martedì 2 ottobre 2012

l’Unità 2.10.12
Strage di Stazzema, la Germania salva le SS
Berlino ha deciso di non processare i responsabili
La Procura archivia il procedimento contro i nazisti per insufficienza di prove
A Sant’Anna morirono 560 persone
Il governatore Rossi: «Tra loro c’erano rei confessi»
I parenti: «Restituiamo la medaglia d’oro»
Il procuratore militare: «L’impianto accusatorio era solido. In Italia le condanne confermate»
di Maria Vittoria Giannotti


FIRENZE La magistratura tedesca rinuncia a fare giustizia sulla strage di Sant’Anna di Stazzema. Con un comunicato stampa, la procura di Stoccarda ha annunciato l’archiviazione dell’inchiesta aperta dieci anni fa per dare un nome e un volto ai responsabili del massacro di 560 innocenti, tra cui 107 bambini. Era il 12 agosto del 1944 quando i soldati della 16a divisione della Waffen-SS Reichsfuehrers-SS aprirono il fuoco su contadini, donne e minori: il più piccolo, tra loro, aveva appena venti giorni. Una strage atroce compiuta nell’arco di poche ore. Ma il processo, in Germania, non si farà. E così gli 8 gerarchi delle Ss ancora in vita ma gli indiziati erano in tutto 17 non dovranno neppure comparire davanti a un giudice.
Il motivo della decisione, destinata a riaprire una ferita mai chiusa, è drammaticamente banale: insufficienza di prove. «Dalle indagini, condotte in maniera ampia ed estremamente approfondita insieme all’ufficio criminale del Baden-Wuertemberg spiega la magistratura tedesca è emerso che non è possibile dimostrare una partecipazione degli indiziati agli avvenimenti del 12 agosto 1944, punibile con una pena che non sarebbe prescritta». Gli inquirenti, in sostanza, non sono riusciti a dimostrare che il massacro compiuto dai 17 militari della divisione di granatieri corazzati Reichsfuehrer Ss sia stato programmato sin dall’inizio come «un’azione di sterminio contro la popolazione civile».
La Procura ipotizza che «obiettivo dell’azione militare originariamente fosse la lotta contro i partigiani e la cattura di uomini abili al lavoro per una deportazione in Germania e che l’uccisione della popolazione civile sia stata comandata solo quando si era reso chiaro che quell’obiettivo non poteva essere raggiunto». La sola appartenenza alla divisione protagonista del massacro per i procuratori tedeschi non basta: per ciascuno degli indagati si sarebbe dovuto poter «dimostrare una responsabilità individuale», cosa «non riuscita». Nell’impresa, però, era riuscito, nel 2005, il Tribunale militare della Spezia che aveva già condannato dieci appartenenti, tutti ultraottantenni, al gruppo delle SS, poi finito sotto inchiesta da parte dei colleghi d’Oltralpe. «Il nostro impianto accusatorio era solido si limita a osservare Il procuratore militare di Roma Marco De Paolis visto che la sentenza è stata confermata dalla Corte militare d’appello e poi dalla Cassazione. Alle condanne si è giunti non solo sulla base di precise prove documentali e testimoniali, ma ci sono stati alcuni imputati rei confessi, non solo con i magistrati, ma addirittura con i giornalisti». La procuratrice capo di Stoccarda, Claudia Krauth, che ha coordinato le indagini, non sembra avere rimpianti: «Mi sento di assicurare ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime che abbiamo fatto tutto il possibile. Anche qui sentiamo il peso della nostra responsabilità».
ogni ragionevole dubbio le responsabilità dei dieci imputati che furono infine condannati» tuona Michele Silicani, il sindaco del comune arroccato sulle Apuane. «Nei prossimi giorni dichiara assumerò una iniziativa forte nei confronti del ministro degli Esteri e del ministro della Giustizia affinché inizi un percorso di dialogo tra la Germania e l’Italia per il riconoscimento delle sentenze emesse dai rispettivi tribunali».
Ma queste parole non bastano a placare l’ondata di indignazione che la decisione presa Oltralpe ha suscitato a Stazzema e in tutto il Paese. «Questa archiviazione è un’offesa non solo alle vittime e ai loro familiari e quindi a tutti noi, ma al lavoro svolto dal Tribunale militare della Spezia che aveva provato oltre ogni ragionevole dubbio le responsabilità dei dieci imputati che furono infine condannati tuona Michele Silicani, il sindaco del comune arroccato sulle Apuane. “Nei prossimi giorni - dichiara - assumerò una iniziativa forte nei confronti del ministero degli Esteri e del ministro della Giustizia affinché inizi un percorso di dialogo tra la Germania e l’Italia per il riconoscimento delle sentenze emesse dai rispettivi tribunali”.
Trasudano rabbia e incredulità anche le parole di Cesira Pardini: quel maledetto 12 agosto, a soli 18 anni, vide morire la madre e due sorelle, ma riuscì a salvarne altre due insieme a un neonato: per quel coraggio, ha ricevuto la medaglia d’oro. «Non è giusto dice è una decisione che non ha nessuna logica». «Punire i responsabili di tanta brutalità è un dovere che deve essere sentito sia dall’Italia che dalla Germania» scrivono i senatori Pd Vannino Chiti e Felice Casson. Anche il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, esprime il suo sconcerto: «Tra gli indagati c’erano rei confessi, che hanno raccontato di aver sparato con la mitragliatrice su donne inermi. Nessuno cerca vendetta, ma un massacro come quello di Sant’Anna reclama giustizia e questo verdetto la nega». «Sono sinceramente sbalordita dalla sentenza tedesca a fronte di sentenze italiane che hanno individuato i colpevoli» dichiara Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd. Per Fabio Evangelisti, segretario Idv in Toscana, è «una decisione scandalosa». «L’archiviazione è un colpo duro all’accertamento della verità giudiziaria e un gesto sbagliato che non fa onore a quel Paese. Dopo decenni di oblio per il vergognoso e colpevole insabbiamento, ora quella storia è stata ricostruita, i colpevoli individuati» conclude Walter Veltroni, deputato del Pd.

il Fatto 2.10.12
“Arrivano le SS scortate dai fascisti”: poi il massacro
I bimbi fucilati e le donne incinte finite con le baionette, l’orrore di quel giorno nel racconto dei sopravvissuti
di Maurizio Chierici


Il museo di Sant’Anna di Stazzema non assomiglia a nessun museo. Non solo immagini di bambini che fanno il girotondo davanti alla scuola, o le donne sedute nell’erba, occhi che ormai non sanno piangere figli e mariti stesi ai loro piedi come fagotti. Il racconto di uno schermo acceso dal mattino alla sera raccoglie le voci dei testimoni sopravissuti. “ Io sono questa”: la signora cerca col dito una bambina del girotondo. “Le altre le hanno uccise”. Dall’estate della Versilia risalgono famiglie tedesche in vacanza. Nelle loro facce impossibile leggere il dolore di chi è cresciuto in un paese diverso, solo la meraviglia di una vergogna che non riescono a sopportare. Visite brevi e se ne vanno. Estate anche allora, 12 agosto 1944. Il macellaio attraversa le quattro case del paese alle 6 del mattino. I partigiani se ne sono andati e la gente respira: forse la guerra si allontana e gli americani stanno per arrivare. Il macellaio ha visto dall’altra parte del monte le strisce dei razzi che si alzano dalle prime colline. “Arrivano da tre parti diverse, chissà cos’hanno in mente”.
AVVISA gli uomini al lavoro nelle campagne e corre al paese per avvertire: sta succedendo qualcosa, spargete la voce. Padri e figli ormai grandi scompaiono nel bosco. Donne e bambini in casa, il parroco si inginocchia all’altare. Paura hanno paura ma in fondo sono tranquilli: inermi, non pericolosi, cosa possono fare? Verso le 7 le prime raffiche. Spuntano le SS guidate da fascisti dalla parlata toscana ma chi spia fra le imposte ha un respiro di sollievo: “I tedeschi sono quasi tutti sono ragazzi”. Ma non etrano tedeschi: battaglione reclutato in Ungheria agli ordini di sottufficiali dall’esperienza glaciale. La storia di un ragazzo di San-t’Anna conferma che la speranza non era fuori luogo. Racconta nelle mille interviste Enrico Pieri: “Siamo stati portati verso la piazza ma a mezza strada un contrordine ci ha chiusi nella cucina della famiglia Pierotti. Grazia, una delle ragazze Pierotti aveva paura e s’era rifugiata nel ripostiglio in fondo alla stanza, sottoscala dove finivano damigiane e bottiglie vuote. Mi ha chiamato con la mano e mi sono nascosto. Arrivano 13, 14 persone accompagnate dai tedeschi con le pistole puntate: subito cominciano a sparare”. Pieri vede la sorella disperata, la vede per un minuto perché un minuto è morta. Poi un militare finisce i feriti che sussultano, dà fuoco alla paglia e se ne va. Di fronte alla cucina della nonna del ragazzo che crede di impazzire c’è una pianta di fagioli raccolti nella forma di un capanno. I due bambini si nascondono e aspettano non sanno cosa. Un altro ragazzo – Ennio Mancini – viene incolonnato assieme agli amici, fila indiana su un sentiero che si arrampica nel bosco. Paralizzati dallo spavento faticano a camminare con l’arma degli accompagnatori che preme le spalle. L’ufficiale grida un ordine ad un ragazzo in divisa e risale la colonna per sveltire la sveltire la marcia dei primi.
ALLORA IL RAGAZZO guardiano comincia a parlare. Dice qualcosa, ma loro non capiscono. Allora comincia coi gesti: dito sulla bocca, silenzio, e la mano che si apre per dire “scappate “. Sono scappati. Nascosti nei cespugli hanno visto la recita del ragazzo che sparava in aria. Intanto su un poggio le SS piazzano una mitragliatrice. Ma i bambini non sono proprio spaventati. Una signora rassicura: che ai bambini non si fa del male: “Vogliono solo prendere le fotografie”. Invece cominciano a sparare. A Cesare Pardini si velano gfli occhi quando ricorda della pistola puntata alla testa della mamma che lo abbracciava.. “Mi è venuto il suo cervello addosso”. Suonano le campane. Il parroco guidava le preghiere. Entrano gli ufficiali: gli danno 15 minuti per indicare dove nasconde i banditi. “Se ne sono andati “, prova a convincerli. Lo ascoltano in silenzio, 15 minuti dopo l’ufficiale dà l’ordine di uccidere. La testimonianza del libro di Toaff, rabbino capo di Roma (Perfidi giudei, fratelli maggiori) racconta l’impresa del capitano SS Anton Galler, ex fornaio. Entrano nella casa di Evelina Belletti. Incinta, spettava la levatrice. I militari si incaricano di prenderne il posto. Aprono il ventre di Evelina con la baionetta e lanciano il feto in aria, bersaglio per il loro tirassegna.
NEL PICCOLO MUSEO la memoria non invecchia, l’orrore resiste. Volti nomi, racconti che non smettono mai, storia di 560 persone uccise mentre chiedono di risparmiare almeno i più piccoli e le persone malate. L’ufficio informazioni della quattordicesima armata tedesca fa il punto sull’operazione Sant’Anna di Stazzema. Ne bruciano perfino il nome. Diventa “paese 183 barra 30”. Assicura che è stato ridotto in cenere, depositi di munizioni fatti saltare. Un deposito nascosto nella chiesa. Un mese dopo, 28 settembre, i primi americani salgono a Sant’Anna. Tornano a Pietrasanta per dire che il paese non esiste più. Case bruciate attorno alla piazza della chiesa, resti carbonizzati non sanno spiegare di quante persone. “Abbiamo avuto l’impressione che qualcuno spiava dal bosco”.

