alcuni, opportunità e modernità secondo altri. Il problema è che le parole non sono solo strumenti. Non sono mai separabili dal pensiero. E quando suonano imprecise o ambigue aprono lo spazio al dilemma: il tentativo di Renzi e il suo consenso sono la risorsa estrema della politica democratica per arginare il populismo oppure ne anticipano la resa? Renzi sa che questa domanda attraversa il suo popolo. Ed è una domanda esistenziale. Sa che l’azzardo ha una posta altissima. Sa di camminare sul crinale di un precipizio. Ma il segretario-premier è anche convinto che il Pd non abbia alternative. Se non fa subito il salto, è destinato comunque alla sconfitta. E Renzi è anche convinto che pure i critici nel suo partito non possono che scommettere su di lui. Una sconfitta oggi aprirebbe la strada a Berlusconi o, più probabilmente a Grillo.
Magari la ragione di qualcuno ieri è diventata più pessimista, ma la volontà deve restare ottimista. Quale altro leader di sfondamento può darsi oggi la sinistra e la politica democratica, mentre il Paese è nel gorgo della crisi, mentre l’Europa resiste alla svolta politica, mentre le istituzioni pubbliche perdono credito? Per giudicare Renzi bisognerà attendere i fatti. Anzi, collaborare con i fatti. Il suo messaggio di fondo ieri è stato proprio questo: non badate alle mie parole un po’ approssimative, voglio essere giudicato al traguardo del10%di riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, del rimborso «totale » dei debiti della Pubblica amministrazione, dei moduli pre-compilati della dichiarazione dei redditi, della riforma della giustizia, della rivoluzione burocratica. Avrebbe potuto, e forse dovuto, parlare meglio, spiegare perché ha deciso di sostituire Letta e di annullare la politica del «doppio binario» da lui stesso avviata. Ma deve aver pensato: se leggo un discorso scritto e parlo in politichese, sembrerò un presidente del Consiglio come gli altri.
Così l’estetica della giovinezza è diventata un canone politico e istituzionale. È lecito dubitare dell’efficacia. E anche ricordare i precedenti infausti. Troppe volte però la correttezza formale è stata interpretata come un indice di autoreferenzialità. E dunque ha provocato sfiducia e distacco. Siamo a un passaggio epocale, in cui è in gioco il nostro stesso destino democratico. Non è un’iperbole. È un dramma. Ci vorrebbe però un po’ più di consapevolezza, di condivisione. «O la va o la spacca» non è mai stata una linea vincente. Questo Parlamento, nato da elezioni senza vincitori e per questo delegittimato fin dall’esordio, è ora indicato dallo stesso Renzi come la culla di un progetto costituente. Ma non basta la velocità e il ritmo per assicurare qualità alle riforme. Ci vuole un’anima. Ci vuole cultura costituzionale e visione politica. Bisogna scegliere tra il bipolarismo coatto di cui Berlusconi pretende la conferma, oppure un sistema di tipo europeo (con coalizioni che si formano tra il primo e il secondo turno) che forse questa maggioranza di governo potrebbe rendere possibile. Insomma, non è convincente la tesi secondo la quale bisogna darla vinta al Cavaliere per rendere realistiche la legge elettorale e le modifiche costituzionali.
Allo stesso tempo non è sensato fondare una politica economica e sociale così ambiziosa su un’alleanza con partiti rottamandi, o comunque condannati alla subalternità a Berlusconi. Ieri Renzi si è tenuto alla larga dall’affrontare la questione. Ma rischia di diventare un nodo scorsoio per il suo governo. Di ridurne l’orizzonte al semestre europeo. Come sarebbe stato un Letta bis. Almeno Letta aveva aperto una contraddizione nel centrodestra, aveva dato autonomia ai suoi alleati e inferto al Cavaliere una sconfitta politica. Se sulle riforme si consoliderà l’asse preferenziale con Berlusconi, inevitabilmente questo diventerà anche l’asse di governo. Tutto ciò può sembrare lontano dalla politica dei fatti, e dunque poco gradito al cittadino che oggi chiede soprattutto lavoro e ripresa. Renzi vuole usare le parole oggi solo per suscitare fiducia, per segnalare che c’è un nuovo che avanza, per farsi perdonare il brutto sgambetto a Letta con una speranza. Quel nodo però va sciolto. Forse non si faticherà a trovare le parole giuste, ma non si può far finta che il problema non esista.
l’Unità 25.2.14
Parlare al Senato perché l’Italia capisca
di Michele Ciliberto
Ha perciò scelto uno stile e un lessico che rendesse evidente come egli stia, e voglia continuare a stare, dalla parte della gente semplice, comune: quella che conosce i problemi della vita quotidiana e che vorrebbe venissero risolti. Se non si afferra il “doppio sguardo” con cui il presidente del Consiglio ha scelto di presentarsi, non si capisce il ritmo, e il senso, di questo singolare discorso che ha infatti disorientato i senatori, come si è visto dalla brevità, quasi di circostanza, dell’applauso finale.
Hanno frainteso, a mio giudizio, perché fatto volutamente con un lessico semplice, questo discorso è imperniato su tre importanti pilastri di fondo che si comprendono meglio alla luce delle dichiarazioni di principio consegnate al testo di Renzi uscito domenica su Repubblica e che vale la pena di enucleare per il loro carattere strategico: esprimere una visione dell’Italia e del suo destino europeo riconoscendo il merito della sinistra, ma proiettandosi oltre i suoi confini e innovandone gli orizzonti; rivendicare con forza il primato della politica e della figura e della funzione del partito, andando controcorrente e contrapponendosi al discredito che ha colpito l’una e l’altro negli ultimi anni; proporre riforme concrete, cercando di ridurre lo scarto che oggi divide “governanti” e “governati”, ristabilendo un rapporto tra politica e vita quotidiana della gente comune. Al governo, ha inteso dire il presidente del Consiglio, c’è oggi uno di voi, un “governante” che è, e si sente, diretta espressione dei “governati” e, in primo luogo, del “popolo delle primarie” e che prende impegni di fronte a loro in un’aula del Parlamento di cui, oltretutto, non è neppure componente.
In politica c’è una forza dei simboli, delle figure e delle parole, che il nuovo presidente del Consiglio sa usare e che spiazzano quelli che l’ascoltano. Ma è una conferma di quanto si diceva: è proprio qui uno degli elementi di maggiore novità che egli sta introducendo nella vita politica italiana, e che gli consente di aprirsi varchi sia a sinistra che a destra. Qualunque sia il giudizio di merito che si possa esprimere, è un netto ribaltamento del lessico politico della prima Repubblica e anche della seconda: Aldo Moro era attentissimo a cogliere le dinamiche sociali in tutte le loro complesse e inesauribili nervature; Berlusconi e i suoi cortigiani fondevano “pubblico” e “privato” in una miscela alquanto disgustosa. Qui siamo su un’onda diversa: un registro “semplice” e “umile” entro cui si esprime una grande ambizione di cambiamento, ma attraverso cose concrete e semplici (se non mi inganno uno dei lemmi più usati) e che tende per questo a identificare, volutamente, vivere politico e vivere quotidiano, politica e amministrazione.
Con questo stile e questo lessico, strutturalmente binario, il presidente del Consiglio sul primo punto ha detto cose interessanti, valorizzando la scuola e la cultura e, soprattutto, insistendo su un punto delicato ma importante, come il nesso tra “identità” e “integrazione”.
Sul secondo punto, il presidente del Consiglio è stato netto: questo è un governo politico. Equi sta, a mio giudizio, il suo più forte elemento di novità. Quando, fra qualche anno, gli storici si interrogheranno su questo periodo, individueranno , credo, proprio nel passaggio - certo traumatico - dalla “funzione” salvifica della tecnica alla riaffermazione del “primato” della politica, il significato effettivo della crisi del governo Letta e della nascita del governo Renzi, anche se la polvere che si è alzata in questi giorni non ha consentito di mettere a fuoco il senso effettivo del processo che si è compiuto. Ma se ne è reso pienamente conto il Presidente della Repubblica, con le sue dichiarazioni, prendendo atto del fatto che la politica con questo governo ha voluto riprendere il posto di comando, come del resto è apparso chiaro - nel bene e nel male - dalla composizione del governo. In fondo, la nascita di questo nuovo governo può anche essere vista comeil primo tentativo di uscire dalla stagnazione post-berlusconiana riaffermando il primato della politica e del Parlamento come base del vivere democratico e liquidando, di conseguenza ogni ipotesi di nuovi governi “tecnici”.
Naturalmente, lo stile scelto dal presidente del Consiglio ha i suoi prezzi, come è apparso chiaro dalla genericità, o dall’affievolimento, di molte posizioni su punti delicati ma decisivi come la cittadinanza agli immigrati o i diritti civili. Qui però non si è trattato solo di lessico o di forme retoriche: la genericità, e l’affievolimento, di quelle posizioni scaturiscono dal carattere fortemente composito che sostiene il governo e dai punti di equilibrio che il presidente del Consiglio deve riuscire a realizzare. E proprio questo è il problema più arduo con cui il premier è chiamato a confrontarsi: costruire una struttura nuova con vecchi arnesi, effetti e frutto di un vecchio mondo. Non sarà facile: qui si tratta di res, non più di verba. Ma siamo a un passaggio cruciale della vita della Repubblica: se si scegliesse la via di un compromesso di basso profilo, la delusione sarebbe profondissima e il risentimento sociale e politico salirebbe a livelli di guardia per la democrazia repubblicana. E dico questo facendo una fredda valutazione politica. Penso però, e spero, che il Presidente del Consiglio sarà capace di capire, se arriverà il momento, quando «Parigi non vale più una messa».
il Fatto 25.2.14
Appello al premier
Renzi lasci la società di famiglia e il trucco per la doppia pensione
Assunto da mamma. Nel 2003 il giovane scout diventò dipendente della società di famiglia
di Marco Lillo
Matteo Renzi stasera, un minuto dopo avere ottenuto la fiducia, dovrebbe fare un gesto fondamentale per la sua credibilità: dimettersi dalla società di famiglia. Come il Fatto ha già scritto, Renzi ha ottenuto il diritto alla pensione grazie a un trucco: nel 2003, quando l’Ulivo decise di candidarlo alla Provincia di Firenze (elezione sicura nel giugno 2004) Renzi si fece assumere dalla società di famiglia nella quale era un semplice collaboratore. La Chil Srl si occupava di marketing e vendita dei giornali ai semafori con gli strilloni. Il padre e la madre l’avevano fondata nel 1993 e avevano ceduto nel 1997 le quote ai figli Matteo (40 per cento) e Benedetta (60 per cento). Quando matura la candidatura alla Provincia, Matteo è solo un co.co.co. Se fosse rimasto un collaboratore non avrebbe maturato i 10 anni di contributi pensionistici da dirigente né avrebbe avuto diritto alle cure mediche gratuite e al Tfr.
Per regalare questo vantaggio al figliolo, babbo Tiziano e mamma Laura lo assumono e lo pagano come dirigente per pochi mesi, per poi metterlo in aspettativa. Così i contributi sono a carico della Provincia, e del Comune dal 2009, che nel 2013 pagava 3mila e 200 euro al mese per il suo sindaco. Così, grazie a una somma stimabile in circa 350 mila euro versata dagli enti locali per lui in dieci anni, Renzi oggi è un trentenne fortunato dal punto di vista assistenziale e pensionistico.
Se non può essere definita una truffa allo Stato, quella realizzata da Renzi, è una truffa alla ratio, allo scopo alto dello Statuto dei lavoratori del 1970. Il dubbio che sorge leggendo la cronologia di quelle giornate è che nel 2003 abbia usato la norma nata per garantire la partecipazione alle elezioni ai lavoratori per ottenere una pensione e un Tfr ai quali – fino a pochi giorni prima della sua candidatura – non aveva diritto.
Il 17 ottobre 2003 Matteo Renzi e la sorella vendono le quote della Chil alla mamma e al papà. Il 27 ottobre mamma Laura assume in Chil l’ex socio Matteo. Il co.co.co. diventa dirigente un giorno prima che l’Ansa batta la notizia: “Il coordinatore provinciale della Margherita Matteo Renzi per la presidenza della Provincia di Firenze e Leonardo Domenici per la poltrona di sindaco della città sono le candidature proposte alla coalizione dalla Margherita”. Il 30 ottobre, tre giorno dopo l’assunzione, l’Ansa racconta “la positiva accoglienza degli alleati della candidatura a presidente della Provincia del giovane Renzi”. Il 4 novembre, 8 giorni dopo l’assunzione, arriva l’ufficializzazione. Quello stesso anno anche il sindaco di Tortona, Francesco Marguati, viene eletto e assunto nella società di famiglia. Però nel 2008 Marguati e la figlia Michela sono stati condannati in primo grado a 16 mesi e 8 mesi per concorso in truffa aggravata ai danni del Comune. Il sindaco si era fatto assumere dalla figlia 22 giorni prima di assumere la carica. Per il pm, un rapporto di lavoro fittizio che ‘costava’ al Comune 23 mila euro all’anno di contributi”. Ogni storia fa caso a sé e comunque nel 2010, la Corte d’Appello di Torino ha assolto l'ex sindaco di Tortona. Intanto, nell’ottobre 2010 quando la Chil Srl viene ceduta, il ramo d’azienda con dentro il sindaco in aspettativa resta in famiglia: Matteo viene ceduto con il ramo marketing alla Eventi 6 della mamma e delle sorelle. Così il Tfr pagato dai contribuenti fino al 2010, pari a 28.300 euro, resta in famiglia.
Renzi non è l’unico furbetto: Josefa Idem è stata assunta dall’associazione del marito 15 giorni prima della sua candidatura nel 2006, Nicola Zingaretti è stato assunto dal comitato del Pd alla vigilia della sua candidatura ed entrambi sono usciti indenni dalle denunce. L’ex assessore provinciale di Vicenza, Marcello Spigolon, è stato rinviato a giudizio per truffa. Le vicende e le interpretazioni dei magistrati sono diverse ma la questione non è giudiziaria bensì politica. Matteo Renzi deve dimettersi dalla Eventi 6 perché la storia della sua pensione a sbafo da ieri non è più un peccato di gioventù.
il Fatto 25.2.14
Lecca Renzi
La frugale pasta al burro che piace ad Agnese
AL TEMPO di Mario Monti le parole d’ordine erano “loden” e “sobrietà”. La rottamazione le ha spazzate via. Ieri Repubblica ne ha scolpita una nuova nei cuori democratici: “Fr u ga l e ”. È lo stile Renzi, o almeno del pranzo a casa Renzi: “Abbiamo mangiato pasta al burro e petto di pollo, il pranzo più semplice al mondo”. Parola di Agnese, “insegnante precaria” e “first lady suo m a l g ra d o”, precisa il quotidiano. È il racconto della prima domenica da premier del giovane Matteo. Il lettore, per un’esperienza più appagante, dovrebbe leggere quella cronaca ad alta voce, imitando il tono dei cinegiornali dell’Istituto Luce. Quelli che ci narravano con tono memorabile le grandi gesta del Duce “trebbiatore”, “nuotatore ” o “gladiatore della parola”. C’è tutto, minuto per minuto: “Jeans e maglioncino viola lui, jeans e giacca rosa cipria lei”. Eppure la stessa Agnese li aveva ammoniti: “Ma cos’avrete da scrivere così tanto?”. Messaggio non recepito. L’elogio del Sindaco d’Italia prosegue su La Stampa: “Coraggio. È la virtù autobiografica del giovane premier”. Uno che “appunta i suoi pensieri in un quadernetto rosa”. Lo “stile Luce” contagia le didascalie: “Come d’abitudine, Renzi si è fermato a chiacchierare con le persone per strada”.
il Fatto 25.2.14
Boschi, il ministro che fu Madonna
Sandra Amurri
La notizia se fosse vera sarebbe da Premio Pulitzer : “Gesù è stato in braccio a un ministro ma lo ha scoperto solo ieri... quando tutta Laterina parlava di quella sera nella quale Maria Elena Boschi faceva la Madonna nel presepe vivente del paese”. A pubblicarla è La Nazione. Non sappiamo, invece, se Obama nella telefonata a Renzi abbia assicurato il suo personale interessamento presso la Columbia University di New York affinché il premio abbia la priorità. E chi mai avrebbe potuto immaginare, se non lo avesse svelato La Nazione, che la Boschi si è “presentata al Quirinale, dove è stata chiamata prima tra i ministri a firmare l’impegno di servire la Repubblica vestita d’azzurro” perchè era “lo stesso colore del mantello della Madonna -alias Ministra per le Riforme”? Chissà se Renzi affiderà a lei la preghiera affinché le pecorelle grilline smarrite ritrovino l’ovile Pd. Visto che, sempre secondo quanto racconta la signora Rita Gennai seduta al bar a La Nazione, Maria Elena che “ha fatto catechismo a mio figlio Federico, ha uno stile particolare, dove va lascia il segno”. Il miracolo in pochi istanti ha spopolato sulla rete. I commenti più esilaranti: Santissima Maria Elena prega per noi”. “Presepe degno di un Governo della Madonna: Renzi il Messia, Berlusconi San Giuseppe, Civati l’asino, Verdini il bue, Franceschini e Alfano i due Re Magi”. Peccato che manchi la stella cometa.
il Fatto 25.2.14
La carica dei ministri chiacchieroni
Il premier aveva detto: "Niente dichiarazioni prima della fiducia"
Ma vince la voglia di visibilità
di Salvatore Cannavò
Matteo Renzi era stato chiaro: nel primo Consiglio dei ministri subito dopo il giuramento aveva raccomandato alla propria squadra di non rilasciare dichiarazioni né interviste. “Niente, fino al voto di fiducia”. Cioè fino ad oggi o anche fino a domani, dopo il passaggio alla Camera. L’auspicio di Renzi risale a sabato. Domenica era stato già rinnegato. Come ogni “tradimento” che si rispetti il primo a violare la consegna del silenzio è stato il più fidato, quel Graziano Delrio nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, cioè il vero numero due del governo, seduto allegro e sorridente alle 14:30 davanti a Lucia Annunziata per un'intervista che su Rai3 ha rappresentato la prima scivolata di “turboRenzi”. Renzi doveva presentare al Senato il proprio programma ma 24 ore prima è stato impiccato a questa frase: “Se una signora anziana ha messo da parte 100 mila euro in Bot non credo che se le togli 25 o 30 euro avrà problemi di salute”. Neanche Fausto Bertinotti avrebbe mai agganciato a una “signora anziana” l’ipotesi di tassare le rendite finanziarie. Eppure fu proprio Rifondazione comunista a creare quel manifesto, “Anche i ricchi piangano”, che segnò l'inizio del declino del secondo governo Prodi. Renzi è così entrato nel tritacarne della politica degli annunci prova cosa significa smarcarsi dal proprio uomo di fiducia.
SE CON DELRIO , però, resta il dubbio di un’uscita in tv concordata, per spiegare “l’incontinenza” degli altri ministri si può ricorrere solo al desiderio compulsivo della visibilità. Non aveva nemmeno finito di brindare per il giuramento che Stefania Giannini, neoministra dell’Istruzione si confidava a Repubblica per inviare il suo primo messaggio al mondo della scuola: “Studierò. Come una secchiona”. Come tentativo empatico non c’è male, poi ci si ricorda che è il ministro a parlare e qualche inquietudine la si prova. Se ha bisogno di studiare vuol dire che non sa nulla oppure sa poco. Infatti, sui siti più frequentati dagli insegnanti, categoria che nonostante le botte subite continua a votare largamente per il Pd (che infatti ha lasciato il ministero a Scelta civica), rimbalza la frase sull’abolizione degli scatti di anzianità per i docenti, “frutto di un mancato coraggio politico del passato”. Chi guadagna 1300 euro al mese non è molto d’accordo. Poi lei, da ex rettore universitario, sottolinea che “soltanto un cieco può negare la realtà: nell’università italiana da troppo tempo non c’è ricambio”.