il Fatto 2.10.12
L’intervista
Franco Giustolisi “L’Italia accetta in silenzio, questo è il vero schiaffo”
di Davide Vecchi


Marco De Paolis, il procuratore militare di Roma che istruì il processo ai dieci ex militari tedeschi condannati all’ergastolo per la strage di Sant'Anna di Stazzema, ha ricordato che alcuni erano rei confessi

Le pratiche giudiziarie sulla strage di Sant’Anna di Stazzema furono chiuse a chiave in un armadio rovesciato contro il muro nella sede della Procura militare in via Acquasparta a Roma. L’armadio della vergogna fu poi “aperto” da Franco Giustolisi, inviato storico dell’Espresso, che in otto anni di lavoro l’ha riportato in un libro, pubblicato nel 2004 con Nutrimenti, in cui ricostruisce gli eccidi dei nazisti e dei fascisti di Salò. Documenti nascosti, sostiene Giustolisi, per proteggere i carnefici. “E oggi con l’archiviazione è stata seppellita di nuovo la verità e noi facciamo la figura dei peracottari”.
Cosa si aspettava?
Che le nostre sentenze fossero rispettate. E invece anche oggi sento solo silenzio, il silenzio più assoluto. C’è stata anche un’interrogazione al governo firmata da 106 senatori del Pd, nessuno ha risposto. Ma da chi siamo rappresentati? Perché non intervengono con la Germania? Quale segreto c’è dietro a questa omertà? Noi abbiamo sempre accolto le richieste tedesche, ci hanno raccontato che il colonnello Klapper, carnefice delle fosse Ardeatine, era fuggito dall’ospedale del Celio. E più volte il nostro governo ha concesso la grazia ai loro, in cambio sputano nelle nostre sentenze. Su un lavoro certosino svolto dai carabinieri Romano e Schulz, dal pm De Paolis dopo. Assurdo.
E la sentenza di condanna di primo grado è stata confermata integralmente dalla Corte militare d’appello e poi dalla Cassazione. Capisce? Dall’armadio della vergogna alla vergogna dell’armadio. Lo schiaffo maggiore arriva dall’Italia, che rimane in silenzio. L’Anpi in primis è immobile. Perché? Quale è l’inconfessabile segreto? Non lo sapremo mai, probabilmente. Ma io non mollo. E il 5 andrò al tribunale militare per la sentenza di convalida per uno degli assassi di Cefalonia, reo confesso. Dobbiamo andare in molti, far vedere che a noi interessa la verità. E che la Germania deve rispettare la giustizia e il nostro Paese.

l’Unità 2.10.12
Addio Shlomo, l’ultimo sopravvissuto di Auschwitz
di Oreste Pivetta


182727. Nell’aprile 1944, Shlomo Venezia divenne un numero. Di quel numero, tatuato sul braccio in inchiostro nero, s’è forse liberato ieri morendo l’ultima volta, dopo essere morto mille e mille volte, lui che era vissuto –scrisse – con le mani nella morte, convincendo qualcuno a entrare nella camera a gas, trascinandone il cadavere, raccogliendo le sue ceneri, triturando le ossa più resistenti al fuoco, quelle del bacino, perché le tracce di un essere umano fossero le meno palpabili possibili... Raccontava Shlomo Venezia che anche le ceneri venivano passate al setaccio e solo dopo caricate da una carriola a un camion e poi disperse nel fiume.
Shlomo Venezia ad Auschwitz-Birkenau arrivò che aveva ventuno anni (era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923), era ebreo di origine italiana, l’avevano prelevato dentro la Sinagoga di Atene e, dopo qualche giorno in un carcere, l’avevano rinchiuso in un vagone insieme con altri ebrei come lui, con partigiani greci rastrellati sulle colline. Dodici giorni dopo si ritrovò a Birkenau. Finì in uno stanzone, senza sapere dove fosse, che cosa si sarebbe dovuto aspettare. Da una finestra vide una ciminiera e il fumo che saliva. Sentì parlare yiddish, si rivolse a quello sconosciuto in tedesco e lo sconosciuto gli rispose: chi non è più con noi si sta liberando da qualche parte del cielo. Tu passerai per il camino, come dice la storia dei campi di sterminio nazisti e come narrò in un libro, con quel titolo, un giovane partigiano italiano, deportato a Mauthausen, Vincenzo Pappalettera.
Shlomo Venezia ebbe il suo numero, 182727. Raccontava del dolore fisico patito quando lo incisero, dell’istintivo gesto di massaggiare il braccio, del grumo di sangue e inchiostro rimasto appiccicato alla mano e della paura di aver cancellato il numero: se l’avesse cancellato, come avrebbero reagito i suoi aguzzini. Il numero rimase lì per una vita a segnare la sua storia. Anche la «selezione» gli rimase addosso per una vita: era forte e lo scelsero per il sonderkommando, la squadra speciale. Tre mesi e poi ci sarà una nuova selezione, lo avvertirono i compagni. La «nuova selezione» significava l’eliminazione. Ma quel lavoro dà da mangiare? Gli assicurarono che qualcosa c’era. Non c’era invece scelta: davanti ai suoi occhi tre ragazzi ebrei ortodossi rifiutarono e subito vennero fucilati. Cominciò a entrare in quello stanzone, a cavarne corpi nudi deformati dall’asfissia e dall’orrore: all’inizio era difficile, un cumulo alto un paio di metri, non si sapeva dove poggiare i piedi e come districare quel groviglio di scheletri. Una volta un compagno udì un gemito, come di un essere ancora vivo... Lui e gli altri continuarono a scavare. Il gemito si udì ancora. Tutti si diressero ad un angolo e videro un bambino ancora attaccato al seno della madre. Era vivo, lo raccolsero, una guardia se lo fece consegnare e gli sparò con la soddisfazione di un cacciatore sulla preda. Quelli del sonderkommando dovevano sgombrare la camera a gas, lavare il pavimento, ridipingere di calce bianca le pareti. Non si doveva lasciar segno di quanto era avvenuto prima. I condannati dovevano entrare senza alcun sospetto, pensando ad una doccia, le donne per prime, con l’idea che era meglio sbrigarsi. Morivano tutti. Morì anche un cugino incontrato sulla porta del crematorio, un cugino che lo pregava di intercedere presso le Ss, perché lo salvassero. Ci provò. Dovette convincerlo a compiere l’ultimo passo, assicurandogli che non avrebbe sofferto.
Shlomo Venezia andò avanti così, di tre mesi in tre mesi, fino a quando due carri armati sovietici si presentarono alle porte di Auschwitz. Non fu tutto, perché Shlomo per anni, malato ai polmoni, dovette fare la spola tra un sanatorio e l’altro. Il ritorno alla vita civile fu in solitudine. Poi visse a Rimini e quindi Roma, si sposò con Marika, ebbe tre figli, ritrovò un’apparenza di normalità, solo un’apparenza, perchè «tutto mi riporta al campo». «Qualunque cosa faccia – scrisse nel suo libro, Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 da Rizzoli qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto... Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio». Si chiuse nel silenzio. Quasi mezzo secolo dopo Birkenau, nel 1992, si decise a parlare (diede una consulenza a Benigni per il suo film «La vita è bella»). Nel 1992. «Un giorno – disse – ho trovato il coraggio di raccontare tutto quello che posso raccontare, quello che sono certo di aver visto».Tornò ad Auschwitz, rivide la torretta dell’ingresso con quella scritta, il lavoro rende liberi, non riuscì subito ad orientarsi non scorgendo più gli edifici dei crematori che i nazisti avevano fatto saltare, sempre quell’idea di far sparire i resti dei loro delitti. Ricordò soprattutto per i giovani, tornando più di una volta in quel luogo di insuperabile dolore. L’ultimo italiano della squadra speciale sopravvissuto, ricordò finché la salute lo sorresse, perché era certo che i giovani dovessero sapere.

l’Unità 2.10.12
L’ADDIO
Il secolo lungo di Hobsbawm
È scomparso a Londra il grande storico inglese
Produzione sterminata e vita avventurosa dello studioso nato in Egitto nel 1917 e divenuto uno dei massimi storici britannici e mondiali. Al centro dei suoi interessi la storia delle classi subalterne e Marx
E un legame tutto particolare con Gramsci e l’Italia
di Bruno Gravagnuolo