Che non farà il semplice spettatore ma si dedicherà anima e corpo al nuovo incarico di ministro della Cultura, Dario Franceschini non l’ha mandato a dire. Lo ha detto lui stesso, prima domenica, fresco di giuramento, in una intervista al Tg1 e poi ancora ieri facendosi intervistare da Radio1. Così dall’ex ministro dei Rapporti con il Parlamento, ex Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Massimo D’Alema, ex segretario del Pd, abbiamo saputo che “uno dei motivi della stanchezza degli italiani nei confronti della politica, di qualsiasi colore è stato vedere molti annunci e pochi fatti corrispondenti a quegli annunci”. Compresi, quelli frettolosi, di Franceschini.
La neoministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi, si è fatta precedere dalle polemiche sui suoi conflitti di interesse e sulle sue presunte cene con Silvio Berlusconi. Anche lei ha dovuto esternare al Corriere della Sera per rassicurare (chi?): “Non sono mai stata ad Arcore a cena” e Silvio Berlusconi “non mi ha offerto alcuna candidatura alle Europee”. Poi deve ammettere di aver incontrato diverse volte Berlusconi, “tramite Alfano”, e di aver avuto la richiesta di entrare in lista con il Pdl. “Ma ho rifiutato anche perché “avevo un bambino piccolissimo”. Ora il bimbo è cresciuto è lei è ministra. Senza problemi di incompatibilità perché “ha dato le dimissioni da tutti gli incarichi nella società”. Come diceva qualcuno prima di lei. Pare si chiamasse Silvio.
l’Unità 25.2.14
Guidi, tutti gli interessi tra l’azienda e lo Stato
La società di famiglia della ministra per lo Sviluppo economico ha commesse con Posteitaliane, gruppo Fs, ditte di trasporti pubblici di diverse città
di Andrea Bonzi
Dai mezzi elettrici per Poste italiane e i vigili urbani in decine di Comuni, agli impianti di segnalazione e ai distributori di biglietti per il gruppo Fs, sono molti i rapporti tra lo Stato italiano e le amministrazioni pubbliche e la Ducati Energia, l’azienda di famiglia di Federica Guidi, ex numero uno dei giovani di Confindustria e neoministra per lo Sviluppo economico del governo Renzi.
L’imprenditrice, come primo atto dopo il giuramento, ha correttamente lasciato tutte le cariche apicali nell’impresa di cui era vicepresidente e direttore generale. E lo stesso premier ha assicurato che si occuperà personalmente di eventuali dossier che dovessero presentare rischi di conflitto di interessi. Ma il legame è strettissimo, non c’è dubbio: Guidalberto Guidi, padre di Federica, resta il titolare del gruppo (controllato da una finanziaria di cui detiene la maggioranza) e, a scorrere le commesse che Ducati Energia ha evaso e sta portando avanti con “pezzi” del settore pubblico, sembra davvero difficile, per la neoministra, dribblare tutte le possibili contaminazioni tra il ruolo pubblico e l’azienda di famiglia.
UNA MULTINAZIONALE ITALIANA. Ducati Energia - da non confondersi con la Ducati Motor, dove vengono fabbricate le celebri moto - è un marchio all’avanguardia, che ha scelto di delocalizzare la produzione all’estero. Una propensione mai nascosta da Guidi padre, “falco” di Confindustria già sostenitore di Alberto Bombassei nella corsa al vertice dell’associazione: degli oltre 700 dipendenti attuali, sotto le Due Torri ne sono rimasti circa 250 (più altri 17 al Centro ricerche di Rovereto), in pratica la “testa” del gruppo con una minima parte di operai. In Romania, Croazia, India, Argentina - con possibili sviluppi futuri in Cina e Russia - è stato spostato il grosso della produzione. Naturalmente anche il fatturato - 115 milioni di euro -, dipende in gran parte dall’estero. Da qui, le ironie del deputato di Sel, Giorgio Ariaudo, che, parlando della neoministra, si è chiesto «che esempio possa dare alle aziende italiane». La stroncatura di Stefano Fassina, espressa dalle colonne de l’Unità, poggia poi, oltre che sul versante strettamente politico (la vicinanza a Berlusconi), sui rapporti tra Ducati Energia e la pubblica amministrazione, in varie forme.
Uno dei prodotti di punta dell’azienda è il Free Duck, un quadriciclo elettrico che dal 2008 viene utilizzato da Posteitaliane (spa di proprietà del Ministero dell’Economia) per il recapito “verde” della corrispondenza. Si tratta di un veicolo biposto che ha un’autonomia di 60 chilometri (o 150 per la versione ibrida) che è già in servizio in molti territori italiani: da Perugia (dove la sperimentazione è partita 6 anni fa con 57 mezzi) a Bologna, da Milano a Brescia, a Padova e Pisa, tra gli altri. Il battesimo mediatico del Free Duck avvenne nel 2009, al G8 dell’Aquila, con la consegna di 50 veicoli, ma i piccoli mezzi sono in dotazione dalla Polizia municipale di Genova e ne sta valutando l’acquisto anche la Polizia di Stato. Al progetto partecipa anche Enel (al 31% di proprietà del Mef), per la quale la ditta di famiglia della Guidi realizza già una serie di complesse apparecchiature per il controllo e la distribuzione dell’energia: le colonnine di ricarica elettrica, per i Free Duck ma non solo, sono targate Ducati Energia. Se ne trovano, ad esempio, a Milano, dove sono state sviluppate, in collaborazione con l’amministrazione, Telecom e A2A, anche “isole” wi-fi, in via di installazione, che danno informazioni su eventi e viabilità e permettono la connessione internet.
C’è poi il capitolo trasporti. Per Ferrovie dello Stato, società di proprietà del Tesoro, nonché per le collegate Italferr e Rfi, la Ducati Energia divisione Railway realizza impianti di segnalamento ferroviario, “chiavi in mano”, dalla progettazione all’assemblaggio e al collaudo. In Emilia-Romagna, poi, sono diffuse sui bus le macchinette emettitrici di biglietti, commissionate negli anni passati dalle aziende di mobilità pubbliche, come l’Atc bolognese (ora Tper), e Seta (che serve Modena, Reggio e Piacenza).
LO STATO (CON SIMEST) IN AZIENDA. E se La Repubblica ha ricordato l’intesa Anci-Ducati Energia, con l’ok del ministero dell’Ambiente, alla sperimentazione di mille biciclette a pedalata assistita (nel 2011, numero uno dei Comuni italiani era Graziano Delrio), si segnala anche una partecipazione indiretta dello Stato nell’azienda bolognese. Si tratta di Simest, la società per le imprese all’estero controllata dalla Cassa depositi e prestiti (di cui il Ministero dell’Economia possiede l’80%), che nel dicembre 2012 ha acquisito il 15% delle azioni del gruppo di Guidi, con un investimento di cinque anni. Un ingresso che la stessa Federica Guidi aveva salutato allora con favore, sottolineando come la Simest, fosse già stata «un’importante supporto in Croazia e Romania». Un percorso indubbiamente a ostacoli, per la neoministra. E cosa succederebbe se, ad esempio, suo papà decidesse di procedere all’acquisto di Bredamenarinibus, storica impresa costruttrice di mezzi pubblici messa in vendita dalla proprietà Finmeccanica (a maggioranza statale), per la quale in passato ha mostrato interesse? Sarà necessario muoversi, come minimo, con i piedi di piombo.
il Fatto 25.2.14
Debiti di stato, fisco e scuole, 100 miliardi di promesse
Riciclato il programma economico di Letta con pochi numeri precisi
Dietro gli annunci si prepara un taglio del costo de lavoo da 8 miliardi
di Stefano Feltri
Parla di un “cambio radicale delle politiche economiche”, ma il presidente del Consiglio Matteo Renzi non spiega come. Nel suo discorso al Senato non c’è l’annuncio della revisione dell’aliquota sui rendimenti dei titoli di Stato, evocato da Graziano Delrio domenica, non c’è l’annuncio esplicito di sfondare il vincolo europeo del 3 per rapporto tra deficit e Pil, nessun accenno alle grandi storie aziendali (Electrolux, Telecom, Monte Paschi, Fiat) mancano numeri precisi e – ma questo è un classico dei discorsi di insediamento – ogni riferimento alle coperture necessarie per mantenere le promesse.
IL DISCORSO AL SENATO di Renzi parla del Pil perso, nove punti tra 2008 e 2013 “mentre qualcuno si divertiva”, della disoccupazione al 12,6 per cento, “sono i numeri di un tracollo”. Ma le risposte che offre Renzi a questo disastro sono le stesse di cui hanno parlato gli ultimi due premier, Enrico Letta e Mario Monti. Il primo punto del programma è “lo sblocco totale, non parziale, dei debiti della Pubblica amministrazione attraverso un diverso utilizzo della Cassa depositi e prestiti”. Che vuol dire? Al momento il ministero del Tesoro ha pagato 22 miliardi di euro di debiti arretrati e ne ha già pronti altri 24,5 che verranno erogati nei prossimi mesi. A giugno, con 47 miliardi, il Tesoro dovrebbe aver saldato tutti gli arretrati iscritti a bilancio, i ritardi sono colpa delle amministrazioni locali (la Sicilia , per esempio, non ha mai ritirato il miliardo che le spetta per saldare i conti con i fornitori della Regione). Esauriti i 47 miliardi, restano i debiti fuori bilancio che, per definizione, sono difficili da calcolare e da pagare, secondo la Banca d’Italia sono 40 miliardi circa. I renziani forniscono l’interpretazione autentica: “Matteo sta promettendo di accelerare il pagamento dei 47 miliardi già stanziati, visto che al Tesoro i tempi sono lunghi”, i debiti fuori bilancio sono un mostro contabile di cui per ora non si può affrontare. Anche la seconda promessa è vaga: “Costituzione e sostegno di fondi di garanzia per le Piccole e medie imprese”, di nuovo con ricorso alla Cassa depositi e prestiti. Il Fondo già esiste, sotto l’ombrello del ministero dello Sviluppo, la legge di Stabilità 2014 lo ha rafforzato con 1,6 miliardi, quello che Renzi potrebbe fare è integrarlo ancora (con risorse dalla Cdp, par di capire).
Il terzo impegno è il più gravoso: “Una riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale attraverso misure serie e irreversibili, legate alla revisione della spesa”, il tutto entro giugno. Il cuneo fiscale è la differenza tra il costo di un lavoratore per l’azienda e la sua busta paga, si può ridurre tagliando l’Irpef (al lavoratore) o l’Irap (all’impresa) oppure i contributi previdenziali. Gli economisti de lavoce.info, di recente, hanno stimato che una riduzione del cuneo del 10 per cento (quindi il minimo della doppia cifra) per i lavoratori sotto i quarant’anni costa circa 27,5 miliardi di euro. Ma il piano che ha pronto Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, è più fattibile: tagli per 8 miliardi, 2-3 all’Irap e 5 all’Irpef, per dare più soldi in busta paga ai lavoratori. Le coperture arriveranno per tre quarti dalla spending review del commissario Carlo Cottarelli (che deve trovare 32 miliardi in tre anni), il resto da una riforma delle aliquote sulle rendite finanziarie. Scenderanno quelle sul risparmio pensionistico, potrebbero salire quelle sui titoli di Stato, come ha annunciato domenica Delrio, ma i dettagli si capiranno pù avanti.
QUESTI SAREBBERO – per quanto fumosi, complice la scelta di Renzi di parlare a braccio – i cardini del programma renziano. Poi c’è l’annuncio di un “piano per il lavoro” con annessa riforma degli ammortizzatori sociali, un “intervento strutturale” per attrarre investimenti esteri in Italia (quale?) e un piano straordinario di edilizia scolastica “nell’ordine di qualche miliardo e non di qualche decina di milioni”, lavori da fare durante le vacanze estive per ammodernare gli edifici e sostenere un settore edilizio in crisi. Non c’è una cifra, solo la promessa di andare oltre i 450 milioni stanziati da Letta (che, nel suo ultimo documento, aveva promesso ulteriori 2 miliardi).
il Fatto 25.2.14
Wall Street Journal Chris Emdsen
Soltanto la solita vaga agenda
di Alessio Schiesari
L’Italia, vista con gli occhi di uno statunitense, sembra più piccola. Christopher Emsden è il corrispondente da Roma per il Wall Street Journal, il giornale Usa che ha dedicato più attenzione e fiducia al nuovo governo. Il discorso di ieri però non sembra essergli piaciuto: “vago”, “fazioso” e “senza una parola di esteri”. Fatto da un premier che “ha già iniziato la campagna elettorale”.
Le è piaciuto il discorso del giuramento?
No, è stato molto meno entusiasmante di quanto mi aspettassi. Renzi si è limitato a riepilogare l’agenda già sentita, senza però dare nessuna scadenza o dettaglio. Strano per uno come lui che vuole presentarsi come una svolta radicale: poteva farlo ieri e invece ha perso l’occasione. Facile dire “taglio il cuneo fiscale”, il problema è quando, con che velocità.
Oltre ai dettagli, cos’altro è mancato?
Non ha detto una sola parola sul resto del mondo. E mi ha stupito come ha trattato grillini, dicendo che vuole prendersi cura di loro. Mai sentita una cosa così faziosa in un discorso per la fiducia. Probabilmente ha già iniziato la campagna elettorale per le europee.
È ipotizzabile un discorso così negli States?
Il corrispettivo Usa potrebbe essere lo State of the Union address, ma da noi si presta più attenzione alla concretezza. Quando il presidente Obama ha parlato di reddito minimo, è stato molto preciso. Qui non ho colto cosa chiedesse di fare al Parlamento.
Quale impressione le ha fatto il nuovo governo?
Renzi vuole essere il dominus assoluto. L’ha detto ieri (“se falliamo è colpa mia”, ndr) e l’ha dimostrato nella scelta dei ministri: pochi e non molto conosciuti. Chiederà loro di fare quello che lui decide. Non mi sembra molto collegiale. Ed è per questo che sta dando fastidio a molti.
Chi rappresenta l’insidia maggiore per la stabilità del governo?
Renzi ha una carta vincente da giocare sia con Berlusconi (la riforma costituzionale) che con Alfano (la legge elettorale). Il problema è che deve scegliere quale giocare. Sono convinto che alla fine la sua diventerà una maggioranza variabile. Solo un genio potrebbe tenere in piedi il rapporto con entrambi, ma geni non ce ne sono. Un po’ si è visto già oggi, con gli alfaniani che non hanno applaudito.
Gli osservatori esteri hanno fiducia in Renzi?
Credo di sì. Ha detto che l’Italia deve smetterla di essere subalterna all’Europa. Io credo che anche gli altri Paesi la pensino così. È meglio negoziare con un governo politico che con uno di intese larghissime o tecnico. La Spagna grazie a un esecutivo politico ha risolto più problemi che l’Italia. L’unica differenza è che qui manca un mandato elettorale chiaro. Però gli economisti sono fiduciosi, anche perché se fallisce Renzi non c’è un piano B.
Chi potrà trarre il maggiore vantaggio da questa nuova situazione?
Io credo che i sondaggi sottostimino almeno il Movimento 5 Stelle, che secondo me è almeno al 30 per cento. E le elezioni europee sono perfette per un voto di protesta.
Corriere 25.2.14
Istruzione
Torna il bonus maturità. Il neoministro: è più giusto
Giannini: ogni scuola selezioni i suoi professori
di Valentina Santarpia
Sì al bonus maturità e alla riforma della scuola media, ni alla tecnologia e al ciclo breve di studi, no ai concorsoni. È arrivata a viale Trastevere da qualche ora, ma il ministro all’Istruzione, Stefania Giannini, ha già un’idea precisa della scuola che verrà. Anche sfidando a viso aperto gli errori del passato, come il famigerato bonus maturità, introdotto dal ministro Francesco Profumo sotto il governo Monti e poi cancellato dal nuovo titolare del dicastero, Maria Chiara Carrozza, il giorno stesso in cui circa 100 mila studenti partecipavano ai test di accesso per 10 mila posti nella facoltà di Medicina: «Non era il bonus maturità in sé, ma il fatto di aver cambiato le regole in corso, ad aver scatenato il putiferio. Che la carriera scolastica conti per me è importante, lo studente non deve andare all’università vergine, ignorando tutto quello che ha fatto prima: il voto di maturità non è altro che la sintesi che uno ha fatto nei precedenti anni di carriera scolastica, quindi deve esserci, bisogna valutarlo insieme a tutte le altre cose che gli vengono richieste nell’esame di selezione». Per quest’anno, difficilmente rivedremo il bonus in azione, visto che il bando per i test di accesso alle facoltà a numero chiuso, previsti per aprile, è ormai già stato pubblicato. Ma qualcosa potrebbe cambiare dall’anno prossimo, governo permettendo.
Cambio di corsa, quindi? Sembra proprio di sì. Anche la sperimentazione del ciclo breve (4 anni anziché cinque) che la Carrozza aveva lanciato in cinque licei e che contava di estendere a tutte le scuole superiori, lascia piuttosto tiepidina il nuovo ministro. «Non sono contraria a continuare la sperimentazione ma non sono un’entusiasta sostenitrice dell’idea che eliminare un anno alle scuole superiori sia la carta vincente. Piuttosto, penso che abbiamo tre cicli di scuola, due funzionano molto bene, uno, quello intermedio, molto meno. La scuola media inferiore è quella che ha bisogno di maggiore attenzione», sottolinea Giannini. Prefigurando così una riforma del ciclo intermedio, pardon , una rivisitazione, visto che la parola «riforma» le evoca «grandi e lunghi processi» che si attirano critiche e polemiche.
Ma questo non significa che i progetti non siano ambiziosi: da brava riformista, l’ex segretario di Scelta civica boccia anche i concorsoni alla Profumo: «Così come sono stati fatti hanno creato più problemi che soluzioni — sostiene — tra ricorsi, procedure sbagliate, riformulazioni». E come si reclutano allora, gli insegnanti? «Le scuole, come strutture pubbliche che devono rendere conto delle scelte che fanno, possono prendere delle decisioni e assumere chi credono, e poi in base a queste scelte essere valutate: dobbiamo trovare gli strumenti giusti per attuarlo». E i 120 mila precari che pure la Commissione europea ci ha rimproverato? «È una situazione drammatica — dice Giannini —. La conosco bene perché ho amici cinquantenni ancora in attesa di supplenze. Ma si può curare il male antico introducendo sistemi per non rigenerarlo».
Una vera rivoluzione, dunque, quella che immagina il nuovo ministro, in cui gli istituti scolastici hanno sempre più autonomia, la valutazione acquisisce un valore importantissimo — «l’Invalsi ha pregi e difetti ma va sviluppato e migliorato» — e la tecnologia invece sbiadisce: «È una priorità non sostitutiva», spiega e, a costo di sembrare datata, ammette: «Ho l’idea che se spariscono i libri non va bene, deve esserci anche un contatto con la dimensione cartacea della cultura».
Che le gatte da pelare che la aspettano al varco siano tante lo sa bene: è ancora fresco il ricordo del prelievo dei 150 euro in busta paga degli insegnanti, scongiurato in zona Cesarini da Carrozza e Saccomanni, che non si erano parlati sull’argomento. «Chiamerò spesso Padoan e parleremo di tutto in Consiglio dei ministri, che sarà il luogo dell’integrazione: bisogna evitare che i ministri restino nel loro isolamento», assicura. Con la speranza che la nuova tegola in arrivo non faccia male: a marzo dovrebbe partire il prelievo sullo stipendio degli Ata (i collaboratori scolastici) per compensi dati erroneamente, secondo il ministero dell’Economia. «Sono appena arrivata, so del problema e lo affronterò. Datemi tempo, ho tante idee e buona volontà, ma non tutte le soluzioni».