NOVANTACINQUE ANNI E UNA MOLE STERMINATA DI OPERE. CON DUE CHIODI FISSI: MARX E LE CLASSI SUBALTERNE. A volerlo raccontare «solo» in due righe, posto che sia possibile, era questo Eric Hobsbawm, il più grande storico marxista del dopoguerra. Senza dubbio uno dei più grandi storici del Novecento. È scomparso ieri mattina a Londra al Royal Free Hospital, dove era ricoverato per una malattia che non lo aveva più abbandonato. E ne ha dato la notizia al Guardian la figlia Julia, quella avuta dalla seconda moglie Marlene Schawrz, sposata in seconde nozze e dalla quale ebbe anche un altro figlio, Joshua (in prime nozze aveva sposato Muriel Seaman). Una biografia a suo modo fascinosa. Che comincia nel 1917 ad Alessandria d’Egitto, dove nasce da una famiglia ebraica, e si conclude nella capitale londinese, nella Gran Bretagna dove era approdato negli anni trenta, in fuga prima da Vienna e poi da Berlino, dopo essere rimasto orfano prima del padre e poi della madre, tra il 1929 e il 1931.
Furono lo zio paterno e la zia materna a mettere in salvo con sé medesimi Hobsbawm e la sorella, trasferendosi a Londra, dalla Berlino in mano nazista. Particolare curioso: Hobsbawm si chiamava «Obstbaum». Ma l’amministrazione inglese in Egitto sbagliò il nome, e i fedeli sudditi britannici Obstbaum si tennero l’errore. Per dire quanto intrinseco fosse, alla cultura britannica e dall’inizio, l’ebreo laico cosmopolita e poi comunista Eric Hobsbawm. A Cambridge studia storia e viene ammesso nell’esclusivo circolo intellettuale degli «Apostoli». Lì conseguirà il dottorato, con una tesi sulla Fabian Society. In seguito presta servizio nel genio militare britannico e nel 1947 ottiene l’incarico di lettore al Birbeck College di Londra. Nel dopoguerra Hobsbawm è già entrato nell’empireo degli storici marxisti di Past and Present, con i grandissimi: Cristopher Hill, storico della rivoluzione inglese, E. P. Thompson, storico sociale e della classe operaia, Victor Kierman, storico dell’imperalismo. Nel 1970 è professore ordinario, nel 1978 entra a far parte della British Academy dove insegna fino al 1982. E tra le varie infinite nomine provvisorie c’è anche quella alla Nuova Scuola per le Ricerche Sociali di Manhattan. Conclude la sua carriera da professore emerito proprio a Manhattan, dopo essere diventato Presidente del Birbeck dove ebbe il primo incarico.
Fin qui le tappe biografiche, con tre segni forti che tornano anche nelle pagine autobiografiche: la tragedia europea degli anni trenta, l’Inghilterra e il comunismo, e poi l’Italia. Sì, l’Italia dove approda negli anni 50 con un biglietto di presentazione al Pci di Sraffa, per studiare il contado e uno strano personaggio: Davide Lazzaretti. Mistico ribelle del Monte Amiata il cui nome Hobsbawm ritroverà nelle pagine di un autore che muterà la sua visione del mondo: Antonio Gramsci. Frattanto però è già partito il ciclo delle sue grandi opere, dissodati i cantieri d’archivio tra i quali era di casa. Eccone quattro decisive: Le rivoluzioni borghesi 1789-1848 (Il Saggiatore, 1963), Il trionfo della borghesia 1848-1875 (Laterza 1976), L’età degli imperi 1875-1914 (Laterza 1987), Il secolo breve (Rizzoli 2005). Formano una tetralogia che abbraccia tutta la storia contemporanea, dalla rivoluzione francese ad oggi. Ad essa vanno aggiunti i libri su banditi e ribelli, sulle forme pre-capitalistiche entro cui andavano còlte le rivolte contadine dei ceti trascinati dalla forza del modo di produzione capitalista, «forma» globale. Perciò, rivolte contadine e operaie, in un contesto mondiale ineguale, che Hobsbawm, sulla scia anche di Lenin, insegue con sguardo d’insieme. Attento a vita materiale e quotidianità. E scrisse anche una storia del Jazz, musica nera dei subalterni, firmata Frank Newton, tromba di Billie Holiday.
Ma è proprio Gramsci (anche lui cita il Jazz) che «sposta» il suo marxismo, predisposto ad assumere un certo punto di vista. Di lì viene ad Hobsbawm l’idea delle rivoluzioni come processi chimici, fluidi, variegati. Fatti di forze che si compongono e si rifrangono. Sotto onde d’urto internazionali, che si riversano nei contesti nazionali. Sotto forma di rivoluzioni «attive» e «passive». E con arretramenti, esplosioni, e avanzamenti sotterranei o improvvisi.
E qui c’è l’Hobsbawm «italiano», comunista britannico che sposa la «linea» del Pci e il suo metodo politico. Per Einaudi infatti diresse una Storia del Marxismo dove parla di «marxismi» e dove il marxismo italiano brilla per originalità e anti-fatalismo. E anche per «revisionismo». Benché, prima dell’89, Hobbsbawm «revisionista» non sia mai stato. L’ultima sua grande opera, Il Secolo breve, in questa chiave (gramsciana) è esemplare. Il sottotitolo recita: «Età degli estremi». Tra massacri di massa, tecnica, e benessere e diritti. Tra barbarie ed emancipazioni collettive. Con in mezzo «l’età d’oro» del Welfare, aiutato per Hobsbawm dal comunismo. Secolo culminato con il crollo del socialismo reale. «Breve» è il secolo, perché va dalla catastrofe imperialista del 1914 generativa dell’«Ottobre» fino all’ammaina-bandiera al Cremlino. E però l’ultimo Hobsbawm che passa da Kinnock a Blair per ripudiarli entrambi recupera in extremis la «lunghezza» del 900. Che si protrae e si riallunga ai suoi occhi. Con le guerre americane, i conflitti inter-etnici e le esplosioni generazionali arabe. Con il fondamentalismo e il trionfo del capitalismo finanziario. Le ultime parole chiave di Hobsbawm stanno nell’ultima pagina del suo ultimo libro del 2001: Come cambiare il mondo (Rizzoli). Eccole: «È ora di prendere di nuovo Marx sul serio».

l’Unità 2.10.12
Comunista a vita
L’autobiografia, la sua ultima impresa intellettuale
Lo studioso ci ha consegnato un racconto vivo e lucido degli intrecci del Novecento, tra vicende personali e grande politica
di Silvio Pons


ROMA L’AUTOBIOGRAFIA CHE HA COSTITUITO L’ULTIMA IMPORTANTE IMPRESA INTELLETTUALE DI ERIC HOBSBAWM («INTERESTING TIMES») È PROBABILMENTE DESTINATA, NEGLI ANNI CHE VERRANNO, AD ATTRARRE PIÙ LETTORI DELLA SUA CELEBRE NARRAZIONE DEL «SECOLO BREVE». Perché Hobsbawm ci ha consegnato un racconto vivo e lucido degli intrecci tra vicenda personale e grande politica, tra elaborazione della memoria e visione storica, che contiene una chiave di accesso al Novecento più sfaccettata e multidimensionale di una sintesi storiografica. Il suo sguardo retrospettivo può essere talvolta troppo coerente e persino indulgente, ma permette di capire motivi e implicazioni dell’appartenenza marxista e comunista anche a generazioni la cui esperienza è estranea alle passioni politiche e intellettuali del secolo scorso. Generazioni che potranno valutare quei motivi, come è giusto che sia, con un necessario distacco e forse con minore indulgenza.
Divenuto comunista nella Germania del 1932, pochi mesi prima dell’avvento di Hitler al potere, all’età di soli quindici anni, Hobsbawm rievoca un clima storico, quello dell’Europa tra le due guerre vissuto nell’epicentro della sua tragedia, e un orizzonte esistenziale segnati a fuoco dall’invasività della politica e dell’ideologia. Un nesso inscindibile che alimenta le scelte estreme compiute allora come scelte di vita, per lui come per molti altri. Impensabile l’opzione nazionalista per un giovane impregnato di identità ebraica, britannica e cosmopolita, Hobsbawm diviene «un comunista a vita» e riconosce che senza quell’identità la sua stessa narrazione autobiografica perderebbe ogni significato. È a partire da qui che il racconto di Hobsbawm si articola e si arricchisce in una lunga declinazione politica e intellettuale dell’identità comunista e marxista, una tradizione rivoluzionaria rivolta alla conquista del potere e dotata di una visione totalizzante della politica.
È costante in Hobsbawm l’accento sulla peculiarità della soggettività comunista, rispetto ad altre esperienze che si sono rappresentate come rivoluzionarie e sovversive, soprattutto quelle del ’68. Organizzazione, antiretorica, etica del sacrificio, fede nella scientificità del marxismo, internazionalismo sono, nel suo ricordo, gli ingredienti veramente essenziali dell’esperienza comunista, il suo nocciolo duro forgiato dal bolscevismo ed elevato a canone dallo stalinismo. I tratti di una setta religiosa tenuti insieme da una psicologia collettiva fondamentale: quella costituita dall’idea di combattere «una guerra onnipresente». Un’etica della durezza che comportò colpevole cecità dinanzi ai crimini di Stalin, spiegabile ma non giustificabile con l’impressione che il capitalismo liberale avesse storicamente fallito.
La maturazione intellettuale di Hobsbawm, avvenuta in prevalenza a Cambridge, non è mai slegata dalla passione politica. Anzi, l’identità antifascista gioca un ruolo decisivo negli anni della seconda guerra mondiale e del dopoguerra, anche per consolidare la lealtà all’Urss. Ma è soprattutto il peso specifico della guerra fredda ad acquistare centralità, sebbene non sempre in forma diretta. Con un caratteristico understatement, egli sostiene che la guerra fredda non interferì più di tanto nel lavoro degli storici, ma riconosce di aver operato una forma di autocensura evitando di affrontare la storia del Novecento, perché ciò lo avrebbe posto dinanzi a temi scomodi, a cominciare dalla storia dell’Urss (un’autocensura destinata a durare a lungo, e liquidata soltanto dopo la fine dell’Urss). Inevitabile osservare che la presenza dell’Urss resta ai margini dello stesso racconto autobiografico, pur incombendo in gran parte del libro. Quasi che Hobsbawm abbia trasferito nelle pagine dell’autobiografia una rimozione che caratterizzò i comunisti europei, anche se non tutti gli intellettuali marxisti, una volta cadute le mitologie sovietiche.
Come per molti altri comunisti, anche per Hobsbawm i nodi vennero al pettine nel 1956, un anno vissuto «sull’orlo dell’equivalente politico di un esaurimento nervoso collettivo». Tuttavia, né il «rapporto segreto» di Chruscev né l’invasione sovietica dell’Ungheria lo indussero ad abbandonare il partito, una scelta diversa da quella di altri intellettuali, che egli spiega alla luce della guerra fredda e del suo specifico legame generazionale con l’Urss. Di qui un’evoluzione intellettuale e politica disincantata rispetto alle nuove infatuazioni e alle mobilitazioni degli anni Sessanta, viste come un ribellismo culturale di stampo individualistico. Ma anche, si direbbe, una difficoltà a narrare la disgregazione dell’identità comunista, che proprio il ’68 doveva mettere a nudo.
Nella percezione di Hobsbawm, il collasso dell’Urss e del comunismo europeo non appare un evento liberatorio ma una componente decisiva della generale «frana» della civilizzazione.
Sarebbe davvero troppo chiedergli un punto di vista diverso. È lui stesso ad ammettere che, pur avendo abbandonato «il sogno della rivoluzione d’ottobre» dopo il 1989, non è mai stato capace di obliterarlo. In queste parole traspare un senso critico e una dignità intellettuale che costituiscono parte essenziale della sua eredità di storico.

l’Unità 2.10.12
«Il suo sogno? Fare una Storia totale»
Parla Rosario Villari suo amico per sessant’anni: «Aveva una visione universale. Nella biblioteca ho visto i suoi libri tradotti in tante lingue»
di Umberto De Giovannangeli


UN’AMICIZIA DURATA OLTRE SESSANT’ANNI. Fatta di una reciproca stima professionale, di lunghe e appassionate conversazioni che spaziavano dalla cultura alla politica; un’amicizia cementata dalla condivisione di una visione «universalistica» della Storia: Eric Hobsbawm visto dal suo amico: lo storico Rosario Villari.
Professor Villari quali ricordi ha di Eric Hobsbawm?
«Lo conoscevo dal 1950. Quando mi trovavo per lavoro a Londra spesso ero suo ospite. L’ho rivisto recentemente, il suo fisico era provato, ma fino all’ultimo ha mantenuto una grande lucidità ed è sempre stato aperto alle cose del mondo. Fino all’ultimo. S’interessava molto alle cose italiane, era informato, attento, curioso, stimolante.
Vede, in Eric ho sempre apprezzato il suo modo di pensare la Storia in termini mondiali. Il suo quadro di riferimento nella riflessione storica era il mondo. Da questo punto di vista era davvero eccezionale».
Qual è, dal punto di vista una storiografia sociale, un tratto distintivo della straordinaria produzione di Eric Hobsbawm?
«Il suo interesse, sempre vivido, alla storia delle classi popolari. Più in generale, la sua caratteristica peculiare era quella di analizzare i singoli avvenimenti, le questioni particolari, in un orizzonte sempre molto ampio. In questo senso, Hobsbawm si può definire lo storico del Novecento che ha dato una impronta universale al suo lavoro. E questa universalità della sua visione ha ricevuto un riconoscimento generale: dal presidente del Brasile a Giorgio Napolitano, che è stato un suo amico personale: ovunque Hobsbawm ha ricevuto un’accoglienza culturale e civile veramente straordinaria. Credo che sia stato l’autore più tradotto tra gli storici del Novecento. Nel suo studio, a casa sua, ho visto una quantità eccezionale di suoi libri tradotti nelle lingue più diverse». Tra le sue opere più conosciute al mondo c’è la «Storia del marxismo», da lui diretta. Cosa resta di questa storia nel Terzo millennio?
«Hobsbawm ha sempre concepito la storia in primo luogo come storia sociale, il che vuol dire che aveva interessi molto vari che spaziavano dall’economia alla sociologia, e ha investito campi amplissimi delle attività umane. La sua curiosità umana e intellettuale era “insaziabile”. Tra l’altro, ha scritto anche un libro sulla storia del jazz. Spesso avevamo parlato di quanto sarebbe stato importante fare una “Storia totale”. Ma questa discussione finiva sempre con la constatazione dell’impossibilità di una impresa del genere. Ma questa esigenza resta viva per la ricerca. Un “sogno” che Eric ha accarezzato e che spero un giorno possa essere realizzato anche in sua memoria».
Eric Hobsbawm e la sinistra. Se dovesse sintetizzare in un concetto, in una parola chiave, l’essere di sinistra di Hobsbawm...
«È un discorso molto complesso, dalle varie sfaccettature...Quello che posso dire è che per lui l’idea fondamentale, sul piano politico, era la conquista dell’eguaglianza in senso generale, a cominciare dai diritti sociali».
Questa nostra conversazione ha intrecciato un piano «professionale» alla testimonianza personale. E in ultimo vorrei che tornassimo su questo secondo aspetto. Cosa ricorda di questa amicizia, professor Villari?
«I ricordi si accavallano in questo momento di dolore. Ricordo l’ultima volta che ci siamo incontrati, nel maggio scorso a Londra. Eric voleva sapere della situazione in Italia, e non solo nei suoi complessi aspetti politici. Poi abbiamo parlato del mio lavoro, era da poco uscito il mio ultimo libro sul ‘600. Poi mi ha chiesto quali progetti avevo. Allora, gli confidai che avrei voluto raccogliere in un libro la mia esperienza culturale, un percorso di vita. Gli dissi che c’era la possibilità di farlo attraverso un libro-intervista con un giovane ricercatore. Gli chiesi un consiglio. Lui, come al solito, non si sotrasse. E sorridendo mi ha detto: “Rosario, o lo fai così o non lo farai”. Quelle parole furono il nostro commiato».

La Stampa 2.10.12
Nessuna salvezza al di fuori della Politica
Come costruire una società giusta prescindendo dalla natura e da Dio
di Giovanni De Luna


«Invenzione della tradizione», «gente che lavora», «gente non comune«, «secolo breve»; sono titoli di alcuni libri di Hobsbawm, ma soprattutto sono concetti diventati pilastri della storiografia contemporanea. Tutti insieme ci aiutano a capire i tratti profondi del nostro tempo. Perché questa è la grandezza di Hobsbawm: con il suo lavoro ha disegnato una sorta di mappa che ci consente di percorrere gli intricati itinerari della storia dell’umanità negli ultimi due secoli.
Prendiamo L’invenzione della tradizione. Nel libro del 1983, curato insieme con Terence Ranger, Hobsbawm si confrontava con la «nazione», un tema ritornato di grande attualità in questi anni di declino della sovranità degli Stati nazionali. «Per ”tradizione inventata”», scriveva nell’introduzione, «si intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità con il passato». Dietro questa definizione c’è la negazione di ogni fondamento etnico o biologico come base dell’esistenza della nazione, insistendo, piuttosto, su un fondo comune di uniformità di comportamenti e di valori, su una omogeneità di rivendicazioni e di interessi su cui si innestano le appartenenze simboliche e l’intero repertorio culturale (inni, bandiere, cerimonie pubbliche, eroi e monumenti) che confluisce, appunto, nell’«invenzione della tradizione».
La nazione è in questo senso una costruzione concettuale, una incessante invenzione di simboli e di memorie, e lo Stato ha continuamente bisogno di strumenti e metodi autocelebrativi per darsi significato e per diffondere nella società il senso di appartenenza caratterizzato dalla selezione di quanto si eredita dal patrimonio politico e culturale precedente e dall’invenzione di nuovi miti che devono essere immediatamente riconoscibili dalla maggioranza della popolazione, la quale deve essere coinvolta nel nuovo «sentimento nazionale».
Inventate, e quindi false, artificiose, cariche di incongruenze (che è compito degli storici smascherare), le «tradizioni» a cui si riferisce Hobsbawm sono tuttavia dinamiche, costruite attraverso un meccanismo creativo che restituisce interamente alla Politica e alle istituzioni la capacità di proporre riti e simboli che diventano un potente fattore spirituale di integrazione sociale. Una Politica che non è in grado di produrre simboli si riduce alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente; è una Politica esangue, senza anima, destinata a soccombere soprattutto in quelle fasi di discontinuità e di rottura in cui si è sollecitati non a gestire le vecchie tradizioni inventate da altri, ma a produrne di nuove, in grado di confrontarsi efficacemente con le rotture che attraversano il sistema politico, garantendo la continuità dei legami sociali.
C’è una forte passione civile dietro queste pagine. Molte tradizioni inventate sono patacche: si pensi al caso italiano della Lega Nord e alla sua «invenzione» delle ampolle, di Pontida, delle ascendenze celtiche; un’accozzaglia di simboli raccolta saccheggiando le guide turistiche delle Pro Loco prealpine. Ma tutto questo non esime una classe politica dalla necessità di legittimarsi anche sul piano simbolico, proponendo nello spazio pubblico della cittadinanza valori e appartenenze non legate al solo fatto di condividere tutti gli stessi interessi.
Hobsbawm credeva molto nella politica. Il suo marxismo, ribadito fino all’ultimo ( Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, Rizzoli, 2011) era in fondo questo: una grande fiducia nella capacità della politica e delle sue istituzioni di costruire una società più giusta prescindendo dalla natura e da Dio, proponendo all’uomo un nuovo ordine artificiale in cui riassorbire le ferite delle contese religiose e quelle della sua ferinità «naturale». Scrivendo del Novecento, il suo «secolo breve» ( Il secolo breve, Rizzoli, 1995), Hobsbawm ha scritto essenzialmente di questa grande illusione e soprattutto di se stesso.