Repubblica 25.2.14
Scuola, primo no dei prof alla Giannini “Gli scatti di anzianità non si toccano”
I sindacati contro il ministro: prima pensi ad alzare gli stipendi
di Corrado Zunino
ROMA — C’è Matteo Renzi, al Senato, che mette la scuola al centro del paese e chiede la fiducia. Il neopremier, spiega, entrerà nelle aule d’Italia ogni mercoledì perché «l’educazione che si dà nelle scuole è motore dello sviluppo, di fronte alla crisi economica non puoi non partire dalle scuole». Poi c’è il suo ministro di riferimento che alla terza intervista è già in urto con il mondo della scuola tutto, e pure con l’università. A Repubblica Stefania Giannini, 53 anni, neoministro dell’Istruzione per nove stagioni e fino al 2013 rettore dell’Università per stranieri di Perugia, aveva detto: «I soldi sono necessari per la scuola pubblica e quella paritetica, ma il modello scatti d’anzianità va rivisitato con coraggio. Premi a chi si impegna, chi si aggiorna, chi studia. Tutti i mestieri che si rispettino prevedono premi». Altrove aveva ribadito il concetto. Ottenendo una risposta corale da un fronte sindacale compatto: «Nessuna cancellazione degli scatti».
Reduce dall’errore di Natale del governo Saccomanni-Carrozza (la sottrazione in busta paga dell’ultimo scatto d’anzianità nonostante accordi firmati lo avessero mantenuto), Rino Di Meglio del sindacato Gilda ha attaccato: «Con le prime esternazioni il ministro Giannini ci ha gelato dimostrando di non sapere che l’anzianità di servizio è riconosciuta agli insegnanti in tutti i paesi europei e in Italia è la più bassa in termini assoluti». La Cgil (Flc) con Domenico Pantaleo dettaglia lo stipendio medio di undocente italiano: 1.200-1.300 euro al mese, penultimi in Europa. «Queste vecchie impostazioni di stampo gelminiano non tengono conto che il contratto nazionale della scuola è bloccato dal 2006». Francesco Scrima, segretario della Cisl, ricorda le ultime emergenze contratto: «Al personaleamministrativo stanno scippando la retribuzione dopo un lavoro regolarmente fatto e i presidi oggi si vedono decurtare lo stipendio ». Marcello Pacifico dell’Anief: «Macché blocco degli scatti, alla scuola servono risorse aggiuntive. Il ministro Giannini prima di tutto ha l’obbligo di allineare le buste paga all’inflazione ». I Cobas vedono nelle proposte del Pd renziano («il superamento di alcune rigidità del contratto nazionale») e in quelle del ministro di Scelta civica («sì ai licei in quattro anni») un disegno comune e annunciano «un rafforzamento delle mobilitazioni in corso».
Gli universitari a loro volta si sono irretiti di fronte alla riproposizione — a proposito delle borse di studio — del prestito d’onore, questione di memoria gelminiana e tradizione anglosassone (negli Usa molti laureati non riescono a restituire i soldi prestati e in Italia l’istituto non è mai decollato). Venerdì prossimo gli studenti della Link saranno sotto le finestre del Miur per la prima contestazione al neoministro.
Ecco, quelle di Renzi sono «parole belle e importanti», come dice il segretario Scrima. Ma sulla scuola belle parole le pronunciòall’insediamento l’ex rettore Mario Monti, che poi costrinse Profumo a tagliare ancora, e pure Enrico Letta («di fronte a nuovi tagli mi dimetterò»), che poi lasciò diverse partite in deficit. Già oggi il neoministro Giannini dovrà decidere sui 24 mila addetti alle pulizie a rischio licenziamento (pronta una proroga di un mese), l’abrogazione della quota 96 sul pensionamento dei prof (pronta la proposta di legge Ghizzoni) e, appunto, gli scatti d’anzianità. Le ipotesi pre-Giannini parlavano di un reintegro di quelli congelati, non della loro cancellazione.
il Fatto 25.2.14
Palazzo Madama contro l’alieno “Ma come si permette questo?”
di Wanda Marra
Mi ha colpito il fatto che mi sia stato contestato di aver utilizzato un tono diverso da quello indicato per il Senato. Ma quando si parla qui ci si sta rivolgendo ai rappresentanti dei cittadini. E allora, non dite che dobbiamo essere diversi tra qui e fuori. Sarà che noi a differenza di altri siamo abituati a stare in mezzo alla gente”. Sono passate le 22 quando Matteo Renzi prende la parola per la replica. È tutto il giorno che si moltiplicano le critiche non solo ai contenuti, ma al tono nel suo discorso. Lui lo rivendica. “Se io fossi stato Renzi....Ma io non sono Renzi”. Benedetto Della Vedova, Ncd, in predicato per un posto da Sottosegretario dice e non dice. Sulla faccia dipinta l’espressione di chi ha appena sentito parlare un marziano, un alieno. Una che ha voluto marcare “un forte senso di estraneità” per dirla con Graziano Delrio. Ecco la reazione di Palazzo Madama (quella Camera che il premier più o meno nei primi 5 minuti ha detto di voler abolire) è perplessa. Ma pure gelidamente soddisfatta. I senatori, si immaginano già ricatti, trappole, rosolamenti a fuoco lento nei quali la politica italiana è maestra. Qualcuno lo dice a mezza bocca: “Ma tutto qui, questo Renzi?”. “Ci aspettavamo Kennedy, ci siamo trovati il nipote di Rumor”, se la ride Ignazio La Russa. Di sicuro, i senatori Matteo Renzi non l’hanno molto capito. “Neanche a un consiglio comunale ci si comporta così”, l’epigrafe di Nichi Vendola, che passa per Palazzo Madama. Reazioni a caldo. Quelle immediate, durante il discorso sono state ancor più nette. Contestazioni dai 5 Stelle. Il Pd si limita a un paio di applausi: quello durante i ringraziamenti a Letta e quello sui marò. Niente calore neanche alla fine. Mentre il presidente del Consiglio che “non ha l’età” fa pause ad effetto, aspettando la risata, non torna indietro nulla.
MIGUEL GOTOR, bersaniano di ferro, lo mette agli atti: “Voto sì solo per disciplina di gruppo. L’intervento del presidente del Consiglio colpisce per scarsezza di contenuti programmatici”. Ieri c’è stata una riunione del gruppo dem al Senato. I “malpancisti”, i 6 civatiani, per ora rientrano. Ma in generale nella parte del partito non renziana il discorso sembra “deludente”. Quello che colpisce sono le manovre futuribili. Il neo ministro Maurizio Martina (bersaniano) durante il dibattito si alza e va a confabulare con Maurizio Migliavacca, fedelissimo dell’ex segretario. Francesco Russo, il più lettiano dei lettiani, commenta: “Se va male quest’operazione il Pd come l’abbiamo conosciuto salta”. Enrico Letta in questi giorni ha fatto capire che non esclude di lasciare i Democratici. Russo la legge così: “No, non se ne va. Mica va a fare un partitino...”. Sottotesto: se però salta tutto...Poi lancia l’hashtag. #matteostatisereno, parafrasando quell’#enricostatisereno così poco rassicurante di Renzi. L’Ncd è pronto a fare il partito di lotta e di governo. Il gruppo si riunisce: non è convinto di quel che ha detto il premier su ius soli e lavoro. Sulla legge elettorale invece sì. Peccato che Renzi nella replica ribadisca che la prima cosa che si fa è l’Italicum. E certo non si sogna di affermare che prima va abolito il Senato, come vorrebbero gli alfaniani. I tre ministri in quota peraltro non ci sono: riuniti in un vertice. Intanto il senatore decaduto Berlusconi dà una mano all’avversario-amico: “Bene come comunicatore capace di parlare al popolo bypassando la politica”. Il dibattito in Aula va avanti per ore. “Mi concentrerò su un unico aspetto del suo programma: le tasse. Dica qualcosa di concreto”, dice Zanettin (Fi). Renzi confabula con Padoan. Fuoco di fila dall’M5s. “Nella mia breve esperienza parlamentare ciò che più mi sgomenta è la doppiezza tra il dire e il fare”, dice Maurizio Romani. Veemente. Renzi lo fissa. Prende appunti. Infatti nella replica lo ringrazia. Per il tono. Guarda tutti negli occhi. Fino a che ce la fa. Il cellulare per un po’ è in carica, lontano. Però squilla, e i commessi glielo portano. Lui a quel punto non resiste e ricomincia a “smanettare” . Quelli che ascolta sono quasi tutti interventi scritti. Non a braccio come il suo. Alcuni vere lezioni di economia, come quella di Ichino. Durante quella di politica del Giovane Turco, Verducci, che lo invita “a fare una battaglia a viso aperto in Europa, per mettere da parte l'austerità”, a un certo punto Matteo chiude gli occhi. Estenuato. Il leghista Divina lo accusa di aver fatto “un comizietto”. Commenta Roberto Cociancich, che Matteo lo conosce da quando era il suo capo scout: “Bisogna fare, cambiare. Invece son tutti qui a riflettere”. Luigi Zanda, responsabilità di capogruppo Pd, è preoccupato. “Abbiamo un sacco di lavoro da fare”. Il discorso? “Renzi è Renzi. Lui è così”.
il Fatto 25.2.14
La minoranza Dem rivuole il partito “Nuova segreteria”
I cuperliani premono: "Non siamo un comitato del premier"
Denunce di brogli nelle primarie a Bari
di Luca De Carolis
Una nuova segreteria, e in tempi brevi. Perché il partito “non può essere il comitato elettorale del premier”. E perché il timore di tanti cuperliani è che la “ditta”, per citare Bersani, venga progressivamente rottamata, anche per semplice incuria. Larga parte della minoranza interna del Pd lo ripete dentro e fuori microfono: urgono sostituti ai membri della segreteria chiamati in massa al governo. Non solo: Renzi farebbe cosa buona e giusta lasciando la guida del partito a qualcun altro. “Avere un segretario che è anche premier è un’anomalia” aveva detto pochi giorni fa a Repubblica Gianni Cuperlo, scandendo le sue perplessità sul doppio ruolo. Consentito dallo statuto Pd, ma finora mai ricoperto da nessun democratico. Nella sua intervista a l’Unità di due giorni fa, Pier Luigi Bersani ha usato parole dalla sfumatura simile: “Il Pd non può essere un’appendice insignificante del governo, deve conservare la sua capacità di fare proposte”.
IL SENATORE Miguel Gotor, molto vicino a Bersani, rilancia: “Renzi deve colmare i vuoti in segreteria, perché il partito non può essere il comitato elettorale del presidente del Consiglio, ma deve mantenere una sua autonomia e una sua dialettica con il governo. In caso contrario, se l’avventura di Renzi non dovesse avere il successo che ci si aspetta, le conseguenze sarebbero pesanti per tutta la democrazia italiana: dopo le scorse Politiche il Pd è diventato il fulcro del sistema”. Ma il segretario appena eletto deve farsi da parte, lasciando spazio a un coordinatore o a un nuovo congresso? “Le forme del nuovo assetto le dovrà scegliere Renzi, confrontandosi con la direzione nazionale. Compete a lui”. Lui, il neo premier, sa che il tema andrà affrontato in tempi brevi. Non può permettersi troppi malumori e distinguo in corso d’opera: innanzitutto in Senato, dove la maggioranza ha numeri esigui. Non a caso ha inserito tra i ministri un bersaniano di ferro come Maurizio Martina. Per il ruolo di coordinatore in sua vece Renzi pensa al fedelissimo Lorenzo Guerini, attuale portavoce del Pd. C’è chi parla di una possibile promozione per Debora Serracchiani, già responsabile Trasporti. Ma è il governatore del Friuli Venezia Giulia: un bell’impegno. Nel frattempo Roberto Giachetti, renziano di vecchia data, reagisce: “Ma è possibile che mentre si tenta di
rilanciare sui contenuti, c’è chi pensa subito ai posti? E poi è singolare che la richiesta arriva da chi solo qualche settimana fa non è voluto entrare in segreteria”. Alfredo D’Attorre, senatore bersaniano, cambia prospettiva: “Il primo problema non sono i posti ma la politica, ovvero la capacità del Pd di fare da stimolo a un governo che non è solo di centrosinistra su temi come la legge elettorale, l’Europa e il lavoro. L’attuale segreteria va verificata sui fatti. Credo però che Renzi nominerà un coordinatore del partito. E ovviamente il ruolo della Direzione dovrà crescere”.
DA BARI invece arriva il frastuono delle denunce di brogli. Il fosco contorno alla vittoria nelle primarie del deputato renziano Antonio Decaro, scelto domenica come candidato sindaco del centrosinistra. Decaro, primo con il 53 per cento davanti a Giacomo Olivieri (Realtà Italia) e all’indipendente Elio Sannicandro, punta a succedere a Michele Emiliano, suo mentore e compagno di fede renziana. Ma la notizia è il numero dei votanti, quasi 21 mila. Tanti, anzi troppi, a detta di Sannicandro (“mi arrivano numerosissime segnalazioni di episodi inquietanti”) e soprattutto di Emiliano, che domenica twittava così: “Andate ai seggi, c’è una chiara infiltrazione della destra nel voto libero”. Per limitare i danni, il comitato dei garanti aveva sospeso il rilascio della ricevuta per il contributo di 1 euro. Adoperata, secondo voci che si rincorrevano di quartiere in quartiere, per ottenere un compenso in denaro da oscuri capibastone.
SOSPETTI DIFFICILI da provare, ma comunque fastidiosi per il Pd di Bari. Per inciso, la città da dove Renzi aveva iniziato la campagna per la segreteria. Ieri il coordinatore locale di Forza Italia, Antonio Distaso, ha parlato di “spettacolo indecente”. Gli ha replicato il democratico Domenico de Santis: “Distaso dimostra che la destra barese ha tentato di rovinare le primarie. Numerosi esponenti di Fi presidiavano i seggi ”. Emiliano invece invoca “una regolamentazione per legge delle primarie”. Mentre Decaro ha ricevuto le congratulazioni di Renzi, della Madia e della Boschi. Primarie anche in 13 Comuni del bolognese e in tre capoluoghi lombardi. A Bergamo ha vinto Giorgio Gori, ex direttore di Canale 5, mentre a Cremona è stato scelto il ricercatore Gianluca Garimberti e a Pavia Massimo Depaoli, insegnante.
La Stampa 25.2.14
Si allarga il fronte dei sì “con il naso turato”
I più dubbiosi sono civatiani, lettiani e bersaniani del Pd. Ma anche i centristi non risparmiano critiche
di Francesca Schianchi
Nel Pd si riuniscono in mattinata: nessuno mette realmente in dubbio il voto di fiducia, ma dubbi, perplessità, maldipancia su questo governo, per com’è ma soprattutto per lo strappo provocato per farlo nascere, se ne sentono tanti. «Io voto la mia sfiducia in questa sede, ma voterò la fiducia in Aula», sospira il senatore Mario Tronti, filosofo, docente universitario, tra i fondatori della teoria dell’operaismo negli anni ’60. E perplessità le esprimono anche il civatiano Walter Tocci, il bersaniano Miguel Gotor, l’ex sindaco di Brescia, Paolo Corsini. Un clima di freddezza che si coglie in Aula, quando a punteggiare oltre un’ora di discorso del neopremier arrivano appena 14 applausi, pochissimo calore anche dal Pd. «Renzi forse non ha capito la differenza tra un Consiglio comunale e l’Aula del Senato. Ha tenuto un piccolo comizio da modesto segretario di partito», critica apertamente Corsini.
Ma anche nel Nuovo centrodestra si riuniscono, dopo aver sentito le parole del neo premier, pure loro con qualche dubbio, per quei riferimenti a una legge sulla cittadinanza, dopo che già erano rimasti spiazzati dalle dichiarazioni di domenica sulla tassazione dei Bot («facciamo finta che non abbia detto nulla, utilizziamo la moviola», propone Formigoni): la fiducia, anche qui, non si mette in dubbio («la maggioranza al Senato sarà meno esigua di quanto qualcuno possa pensare», assicura dallo speciale di “Ballarò” il leader Angelino Alfano), ma «siamo perplessi su alcune sue dichiarazioni, lei ha detto che sarà il governo più di sinistra degli ultimi vent’anni, speriamo sia una battuta», ammette nel corso del dibattito il senatore Bruno Mancuso.
Così, mentre gli interventi in Aula proseguono fino a tardi, con il neo premier per la prima volta seduto tra quegli stucchi e velluti attorniato dai suoi giovani ministri ad ascoltare, nei gruppi che sostengono il governo e di lì a poco voteranno la fiducia restano comunque dubbi e maldipancia. «L’intervento del presidente del Consiglio sorprende per la scarsezza dei contenuti programmatici e per avere assunto in alcuni passaggi i toni di un vero e proprio comizio di piazza», è il giudizio tranchant di Miguel Gotor, già consigliere politico di Bersani, a cui è ancora vicinissimo (nei giorni scorsi è andato a trovarlo nella sua casa di Piacenza): anche lui la fiducia a sera la vota, ma solo «per disciplina di partito», mentre sottolinea «una presa del potere nel segno dell’avventura», in cui «anche il fatto che Renzi abbia contraddetto in pieno i cardini della sua narrazione politica rivela la debolezza dell’operazione», che ha portato a un governo in cui «in alcuni casi i nomi dei ministri scelti si limitano a rispondere a esigenze di immagine». E anche da chi è vicino all’ex premier defenestrato Letta arriva una fiducia altrettanto tiepida: «La voterò», garantisce Francesco Russo, ma «da sincero e leale amico di Letta, potete immaginare con quale difficoltà», e lancia l’hashtag #matteostaisereno, che ricalca quello che Renzi dedicò a Letta, spiegandolo maliziosamente con un «io la parola data la mantengo». Così come resta faticosa la fiducia per l’area Civati: «Pensiamo debba farsi carico di alcuni elementi specifici senza i quali perderà la nostra fiducia», avverte Lucrezia Ricchiuti, ed elenca diritti civili, giustizia, burocrazia, e Sergio Lo Giudice confessa di votare «il governo non perché mi abbia convinto, ma per continuare a puntare sul Pd», ma non è per nulla rassicurato dal passaggio del discorso del premier sui diritti civili. Lo stesso Pippo Civati, che voterà oggi la fiducia alla Camera, è il più tormentato: «La mia è una sfiducia di fatto», spiega.
Nella maggioranza, Scelta civica sarà compatta nel voto, ma anche da quelle parti Linda Lanzillotta ci tiene a ricordare che «saremo molto vigili» e punzecchia la squadra di governo, per la presenza di ministri «alcuni competenti, altri un po’ meno». Anche nel gruppo dei Popolari per l’Italia in due restano dubbiosi fino all’ultimo. Ma, nonostante gli scetticismi, la fiducia, quando è ormai notte, è destinata ad arrivare.
Nel Pd si riuniscono in mattinata: nessuno mette realmente in dubbio il voto di fiducia, ma dubbi, perplessità, maldipancia su questo governo, per com’è ma soprattutto per lo strappo provocato per farlo nascere, se ne sentono tanti. «Io voto la mia sfiducia in questa sede, ma voterò la fiducia in Aula», sospira il senatore Mario Tronti, filosofo, docente universitario, tra i fondatori della teoria dell’operaismo negli anni ’60. E perplessità le esprimono anche il civatiano Walter Tocci, il bersaniano Miguel Gotor, l’ex sindaco di Brescia, Paolo Corsini. Un clima di freddezza che si coglie in Aula, quando a punteggiare oltre un’ora di discorso del neopremier arrivano appena 14 applausi, pochissimo calore anche dal Pd. «Renzi forse non ha capito la differenza tra un Consiglio comunale e l’Aula del Senato. Ha tenuto un piccolo comizio da modesto segretario di partito», critica apertamente Corsini.
Ma anche nel Nuovo centrodestra si riuniscono, dopo aver sentito le parole del neo premier, pure loro con qualche dubbio, per quei riferimenti a una legge sulla cittadinanza, dopo che già erano rimasti spiazzati dalle dichiarazioni di domenica sulla tassazione dei Bot («facciamo finta che non abbia detto nulla, utilizziamo la moviola», propone Formigoni): la fiducia, anche qui, non si mette in dubbio («la maggioranza al Senato sarà meno esigua di quanto qualcuno possa pensare», assicura dallo speciale di “Ballarò” il leader Angelino Alfano), ma «siamo perplessi su alcune sue dichiarazioni, lei ha detto che sarà il governo più di sinistra degli ultimi vent’anni, speriamo sia una battuta», ammette nel corso del dibattito il senatore Bruno Mancuso.
Così, mentre gli interventi in Aula proseguono fino a tardi, con il neo premier per la prima volta seduto tra quegli stucchi e velluti attorniato dai suoi giovani ministri ad ascoltare, nei gruppi che sostengono il governo e di lì a poco voteranno la fiducia restano comunque dubbi e maldipancia. «L’intervento del presidente del Consiglio sorprende per la scarsezza dei contenuti programmatici e per avere assunto in alcuni passaggi i toni di un vero e proprio comizio di piazza», è il giudizio tranchant di Miguel Gotor, già consigliere politico di Bersani, a cui è ancora vicinissimo (nei giorni scorsi è andato a trovarlo nella sua casa di Piacenza): anche lui la fiducia a sera la vota, ma solo «per disciplina di partito», mentre sottolinea «una presa del potere nel segno dell’avventura», in cui «anche il fatto che Renzi abbia contraddetto in pieno i cardini della sua narrazione politica rivela la debolezza dell’operazione», che ha portato a un governo in cui «in alcuni casi i nomi dei ministri scelti si limitano a rispondere a esigenze di immagine». E anche da chi è vicino all’ex premier defenestrato Letta arriva una fiducia altrettanto tiepida: «La voterò», garantisce Francesco Russo, ma «da sincero e leale amico di Letta, potete immaginare con quale difficoltà», e lancia l’hashtag #matteostaisereno, che ricalca quello che Renzi dedicò a Letta, spiegandolo maliziosamente con un «io la parola data la mantengo». Così come resta faticosa la fiducia per l’area Civati: «Pensiamo debba farsi carico di alcuni elementi specifici senza i quali perderà la nostra fiducia», avverte Lucrezia Ricchiuti, ed elenca diritti civili, giustizia, burocrazia, e Sergio Lo Giudice confessa di votare «il governo non perché mi abbia convinto, ma per continuare a puntare sul Pd», ma non è per nulla rassicurato dal passaggio del discorso del premier sui diritti civili. Lo stesso Pippo Civati, che voterà oggi la fiducia alla Camera, è il più tormentato: «La mia è una sfiducia di fatto», spiega.
Nella maggioranza, Scelta civica sarà compatta nel voto, ma anche da quelle parti Linda Lanzillotta ci tiene a ricordare che «saremo molto vigili» e punzecchia la squadra di governo, per la presenza di ministri «alcuni competenti, altri un po’ meno». Anche nel gruppo dei Popolari per l’Italia in due restano dubbiosi fino all’ultimo. Ma, nonostante gli scetticismi, la fiducia, quando è ormai notte, è destinata ad arrivare.
La Stampa 25.2.14
Legge elettorale, parte del Pd prepara l’alternativa all’Italicum
Proposta per alzare la soglia per il premio al 40% e addio alle liste bloccate
di Amedeo La Mattina
Al Senato si sta muovendo un’operazione che, se portata fino in fondo, potrebbe scombinare i piani della riforma elettorale e del bicameralismo. Un’iniziativa di una trentina di senatori del Pd che ha tutte le caratteristiche per essere condivisa da altri colleghi della maggioranza (c’è da scommettere che interesserà pure l’opposizione). Si tratta di evitare la trasformazione di Palazzo Madama in una Camera delle autonomie composta da esponenti degli enti locali, sindaci innanzitutto, e rappresentanti del mondo culturale. «Via i senatori eletti, via i loro stipendi» è il mantra del premier che ieri nel suo discorso per la fiducia si è augurato di essere «l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere a quest’aula la fiducia».
«Sono consapevole del rischio di fare questa affermazione di fronte a senatori che non meritano il ruolo di ultimi senatori, ma lo sta chiedendo il Paese, lo sta chiedendo l’Italia», ha detto Renzi. Sembrava avvertire i capponi di tenersi pronti alla loro cottura nel forno. Le resistenze si faranno sentire, ma l’iniziativa di un gruppo di senatori Democratici, che verrà alla luce nei prossimi giorni, «vuole essere propositiva, non un’ostacolo al superamento sacrosanto del bicameralismo perfetto», spiega il senatore Francesco Russo, un lettiano doc. «Siamo d’accordo che il nuovo Senato non sia composto da eletti e non esprime la fiducia al governo - precisa Russo - ma ci vuole più consapevolezza nella trasformazione di un tassello così importante delle nostre istituzioni. Il nostro modello è quello del Bundesrat tedesco: i componenti non sono eletti ma vengono designati dai i governi federali che in Italia sarebbero le Regioni».
Russo parla anche di modifiche alla riforma elettorale, a quell’Italicum concordato da Renzi e Berlusconi. «Modifiche necessarie a eliminare profili di incostituzionalità come la soglia del 37% per ottenere il premio di maggioranza. Dovrebbe essere portato al 40%. Un altro problema sono le liste bloccate. Stiamo pensando a varie ipotesi per evitare che a decidere siano le segreterie dei partiti: le preferenze, i piccoli collegi o le primarie obbligatorie». Il lettiano Russo racconta di un malumore diffuso e trasversale nel gruppo del Pd che si è riunito ieri mattina prima che iniziasse la discussione sulla fiducia. Si dirà che gli amici di Letta come quelli di Bersani e di D’Alema hanno il dente avvelenato. Sta di fatto che rimangono molte incognite. Ad esempio non è sembrato chiaro se reggerà l’intesa Renzi-Berlusconi o se invece verrà scavalcata dall’accordo di maggioranza, con Alfano in particolare. Ovvero che la nuova legge elettorale verrà applicata solo per la Camera. La conseguenza sarebbe che dovrà necessariamente essere approvata la riforma del Senato e superato il bicameralismo.
Verdini ieri a Palazzo Madama assicurava i senatori di Forza Italia che l’intesa con il premier regge, eccome: la nuova legge elettorale verrà approvata e sarà pronta in caso di elezioni, di interruzione anticipata della legislatura. Con buona pace di Alfano, secondo Berlusconi e Verdini, che invece pensa di avere firmato una polizza sulla vita. Per la verità le parole in aula di Renzi sembrano andare verso l’intesa con il Nuovo Centrodestra. Ha detto che «politicamente esiste un legame netto» tra riforme costituzionali (Senato e titolo V) ed elettorale. «Sono 3 parti della stessa cosa». Per Renzi «l’Italicum è pronto per essere discusso alla Camera. Venga approvata la prossima settimana. Non si perda tempo. Se avessimo avuto l’Italicum alle scorse elezioni ci sarebbe stato il ballottaggio tra Bersani e Berlusconi e avremmo avuto un vincitore sicuro». Ecco, il premier è una priorità, «una prima parziale risposta all’esigenza di evitare che la politica perda ulteriormente la faccia».
Berlusconi attraverso Verdini ha chiesto al premier di chiarire in sede di replica, di confermare che la legge elettorale non deve essere pensata solo per la Camera, in attesa delle riforme costituzionali. Renzi non l’ha fatto. Ha ribadito che il pacchetto delle riforme è unico. «E’ l’unico vero modo per rispettare la straordinaria figura di Napolitano».
Corriere 25.2.14
Le maggioranze variabili del leader
Ma la vera insidia oggi è nel suo Pd Il premier e le possibili convergenze con FI o Sel
I malumori dei bersaniani
ROMA — «Sono un presidente del Consiglio del Partito democratico: in aula al Senato l’ho detto chiaramente, nel governo precedente questo non era così chiaro», Matteo Renzi scherza con qualche parlamentare amico. Scherza sì, ma mica tanto. È un’ulteriore conferma del fatto che il suo non è un «Letta bis», che la sua è tutta un’altra storia. E tra un po’ se ne accorgeranno anche i compagni di viaggio del premier con le mani in tasca e l’eloquio che non convince i senatori perché è rivolto alle orecchie di quegli italiani che lo seguono in diretta tv.
Se ne renderà conto Alfano che si accaparra un posto accanto al premier. Nella scenografia renziana quella poltrona era riservata a Padoan. Così non è stato. Però questo non basta perché il Nuovo centrodestra possa cantare vittoria, anche se, senz’altro, lo farà. Già, perché il presidente del Consiglio sa quante e quali insidie si possono nascondere in Parlamento e per questo ha deciso di adottare una tattica che lo metta al riparo il più possibile da ricatti, imboscate e veti incrociati. Anche perché è conscio che il primo partito da cui deve guardarsi le spalle è proprio il suo. In questo senso l’assemblea dei senatori del Pd, ieri mattina, è stata significativa. Mario Tronti si è buttato su un ritratto psicoanalitico del «personaggio Renzi» e della sua «supponenza». Quel che resta dei bersaniani, come Miguel Gotor, ha dichiarato: «Voterò la fiducia solo per disciplina di partito». Il civatiano Corradino Mineo, per non essere da meno, ci ha tenuto a precisare che la sua, invece, è «una fiducia con data di scadenza incorporata». E l’ex sindaco di Brescia, Corsini, «en passant» ha notato che Renzi «non conosce la differenza tra una riunione di un consiglio comunale e un’assemblea del Senato».
Ma in fondo, questo è solo colore. La battaglia vera sarà un’altra. E quella di folkloristico avrà assai poco. Si giocherà a breve. Non a palazzo Madama. Bensì alla Camera dei deputati. Sul terreno della riforma elettorale. Sì, perché chi credeva che quella battaglia fosse chiusa, si sbagliava di grosso. Francesco Boccia, lettiano, nonché presidente della Commissione Bilancio di Montecitorio, intervistato da Alessandra Sardoni per Omnibus, lo ha lasciato capire chiaramente: «Riprenderemo la bandiera delle preferenze». Insomma, il presidente del Consiglio vorrebbe portare a casa la riforma entro i primi dieci giorni di marzo per due ragioni. Innanzitutto, perché è stata la prima promessa che ha fatto agli italiani, quando non aveva ancora varcato il portone di palazzo Chigi ed era solo segretario del Pd. Poi perché è sulla revisione del Consultellum che si basa la possibilità di mantenere la cosiddetta doppia maggioranza con Forza Italia, una maggioranza istituzionale, che però gli serve a non dipendere dal Nuovo centrodestra. Solo così, infatti, il presidente del Consiglio potrebbe condurre i giochi come li ha sempre condotti: dando lui il «la» al governo, menando lui le danze.
«Governare significa anche decidere e decidere significa prendersi le responsabilità in prima persona, pagandone il prezzo se si sbaglia»: è il convincimento dell’ancora per poco sindaco di Firenze. Per quanto lo riguarda ha già «trattato abbastanza» con Alfano e alleati vari: tanto è certo che essendo il suo «l’ultimo governo di questa legislatura» nessuno proverà a far saltare il tavolo dell’esecutivo. Ma non basta. Renzi ha pronto anche un terzo forno, non si sa mai quello con Forza Italia, per le bizze di Berlusconi, si chiudesse. È quello a sinistra. Non si è ancora aperto. Ma non è un caso che il premier non abbia nemmeno tentato di spaccare Sel, che pure in Parlamento è divisa tra i filo-governativi e i duri e puri. Non è un pezzo della sinistra che vuole, ma la vuole tutta intera, in vista dell’alleanza (elettorale) che verrà e delle convergenze parlamentari contingenti che potranno essere (ius soli, unioni civili). È un terzo forno, una terza possibilità di non vincolarsi mani e piedi agli alleati di governo. E di giocare, come ha sempre fatto, a modo suo.
Maria Teresa Meli
Repubblica 25.2.14
I dubbi del Pd sul premier “Renzi ha un peccato originale” sospetti anche sulla giustizia
Il caso conflitto di interessi
di Giovanna Casadio
ROMA — «Il governo Renzi ha un peccato originale, come ha scritto l’Osservatore romano... » . Francesco Russo, senatore amico di Enrico Letta, nelle ore della fiducia al governo a Palazzo Madama ha lanciato l’hashtag #matteostaisereno, che imita quell’#enricostaisereno di Renzi, smentito poi dalla staffetta al governo. «Una staffetta anche un po’ violenta, ma tutti i Democratici appoggeranno questo governo », assicura Russo. Malpancisti tanti, però il Pd è domato. Il dissenso non fa danno, perché i voti di fiducia al segretario-premier non mancano e si allineano anche i civatiani.
Nell’assemblea mattutina del gruppo al Senato, e subito dopo il discorso di fiducia, gli anti renziani del Pd si sfogano e contestano. Miguel Gotor, che ideò la campagna elettorale di Bersani contro Renzi alle primarie del 2012, fa sapere che vota Renzi ma «solo per disciplina di partito»: «L’intervento del premier sorprende per la scarsezza dei contenuti programmatici e per avere assunto i toni di un vero e proprio comizio di piazza». Pollice verso e sacrificio in nome del Pd e della sua unità. Nella riunione di gruppo le critiche sono anche più accese e di merito. Un tormentone si scatena contro la scelta di Federica Guidi alla guida del ministero dello Sviluppo economico, sul conflitto d’interessi e l’impronta di politica industriale. Gotor allude alla possibilità di un’intesa riservata con Berlusconi, con cui Guidi è in grande sintonia. Massimo Mucchetti si chiede e chiede: «Ci sono cose che non quadrano: avendo chiesto e ottenuto la disponibilità per quel dicastero dell’ad di Ferrovie, Mauro Moretti e di Franco Bernabè, perché scegliere poi la Guidi?». Mucchetti ricorda le uscite da falco della Guidi quand’era presidente dei giovani industriali sulle 43 ore di lavorative e i contratti individuali. E ci sono stati nella riunione dem gli “affondo” sull’Italicum, sul timing delle riforme e sulla giustizia. Le tensioni non mancano. Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia, boccia il neo premier: «Renzi forse non ha capito la differenza tra un Consiglio comunale e l'aula del Senato. Ha tenuto un piccolo comizio da modesto segretario di partito». Walter Tocci allarga le braccia: fino all’ultimo è stato incerto se votare la fiducia a Renzi come tutta la corrente di Civati. Irrituale il discorso di Renzi, persino il suo atteggiamentocon le mani in tasca? Il premier sfida anche i senatori del suo partito. «Matteo è un comiziante ragiona Laura Puppato - quindi il discorso è riuscito, anche se si è scordato un bel po’ di argomenti, glieli ricorderemo noi». Gli anti Renzi del Pd lo aspettano al varco: «Vedremo se manterrà le promesse ». Vannino Chiti e Mario Tronti esprimono dubbi sui metodi del rottamatore. I renziani rispondono che è il solo modo per uscire dalla palude. Renzi attacca la classe politica incapace persino di scegliere un presidente della Repubblica. I prodiani apprezzano. Romano Prodi tuttavia a chi gli chiede se potrebbe essere candidato di nuovo al Quirinale replica seccamente: «Io al Colle? No, come si dice, “the game is over”, la gara è finita: sono tutti giovani, tutti nuovi, quindi uno deve capire quando è il proprio tempo e quando il proprio tempo è passato». Critiche anche sul «compromesso» sui diritti civili che il premier annuncia.
La Stampa 25.2.14
Né di lotta né di governo
Uno stile ibrido e troppo irrituale. È mancata la forza
Indicazioni vaghe sul programma
Era lecito attendersi di più
di Federico Geremicca
Il coraggio è sempre lì, intatto, come nei giorni d’avvio della sua lunga cavalcata: perché ci vuole coraggio, questo è certo, per andare in Senato a dire di sperare che sia l’ultima volta che Palazzo Madama vota una fiducia; e altrettanto, o forse di più, ne serve per citare Gigliola Cinquetti dimenticando, però, un qualunque riferimento (e forse è la prima volta che accade nella storia repubblicana) al presidente della Repubblica citato solo nella replica. Ma o Renzi - ormai si sa - è così: irrituale, sorprendente e mai uguale.
E sorprendente, in effetti, il neo-premier lo è stato anche ieri, con un discorso perennemente in bilico tra il classico vorrei ma non posso e un inedito vorrei ma non so: una sorta di vorrei dirvi che se sono qui è per il discredito nel quale avete precipitato Paese e istituzioni, ma non posso; alternato ad un vorrei spiegarvi come penso di portarvi fuori dal pantano ma è successo tutto così in fretta che, in fondo, ancora non lo so.
Un Matteo Renzi, insomma, non più (non pienamente) di «lotta», ma non ancora nemmeno di «governo». Il risultato non poteva che essere un ibrido: e cioè un discorso privo della originaria forza suggestiva del «renzismo» così come lo abbiamo conosciuto, ma anche parzialmente monco delle indicazioni programmatiche che il Parlamento attendeva. E un discorso, dunque, non a caso commentato in maniera varia e perfino irrituale: un comizio elettorale, un discorso da bar, un intervento da sindaco, mentre sindaco non lo è più.
Le difficoltà, naturalmente, erano tante: di natura politica ma perfino di contesto ambientale. Matteo Renzi, infatti, non aveva mai messo piede nell’aula del Senato, non potrebbe esservi nemmeno eletto per ragioni di età e aveva di fronte quei parlamentari e quei partiti - nessuno escluso - che attacca (rottama) incessantemente da un anno e mezzo o più: come giocare fuori casa con tutti contro, e fuori casa - si sa - è sempre tutto più difficile...
Né minori erano i problemi d’ordine politico intorno ai quali avrebbe dovuto zigzagare: le rassicurazioni a Forza Italia che la legge elettorale si farà; le garanzie al Nuovo Centrodestra che si farà ma non si voterà; e infine il rapporto col Pd, un partito letteralmente stravolto dall’avvento di Renzi, un giovane leader che ha fatto dimettere Fassina con un «chi?», Cuperlo con un inciso ed Enrico Letta con una relazione in Direzione durata - ringraziamenti compresi - ventitrè minuti. Prima dell’avvento - giusto per la cronaca - sotto i suoi colpi avevano arretrato leader del peso di Massimo D’Alema, Walter Veltroni e Rosy Bindi, per citare i più noti.
Ciò nonostante, proprio per il passato (recente) di Matteo Renzi - intendiamo per la sua carica, la sua forza comunicativa e il bagaglio delle promesse accumulate - o, al contrario, per il suo presente da presidente del Consiglio, era lecito attendersi qualcosa di più. Soprattutto, era ragionevole attendersi una scelta: o rottamatore o presidente, perché le due parti assieme è impossibile recitarle una volta giunti dove Renzi è giunto. La via di mezzo è forse stata la meno felice. E le genericità in materia di programma e un certo glissare sui nodi più intricati, hanno ricordato la sua prima sfida a Bersani, quella per la candidatura a premier nelle elezioni del febbraio 2013: al segretario e a quanti lamentavano l’assenza di un puntuale programma di governo, Renzi rispondeva semplicemente con una cosa che somigliava molto a «il programma sono io, il cambiamento lo garantisco io».