Repubblica 2.10.12
Lo storico che ha fatto la storia inventando “il secolo breve”
di Guido Crainz


Un grandissimo storico, capace di sintesi eccellenti, di ampi sguardi comparativi e al tempo stesso di profondi lavori di scandaglio. Dotato di una scrittura avvincente e suggestiva, sorretta da una mole enorme di riferimenti culturali. Uno studioso straordinariamente e felicemente onnivoro, con un talento nello spaziare nei più diversi campi: attento alla società e ai grandi processi economici, ai simboli e ai rituali, alle utopie e agli orizzonti mentali del quotidiano. “Testimone” altissimo della possibile fecondità di un marxismo aperto, svincolato dalle ortodossie, ma al tempo stesso dei suoi interni limiti. Questo e molto altro è stato Eric Hobsbawm, che con i drammi del secolo ha fatto i conti sin dall’inizio della sua vita. Nato nel 1917 ad Alessandria d’Egitto da genitori ebrei — la madre proveniva dall’Austria asburgica, il padre da Londra, ove era giunto dalla Polonia russa — cresce poi nell’Austria impoverita e mutilata del primo dopoguerra. Orfano giovanissimo, si trasferisce a Berlino nell’ultimo, tragico periodo della Repubblica di Weimar, aderendo al partito comunista e abbandonando la Germania per Londra dopo l’ascesa al potere di Hitler. Sarà poi militante del piccolo e settario partito comunista inglese sino al 1956: vi rimarrà iscritto ma diventerà semmai – per usare le sue parole – “una specie di membro spirituale del partito comunista italiano, molto più consono alla mia idea di comunismo”.
La gran mole dei suoi studi sul movimento operaio è innovativa sin dall’inizio, sin nel suo porre al centro la storia sociale e culturale della classe operaia, non le sue organizzazioni. E nell’indagare anche, nei suoi primi lavori, le forme primitive di rivolta sociale, da I ribelli del 1959 a I banditi, di dieci anni dopo. Taluni limiti che questi libri mostrano oggi sono in qualche modo connessi al loro stesso fascino: alla sfida, cioè, di ricondurre fenomeni diversissimi ad alcune grandi chiavi generali, utilizzando anche fonti largamente trascurate sin lì dagli storici (poesie, ballate e così via). In comune con l’“ortodossia” rimane naturalmente l’idea che siamo qui ad una sorta di preistoria, e che solo lo sviluppo industriale permetterà l’affermarsi di un movimento operaio ideologicamente robusto, capace di dar vita a organizzazioni solide. A questa fase sono dedicati i saggi raccolti in Studi di storia del movimento operaio e poi in Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale, di vent’anni dopo: saggi che testimoniano la finezza delle sue analisi e il crescere progressivo della sua attenzione agli aspetti culturali e alle mentalità delle classi subalterne. Non manca di partecipare, infine, a una monumentale Storia del marxismo a più voci promossa dall’Einaudi. È questo uno dei filoni principali dei suoi studi, attraversati al tempo stesso da incursioni non usuali: dalla Storia sociale del jazz a un volume curato assieme a Terence Ranger, L’invenzione della tradizione.
Al centro di esso vi sono le forme di “invenzione della tradizione” che si collocano fra Ottocento e Novecento (e all’Europa nel suo insieme è dedicato il suo saggio): processi
culturali volti a costruire o ricostruire le identità collettive di fronte allo sgretolarsi delle società precedenti, e ai quali concorrono canzoni popolari e cerimonie pubbliche, pratiche sportive e modi di vestire, e così via.
Sono aspetti minori ma non marginali del suo impegno di storico, legato largamente a due progetti complessivi. In primo luogo la trilogia dedicata a un “lungo Ottocento”, che ha avvio all’inizio degli anni sessanta con Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, dedicato alla rivoluzione francese e alla rivoluzione industriale inglese (di cui fortemente sottolinea – qui e altrove – i costi sociali). L’Ottocento di Hobsbawm si presenta prima di tutto come Il trionfo della borghesia ( 1848-1875), per citare il titolo italiano della seconda opera. Segue poi L’età degli imperi, 1875-1914, nella quale inizia a inoltrarsi in “quella ‘zona crepuscolare’ fra storia e memoria che si colloca fra il passato come archivio generale (...) e il passato come parte o sfondo dei propri ricordi personali”. Era inevitabile il passo successivo, il confronto a tutto tondo con il Novecento: The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991, per citare il titolo originale del suo libro più famoso. Da noi diventa Il secolo breve, con la sottolineatura dall’arco temporale proposto: dalla prima guerra mondiale al crollo dell’impero sovietico. Scandito dall’“età della catastrofe”, fra le due guerre mondiali; dall’“età dell’oro” iniziata nel 1945 e interrotta dalla crisi petrolifera del 1973; e infine dalla “frana” dei due decenni successivi. Si concentrano in questo volume i tantissimi pregi del suo lavoro, dalla straordinaria ricchezza dei riferimenti culturali alla affascinante sfida di una interpretazione complessiva, disertata sin lì dagli storici del Novecento (e Hobsbawm ricorda di esser stato piuttosto storico dell’Ottocento). Vi affiorano però anche alcuni limiti connessi alla sua impostazione di fondo, pur vissuta in modo aperto: di qui l’idea di un ruolo sostanzialmente progressivo, nonostante tutto, della rivoluzione d’ottobre, che condiziona i giudizi stessi sulla “guerra fredda” e sulle fasi successive. Ancora qualche anno dopo nella sua affascinante autobiografia, Anni interessanti, scriverà: “Il sogno della Rivoluzione d’ottobre è ancora dentro di me da qualche parte”. Questo era Eric Hobsbawm, uno dei più grandi intellettuali del Novecento.

Repubblica 2.10.12
L’intervista inedita
“Perché essere obiettivi è una utopia”
di Enrico Franceschini


In questo colloquio, il pensatore spiegava le difficoltà del mestiere e di come fosse arduo fare il punto sul concetto di Europa: siamo tutti condizionati

Professor Eric Hobsbawm, pensa sia possibile scrivere una storia comune dell’Europa del ventesimo secolo, non dal punto di vista di una nazione o di uno storico, bensì quale storia
«Innanzi tutto siamo troppo vicini al ventesimo secolo per poter avere un accordo generale fra i paesi europei sugli avvenimenti che lo hanno caratterizzato. L’Europa del Novecento è stata in larga misura un continente così diviso, politicamente ed ideologicamente, che sarebbe molto difficile trovare un terreno comune per raccontarla. Ma non dico che ciò sarebbe impossibile. Dico che non sarebbe affatto semplice».
È stato Günter Grass a proporre qualche anno fa agli storici un progetto di questo genere. A dispetto delle difficoltà, lei sarebbe d’accordo con l’idea?
«Sì, sono d’accordo, simpatizzo con la sua esortazione e credo di capire cosa intendesse. Penso che Grass abbia voluto esortare a dare un taglio netto alle ricostruzioni storiche interamente nazionalistiche, oppure interamente occidentali
od orientali. L’esigenza di superare questa divisione tra la storia vista da est e la storia vista da ovest è legittima, realistica, e io la appoggio in pieno. Però non sono sicuro che sia possibile tradurla nella pratica in un libro di storia».
Dove comincia e dove finisce, il concetto di Europa?
«Il concetto odierno di Europa è più vasto dei paesi che costituivano l’Europa nel 1914. Più vasto, anche, dei paesi che oggi sono membri dell’Unione europea. La Russia, naturalmente, dovrebbe farne parte. Qualche storico, d’altra parte, potrebbe obiettare che un simile concetto è ingannevole, e che l’Europa è soltanto un’espressione geografica».
Lei ha sottolineato le differenze ideologiche che sopravvivono nel continente. Ma quali sono invece i legami più stretti, le caratteristiche più comuni della storia
«La cultura, la scienza, la tecnologia, sono tutti campi in cui è esistito un senso comune di appartenenza. Ma anche in questo campo possono nascere divergenze. Anni fa l’Unesco provò a compilare una storia comune del mondo: fu un fiasco totale, perché ogni nazione della terra pretendeva di avere uguale spazio, uguali meriti, uguali riconoscimenti».
Ma uno storico non dovrebbe raccontare la storia in modo obiettivo?
«In teoria sì, ma esistono innegabili condizionamenti. Perciò dico che l’idea di una storia comune mi piace. Ma se si può scrivere davvero, una simile storia d’Europa, non lo so».
Anche lei pensa di aver subito “innegabili condizionamenti”?
«Sono stato condizionato dall’epoca in cui ho vissuto, segnata dalla Seconda guerra mondiale, dalle grandi rivoluzioni, da un mondo diviso dalla guerra fredda, dalle lotte operaie e sindacali per rendere più umano il lavoro, tutti fattori che hanno inevitabilmente influito sul mio pensiero e sulle mie opere».
Hanno condizionato anche il suo giudizio positivo del comunismo?
«È inevitabile. Lo storico totalmente obiettivo è un’utopia, è sempre condizionato nei suoi giudizi, sia che riguardino un passato lontano, sia che tocchino un passato più vicino».

l’Unità 2.10.12
Nel Pd crescono i malumori «Non ricandidare gli uscenti»
Marco Miccoli: «Non è possibile che il convento sia povero e i frati ricchi, metà dell’indennità vada al partito non ai comitati elettorali»
di Jolanda Bufalini


Il sasso nello stagno l’ha gettato il circolo Pd di Trastevere con una lettera aperta a Bersani e Gasbarra: «I consiglieri del Pd alla Regione, senza alcuna eccezione, scrivono i trasteverini sono venuti meno al Codice Etico e al Codice di responsabilità degli eletti democratici», la richiesta è «un provvedimento esemplare», «non siano più ricandidati a nessuna carica politica o amministrativa». Spiega Giancarlo Ricci, il segretario: «Mentre si tagliavano posti letto e assistenza crescevano le risorse per i gruppi e il gruppo Pd ha accettato passivamente e taciuto su ciò che avveniva». Usa le stesse argomentazioni la Velina rossa: «Per essere credibile il Pd deve adottare la linea dura con i suoi». Il sasso ha messo in movimento anche altre realtà della capitale, ieri sera si riunivano i circoli del primo municipio, Salario-Trieste sta preparando l’assemblea degli iscritti, domani la discussione si sposta nella direzione regionale. La pressione per un rinnovamento radicale viene anche da gruppi della maggioranza del partito, per Ugo Sposetti «lo scandalo dei fondi Pdl ha danneggiato in modo gravissimo l'istituzione regionale e i partiti. I consiglieri possono tornare alle precedenti occupazioni. Non muore mica nessuno». È d’accordo Giovanni Bachelet: «Ci vuole un organismo esterno che verifichi i finanziamenti ai gruppi, va posto un tetto alle spese elettorali, e ci vogliono persone nuove».
Accanto all’esigenza del rinnovamento, però, c’è la preoccupazione di un calderone in cui, alla fine, tutto cambi per non cambiare nulla. Tutti precisano: fra noi non ci sono i Fiorito. Valentina Caracciolo, 39 anni, segretaria del circolo Trieste-Salario: «Ci vuole un segnale di cambiamento ma evitiamo di fare tribunali del popolo, non tutti i consiglieri si sono comportati allo stesso modo, c’è chi ha detto no al proliferare delle commissioni». Giacomo Marchese, 30 anni, segretario di Fontenuova (Roma): «Sarebbe stato più opportuno non avallare decisioni prese dalla maggioranza della Polverini ma la valutazione del gruppo non si fa su un singolo episodio». Fiorenzo De Simone, segretario del circolo di Vicovaro (Roma): «Sono a favore del rinnovamento ma di tutta la classe dirigente del partito. I due anni e mezzo della Polverini sono stati il governo peggiore nel Lazio e la nostra opposizione doveva essere più incisiva».
Fra i dirigenti romani c’è chi è completamente contrario a «fare di tutta l’erba un fascio», Eugenio Patanè (presidente del Pd romano): «Mi fa orrore che si paragoni il Pdl al Pd, in aula il gruppo ha sempre votato contro, mentre nelle delibere della presidenza non poteva interferire. Fare posto al rinnovamento è giusto, per questo si può rinunciare alle deroghe per la terza candidatura. Ma dire a Mario Perilli, la persona più per bene del mondo, che non si deve ricandidare per lo scandalo dei fondi Pdl non mi sta bene. C’è un limite al grillismo, non si può mettere sullo stesso piano Enzo Foschi, che rinuncia al vitalizio, con Batman Fiorito».
A una direzione regionale che si annuncia incandescente, il segretario romano Marco Miccoli, chiede «una discussione serena e seria». Ma vuole partire dal fatto che il «tutti a casa» di Zingaretti, «l’elettroshock» di Gasbarra e «l’autocritica di Montino» non giustificano «eccessi di giustizialismo». Prima delle «epurazioni», sostiene il segretario romano del Pd, «bisogna discutere cosa si è sbagliato in vent’anni perché la sequenza Storace, Marrazzo, Polverini la dice lunga». «Oggi il spiega capo segreteria del presidente della Regione è più potente del segretario di un partito, basti dire che la Polverini aveva 12 milioni sul suo bilancio personale per la comunicazione». Il Consiglio regionale deve dimagrire, «costare 8 anziché 18 euro a cittadino del Lazio, allineandosi all’Emilia Romagna». Il rinnovamento ci vuole: «È assurdo che l’unica donna, Daniela Valentini, sia entrata perché purtroppo è morto Mario Di Carlo», ci vogliono «giovani, pluralismo e territorio» ma anche il bilancio personale dei consiglieri deve fare la dieta: «Il 10% dell’indennità dato al partito va bene se si guadagnano 1500 euro ma, se l’indennità è 12.000 euro, allora al partito deve andare la metà», i circoli sono in difficoltà, le federazioni fanno sacrifici e invece «prosperano i comitati elettorali», «non è possibile che il convento sia povero e i frati ricchi».