Giunti a Palazzo Chigi, tutto questo non pare più sufficiente. Il profilo di Matteo Renzi resta senz’altro quel che era: una sicurezza per chi crede che il Paese debba essere «rivoltato come un calzino». Solo che ora gli si chiede in che senso intende rivoltarlo, partendo da cosa, con quali soldi, quali alleanze e quale idea del nostro futuro. Il sindaco-segretario-presidente ha tempo per lavorarci, naturalmente. Ma occorre, appunto, che ci lavori. Perché, come ha avvisato lui stesso nel primo consiglio dei ministri, «la ricreazione è finita». Ma se è finita, è finita per tutti.
La Stampa 25.2.14
Renzi agita lo spettro del voto per imporre il suo piano
di Marcello Sorgi
Il paradosso dell’esordio parlamentare del nuovo governo è presto detto: i senatori hanno dato la fiducia a un presidente del Consiglio venuto ad annunciare la chiusura del Senato, «a darci l’estrema unzione», come ha detto con amara ironia la vicecapogruppo di Forza Italia Bernini. Nei settanta minuti di discorso pronunciato a braccio, Renzi ha detto chiaro che se il Parlamento, invece di fare le riforme, farà melina, piuttosto che perdere tempo lui preferirà andare ad elezioni. Il timing del governo è serrato, nei tre mesi che precedono il semestre italiano di presidenza europea Renzi vuol fare approvare la riforma elettorale, impostare quella del Senato e dei rapporti tra Stato e regioni, dare una scossa alla pubblica amministrazione accelerando il ritmo pachidermico della burocrazia, e aggredire il tema della giustizia, trasformandolo, dopo vent’anni di conflitto ideologico, in occasione di pacificazione.
Politicamente ciò vuol dire mettere a dura prova la maggioranza che, almeno al Senato, rimane risicata, sfidare in una lotta corpo a corpo il Movimento 5 stelle e convincere Berlusconi che è più conveniente per lui mantenere un rapporto di interlocuzione con il governo, che non farsi risucchiare dalle sirene populiste. Il piano è complesso: ma a giudicare dalle reazioni, chi doveva capire ha capito. Così il Pd ha votato a denti stretti la fiducia, e il mugugno che già s’era avvertito nei giorni scorsi è esploso con una dichiarazione di Miguel Gotor, vicinissimo a Bersani e alla minoranza interna raccolta attorno all’ex segretario, che si prepara a porre a Renzi il problema del doppio incarico di premier e leader del partito. Immaginarsi quale sarà la risposta. Alfano e Ncd sono soddisfatti. Berlusconi fa il pesce in barile, ma i suoi, pur votando contro in Senato, dicono che di Renzi ci si può fidare.
Più in generale il modo in cui il nuovo premier s’è presentato ieri a Palazzo Madama – senza un testo scritto né un vero programma, limitandosi a illustrare con toni di sfida e mai in dettaglio una serie di proposte – è stato vissuto come una sorta di profanazione. I senatori hanno capito che, non solo la vita parlamentare del Senato, ma un’intera fase politica s’avvia a chiudersi, e l’orizzonte di quella nuova è in gran parte ignoto. Era esattamente questo lo scopo che Renzi si prefiggeva: imporre uno choc, evitare lo schiacciamento della sua immagine sul versante istituzionale e far capire che non ha affatto rinunciato alla prospettiva elettorale. Con questi strumenti in mano, il nuovo premier si prepara a giocare la carta delle riforme e del governo di legislatura.
Corriere 25.2.14
Le parole non contano
di Massimo Franco
Non serve a molto analizzare la qualità del discorso di Matteo Renzi in Parlamento. Era scontato che pagasse qualcosa all’inesperienza, all’emozione, e al modo convulso e controverso col quale è approdato alla presidenza del Consiglio. Il giudizio su di lui non si baserà su quanto ha detto ieri, ma su quello che riuscirà a fare da oggi. La sua apparizione alle Camere consegna l’immagine di un leader fin troppo sicuro di sé; determinato a scuotere l’Italia; e accolto da gran parte dei senatori con un impasto di curiosità, diffidenza e perplessità: tanto più che il premier non ha nascosto di volere una riforma per svuotare il ruolo del Senato.
La fiducia nei suoi confronti, dunque, non può che essere un’apertura di credito e un antidoto alla disperazione di una classe politica e di un Paese impantanati nelle proprie contraddizioni. È un po’ troppo autoconsolatoria l’idea di un «Palazzo del potere» lento e sconnesso da una società italiana raffigurata come dinamica. Il sospetto è che ci si trovi a dover combattere una mentalità appartenente non solo alla politica ma anche a pezzi consistenti della cosiddetta classe dirigente e dell’opinione pubblica. Per questo è così difficile sradicarla affidandosi unicamente a categorie come «velocità» e «gioventù».
Renzi si propone come l’uomo chiamato a dare l’estremo colpo d’aratro a un terreno duro, a rischio di desertificazione. È convinto di farcela perché altrimenti si aprirebbe la strada delle elezioni anticipate, che un Parlamento sotto accusa vede come un attentato alla propria sopravvivenza; e perché si consoliderebbe un declino del quale si colgono già indizi drammatici. I suoi progetti, tuttavia, si sono rivelati così indeterminati da lasciare uno sconcerto diffuso. Più che un programma è stata illustrata una lista di titoli, elencati con una miscela di passione, confusione e propensione all’azzardo.
Il fatto che il capo del governo si dia delle scadenze temporali è positivo: è un segno di coraggio. Anche se probabilmente non ha alternativa, dopo avere accusato il predecessore, Enrico Letta, di avere perso tempo: un ritardo che le oscillazioni del Pd renziano hanno prolungato. Ma il segretario ha dalla sua l’appoggio quasi unanime e intimidito del proprio partito; quello del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano; e, per ora, regge l’asse istituzionale con Forza Italia sulla riforma elettorale. Non è poco.
Politicamente, lo stato di necessità e il paracadute berlusconiano sono una sponda solida, e aprono davvero orizzonti di legislatura. Ma in parallelo tolgono qualunque alibi al presidente del Consiglio che, dopo aver voluto fortemente Palazzo Chigi, adesso deve «fare». Se fallisce, ammette, la colpa sarà esclusivamente sua. Nessuno ne dubita. Ha promesso di spazzare via il passato e lo ha fatto con l’aggravante di una vistosa assenza di umiltà. Le sue parole sono apparse un ibrido tra un programma di governo e un comizio elettorale. C’è solo da sperare che alla fine prevalga il primo e non il secondo: se lo augurano tutti, per l’Italia.
Il Sole 25.2.14
Troppa genericità
Le proposte ci sono, non le coperture
di Fabrizio Forquet
Dal punto di osservazione del Sole 24 Ore ascoltare il discorso di Matteo Renzi è un po' una sofferenza. Ti impone, infatti, un duro sforzo per cercare di andare oltre la patina di genericità e individuare le proposte di merito. Una gran fatica per chi è abituato a giudicare sulla base dei numeri e della concretezza. E alla fine un senso di delusione resta: perché nello sfrontato monologo di Renzi le buone proposte non mancano, ma sono declinate attraverso molte semplificazioni e senza la dovuta attenzione (anche nella replica in tarda serata) alla responsabilità di indicare le necessarie, e cospicue, coperture finanziarie.
È certamente una buona proposta quella di affrontare il taglio del cuneo fiscale con un intervento a doppia cifra. Ma qualche dettaglio in più su come farlo Renzi avrebbe dovuto darlo. A cominciare dal significato di "doppia cifra": una cosa è un taglio di 10 punti percentuali (vale 30 miliardi) un'altra un taglio di 10 miliardi. C'è una bella differenza. Sulla copertura, poi, non basta riferirsi genericamente alla «spending review e non solo», perché su questo punto il governo uscente ha di fatto rotto il rapporto di fiducia con gran parte della rappresentanza del mondo del lavoro e dell'impresa. È avvenuto quando, dopo le promesse estive, ci si è accorti che nella manovra le risorse disponibili per il taglio delle tasse per aziende e lavoratori erano poco più che simboliche. Ripetere quell'esperienza oggi sarebbe suicida.
Positivo, ancora di più, l'impegno a pagare «la totalità» dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Sarebbe un atto dovuto in un Paese normale. Ma l'Italia non lo è e quindi anche questo impegno, per essere credibile, avrebbe meritato qualche genericità in meno. Renzi parla di «totalità» dei debiti, ma in realtà né lui né il ministro Padoan possono oggi dire quant'è l'ammontare di quello stock. Anche perché il monitoraggio del Mef che doveva essere chiuso a settembre ha prodotto una risposta delle Regioni e degli enti locali talmente lenta da aver accertato per ora solo 3 miliardi sui circa 80-100 miliardi di cui parlano le stime. Perciò, invece di fare riferimento a una presunta «totalità», Renzi avrebbe fatto meglio a rilanciare esplicitamente il già pronto piano Bassanini, che potrebbe permettere di liquidare una tranche aggiuntiva di debiti per 25 miliardi.
Bene anche l'allargamento delle garanzie al credito per le Pmi, così come il piano per l'edilizia scolastica. Anche qui interventi da «miliardi» e mancanza di dettagli. E di verità: perché le modifiche al patto di stabilità interno non sono a costo zero. E se fino ad oggi sono state fatte con grande prudenza non è per illogica follia ma perché la lente dell'Unione europea su questo è molto attenta.
Più complessivamente Renzi ha confermato l'obiettivo di procedere in pochi mesi a riforme fondamentali come il lavoro, il fisco, la pubblica amministrazione, la giustizia, oltre a quella delle istituzioni. Ma nulla di più il premier ha detto sul merito di quelle riforme.
Sul fisco in particolare ha sorpreso, dopo le polemiche sollevate dalle parole del sottosegretario Delrio, la totale assenza di riferimenti alla questione della tassazione dei Bot. Sulla giustizia ottimo il riferimento alla revisione dei Tar e ai tempi della giustizia civile, ma sul penale il richiamo demagogico alle vittime dei pirati della strada è sembrato un tentativo di non parlare dei problemi veri. Sul lavoro poco più di un riferimento - per altro talmente doroteo da risultare incomprensibile - su un «Piano per il lavoro che, modificando uno strumento universale a sostegno di chi perde il posto, interverrà attraverso nuove regole normative, anche profondamente innovative». Cosa ha in mente davvero Renzi? Perché un assegno universale per chi perde il lavoro può valere fino a 30 miliardi, non si può lasciare la questione nella sospensione di una frase tutta da interpretare.
Forse – parafrasando il film di Richard Brooks – «è lo stile di Renzi bellezza, e tu non puoi farci niente». Ma il salto dallo straordinario coagulatore di consensi delle primarie a un presidente del Consiglio che illustra in Parlamento con concretezza e credibilità il suo programma di governo, Renzi non lo ha ancora fatto. L'auspicio è che al di là di una retorica attenta al consenso, i piani operativi per attuare le misure annunciate siano già in fase avanzata. Una speranza, perché questa potrebbe davvero essere l'ultima chance.
Il Sole 25.2.14
Il sindaco che si è fatto premier è convincente solo in parte
Manca per ora il salto di qualità istituzionale. Alcuni aspetti positivi e molte zone d'ombra
di Stefano Folli
S i può apprezzare o no il premier-segretario-sindaco. Si può dare un giudizio scettico sul suo intervento a Palazzo Madama ovvero valutarne il profilo innovativo, la capacità di rivolgersi ai cittadini-elettori piuttosto che ai senatori che lo ascoltavano senza particolare trasporto (e si capisce, visto che sono destinati tutti all'estinzione, come il presidente del Consiglio ha ricordato loro senza mezzi termini).
Si può in altri termini esprimere delusione oppure mantenere inalterata la fiducia nell'uomo nuovo della politica italiana. Un punto tuttavia va riconosciuto. Ieri a prendere la parola era Renzi, il personaggio insieme spregiudicato e sognatore che abbiamo imparato a conoscere in questi mesi con i suoi pregi e i suoi difetti. Non ha parlato un premier ormai calato nel suo ruolo istituzionale e capace di descrivere un convincente orizzonte programmatico a sostegno della sua ambizione. Un orizzonte fatto di annunci, sì, ma soprattutto di soluzioni. Niente politica estera, ad esempio: una mancanza piuttosto grave.
Coerente con se stesso, Renzi lo è. Non ci sono dubbi al riguardo. Ma anche rimasto idealmente a Palazzo Vecchio. Da sindaco di Firenze a sindaco d'Italia. Molti sostengono che questa è la sua forza: l'attitudine a rivolgersi ai mercati rionali invece che ai mercati finanziari (frase più volte ripetuta dall'interessato, nel segno di quel populismo "morbido" che è un po' la sua cifra, o se si preferisce il grimaldello con cui spera di entrare nel fortino dei Cinque Stelle e recuperare parecchi voti).
Il fatto è che ci si aspettava qualcosa di più da lui. Magari meno narcisismo, meno ammiccamenti e più concretezza. Meno fuochi mediatici e qualche cifra solida. Quanto costano le riforme annunciate e gli interventi promessi? Qui Renzi aveva il dovere di essere chiaro proprio per rivelarsi credibile. Viceversa è apparso evasivo. Un sito, l'Huffington Post, calcolava in cento miliardi di euro il costo di tutte le promesse contenute nel discorso programmatico. Magari non è il calcolo giusto, eppure sarebbe stato auspicabile che il premier fosse meno vago sul nodo delle risorse e dei conseguenti tagli alla spesa. Anche per non dare l'impressione che la nuova Italia annunciata sarà tutta a costo zero. Una rivoluzione indolore che non incide sul consenso elettorale, non provoca aree di scontento, non divide il paese.
In fondo ieri il giovane presidente era chiamato a dare l'esatta misura di se stesso. Si trattava per lui di affrontare il discorso più importante della sua breve ma tumultuosa vita politica. Il discorso che lo avrebbe consacrato da segretario di partito a uomo delle istituzioni. Invece il tentativo è rimasto a mezz'aria. O forse Renzi stesso, l'eterno sindaco, non ha compreso l'importanza della posta in gioco. Ha parlato a Palazzo Madama quasi fosse l'ospite di una trasmissione televisiva. Uno stile giustificabile se fossimo alla vigilia delle elezioni politiche. Invece no, anche se la durata di questa legislatura, che Renzi promette lunga, è legata a fattori oggi imprevedibili.
Oggi e domani il nuovo governo otterrà la fiducia senza la minima inquietudine. Subito dopo il sentiero è destinato a inerpicarsi. Si vedrà quanto peseranno gli annunci di queste ore. E si capirà se il premier-sindaco predilige girare l'Italia in un permanente "tour" elettorale, come ha adombrato. Oppure se intende rimboccarsi le maniche a Palazzo Chigi.
Corriere 25.2.14
«Scusate, non ho l’età»
Ma l’Aula resta fredda
di Gian Antonio Stella
«Non vorrei iniziare con una citazione colta…». Oddio: Kierkegaard? Sommerfeld? Schopenhauer? No: «… della pur bravissima Gigliola Cinquetti…». Sai che importa, a Matteo Renzi, delle ironie sulla sua «citazione colta»? Mica è venuto a parlare ai senatori. Quelli devono solo (o quasi) votargli la fiducia. Fine.
Ma lui è al Paese che parla. Alla gente davanti ai televisori. Al pubblico della «diretta», della radio e dei telegiornali.
Non per altro, rompendo una tradizione consolidata, si è rifiutato di mettere il discorso per iscritto. Dettaglio che obbligherà il presidente del Senato, Pietro Grasso, a sospendere la seduta per un tempo interminabile in modo da consentire ai dimafonisti di sbobinare e trascrivere l’intervento così che il premier possa portarlo alla Camera per metterlo a disposizione dei deputati. Meglio pochi appunti. Da seguire senza ingessature. Meglio una chiacchierata a braccio. Per segnare anche lì lo stacco con le tradizioni. I riti. Le forme inamidate. Le spagnolesche cortesie. Uffa!
Ma certo, esordisce col doveroso salamalecco: «Signor Presidente del Senato, gentili senatrici, onorevoli senatori, ci avviciniamo a voi in punta di piedi, con il rispetto profondo…». Due minuti, però. Poi, dopo aver sottolineato il vecchiume con cui ha a che fare («riflettevo stamattina sul fatto che io non ho l’età per sedere nel Senato») e aver gettato sale con un linguaggio di franchezza, al limite della brutalità sulle ferite dell’Italia («un Paese arrugginito, impantanato, incatenato da una burocrazia asfissiante, da regole, norme e codicilli che paradossalmente non eliminano l’illegalità») va dritto a prendere di petto gli interlocutori: «Comunico fin dall’inizio che vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’Aula».
«Tié! Tocchiamoci le palle», sbotta Roberto Calderoli. «Apprezzo che questa dichiarazione abbia suscitato l’entusiasmo del senatore Calderoli», ironizza lui, «ma alla perentorietà di questa affermazione corrisponde la consapevolezza che quello che stiamo vivendo è un momento in cui o si ha il coraggio di operare delle scelte radicali e decisive, oppure non perderemo soltanto la relazione tra di noi, ma anche il rapporto con chi da casa continua a pensare che la politica sia una cosa seria, che la politica sia ciò che di più grande ha un Paese…». Politica! Musica, per le orecchie di tanti…
Un siparietto che proseguirà fuori dall’Aula: «Comunque è un grande», ridacchierà sarcastico il senatore leghista, «quando uno riesce a farsi votare da due senatori a vita e da 298 senatori a morte è un grande!». Lucio Barani, il senatore turbo-craxiano diventato famoso anni fa, da sindaco di Aulla, per avere concesso la cittadinanza onoraria «ai cromosomi X e XY dei maschi di casa Savoia», dice che ha già in mente di recuperare un gruppo di fattucchiere guidato dalla maga Mirka, che a suo tempo reclutò con una delibera comunale intestata così: «Oggetto: consulenza rimozione sfiga cosmica cagionata alla Provincia di Massa Carrara da Iosif Stalin, Pol Pot, Giovanni Quarantillo e altri comunisti toscani.»
Ma non sono solo loro due, a borbottare, scuotere la testa e agitarsi sugli scranni. Tra gli stessi compagni del Pd l’entusiasmo per le parole di quello che è non solo il nuovo capo del governo ma anche il segretario del partito non è affatto altissimo. Anzi. I grillini, sia pure irritatissimi per la decisione di Renzi di andarli subito a provocare sulle elezioni evitate «per paura di perdere», gongolano. Spiegherà Nicola Morra: «Vedere quelle facce… In tanti non solo non hanno applaudito mai, ma facevano certe smorfie…». Piuttosto, sottolineano vari esponenti del Movimento 5 Stelle sollevando il sopracciglio, «che modi sono, quelli di tenere la mano in tasca? Dov’è il rispetto per le istituzioni?». Glielo rinfacceranno anche i leghisti chiedendo cosa siano mai questi toni così spicci e informali. Risponderà irridente: «Mi rimproverate di usare qui un registro diverso? Forse perché voi siete sempre più lontani da come parlano le persone fuori da qui». Giuliano Ferrara, mentre ancora il premier macina tutti i temi sui quali ha costruito la sua rapidissima ascesa fino alla conquista del partito e di Palazzo Chigi, twitta sbuffando: «Un discorso da consiglio comunale di Campi Bisenzio!».
Renzi cita «centralità della scuola», la necessità di «restituire valore sociale all’insegnante» e di un «cambio della forma mentis»: «Ci avete mai parlato con gli insegnanti?». Sghignazzata fuoricampo: «Tu ci parli perché una l’hai sposata!». Lui tira dritto. Spiega che chiederà a tutti i sindaci un panorama dell’edilizia scolastica per «un piano straordinario dell’ordine di qualche miliardo di euro» perché come dice Renzo Piano occorre «rammendare i nostri territori, rammendare le periferie». Denuncia che «dal 2008 al 2013, mentre qualcuno si divertiva, il Pil ha perso 9 punti percentuali. La disoccupazione giovanile è passata dal 21,3 al 41,6 per cento. La disoccupazione è passata dal 6,7 per cento al 12,6 per cento. Non sono i numeri di una crisi: sono i numeri di un tracollo…». Spiega che «la crisi ha il volto di donne e di uomini, e non di slides». Promette un piano del lavoro. Invoca «un Paese vivo, ricco, aperto e curioso» che «non ha paura di attrarre investimenti». Lamenta l’indifferenza davanti a certe classifiche: «Siamo al 126° posto nel «Doing business index»… Accusa il «retropensiero» di tanti burocrati: «i governi passano, i dirigenti restano…».
E mano a mano che va avanti garantendo «una riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale» e la spedizione a casa di tutti i dipendenti pubblici e dei pensionati della dichiarazione dei redditi precompilata e una riforma della giustizia civile e delle regole perché «lavorano più, negli appalti pubblici, gli avvocati che i muratori», crescono le perplessità di chi come Linda Lanzillotta chiede: «Ma i tagli? Possibile che non parli di tagli?». Per non dire dell’insofferenza nelle opposizioni: «Un minestrone male assortito. Un intervento tutto giocato sulla demagogia, l’ilare e il banale… Titoli, titoli e titoli…», sbuffa Altero Matteoli. «Almeno una citazione kennediana ce la poteva dare», ride Maurizio Gasparri. «Un terzo di impegni, un terzo di promesse e un terzo di speranze: è un cocktail dal gusto indefinito», dice Maria Stella Gelmini.
Tutte obiezioni che, potete scommetterci, Matteo Renzi ha messo in conto. Forse un po’ meno la conta degli applausi. Pochini, rispetto ad altri insediamenti. Non bastasse, il più forte e più lungo riservato alla citazione, obbligata per garbo istituzionale, di Enrico Letta. Seccante se, al di là della necessità di incassare la fiducia, peraltro inferiore alle aspettative, gli importasse davvero, di quanto accade in Senato. E non piuttosto di come gli elettori suoi (e quelli altrui) possano reagire guardando lui, l’uomo di Palazzo Chigi, strattonare già all’esordio, perfino sul «vero rispetto» per Giorgio Napolitano, i signori senatori della Camera alta…
La Stampa 25.2.14
Se il benessere uccide la crescita
Le economie avanzate sono in rallentamento da 50 anni: è l’enigma al centro del nuovo libro di Luca Ricolfi
Un intervento dell’autore
Sono in molti a pensare che in Italia, in Europa, più in generale nei paesi avanzati, il problema della crescita sia diventato tale solo sette anni fa, quando la grande crisi pose fine a un lungo periodo di prosperità, se non di euforia. E infatti, fino ad allora, anche tra gli studiosi il problema dominante è sempre stato un altro: non già come far crescere i paesi ricchi, ma come far sì che anche i paesi poveri potessero conoscere i benefici della crescita, fino a raggiungere i livelli di benessere dei paesi ricchi.
Quel modo di ragionare, ora che molti paesi ex poveri galoppano come gazzelle, e molti paesi ricchi strisciano lenti come lumache, ci pare improvvisamente sbagliato. Ma in realtà era già sbagliato prima. Uno sguardo d’insieme a mezzo secolo di storia delle economie avanzate (i paesi Ocse), dalla fine degli anni 50 all’inizio della crisi, permette infatti di notare due cose.
Primo. L’insieme delle economie avanzate è in rallentamento da mezzo secolo, e il ritmo di rallentamento è di quasi un punto percentuale al decennio. Detto crudamente: già prima della crisi del 2008-2013 le economie avanzate erano a un passo dalla stagnazione. Un trend perfettamente in linea con il «modello di Solow» (formulato fin dal 1956), ma stranamente ben poco notato dagli osservatori.
Secondo. Negli ultimi cinquant’anni, ogni periodo ha sempre avuto le sue lumache e le sue gazzelle, con paesi che a mala pena riuscivano a crescere a un ritmo dell’1% e paesi che correvano al ritmo del 5, 6, 7, e persino 8%. E questo nonostante la comune appartenenza al club delle economie avanzate.
Oggi si discute molto di exit strategy, ossia di come uscire dalla crisi e tornare a crescere. Ma forse dovremmo cominciare a renderci conto che la crescita era un enigma e un problema già prima della crisi. Se non riusciamo a capire come mai già da diversi decenni stavamo crescendo sempre più lentamente, e come mai certi paesi correvano tanto più in fretta di altri, diventa ancora più arduo trovare una via di uscita. Ecco perché, anziché perdermi nel labirinto degli anni di crisi (2008-2013), ho provato a studiare che cosa stava succedendo prima di essa, e più precisamente nell’ultimo e relativamente lungo periodo di crescita ininterrotta dei paesi ricchi, ossia dal 1995 al 2007. I risultati hanno stupito anche me, ma il più sorprendente è il seguente: di tutte le forze che possono influenzare la crescita, favorendola o ostacolandola, quella di gran lunga più importante, così importante che da sola conta più di tutte le altre messe insieme, è semplicemente il benessere che un paese ha raggiunto. Attenzione, però, il benessere conta non perché stimola la crescita, bensì perché la spegne. A parità di altre condizioni (tasse, istituzioni, capitale umano), un paese cresce tanto di più quanto più è lontano dal benessere, e tanto di meno quanto più alti sono gli standard di benessere che ha raggiunto.
Ma crescita significa precisamente aumento del reddito pro capite, dunque del benessere. Di qui una conseguenza sconcertante: la crescita genera dal proprio interno le forze che possono spegnerla. Questo significa che un paese che voglia tornare a crescere, o crescere di più che in passato, ha tante meno possibilità di riuscirci quanto più è «arrivato», e deve quindi più che mai agire sulle altre forze e contro-forze che influenzano la crescita: più investimenti in capitale umano, migliori istituzioni di mercato, meno tasse sui produttori.
Resta la domanda: perché il benessere rallenta la crescita?
La risposta tradizionale è che non è il benessere in sé la causa del rallentamento, ma è il fatto che i paesi con il maggiore benessere sono anche quelli più vicini alla «frontiera tecnologica» (sono equipaggiati con le migliori tecnologie), il che – contrariamente a quel che verrebbe da pensare lì per lì – non costituisce un vantaggio ma un handicap. Se io sono un paese arretrato, posso imitare i paesi più avanzati, ma se sono già un paese avanzato, allora non ho nessuno davanti a me, nessuna possibilità di copiare prodotti o importare tecnologie.
Questa spiegazione, sfortunatamente, pare essere incompatibile con i dati. Dunque dobbiamo cercarne un’altra, o quantomeno completarla con una spiegazione più ricca. Ebbene, a mio parere la ragione fondamentale per cui il benessere frena la crescita è che, man mano che diventano ricche, le società modificano radicalmente la propria cultura, come rettili che cambiano pelle. Alcuni aspetti di tale modificazione sono sotto gli occhi di tutti, altri sono meno evidenti, ma il punto è che quasi tutti militano contro la crescita, e lo fanno per l’elementare ragione che, in modo diretto o indiretto, innalzano i costi di produzione.
Nelle società avanzate il lavoro costa di più, spesso molto di più, e non solo perché sul lavoro grava ogni sorta di tasse e contributi, ma semplicemente perché una società del benessere è una società che paga bene i suoi lavoratori e minimizza il ricorso al lavoro nero. Nelle società avanzate le imprese sostengono extra-costi enormi legati a quello che, quantomeno nei casi virtuosi, è semplicemente il prezzo della civiltà: leggi per la sicurezza sul luogo di lavoro, norme di protezione dell’ambiente, regole di smaltimento dei rifiuti, obblighi di certificazione, adempimenti e controlli a tutela dei consumatori, tutte cose che nei paesi arretrati non ci sono, o esistono allo stato embrionale. Nelle società avanzate, infine, l’offerta di lavoro è relativamente scarsa, perché il valore del tempo libero è più alto, una parte della disoccupazione è volontaria (i nativi lasciano i posti peggiori agli immigrati), il bisogno di auto-miglioramento è più tenue. O forse sarebbe meglio dire: quel bisogno è più circoscritto, più concentrato su determinate fasce di popolazione, come gli immigrati e gli strati più umili della società, i soli ancora disposti a compiere sacrifici e a differire le gratificazioni, proprio come noi negli anni 50 e 60.
Ma una società in cui il tempo dell’intrattenimento supera quello del lavoro, la popolazione inattiva eccede quella attiva, i settori assistiti soffocano quelli che creano ricchezza, il bisogno di protezione prevale sulla volontà di rischiare, una società, insomma, in cui la cultura dei diritti ha preso definitivamente il sopravvento su quella dei doveri, è una società che ha cambiato pelle. Una simile società non può crescere, o non può crescere come un tempo, innanzitutto perché ha perso l’energia per farlo.
Possiamo dolercene, perché preferivamo la vita dura ma attiva dell’era dei miracoli economici. Oppure possiamo pensare tutto questo come conquista di civiltà, come il segno che le nostre sono società «arrivate» (una visione, quest’ultima, non estranea al pensiero di Keynes, che l’ebbe a tratteggiare già nel 1928, nel saggio Prospettive economiche per i nostri nipoti).
Quello che non possiamo fare, invece, è non vedere che il nostro mondo è profondamente cambiato, e che il nemico numero uno della crescita è il tipo di società che la crescita stessa ha prodotto. Una società che, nel mio libro, ho provocatoriamente definito una «società signorile di massa», perché la condizione signorile, il vivere senza produrre, vi occupa uno spazio sempre più grande, e la condizione servile, il lavorare duro per tutti gli altri, non ne è affatto scomparsa, come attesta la condizione degli immigrati.
Sicché, dopo aver scritto che per tornare a crescere dobbiamo agire sui tre motori fondamentali – qualità del capitale umano, buone istituzioni economiche, poche tasse sui produttori – il dubbio che mi assale è se tutto questo possa bastare, e se il nostro vero problema non sia piuttosto il tipo di civiltà in cui accettiamo di vivere. Una civiltà non così ricca da potersi fermare, appagata e soddisfatta di sé. Ma, al tempo stesso, una civiltà in cui il parassitismo e la fuga dalla responsabilità sono andati così avanti da compromettere ogni sogno di migliorare le nostre vite.
Mi chiedo se non dovremmo, davvero, provare a voltar pagina.
l’Unità 25.2.14
Abu Omar, tutti assolti «Vale il segreto di Stato»
La Cassazione ribalta la sentenza del 2013
L’azione penale contro l’ex capo del Sismi, il suo vice Mancini e tre agenti «non poteva essere proseguita»
«La verità viene sempre fuori»
di Massimo Solani
«La inconfutabile ed obiettiva prova della mia innocenza è contenuta negli atti coperti da segreto di Stato». L’ex direttore del Sismi Nicolò Pollari parlava così all’indomani della condanna a dieci anni, nel processo d’appello bis, per il caso Abu Omar, l’ex imam di Milano rapito il 17 febbraio 2003 da un commando composto da uomini della Cia e agenti dei servizi italiani e poi «deportato» in Egitto dove fu torturato e incarcerato. Una tesi accolta dalla Cassazione che ha annullato senza rinvio la condanna di Pollari, quella del suo vice Marco Mancini (9 anni) e di tre agenti del servizio segreto militare, Luciano Di Gregorio, Giuseppe Ciorra e Raffaele Di Troia, che nel processo d’appello bis erano stati condannati a sei anni. Per la Cassazione, infatti, le condanne vanno annullate «perché l’azione penale non poteva essere proseguita per l’esistenza del segreto di Stato». Un epilogo in qualche inevitabile dopo che un mese fa la Consulta, pronunciandosi sull’ennesimo conflitto di interessi sollevato dal governo (dai governi, in realtà, visto che gli esecutivi Berlusconi, Monti e Letta hanno mantenuto la stessa linea sulla questione del segreto di stato sull’operazione di «extraordinary rendition») contro la Cassazione che aveva cancellato le prime assoluzioni e contro la Corte d’Appello di Milano che aveva emesso le condanne nel procedimento bis, aveva annullato gli atti dei processi dando così ragione all’esecutivo sull’apposizione del segreto di stato e riportando le lancette ai tempi della prima assoluzione. Una decisione ben più radicale rispetto a quella presa dalla Consulta nel 2009 che, accogliendo il ricorso del governo, aveva stabilito che c’era stata violazione del segreto di stato ma che la sua opposizione non poteva comunque vietare le indagini bensì il solo utilizzo degli atti riservati. Una decisione che, a quattro anni di distanza, gli ermellini in gennaio hanno completamente ribaltato sostenendo che il segreto di stato vale per tutte le attività degli 007, perché «sarebbe arbitrario, e dunque invasivo delle prerogative» del governo, «l’assunto secondo il quale il vincolo del segreto dovrebbe intendersi circoscritto alle sole operazioni che avessero coinvolto ufficialmente i Servizi nazionali e stranieri». Dunque, sì all’apposizione del segreto non solo per le operazioni deliberate «ufficialmente» dai vertici dei servizi, ma anche per quelle «cogestite», come è avvenuto con la Cia, nel caso del rapimento dell’imam Abu Omar. Secondo l’interpretazione della Cassazione che aveva annullato le sentenze di non luogo a procedere, invece, il segreto non poteva essere esteso fino a coprire le condotte «extrafunzionali» degli agenti dei servizi dal momento che l’operazione non sarebbe riconducibile nè al governo nè al Sismi.
La prima sezione penale della Cassazione, che non ha accolto la richiesta del sostituto pg di Cassazione Aurelio Galasso che aveva chiesto di annullare le condanne e di disporre un nuovo processo di appello, chiude così definitivamente il lungo caso giudiziario politico relativo al rapimento dell’ex imam di viale Jenner, nel frattempo condannato nel dicembre scorso a 6 anni per terrorismo. Una operazione da inquadrarsi in quella pratica delle «extraordinary renditions» condannate anche dal Parlamento europeo come «una delle più grandi violazioni dei diritti umani avvenuta in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale». Per i giudici di appello che avevano condannato Pollari e Mancini e gli altri agenti Sismi l’uomo che era a capo del servizio segreto militare e che avrebbe dovuto «tutelare la sovranità del nostro Paese » permise, invece, «che venisse concretizzata una grave violazione della sovranità nazionale», dando «appoggio» alla Cia nel sequestro a Milano di una persona che aveva lo «status di rifugiato politico » e che, quindi, dall’Italia aveva avuto «garanzie di tutela». Secondo i giudici, inoltre, Pollari ha «promosso la cooperazione nel reato» da parte dei «compartecipi » e ha fornito «appoggio» al «progetto » di «extraordinary rendition» di Jeff Castelli, l’ex capo della Cia in Italia, condannato in un appello «stralcio» a 7 anni (23 agenti Cia sono già stati condannati in via definitiva: uno di loro, il colonnello Joseph L. Romano all’epoca comandante della Base Usa di Aviano, è stato graziato dal presidente della Repubblica Napolitano).
Dal canto suo Pollari ha sempre dichiarato di non essere stato messo al corrente dei progetti della Cia. Una versione che Robert Seldon Lady, ex capo della Cia a Milano a sua volta condannato a nove anni e poi arrestato Panama prima di essere rimpatriato negli Usa, ha smentito nella lettera con cui ha chiesto la grazia a Napolitano. «La Cassazione - commentava ieri Pollari - ha posto la parola fine, ma probabilmente quanto sostenuto da quattro compagini governative diverse avrebbe potuto indurre a riflettere un po’ di più prima e a non portare le cose fino a questo punto».
l’Unità 25.2.14
Fecondazione eterologa
Il 63% sceglie la Spagna
di Nicola Luci
«Il 63% delle fecondazioni eterologhe che si effettuano in Spagna vede coinvolte nostre connazionali. Non si tratta di turismo madi vera e propria emigrazione riproduttiva». È quanto spiegato dal direttore Istituto di Medicina e Biologia della Riproduzione Hera di Catania, Antonino Guglielmino, nel corso del Convegno della Società Italiana di Fertilità e sterilità e Medicina della Riproduzione (Sifes). Il «proibizionismo» di donazione dei gameti non impedisce, alle italiane, la fecondazione eterologa che attende di essere sdoganata come tanti altri divieti già caduti. «Vacanze» inventate ma sin troppo costose. «Il business che ne deriva è enorme, basti pensare che in Spagna vengono effettuati 52mila cicli ogni anno di cui 11mila di ovodonazione, pratica in italia vietata e ogni fecondazione eterologa costa circa 8000 euro» prosegue Guglielmino. L’altro aspetto della questione rappresenta la sorte di centinaia di migliaia di gameti femminili il cui utilizzo è stato limitato dall’entrata in vigore della legge 40 fino al 2009, anno della sentenza costituzionale che ne ha tolto il divieto di conservazione, fermo restando però l’impedimento a utilizzarli per la fecondazione eterologa. «Il saldo è impressionante - aggiunge Guglielmino - ben 772mila ovociti sono stati distrutti nel nostro Paese al prelievo e 77.900 sono quelli attualmente criocongelati, che con il via libera della Corte Costituzionale, l’8 aprile, potrebbero diventare nuovi embrioni da donare a coppie sterili». Anche per questo il nuovo governo è chiamato a scrivere «una nuova legge sulla fecondazione assistita a partire dalle proposte dei Radicali» dice Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, a margine del convegno. «In dieci anni - ha sottolineato Gallo - i governi che si sono susseguiti hanno preferito non porre all’ordine del giorno la riforma della legge 40. Appartiene ad uno Stato di diritto e non etico l’emanazione di buone leggi per l’affermazione dei diritti di tutti i cittadini e la legge 40, ancora difesa dal governo, contraddistingue il modo di legiferare di uno Stato purtroppo etico». Nella scorsa legislatura, ha sottolineato, «sono state depositate proposte dai parlamentari radicali per la modifica della legge 40. La proposta, elaborata dunque anche dall’Associazione Luca Coscioni con giuristi ed esperti, per la riforma della legge 40, sia presto in entrambi i rami del Parlamento e divenga legge».
La Stampa 25.2.14
Treviso, uccide la madre gettandola dall’ottavo piano del palazzo
L’uomo ha chiamato il 113 confessando l’omicidio, nato dopo una violenta lite. La vittima, di 65 anni, è stata trovata esanime sull’asfalto dagli agenti
qui
La Stampa 25.2.14
Gas, affari e tradimenti
Maidan non si fida più dell’eroina “arancione”
di Anna Zafesova
La mitica treccia bionda appiccicata sui capelli ormai ridiventati scuri dopo mesi di carcere è stata forse il segno più eloquente di quanto Yulia Timoshenko fosse impreparata a tornare in libertà e in politica. Con la sua mente lucida e la volontà di ferro, la detenuta politica simbolo del regime di Yanukovich sicuramente si era prefigurata diversi scenari, trionfali, del suo ritorno. Ma la prima sorpresa l’aspettava già sul Maidan, la piazza di cui era stata eroina 10 anni fa. La sua berlina nera è stata fermata dal servizio d’ordine dei manifestanti: dobbiamo controllare l’auto. Al Maidan si arriva a piedi, attraversando barricate. Per Yulia, nonostante fosse in sedia a rotelle, non sono state fatte eccezioni: «I vecchi tempi sono finiti, per tutti», ha borbottato uno dei rivoluzionari perquisendo l’auto.