La Stampa 2.10.12
Regole Pd, un referendum su Bersani
Primarie, sabato si decide. Il nodo della liberatoria. I renziani dicono no
di Carlo Bertini


Un amante delle sintesi ad effetto come il «blogger-deputato» Mario Adinolfi lo definisce «un voto di fiducia per Bersani». Certo sarà un test significativo quello che andrà in scena sabato all’Ergife di Roma dove i delegati del Pd dovranno esprimersi sulla deroga allo statuto per far sì che altri candidati oltre al segretario (cioè Renzi) possano gareggiare alle primarie di coalizione. E il primo scoglio per la nomenklatura sarà garantire il numero legale (la maggioranza più uno dei mille aventi diritto) perché altrimenti tutto l’impianto delle primarie salterebbe con un colpo durissimo alla leadership di Bersani.
In camera caritatis c’è chi si chiede quali garanzie possa offrire in queste ore il segretario ai capicorrente impensieriti dal dover fare i conti con Renzi il giorno dopo le primarie, anche su temi scottanti come «quote» nei posti apicali e liste elettorali. Ma a parte questi «dettagli», l’assemblea dovrebbe pure votare i vincoli per le candidature dei membri del Pd e lì si celano altre insidie: oltre alle 20 mila firme in 10 regioni richieste a tutti i candidati della coalizione (ancora da formare), quelli del Pd dovranno procurarsi anche quelle di un centinaio di delegati: l’effetto scrematura lascerebbe sul campo solo Renzi e Bersani, con Vendola e Tabacci.
Ma dopo settimane di battibecchi sulle regole, nei contatti riservati tra gli staff lo scontro non è sul doppio turno, gradito anche a Renzi, bensì sulla modalità con cui costruire l’albo degli elettori: l’ultima trovata è che per accedere ai gazebo si dovrà firmare un appello pubblico a votare centrosinistra alle elezioni; iscrizioni aperte prima del 25 novembre e fino al secondo turno del 2 dicembre. Ma sarà chiesto anche di firmare una liberatoria per l’utilizzo dei dati personali e questo è il vero punto del contendere. Renzi non ne vuol sapere di questa violazione della privacy che scoraggerebbe chi per ragioni varie non voglia far sapere come la pensa; e i renziani, che in queste ore lievitano di numero anche tra i mille delegati, sconsigliano vivamente tutte le formule che abbiano «un sapore di blocco della partecipazione spontanea, perché non convengono a nessuno in questo momento».
Insomma, tutta questa trattativa influirà non poco sulla tenuta dell’assemblea di sabato e sulla possibilità per Bersani di uscirne indenne. Perché il «sentiment» diffuso tra le correnti che sulla carta lo sostengono nella disfida contro Renzi, è che il segretario debba garantire paletti che riducano il rischio inquinamento da parte di simpatizzanti di centrodestra e quello di una sconfitta che farebbe deflagrare il partito.
Anche perché gli ultimi sondaggi ormai fotografano una rincorsa sempre più ravvicinata: quello di Ipr Marketing lanciato ieri sera dal Tg3, vede Bersani al 39%, Renzi al 34% e Vendola distaccato al 18%.
E se non è un mistero che i maggiorenti del partito son sempre stati perplessi su queste primarie aperte, decise prima di sapere se la legge elettorale conterrà o meno un premio di coalizione, ecco perché non è così improprio dire, come fa Adinolfi, che quello di sabato sarà un voto di fiducia sul segretario. «Prevedo un sì al cloroformio, con un’assemblea anestetizzata, ma se si aprono le danze potrebbe succedere di tutto...».

l’Unità 2.10.12
È la modernità la sfida della classe dirigente
L’Italia deve capire in che modo andare verso la formazione del super-Stato europeo
di Alfredo Reichlin


La sinistra non è contenta di se stessa. Si lamenta, si divide. Per tante ragioni comprensibilissime ma (a mio parere) per una sopra tutte: perché troppi leggono il mondo con gli occhi del passato. Perché il consenso per Renzi ci sorprende? Su questo tema veramente cruciale del rinnovamento, che se non ha una guida può portare l’Italia a una crisi di regime, vorrei dire qualcosa. Parto dalle cose di oggi. Dalla drammatica situazione in cui l’Italia continua a essere immersa. Un Paese che da un lato è sotto il peso di una crisi economica epocale, che non è congiunturale ma che lo rimette in discussione come grande Paese industriale e società del benessere. Dall’altro che non riesce a fare il salto nella modernità. Perché di questo si tratta. La modernità. Cioè non il «nuovo» (il banale cambiamento delle cose) ma quella rara vicenda in cui si apre una nuova storia e la politica se non lo capisce diventa vana chiacchiera condita con ostriche e champagne per le mezze calze. Io credo che di questo si tratta. Siamo rimasti indietro di venti anni (la imperdonabile colpa di Berlusconi) e se la gente non ha più fiducia nella politica non è perché è qualunquista, ma perché sente che la stanno tagliando fuori dal mondo nuovo che avanza.
Di questo si tratta. Così a mio modesto parere dovrebbe parlare il capo della sinistra. Noi vogliamo governare non per sete di potere ma perché sentiamo la responsabilità di evitare che l’Italia faccia la fine del ’600. Si formava allora l’Europa moderna delle grandi monarchie continentali e noi divisi tra venti staterelli stupivamo il mondo con il lusso delle piccole corti e le invenzioni dei grandi avventurieri: i Casanova, i Cagliostro. Così di nuovo accadde 20 anni fa con Berlusconi. Così potrebbe accadere oggi. Il problema che sta di fronte agli italiani è di una chiarezza assoluta. Sotto i nostri occhi si sta compiendo un nuovo grande balzo nel moderno. Parlo della formazione di una sorta di super-Stato europeo il cui potere sulle nostre vite quotidiane è già enorme. Ce ne siamo accorti? Come va l’Italia a questo appuntamento? Con quale idea di sé e del suo destino, con quale raggruppamento di forze politiche e sociali? Con quale asse di governo, cioè con quale patto politico capace di tenere insieme il meglio delle sue risorse, che alla fin fine sono quelle del lavoro e dell’impresa, del saper fare e della solidarietà sociale? Ecco perché sono molto preoccupato. Perché questo è il tema che rischia di essere smarrito nella confusione delle primarie del Pd e nelle dispute sull’agenda Monti. Cerchiamo di non smarrire il tema delle grandi scelte e quindi delle vere alternative tra vecchio e nuovo che stanno davanti al Paese. L’altro giorno ero all’assemblea Svimez. Lo stato del Mezzogiorno che usciva da quelle analisi era semplicemente catastrofico: dalla chiusura delle ultime grandi fabbriche, alla metastasi della corruzione, al collasso della vita civile (legalità, diritti, scuola, servizi sociali) fino ormai a un impoverimento tale del tessuto umano per cui un milione e mezzo di persone, soprattutto giovani e ceti acculturati sono emigrati negli ultimi anni. Hanno abbandonato la terra dei loro padri. Il problema che balzava agli occhi era chiarissimo, ed era straordinariamente politico; non era il deficit di trasferimenti ma il rischio che il Mezzogiorno finisca sempre più ai margini della nuova Europa che, di fatto, sta già ridisegnando le sue frontiere non soltanto economiche. Dentro o fuori? Stiamo attenti, si stava parlando del 40 per cento del Paese, dei luoghi della civiltà greco-romana, di Napoli e di città come Siracusa dove migliaia di anni fa la gente andava la sera al teatro per ascoltare la tragedia di Sofocle mentre il popolo padano viveva ancora nei boschi e adorava il dio Po. In quella mattinata gli economisti ci sommersero di cifre e di tabelle e il ministro fu bravissimo nel dire come qualcosa si poteva fare subito. Ma i politici tacquero. Che cos’è una classe dirigente se non è in grado di rispondere a interrogativi come questi dai quali dipende davvero il futuro dell’Italia?
Mario Monti si è dichiarato disposto, se richiesto, a non abbandonare il suo impegno politico. Il che non mi sembra una cattiva notizia, trattandosi dell’uomo che grazie a noi e insieme a noi ha lavorato per evitare all’Italia la bancarotta. Comunque si vedrà, decideranno gli elettori. Ma ciò che mi chiedo è perché parliamo tanto di Monti e non parliamo di noi? Noi non siamo l’ultima propaggine della vecchia sinistra che difende la sua residua identità facendo opposizione a Monti. La nostra «agenda» è più ricca di quella di Monti. Basti pensare che noi siamo un pezzo della formazione di una nuova cultura politica europea. Cioè di quella corrente politica e ideale alla quale spetta sgombrare il campo dalle macerie dell’orgia speculativa di questi anni e indicare le nuove vie dello sviluppo. Qualcosa che va oltre l’«agenda Monti». Conosco le enormi difficoltà, mi tengo cara la collaborazione delle grandi tecnostrutture europee ma io parto dall’idea che, finalmente, i grandi irrisolti problemi italiani (ne cito tre, essenziali: la corruzione, la caduta della produttività del sistema, il rischio che la metà meridionale del Paese si stacchi dall’Europa) vanno ormai chiamati col loro nome. Non sono problemi tecnici ma nodi storico-politici che richiedono nuovi patti sociali, formazione di classi dirigenti, e quindi larghe alleanze. Il Pd collabora con Monti, ne ha grande stima ma porta dentro di sé ben altre storie. Per esempio quella di Di Vittorio. L’Italia unita non l’hanno fatti i tecnici dell’Ocse ma uomini come questi. Di Vittorio era un grande uomo di governo perché ha dato ai lavoratori italiani il senso della loro missione e delle loro responsabilità nazionali, ma anche perché aveva una idea moderna della politica. La politica come nuova soggettività anche sociale perché solo la politica può unire questo Paese e dare voce anche agli ultimi, a quelli che stanno sempre sotto.
Come si può ricostruire un Paese come l’Italia se non si forma una nuova classe dirigente che abbia un pensiero autonomo sulla nazione e una sua visione dello sviluppo? E come si può formare questa classe dirigente se la politica, sia pure con facce nuove, è sempre la stessa cosa. L’eterno ritorno del sempre uguale: i mercati governano, i tecnici eseguono, i politici vanno in televisione a esibire se stessi. Il popolo resta sempre sotto.