I «vecchi tempi», quelli di Yanukovich ma anche di Timoshenko, gli anni delle faide, dei clan oligarchici contrapposti, dei cambi di schieramento, di incriminazioni clamorose, intercettazioni, colpi bassi. La «principessa del gas» è stata indagata e incarcerata diverse volte. Salvo l’ultima accusa, che le è valsa sette anni e che è considerata sia in Ucraina che in Europa un pretesto per la vendetta di Yanukovich, le altre (un ricco assortimento tra tangenti, evasione fiscale, frode e abuso d’ufficio) sono tutte cadute.
Ma non è tanto un problema di ricchezze illecite: dopo gli sfarzi del clan Yanukovich eventuali trucchi di Yulia di 10 anni fa non fanno troppo scalpore. La donna che ha animato la piazza della rivoluzione arancione è considerata da molti anche colei che l’ha affossata. Dopo appena sette mesi come premier sotto il presidente Viktor Yushenko, portato al potere da lei, si è dimessa. Intelligente, decisa, carismatica, appassionata, si è rivelata però anche radicale e spericolata, pronta a sconfinare e a rompere patti, tra rischiose privatizzazioni e abile populismo. L’ex alleato la accusò di approfittare dei suoi poteri per sgravare dai debiti la sua ex società energetica. L’odio con Yushenko è arrivato a un punto tale che testimoniò contro di lei al processo.
Finora è sempre riuscita a risorgere, a uscire dalla galera, a farsi scagionare, a rivincere le elezioni. Ma forse è proprio questa sua abilità che spaventa il popolo del Maidan-2, rigoroso come ogni rivoluzione fresca di poche ore. «Yulia libera ma non potente», scandivano sul Maidan, e questa filastrocca riecheggia in quasi tutti i commenti di media e politologi. Proprio adesso che, dopo averla odiata e temuta Mosca la considera il male minore, il suo Paese la ama ma non la vuole più. «Faccia il simbolo nazionale, prenda la presidenza del suo partito, stia in parlamento, ma lasci ad altri la guida del Paese», è il senso un po’ di tutti gli editoriali come dei commenti dei militanti. Vincere due rivoluzioni sembra impossibile, perfino per la Timoshenko.
Corriere 25.2.14
Nella trincea dei filo-russi: «I nostri padri vinsero i nazisti adesso noi faremo lo stesso»
A Kharkiv si organizzano i comitati di autodifesa
di Francesco Battistini
KHARKIV (Ucraina) — Il ring è bianco, con le scritte dello sponsor Lexus e la gabbia intorno: «Ci facciamo i combattimenti a pugni nudi, vai su YouTube e li vedi…». Sul retro, due boxer che abbaiano e un lupo alla catena: un lupo vero: «L’abbiamo da tre anni, è la nostra mascotte». C’è un’Audi nera che passa tre volte sulla piazza Primo Maggio: «Il servizio di pattuglia, bisogna stare attenti…». L’Olpot Fight Club è una palazzina giallognola e di gusto zarista, di fianco all’ippodromo. Sbarrata ai curiosi. «Olpot come fortezza», dice Borislav Yagor, orgoglioso dello stemma: un Muro che non è mai crollato, uno scudo rosso, due lanciarazzi che fra spighe sovietiche incorniciano la scritta «Mmx Team» e annunciano la sfida del nuovo millennio, «Salvare la Russia!».
Fischia il vento, infuria la bufera, ossa rotte e pronti per menar: la nuova Ucraina non piace alla vecchia e nell’ultima città verso Mosca, a 40 chilometri dal confine e a poche ore dalla fine di un’era, c’è chi si sta organizzando. Teste rasate e tatuaggi falcemartellati, anelli coi teschi e nocche spellate. La roccaforte di Olpot non ha molto della spontanea protesta popolare: è un’organizzazione paramilitare, trecento nel gruppo di fuoco e un migliaio d’appoggio, più tutti quelli che a Kharkiv ci stanno. Il capo è l’ex comandante locale della polizia: Gylian Vlodimorovic, 38 anni, finito in galera per un’autobomba e un po’ di tangenti, miracolosamente scarcerato dietro cauzione (260 mila dollari) pagata da un milionario russo che ha fatto riavere a Gylian distintivo, stipendi arretrati e tante scuse. «Abbiamo le mazze da baseball, la gente. E se serve, qualche arma. I nostri padri hanno dato la vita contro il fascismo e il fascismo adesso è tornato a Kiev! Che cosa direste voi italiani, se a Roma andasse al governo gente mascherata e col kalashnikov?».
Lenin Fight Club. Febbraio rosso. Dalla Crimea al Donbass, c’è mezzo popolo che non rimpiange molto la fuga di Yanukovich, il corrotto di ieri, ma teme tantissimo il ritorno della Tymoshenko e l’arrivo dei nuovi padroni, i corrotti dell’altroieri. E per ogni statua post-sovietica che cade, ecco un comitato di difesa che insorge. Sull’infinita piazza centrale di Kharkiv, in mezzo un sottile cordone di polizia e due giganteschi galli gialli di cartapesta rimasti lì dalla festa del patrono, la nuova Ucraina e la Piccola Russia si fronteggiano da sabato. Già scisse. Dentro i palazzi del governatore e del sindaco, ormai fuggiti a casa di Putin, presidiano con gli scudi e coi bastoni i duri e puri di Maidan. «Non possiamo continuare a chiamare piazza della Libertà un posto dove c’è la statua del dittatore comunista», dice Mykola Gnatchenko, 28 anni, stomatologo: «Arrivano i carri armati di Mosca? Sappiano che questa non è la Georgia. Non esistono ucraini russi, ci sono ucraini e basta». Oleksandr Syvovol, 27 anni, odontotecnico: «Chi rimpiange la Russia ha paura di restare senza lavoro. Ma il lavoro qui non c’era neanche prima».
Bisogna fare mille passi. Dall’altra parte, intorno al monumento di Lenin, fanno barriera i violenti «titushki» e i vecchi nostalgici con la fettuccia arancione e nera, quella che sotto Stalin serviva a decorare Georgy Zhukov e tutti gli eroi dell’Armata rossa in trincea contro Hitler. La gente è poca, per la verità, e nel freddo battono più protesi che denti: «A noi non importa d’entrare in Europa! — gridano Ludmyla Barabasha e Svetlana Garnga, 58 e 53 anni —. Siamo venute qui trent’anni fa da Mosca, perché ci sentivamo ucraine. Abbiamo cacciato i nazisti per trovarci governati dai tedeschi?». «Io sono appena stato in Grecia — dice Leonid Stryzhko, 70 anni, ex deputato di Yanukovich — e ci sono le strade piene di gente che fa la fame. Sono stato in Polonia e ho visto che comanda solo il dio euro. Le radici dell’Ucraina non sono state piantate dagli americani: voi ci volete tutti uguali, non capite che si salverà chi resterà fedele a se stesso».
E’ il confine ultimo della terra di confine. La seconda città del Paese, eppure dimenticabile per Kiev: è difficile volare dalla capitale a Kharkiv, la mattina, perché molti aerei fanno prima scalo a Mosca. A Kharkiv si progettavano i razzi sovietici che andavano nello spazio, e si formavano gli intellettuali da mandare a Mosca. Qui veniva a svacanzare l’ultimo Breznev e qui, sabato, è apparso l’ultima volta il presidente deposto. Qui era detenuta la Tymoshenko e qui, mentre lei tornava a Kiev, si sono riuniti i governatori dell’Est per decidere se separarsi dalla capitale. Urss Memories, difendere le statue non è tutto: sul fondo della piazza, c’è il putiniano palazzo Gazprom che fa lavorare un bel po’ di città. E appena fuori, tra placche della Rivoluzione d’Ottobre e bandiere rossodorate, macina utili la più grande fabbrica di trattori della regione: 60 per cento d’export in Russia, proprietà legata alla famiglia Eltsin. «Nell’Ucraina dell’ovest si fanno le rivoluzioni, qui a Est facciamo i milioni!», una settimana fa è sceso in piazza ad arringare il sindaco, Gennady Kernes detto «Gena». Ama le sbruffonate, Gena, e a un giornalista belga che gli chiedeva perché fosse contro l’Europa, una volta mostrò un maglione rosa e rispose: «Perché avete i matrimoni gay! E crescete i figli gay! E volete che ci vestiamo tutti di rosa!...». Grande amico di Yanucovich, il sindaco. Sabato se l’è trovato davanti, terrorizzato e in fuga. Non ha perso un attimo: ha noleggiato un’auto, l’ha mollato ed è scappato pure lui.
Repubblica 25.2.14
Cina La città del sessoChiude la metropoli-bordello di Dongguan dove esercitavano 300 mila prostitute
Nella capitale del vizio Xi Jinping ha fatto cancellare duemila aziende del settore a luci rosse
Un’operazione moralizzatrice per coprire scandali e corruzione
di Giampaolo Visetti
Il vento di Pechino si è alzato: se non si calma presto, in Cina non è finita solo per noi». La signorina Yu, fino a metà febbraio, era una delle 300 mila prostitute di Dongguan. Ora è disoccupata e passa il giorno allo smartphone con le colleghe. Quaranta amiche, giovanissime, tutte prelevate nello stesso villaggio del Guangxi: prima la fabbrica, poi la sauna per uomini d’affari. Una vita senza scelte. «Meglio però — dice — della miseria in campagna, o delle violenze nella catena di montaggio». I neon del salone dove riceveva i clienti sono spenti. L’intera via è al buio e quasi deserta. Chiuse le bancarelle del cibo di strada, piacere sublime dopo un incontro. Sbarrate le botteghe di cosmetici, gioielli, fiori, vestiti e cellulari: nessuno acquista più regali per le ragazze. Difficile anche trovare un taxi: la sera viaggiavano solo per loro. Abbondano invece i posti in offerta sui voli per la città e nei 90 hotel di lusso le camere a prezzi stracciati restano vuote.
Sulla metropoli-bordello più grande del mondo, dove il business del sesso occupava oltre un milione di abitanti, il coprifuoco è calato anche di giorno. Un residente su dieci è senza lavoro. Molte fabbriche sono ferme, gli operai se ne vanno a Chongqing. È l’effetto del ciclone “Spazzare via il giallo”, scatenato dal partito contro i «tre vizi di massa»: prostituzione, gioco d’azzardo e droga. Battaglia ciclica quanto vana, dopo che Mao nel 1949 ha dichiarato illegali le millenarie tentazioni delle dinastie imperiali, confinate ora ufficialmente a Macao.
Xi Jinping però ha un pugno diverso: nella città del vizio ha inviato 6700 agenti, perquisito 25 mila locali a luci rosse, chiuso 2 mila aziende e promesso un assedio di tre mesi. Rimossi per «complicità» capo dellapolizia e vice sindaco. Decine di funzionari sono stati costretti a pubbliche scuse. Solo 970 gli arresti: qualcuno ha avvisato in tempo gli amici che il nemico era alle porte. Tivù e giornali di Stato, autorizzati ed ignorare gli ordini, hanno peròmostrato branchi di concubine in ginocchio, costrette a confessare in diretta la colpa.
E da Dongguan, improvvisamente eletta dalla propaganda luogo-simbolo «della decadenza capitalista e della deriva morale», la guerra «per la virtù» dichiarata dai nuovi leader dilaga ora in tutta la Cina. Sotto attacco decine di migliaia di sale massaggi, saune, karaoke, parrucchieri e alberghi di 16 megalopoli e 9 regioni, dall’estremo nord dellaManciuria al profondo Sud dello Yunnan. Una mobilitazione spettacolare, rivolta contro un esercito di sei milioni di prostitute e un giro d’affari da 120 miliardi di euro all’anno. La paura di quindici giorni di «correzione e rieducazione » è tale che nell’epicentro del sesso a pagamento la materia prima risulta letteralmente scomparsa e i petulanti portieri degli alberghi, famosi e discreti procacciatori, giurano di non aver mai visto una donna in vita loro. «All’inizio dei controlli — dice Ou Yunqui, gestore del più elegante centro benessere di Dongguan — non capivamo il clamore dei media. Tutti devono mangiare e ad ogni cambio di potere, qui segue un riassetto anche nel settore del sesso. Questa volta però è diverso».
La capitale cinese del vizio rischia il fallimento e non è una notizia solo per gli appassionati del genere. Per trent’anni è stata la dorata “fabbrica del mondo” sul delta del fiume delle Perle, Guangdong, un’ora sia da Shenzhen che da Hong Kong. Migliaia di stabilimenti, dalle ciabatte all’iPad, 4 milioni di operaie, di migranti e di autobattezzati businessmen, il quadruplo dei residenti. La nuova e spaventosa frontiera dell’Asia: crescita media 18% all’anno, punte del 19,5%. Lo spartiacque nel 2008, quando l’Occidente è affondato. Export paralizzato, capannoni smantellati, prezzo degli immobili crollato, padroni e dipendenti in fuga verso il nuovo low cost delle tigri economiche del Sud-est. «Non c’era scelta — dice il costruttore Ye Weijie — abbiamo dovuto riconvertire ». Così, con il sostegno pragmatico del partito e la protezione complice della polizia, è nato il bordello occulto della Cina, centro di svago della regione più produttiva e sola del pianeta, ma pure colosso finanziario. Sei miliardi di euro all’anno, il 30%del valore dei servizi. «Solo grazie al sesso — dice la sociologa dell’Accademia delle scienze Li Yinhe — Dongguan e il Guangdong nel 2013 hanno mantenuto un Pil al più 9%. Obbiettivo vitale per la carriera di funzionari e poliziotti, ma pure per la stabilitànazionale del partito, o per le speranze di ripresa in Occidente. Se si spengono le luci rosse, si scenderà sotto il 7%: le pressioni per legalizzare la prostituzione saranno fortissime».
Dopo l’iniziale consenso popolare, contro la purga moralesi è scatenato il web. Milioni i cinesi che, aggirando la censura, incitano Dongguan a «resistere » e criticano «un potere che mette sotto chiave anche le parti basse». Altri ironizzano: «il vero “sogno cinese” non può finire », oppure «la solita ciotola d’acqua per raffreddare il vulcano ». IlQuotidiano del popolorisponde che difendere il commercio del sesso è «una disperata bestemmia contro la civiltà », ma tra i signori della Città Proibita cresce per la prima volta la sensazione di aver stappato un vaso difficile da richiudere. «Tutti i cinesi — dice l’attivista Wu Jiaxiang — sanno che corruzione e prostituzione sono le due facce di un unico affa-re di Stato. Alimentano crescita e carriere pubbliche, assorbono lo sradicamento collettivo, consegnano a polizia e dirigenti un enorme potere di ricatto. Le donne arrestate e umiliate sono vittime e schiave: prima gli stupri in fabbrica, poi il bordello, infine il carcere».
Per questo i cinesi, con il cuore, sono ora dalla parte delle concubine disoccupate di Dongguan e chiedono a Pechino di «togliere i denti alle tigri vere del Paese». Sei su dieci, secondo un sondaggio riservato che allarma la leadership, si dicono «disposti ad accoppiarsi con uno sconosciuto per denaro ». «Ma il problema — dice l’antropologa Li Sipan — non è il virus del consumismo, è la Cina che non può rallentare. Deporta 400 milioni di migranti, costruisce decine di megalopoli- fabbrica, divide le famiglie: una massa di sfruttati condannati all’isolamento e una massa di schiave che devono scegliere tra le molestie sul posto di lavoro, per 300 euro al mese, o l’antico mestiere che ne assicura il triplo. Non c’è bisogno di campagne moralizzatrici, ma di un sistema che rispetti realmente tutti gli individui».
Gli ultimi dissidenti a piede libero, concordano: Dongguan per il boom del vizio esentasse, come Bo Xilai per la lotta per il potere, o l’ex capo della sicurezza Zhou Yongkang per la guerra alla corruzione, o i brand stranieri per quella anti-lusso, sono solo «i simboli fisici di un regime che riafferma l’esclusiva sui valori collettivi e sulla licenza di auto-ripulirsi dall’alto».L’“americano” Xi Jinping sulle orme di Mao, che sollevò le masse contro i vizi che demolirono l’impero, edificando poi il proprio sui medesimi abusi. «Spazzare via il giallo», colore che i cinesi associano al meretricio, nel Guangdong sidice serva così a garantire la stabilità di un partito-Stato deciso a riconquistare il controllo totale anche sulla vita privata della gente. Il volto di questa missione è quello di Hu Chunhua, governatore della regione, stella nascente delpotere e in piena lotta per la successione del presidente, dopo il 2020. «Per entrare nel prossimo comitato permanente aveva bisogno di vincere una guerra — dice lo storico Zhang Lifan — come quella che Hu Jintao fece in Tibet.Una messinscena per la gloria, ma il sostegno inedito della propaganda prova che su una ritrovata moralità della patria, sul puritanesimo maoista e sul conservatorismo dei valori rivoluzionari, si gioca effettivamente la selezione della prossima generazione di leader».
Resta l’allarme sulla demolizione dell’economia locale: affitti meno 30%, hotel meno 65%, commercio meno 45%. La sola industria florida, ecologicamente sostenibile, in ginocchio. «I cinesi — dice Liang Yaohi, gestore di venti karaoke a Dongguan — sanno che l’unica battaglia che Pechino ha sempre e saggiamente voluto perdere è quella contro il sesso e contro i soldi». Questa volta però è diverso: assieme al potere interno, per la prima volta è in gioco l’immagine globale dei nuovi mandarini rossi. Può, uno Stato ufficialmente corrotto e a luci rosse, guidare il XXI secolo? Prostitute, sfruttatori, funzionari, imprenditori e poliziotti della disarmata “Sex and the city” del Sud temono così che musica e vapori tarderanno a riaccendersi. E’ il prezzo del successo nazionale, del “sogno” che Xi vuole imporre al popolo, ma tardi non significa mai.
«Le montagne sono alte — ripete la ballerina Liang Ping seduta sul palco vuoto della lap dance — e la capitale è lontana. Gli equilibri saranno trovati, lo scandalo della nostra faccia non servirà più e il vento di Pechino cesserà. È come la vita — aggiunge — anche se ci ripugna, continua».
La Stampa 25.2.14
Ragazze umiliate e gogna tv
Cina, crociata anti-prostituzione
Scatenata il 9 febbraio dalle forze di polizia, fa parte del piano di lotta alla corruzione avviato dal Segretario Generale di Partito Xi Jinping
Ma la serie di retate ha suscitato un raro dibattito, in cui si sono viste molte voci sollevarsi per chiedere che si depenalizzi la prostituzione
di Ilaria Maria Sala
qui
La Stampa 25.2.14
Fatwa contro i viaggi su Marte
“Equivale al suicidio, che è proibito”
L’Autorità generale per gli Affari Islamici degli Emirati Arabi Uniti (Gaiae) ha emesso un editto religioso con il quale si vieta ai musulmani di partecipare ai tentativi per la colonizzazione di Marte
di Maurizio Molinari
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La Stampa 25.2.14
La Merkel sbarca in Israele “Fate la pace, faremo affari”
Accordi economici e diplomatici ma “servono risultati coi palestinesi”
di Maurizio Molinari
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La Stampa 25.2.14
E Israele invia un team in soccorso degli ebrei
di Maurizio Molinari
Israele teme il rafforzamento dell’estrema destra in Ucraina e invia a Kiev dei «team di emergenza» il cui compito è di aiutare le locali comunità ebraiche a valutare i «rischi per la sicurezza» e adottare le necessarie contromisure, inclusa l’emigrazione. Per comprendere l’entità dei timori che circolano nello Stato ebraico bisogna entrare nel pub «Putin» su Jafo Street, nel centro della città, dove la maggioranza degli avventori sono di origine russa e condividono l’allarme lanciato da Inna Rogatchi, una ricercatrice sull’«Olocausto nei tempi moderni» che ha soggiornato a Kiev negli ultimi due mesi arrivando alla conclusione che «il partito neonazista Svoboda è un incubo per l’Europa» ed è uscito rafforzato dal rovesciamento del presidente filo-russo Viktor Yanukovich.
Sebbene il governo Netanyahu eviti dichiarazioni ufficiali in merito, le preoccupazioni di Gerusalemme riguardano il fatto che «Svoboda» (Libertà) oltre ad avere il 10 per cento dei seggi nel Parlamento ha alle spalle una ventina di formazioni di estrema destra che, nel complesso, arrivano a rappresentare circa il 20 per cento di una popolazione di 46 milioni di abitanti. Da qui la decisione di Nathan Sharansky, presidente dell’Agenzia Ebraica, di iniziare un’operazione di «assistenza di emergenza» per la comunità ebraica ucraina stimata in 200 mila anime rispetto alle 70 mila di cui parlano le statistiche di Kiev. La maggior parte degli ebrei ucraini vive nella capitale, a Odessa, Lvov e Dnepropetrovsk ed è qui che Sharanky - ex leader dell’emigrazione ebraica dall’Urss - ha ordinato di inviare dei «team di emergenza» la cui missione è contattare istituzioni, sinagoghe e centri comunitari per assisterle nel «fronteggiare eventuali pericoli» e, se necessario, aiutare a emigrare in Israele chi volesse farlo. Tale forma di «intervento di emergenza» è stato creato dall’Agenzia Ebraica dopo l’attacco terroristico alla sinagoga di Tolosa nel marzo 2012 - morirono un insegnate e tre alunni - e ha poi contribuito a soccorrere comunità in situazioni di pericolo dalla Grecia all’Argentina ma, come Sharansky ammette, la crisi ucraina ha dimensioni maggiori: «Stiamo parlando di una delle comunità ebraiche più grandi del mondo».
Repubblica 25.2.14
Lezione Americana
Gli Stati Uniti e la fatica di diventare pluralisti
Mantenere le diversità o annullarle? Ecco perché il dilemma democratico dei padri fondatori non è risolto
di Richard Bernstein
Per cogliere appieno la portata dei contributi degli intellettuali pragmatisti americani all’inizio del Novecento (William James, John Dewey, Horace M. Kallen, Randolph Bourne) dobbiamo comprendere il contesto culturale a cui si rivolgevano. Voci autorevoli sostenevano allora l’“americanizzazione” degli immigrati. Alle presidenziali del 1912 Theodore Roosevelt dichiarò «non abbiamo posto che per una sola lingua qui [...] Vogliamo vedere questo crogiolo (ilmelting pot,Ndr) trasformare il nostro popolo in Americani, non in ospiti di un albergo poliglotta». Il riferimento di Roosvelt richiama un’opera teatrale che aveva avuto enorme successo e che Roosevelt stesso aveva visto e accolto con entusiasmo. InMelting Potdi Israel Zangwill, il protagonista, afferma: «l’America è il Crogiuolo di Dio, il grande Crogiuolo nel quale tutte le razze d’Europa si fondono e rifoggiano [...] Tedeschi e francesi, irlandesi e inglesi, ebrei e russi, tutti nel Crogiuolo! Iddio sta creando gli americani».
Il crogiuolo è stato (ed è ancora) una potente metafora negli Stati Uniti. Con essa si è voluto indicare che gli stranieri avrebbero dovuto lasciarsi alle spalle le loro strane usanze, lingue e culture e amalgamarsi in una società omogenea. Più cinicamente: gli immigrati avrebbero dovuto assimilarsi alla cultura dominante anglo-sassone per diventare “veri” americani. Nel suo articolo, ormai divenuto un classico, Democracy versus Melting Pot (1915), Kallen muoveva un’acuta critica a quest’idea dell’America come società che annulla le differenze culturali. Melting Pot suggerisce l’idea che tutti gli elementi siano gettati in un calderone e diventino un’unica massa omogenea. Al contrario, scrive l’autore che ha formulato per primo il concetto di “pluralismo culturale”: «Nella sua essenza nessun essere umano, perfino in uno “stato di natura” è un’unità matematica che agisce come “homo oeconomicus”. Dietro di sé nel tempo e profondamente radicati dentro di sé ci sono i suoi antenati; intorno a sé nello spazio parenti e familiari insieme a cui guarda indietro verso un passato comune ».
Kallen auspicava che i diversi gruppi etnici e religiosi andassero fieri della loro eredità culturale. Immaginava gli Stati Uniti come una nazione in cui le differenze culturali fossero ammesse e rispettate. E era fermamente convinto che tali differenze arricchissero una democrazia vitale. «Cosa faremo degli Stati Uniti: un canto all’unisono del vecchio motivo anglo-sassone America? o un’armonia, in cui il motivo sarà dominante sugli altri, ma sarà uno tra gli altri, non l’unico?». Per Kallen l’unisono simboleggia il livellamento e l’omogeneità:segna il trionfo del monismo culturale. L’armonia, al contrario, esiste solo laddove convivono voci diverse senza che nessuna venga sovrastata o annullata. Riprendendo una metafora che William James aveva adoperato nelle sue conferenze sul pluralismo, Kallen parla della «forma della Repubblica federale; essa incarna una democrazia di nazionalità che cooperano volontariamente». Affascinato dalle metafore musicali, Kallen conclude così il suo articolo: «Come in un’orchestra, ogni tipo di strumento ha il suo specifico timbro e la sua specifica tonalità che si trovano nella propria sostanza e forma; … così nella società ciascun gruppo etnico è lo strumento naturale, il suo spirito e la sua melodia sono il tema e la melodia, e la loro armonia, dissonanza e discordanza vanno tutte a formare la sinfonia della civilizzazione… » «Sono d’accordo – replicava Dewey a Kallen – con la tua idea di orchestra, a condizione che otteniamo veramente una sinfonia e non tanti strumenti diversi che suonano contemporaneamente. Non mi è mai interessata davvero la metafora delmelting pot,ma l’autentica assimilazione l’uno all’altro – e non all’anglosassone – sembra essere essenziale all’America. Che ciascuna sezione culturale debba mantenere le sue chiare tradizioni culturali e artistiche mi sembra altamente desiderabile, ma allo scopo di poter offrire di più agli altri».
I fautori del pluralismo culturale sostengono l’ideale di una società democratica arricchita dalle differenze. I filosofi pragmatisti e i sostenitori del pluralismo culturale non erano affatto ingenui romantici, erano pienamente consapevoli dei conflitti tra i diversi gruppi religiosi ed etnici e ben consci delle forti resistenze verso la diversità e le differenze. Vi è inoltre un importante retroscena nella causa di questi filosofi per la diversità culturale. Molti immigrati che arrivavano negli Stati Uniti erano poveri, manodopera non qualificata sfruttata da una minoranza abbiente consolidata. I progressisti si opponevano agli abusi e al capitalismo liberista senza freni. Molti inoltre insegnavano nelle comunità dedicate a fornire assistenza e istruzione agli immigrati. Il loro scopo era incoraggiare l’eguaglianza economica, politica e culturale all’interno della nazione. Ma con lo scoppio della prima guerra mondiale (anche se gli Stati Uniti entrarono in guerra solo nel 1917) vi fu una violenta reazione nei confronti degli “stranieri” dal «vecchio continente». Il diffondersi della xenofobia e dellosciovinismo negli Stati Uniti preoccupava i fautori del pluralismo culturale.
Bourne sviluppò le idee di Kallen in maniera ancor più radicale e sfaccettata. Nel 1916 – un anno dopo la pubblicazione diDemocracy versus Melting Pot – Bourne diede alle stampe il suo celebre saggioTransnational America. A differenza di Kallen, Bourne proveniva dall’ambiente anglosassone, ma si identificava maggiormente con la causa progressista. Inoltre condannava l’idea di melting pot e di americanizzazione... Come Kallen, Bourne era interessato a ciò che l’America poteva già diventare, non a restare aggrappato a un passato immaginario. Sosteneva un nuovo ideale cosmopolita per gli Stati Uniti, un’America transnazionale. Questo avrebbe soddisfatto la visione democratica incarnata nello spirito di Emerson, Whitman, James e Dewey.
I fautori del pluralismo culturale non sottovalutavano affatto le difficoltà concrete e gli ostacoli sulla via del raggiungimento di tale società pluralistica e cosmopolita. Ma l’ideale di una società così culturalmente diversificata può guidare le nostre azioni. Il pluralismo culturale emerse in America durante il primo decennio del Novecento. Oggi, nel primo decennio del XXI secolo, le idee e gli ideali del pluralismo culturale conservano freschezza e contemporaneamente rilevanza. Hanno un significato ancor più universale e pressante. In tutto il mondo – Stati Uniti compresi – le società stanno affrontando le problematiche legate a come far fronte all’immigrazione (legale e illegale) di altre popolazioni. Ci sono ancora paura, ansia e pregiudizi profondi verso chi è diverso e straniero. Il razzismo e il pregiudizio continuano ad esistere. Gli stessi estremi con cui il pluralismo si è confrontato e ha respinto – assimilazione o segregazione – ci minacciano ancora. La loro visione di cosa l’America potrebbe già diventare – una società democratica e dinamica che rispetta e viene arricchita dalle differenze culturali – è oggi una visione democratica realmente internazionalee cosmopolita.
Il testo qui anticipato è tratto da Omnia mutantur (Marsilio pagg. 126,12 euro) dedicato al tema del pluralismo culturale, con saggi di Salvatore Veca, Mario Ricciardi e Giancarlo BosettiCorriere 25.2.14
Lassù dove osano le donne in un secolo di trasvolate
Una lettura avvincente la offre il volume di Rosellina Piano, Più leggere dell’aria (Soletti, pp. 440, € 28), che racconta «cento anni di volo femminile italiano». Una panoramica ricca e vivace (anche illustrata), da cui si ricava che nel nostro Paese le prime donne capaci di affrontare il volo furono straniere, come Sophie Blanchard.
Poi, fra il 1912 e ’13, tocca a Rosina Ferrario e a Ester Mietta debuttare, aprendo la strada ad altre: da Clelia Ferla a Tatiana Fumagalli, a Carina Negrone, definita «la più grande aviatrice italiana del Novecento». E naturalmente, per queste «sorelle dell’aria» sui giornali cominciano le prime, magari stravaganti, immagini definitorie, perché c’è chi le chiama «piccole creature irrequiete» e chi «allodole assetate d’azzurro».
Uno dei meriti della Piano è di non indulgere mai a un ambiguo femminismo. Invece, per parecchie decine di queste intraprendenti innamorate del volo, spiccano altrettanti profili, spesso arricchiti da ricordi e testimonianze. Chi legge si sente coinvolto, spesso ritrova anche figure amiche, come è capitato a me.
Ecco Luisa Pagani che frequenta l’aerocentro di Taliedo e nel 1932 ottiene il brevetto, subito dopo Gaby Angelini, altra temeraria del volo. Poi sposa Vittorio Beonio-Brocchieri, una delle grandi firme del «Corriere», e con lui nel ’35, alternandosi alla guida di un biplano, punta a trasvolare la Lapponia. Dati per morti a causa delle condizioni atmosferiche disastrose, torneranno dalla Svezia sani e salvi. Ed ecco Giovanna Mazzocchi Bordone, che vola senza scalo fino a Amburgo, e in seguito fino a Beirut. Ma Michelle Bassanesi, classe 1962 e pilota dal 1996, ha progetti ancora più ambiziosi: «A 85 anni piloterò un elicottero e a 105 scriverò un libro».
Corriere 25.2.14
Giù la maschera, conosci te stesso
Da Sant’Agostino a Erasmo, da Freud a Pirandello
La sfida di guardarsi dentro, senza condizionamenti
di Armano Torno
Un’esortazione greca, probabilmente di origine religiosa e utilizzata soprattutto dai filosofi, afferma: «Conosci te stesso». Non pochi studiosi indicano la sua presenza nel tempio di Apollo a Delfi, quasi che il dio invitasse gli uomini a «riconoscere la propria limitatezza e finitezza». Così, almeno, scrive Giovanni Reale nel saggio Socrate. Alla scoperta della sapienza umana (Rizzoli, 2007).
«Conosci te stesso» diventò quasi una cupa solfa rimbombante in ogni epoca. Eccola evocata con parole analoghe da Oceano nel Prometeo incatenato di Eschilo, si annida con la sua sfida enigmatica tra le preoccupazioni di Kant o nelle radici dell’esistenzialismo, in Kierkegaard, che la riprende appunto da Socrate; Porfirio (morto a Roma nel 305) dedica alla locuzione addirittura un’opera, andata perduta. E Sant’Agostino, il più grande dei Padri della Chiesa, se ne appropria magistralmente per farne un caposaldo dello spirito nel De vera religione : «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas»; ovvero: «Non andare fuori, rientra in te stesso; nell’interiorità dell’uomo abita la verità».
Tutte queste considerazioni le offriamo a coloro che si chiedono sovente a «cosa serve» la filosofia. Domanda infelice, ci permettiamo di aggiungere, parente alla larga della disgraziata sentenza «Con la cultura non si mangia». Lo facciamo per un semplice motivo: essa aiuta almeno a porsi alcune questioni importanti e porta soccorso alla nostra anima con qualche risposta. Oppure a essere se stessi. Uno degli esempi più illustri ci viene dal mondo antico, dal comportamento di Diogene di Sinope, noto come il Cinico o «il Socrate pazzo», che viveva nella miseria e rifiutava agi e vantaggi. Il suo atteggiamento dinanzi all’uomo più potente del mondo divenne mitico. L’episodio è celebre, ma vale sempre la pena rileggerlo; si trova descritto nella Vita di Alessandro Magno lasciataci da Plutarco: «Il re in persona andò da lui e lo trovò che stava disteso al sole. Al giungere di tanti uomini egli si levò un poco a sedere e guardò fisso Alessandro. Questi lo salutò e rivolse a Diogene la parola chiedendogli se aveva bisogno di qualcosa; e quello: “Scostati un poco dal sole”. A tale frase si dice che Alessandro fu così colpito e talmente ammirò la grandezza d’animo di quell’uomo, che pure lo disprezzava, che mentre i compagni presenti, al ritorno, deridevano il filosofo e lo schernivano, disse: “Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene”».
La filosofia, per dirla in soldoni, può aiutare l’intelligenza a porre domande (e a trovare quelle risposte di cui abbiamo bisogno), ma soprattutto aiuta a conoscere se stessi; o quanto meno a scoprire la maschera che indossiamo ogni giorno per recitare il nostro ruolo nel mondo. Luigi Pirandello lo capì meglio di ogni altro drammaturgo o letterato, per taluni aspetti fu più esplicito di Freud che aveva intuito il problema: ogni uomo si trova nascosto dietro una maschera imposta dalla società, dai cosiddetti valori che la caratterizzano o da quelle situazioni che oggi chiamiamo tendenze. E siccome la maschera cela le nostre vere sembianze anche dinanzi a uno specchio, l’uomo non riuscirà a conoscere, con il passare del tempo e dell’uso, chi è e cosa sta facendo. Recita, crede di essere altro; anzi diventa un altro rispetto a quello che dovrebbe o potrebbe essere, falsificando la propria natura e illudendosi di controllare l’imbroglio di cui è artefice e, al tempo stesso, vittima. Bene: l’esercizio della filosofia reca un po’ di soccorso, soprattutto se uno di noi interroga quegli autori che hanno riflettuto sul comportamento e sul fine della vita.
Già, la maschera. Anch’essa è di origine sacrale, soprattutto quando appartiene al genere antropomorfo. Così, almeno, si direbbe per quelle trovate nel santuario spartano di Artemide Orthia o dei Cabiri di Tebe. Dioniso, d’altra parte, è il dio della maschera oltre che il signore della forza vitale, dell’istinto, dell’ebbrezza e dell’estasi. I latini antichi la chiamavano persona e soltanto nel medioevo divenne mascha , quasi si fosse colta già nella Roma dei Cesari la singolare corrispondenza. Se ne accorse Arthur Schopenhauer nei suoi Parerga e paralipomena : «L’uso, comune a tutte le lingue europee, della parola persona per indicare l’individuo umano è, senza saperlo, pertinente: persona significa, infatti, la maschera di un attore, e in verità nessuno si fa vedere com’è; ognuno, invece, porta una maschera e recita una parte». Ma la filosofia, almeno in alcuni casi e grazie a non pochi autori, aiuta a capire cosa indossiamo e quel che stiamo facendo. Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della follia descrive senza sconti quanto succede nel mondo e cosa sia un’esistenza: «Tutta la vita umana non è che una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico».
Non è dunque facile conoscere se stessi, anzi è forse la ricerca più difficile che potremmo tentare. Ma, come si suol dire, ne vale la pena. Anche se uno spirito straordinario come Oscar Wilde ironizzava ed era convinto — così almeno scrisse ne Il critico come artista del 1889 — che l’uomo non è se stesso quando parla cercando di essere sincero e soltanto grazie a una maschera riesce a proferire un po’ di verità. L’artificio lo protegge perché le convenzioni e le troppe recite lo hanno rovinato. Una fulminante battuta del celebre letterato si ricorda a proposito di Sir Max Beerbohm e porta alle estreme conseguenze quel «Conosci te stesso» che meditò insieme ai classici greci al Magdalen College di Oxford: «Chissà se, quando è solo, si toglie il volto per mostrare la maschera».
La filosofia può aiutare a sorridere meglio e con cognizione di causa dopo una battuta di questo genere. Anche se i programmi scolastici che dovrebbero aiutare gli studenti a impararla si stanno restringendo, anche se alcune facoltà se ne liberano per sostituirla con qualcosa che la nuova pedagogia considera più interessante e «utile», anche se i pensatori degni di questo nome scarseggiano più dei politici e dei mistici la filosofia non va messa nei bilanci della cultura come un avanzo del passato. Potremmo credere ancora oggi a quanto scrisse Montaigne nei suoi magnifici Saggi: «Abbiamo una ben dolce medicina nella filosofia, perché delle altre si prova piacere soltanto dopo la guarigione, mentre questa piace e guarisce insieme».
Corriere 25.2.14
È dedicato a Einstein il terzo volume della serie
Con il volume dedicato a Einstein , oggi in edicola, prosegue l’iniziativa editoriale «Grandangolo» del «Corriere della Sera» (ciascun volume a € 5,90 più il costo del quotidiano; nel formato ebook, prezzo € 3,59). Si tratta della terza uscita della collana in edicola ogni martedì, che compone una biblioteca di saggi monografici sui pensatori dell’occidente antico, moderno e contemporaneo, curate da specialisti di grande prestigio come Mario Cingoli, Roberto Radice, Olivia Guaraldo, Alfredo Civita e numerosi altri. Nella rassegna si possono trovare non soltanto i grandi filosofi di tutti i tempi, come Platone, Kant (nei due volumi già usciti) Hegel, Nietzsche, Schopenhauer, Husserl, Wittgenstein e così via, ma anche le personalità di grande rilievo teoretico in altre discipline come le scienze o la psicoanalisi. È il caso del volume in edicola oggi, sul pensiero sotteso alla visione fisico-cosmologica — ma anche umana — di Albert Einstein, nel saggio curato da Roberto Maiocchi. Come gli altri, anche questo volume è diviso in tre parti, su biografia, corpus del pensiero e approfondimenti bibliografici e testuali. La prossima settimana, il 4 marzo, in edicola il Nietzsche curato da Tommaso Tuppini. (Ida Bozzi )