La Stampa 2.10.12
“Per conservare l’euro serve un’Europa-nazione”
Guy Verhofstadt «Il risanamento sta uccidendo Grecia e Spagna»
di M. Zat.


Un libro per cambiare la storia. Un manifesto «Per l’Europa», come recita il titolo. Guy Verhofstadt, il primo dei due autori, il liberale ex premier belga, lo introduce come «un attacco alla classe politica continentale, scritto con rabbia». L’altro, Daniel CohnBendit, il leader rosso del ‘68 parigino divenuto capogruppo verde a Strasburgo, giura che si tratta del solo antidoto alla crisi permanente. «I mercati hanno distrutto la sovranità degli stati europei - dice l’eurodeputato francotedesco -. L’unico modo per riconquistarlo è attraverso il rafforzamento dell’Europa».
Non è il momento migliore per parlare di federalismo, ma è proprio questo che spinge la «Strana coppia» a giocare all’attacco. E’ il ritorno degli euroscetticismi e dei populismi che li spaventa, c’è bisogno di spingersi oltre e di farlo bene. «Ci siamo detti che così non poteva andare avanti», sbotta Verhofstadt, capo del Libdem al parlamento Ue. «Le ricette sono tutte sbagliate, quello che si chiede a Spagna e Grecia è tanto inumano quanto pericoloso», aggiunge Daniel il Rosso. «A queste condizioni - insiste Madrid non uscirà dalla crisi». E Atene, prosegue, ha bisogno di più tempo: «Ricordate il Congresso di Versailles, dopo la Grande guerra? La Germania è stata schiacciata e questo ha aperto la strada al nazismo. Con la cura applicata sinora stiamo mettendo in pericolo la sostanza democratica della società greca. La spingiamo in mani ai nazionalisti».
«Per l’Europa! Manifesto per una rivoluzione unitaria» è scritto a quattro mani. Esce in sette lingue, per ora. L’edizione italiana (Mondadori, 10 euro) sarà presentata oggi a Roma alla presenza del premier Monti. In Grecia, i due autori hanno ottenuto la diffusione gratuita: «E’ importante passare il messaggio ed è ora che il popolo ellenico smetta di pagare per l’Europa».
Il volume difende l’approccio rigorista, ma invita a non esaltarlo e punta sulla solidarietà. Dice Verhofstadt che «Monti e Rajoy sono nelle stesse condizioni; metà dell’immenso lavoro di riforma viene mangiato dall’esigenza di pagare tassi elevati a investitori che vivono fuori dall’Europa». Il problema, continua il fiammingo, è la liquidità: «La Slovenia ha il debito sotto il 60%, il deficit prossimo al 3 eppure va sul mercato al 5% perché manca la liquidità. Bisogna riscrivere lo slogan di Clinton. Non “è l’economia, stupido”. E’ la liquidità! ».
La soluzione proposta è che il prossimo parlamento Ue, quello che voteremo nel 2014, sia costituente e disegni una nuova Europa coesa davvero, con una «legge fondamentale, semplice, senza possibilità di esenzioni». O tutto, o niente. «Non è possibile conservare l’euro senza cambiare gli Stati-Nazione - ammettono Verhofstadt e Cohn-Bendit - O nasce uno stato federale europeo oppure la moneta unica scomparirà. Nessuna via intermedia può essere presa in esame». C’è l’Unione che fa la forza, oppure la disgregazione. A Altiero Spinelli sarebbe piaciuto assai.

l’Unità 2.10.12
C’è tanta differenza tra destra e sinistra
di Nicola Cacace


IL PREMIO NOBEL JOSEPH STIGLITZ, NEL SUO ULTIMO LIBRO, THE PRICE OF INEQUALITY (IL PREZZO DELLA DISEGUAGLIANZA) ha evidenziato come le diseguaglianze nel mondo globalizzato siano alla base della crisi di molti Paesi. Egli riconferma il dato che nella società della conoscenza mentre il capitale è mobile, la risorsa umana resta locale e questa si conferma il primo fattore di successo di imprese e Paesi e di attrazione degli investimenti. Emblematico il caso della Svezia, Paese ad alta pressione fiscale e dal costoso welfare universale, tra i primi paesi occidentali per eguaglianza ed attrazione di Ide, investimenti diretti esteri, sino al 30% degli investimenti fissi (Italia è al 3%).
Stiglitz cita il caso degli Stati Uniti, Paese ad alta diseguaglianza dove, negli ultimi decenni, da Reagan in poi, la ricchezza si è accumulata a favore dell’1% delle famiglie, col restante 99% che ha perso potere d’acquisto. L’effetto delle diseguaglianze sullo sviluppo è ancora più evidente in Europa, data la ricchezza di dati significativi, in particolare l’indice Gini, che misura le diseguaglianze di reddito, con valori che vanno da 0 (Paesi teoricamente a perfetta parità di redditi) ad 1 (Paesi col massimo di diseguaglianze). Questi dati confermano ancora una volta che i Paesi a più alta diseguaglianza, indice di Gini superiore a 0,3, sono quelli più in crisi e il cui reddito è cresciuto meno. In particolare i principali Paesi a maggior diseguaglianza dell’Eurozona sono Portogallo (Gini 0,36), Grecia (0,33) e Italia (0,32), mentre i Paesi con distribuzione dei redditi più equa sono Germania (0,29), Francia (0,28), Olanda e Belgio (0,27), Austria e Finlandia (0,26).
Non è un caso che i Paesi meno diseguali, siano cresciuti molto più dei secondi: nei 6 anni 2005-2010 il tasso cumulato di crescita del Pil è stato del 5% in Francia, dell’8% in Germania, Belgio e Finlandia, del 9% in Olanda ed Austria, mentre è stato del 4% in Grecia, del 3% in Portogallo e del -0,1% in Italia. I Paesi europei più «eguali» sono cresciuti più dei Paesi più «diseguali», con due eccezioni che confermano la regola, Spagna ed Irlanda, Paesi ad alta diseguaglianza (Gini 0,32) il cui Pil nel sessennio è cresciuto molto (8%), grazie solo alle Bolle immobiliare e finanziaria, che successivamente questi Paesi stanno pagando duramente con recessione e disoccupazione.
Ho ricordato questi dati per spiegare due assunti: A) esistono ancora oggi differenze nette tra destra e sinistra, differenze diverse da quelle classiste di una società che non c’è più, ma differenze giustificate da nuove stratificazioni sociali tra vertice e base della società. Una destra che chiede libertà senza eguaglianza e una sinistra che chiede libertà con eguaglianza; B) un governo politico di centrosinistra è da preferire ad un governo tecnico-bis, essendo il primo teso a mantenere gli impegni con l’Europa sia pure in un quadro di maggiore equità sociale, a differenza del secondo.
I casi della politica fiscale seguita in Francia dal presidente Hollande più tasse ai ricchi, Tobin tax per la finanza, etc.e quella seguita anche in Italia da Monti Imu sulla casa senza alcuna progressività per i multiproprietari, astensione a Bruxelles sulla Tobin tax anche per i condizionamenti della destra, sono esempi concreti di differenze politiche significative. Ecco perché il Pd non può non rifiutare l’ipotesi di un governo Monti bis, a priori e senza vaglio elettorale, pur riconoscendo al professore tutti i meriti acquisiti, tra cui quello di aver tirato il Paese fuori dal baratro in cui Berlusconi lo aveva avviato.
A prescindere da questioni di forma non marginali la farsa di una manifestazione elettorale con un candidato premier virtuale contro candidati in carne e ossa un governo tecnico-bis non potrebbe perseguire gli obiettivi di eguaglianza del centrosinistra. Questi alcuni significativi motivi per rifiutare l’ipotesi di un Monti-bis, definito a priori prima di una eventuale emergenza di ingovernabilità, oltre che per il rispetto degli elettori e dello stesso professor Monti, la cui nota coerenza di democratico e liberale, sono sicuro, lo sottrarrà all’abbraccio interessato di liste, movimenti e partiti, tesi solo, strumentalizzando la sua credibilità, ad evitare una sconfitta annunciata. Appoggiare Monti a priori, come chiedono anche alcuni amici e compagni del Pd, oltre a umiliare elettori e politica, significherebbe distruggere l’anima e il corpo dell’unico partito che vuole eguaglianza nella libertà.

Repubblica 2.10.12
La scomparsa del popolo
di Alberto Asor Rosa


L’ONDATA d’indignazione e di condanna seguita alla pubblicizzazione dei dati (certo impressionanti) sulla corruzione regionale laziale – molto commendevole, anche se in ritardo – ha lasciato in ombra un tentativo di analisi sociale del fenomeno.
Prima di lasciar la parola agli esperti, esporrei la mia tesi: e cioè che degrado, deperimento dei valori e corruzione (non più eccezionale, ormai, ma endemica, diffusa e resistente) affondino le radici in un vero e proprio spappolamento socio-economico del popolo italiano.
Io sono uno che, molti anni fa, ha creduto che dalla classe operaia sarebbero scaturite le nuove élite, destinate a guidare verso altri traguardi i destini nazionali. Ciò, come è evidente, non è accaduto: la classe operaia, oggi, lotta prevalentemente, e spesso con vera disperazione, per la propria fisica sopravvivenza. Ma non è neanche accaduto che le fonti tradizionali di formazione delle élite (i partiti, le classi sociali dominanti) abbiano continuato, come per un certo periodo era accaduto, a farlo. Dov’è stata la borghesia, c’è stata una borghesia in Italia in tutti questi anni?
È endemica l’assenza di compattezza e di consapevolezza da parte del popolo italiano (endemica in questo caso vuol dire: secolare). In Italia niente mai che abbia interpretato il ruolo di le peuple o di das Volk (magari anche con gli aspetti retorici e reazionari che essi a casa loro hanno talvolta assunto, ma al tempo stesso con gli innegabili vantaggi che ne sono derivati, dentro e fuori i confini statuali). Fra la Liberazione e, grosso modo, gli anni ’70 ha sopperito l’azione dei grandi partiti di massa (sopperito, si badi bene, non sostituito). Quando tale azione è venuta meno, è cominciata l’opera di sfarinamento, su di un soggetto in partenza assai debole, di cui vediamo oggi gli esiti ultimi. Se le classi tradizionali e i cosiddetti “ceti intellettuali” (professionisti, insegnanti, persino imprenditori) si sono ritirati sullo sfondo, a contemplare, più allibiti che critici, più passivi che attivi, lo sfascio dilagante, cosa resta al centro della scena?
Recentemente si è tornati a parlare, anche a sinistra, anche dai miei vecchi sodali operaisti, di popolo. Ma la categoria, e soprattutto la realtà, ne sono profondamente mutati. Popolo è concetto nobile, non merita d’essere banalmente assimilato all’uso che se ne fa nelle pur giuste polemiche antipopuliste.
All’inizio del degrado ci sono la crisi della politica e la catastrofe dei partiti di massa fra gli anni ’80 e i ’90. Le ha aperto la strada, e proprio nello specifico senso che stiamo usando, la precorritrice, devastante avventura craxiana. Poi è intervenuta, partendo esattamente da lì dentro (anche in senso strettamente sociologico) e fornendo al tempo stesso alla populace una miriade di modelli assolutamente simpatetici e imitabili, la lunga fase berlusconiana. Infine, più recentemente, è sopravvenuta, in maniera forse inaspettata ma non irrilevante, una forte componente neo-veterofascista: il fascismo, quello autentico, è sempre stato portatore di una disponibilità corruttiva profonda. Il risultato è stato devastante: il popolo italiano si è disgregato in una serie di frammenti, spesso contrapposti fra loro e ognuno alla ricerca della propria personale, individuale e/o settoriale ricerca di affermazione, di denaro e di potere (esiste anche una variante localistica di tale dissoluzione, gravida tuttavia anch’essa di fattori di corruttela: il leghismo ne rappresenta il frutto e l’interprete più autentico).
Dallo spappolamento e dalla scomposizione della “figura popolo”, e di coloro che per un certo periodo di tempo avevano più o meno legittimamente preteso di assumerne la rappresentanza, è emerso un nuovo ceto sociale, il residuo immondo che sopravvive quando tutto il resto è stato digerito e consumato. Il vero, grande protagonista della corruzione italiana è questo ceto sociale, una classe tipicamente interstiziale, frutto dello spappolamento o dell’emarginazione o del volontario mutismo delle altre, priva assolutamente di cultura e di valori, ignara di progetto, deprivata all’origine e secolarmente di ogni potere, oggi famelicamente alla ricerca di un indennizzo che la risarcisca della lunga astinenza (oltre che i consigli regionali riempie freneticamente gli outlet, inonda le autostrade di Suv, aspira ad una visibilità da ottenere con qualsiasi mezzo, non teme per questo né il grottesco né l’osceno, parla una lingua che non è più l’italiano ma una sua bastarda, ridicola caricatura). Insomma, come in un incubo notturno il sogno berlusconiano ha preso corpo.
Tale classe, non solo promossa ma anche furibondamente corteggiata da alcuni, ma anche autopromossa in numerosi altri casi, ha cominciato a invadere la politica nazionale, si affaccia qua e là nei gruppi dirigenti di taluni partiti, siede ormai in abbondanza nelle aule parlamentari. Ma ha preso già direttamente il potere in numerose realtà regionali, sotto e sopra la linea delle palme, a testimonianza del fatto che il fenomeno è effettivamente nazionale, non locale. La precisazione che a questo punto ne facciamo induce forse a pensare che l’istituzione regionale abbia a che fare con la crescente affermazione di tale classe in politica e nella gestione del potere in Italia? Non avrei dubbi a rispondere affermativamente.
In un Paese come il nostro dove le peuple non è quasi mai realmente esistito e l’idea di nazione è sempre stata così fragile e precaria (può esistere una nazione senza un popolo? può esistere un popolo senza una nazione?), la regionalizzazione ha aggravato le resistenze al processo unitario e ha spinto in avanti un ceto politico improvvisato e parassitario. Siamo ancora in tempo: invece di abolire le province, che sono innocue, bisognerebbe abolire le Regioni e tornare allo Stato unitario (meno ceto politico, enormemente meno spese, rafforzamento utile e conseguente dell’istituzione comunale, l’unica veramente italiana).
Se queste considerazioni fossero minimamente fondate, ci vorrebbe ben altro per battere l’abominevole classe emergente che una campagna (del resto molto, molto tardiva) di moralizzazione, diciamo così, di tipo pecuniario. Bisogna combattere e cancellarla in re, cioè nei suoi motivi sostanziali di sopravvivenza e di... fioritura. La situazione è tanto grave che persino una parte del movimento soi disant d’opposizione assume modi, linguaggi e richieste dell’abominevole classe (Grillo, ovviamente, ma non solo). Ricomporre il popolo, pur nella diversità delle opinioni politiche, dandogli una prospettiva strategica che punti innanzi tutto all’isolamento, alla sconfitta e alla cancellazione dell’abominevole classe emergente, è il compito di questo grande momento che sta di fronte ai nostri politici sani: moralità, sì, ma al tempo stesso contegno e cose e sostanza – insomma, la riforma intellettuale e morale, ma accompagnata da un serio programma economico. Chi avrà il coraggio e la forza di assumerselo fino in fondo?

l’Unità 2.10.12
Cie di Lamezia sbarre senza salute
di Flore-Murard Yovanovitch


GABBIE GIALLE E FRESCHE DI PITTURE, MA GABBIE LO STESSO. MIGRANTI RINCHIUSI DIETRO IL FILO SPINATO E IL MURO DI SILENZIO. UN TEAM DI «MEDICI PER I DIRITTI UMANI» è entrato nel Centro di Identificazione e Espulsione (Cie) di Lamezia Terme, situato in località Pian del Duca e gestito fin dalla sua apertura nel 1998 dalla cooperativa «Malgrado Tutto», e ha scattato foto. In questo documento, si vede la serie di recinzioni alte 6 metri, il filo spinato, le stanze con i letti di metallo fissati a terra e senza lenzuola, il cortile senza pallone e le stanze di isolamento.
Il Cie di Lamezia Terme era stato già a molte riprese definito come uno dei peggiori d'Italia poiché privo dei minimi requisiti di vivibilità. Come riassumono gli medici di Medu, «la struttura appare del tutto inadeguata a garantire la permanenza dignitosa dei migranti trattenuti. Alcune pratiche francamente sconcertanti e lesive della privacy della persona rendono la struttura priva dei requisiti minimi di vivibilità in condizioni di capienza a regime».
Dal reportage a Lamezia, emergono, infatti, strane «invenzioni» ad hoc dell’ente gestore quando non pure e semplici pratiche di umiliazione dei detenuti. Come la gabbia (gialla) apposita per radersi la barba esposta alla vista di tutti, forze dell’ordine, altri trattenuti e staff, in violazione di ogni privacy resa già nulla dalle camere di sorveglianze accese 24ore su24. Prima dell’uscita dall’«abitacolo» devi depositare la lametta in un apposito contenitore. Perché la lametta, la potresti ingerire, succede ogni giorno nei Cie, per tentare la fuga, per attirare l’attenzione dei sanitari o semplicemente per disturbo psicologico e autolesionismo diffuso. Perché qui si impazzisce. Come ricordava già un rapporto recente del Senato.
In un’altra foto spunta l’immagine di un detenuto che nonostante la richiesta di effettuare un controllo ortopedico, per via di una grave forma di infezione (osteomielite) del femore che ha reso necessario il posizionamento di una protesi all’anca, si è inventata una fisioterapia «fai da te» con una bottiglia di plastica riempita d’acqua a legata alla gamba. L’ente gestore ha riferito agli operatori di Medu di non aver potuto acquisire la sua cartella clinica.
La violazione del diritto alla salute è una realtà denunciata da Medu in vari rapporti recenti. Queste strutture chiuse in assenza di un presidio dell’Asl garantiscono solo un’assistenza da primo livello, e per pazienti affetti da patologie più gravi che e necessitano diagnosi o cure specialistiche in strutture esterne, casi di non accesso alle cure non sono rari. Come sostiene un medico del Cie, «nostro compito è di limitare il più possibile questi trasferimenti all'esterno». Pure rispetto alle sue cosiddette «funzioni» di contrasto all’immigrazione cosiddetta irregolare il centro di Lamezia presenta le solite falle. Secondo il direttore dell’ente gestore circa il 90% dei trattenuti proviene da un istituto di pena. Persone, dunque, che avrebbero potuto e dovuto essere identificate durante il periodo di detenzione carceraria. Meno della metà (il 41% nel 2011) dei migranti trattenuti è effettivamente espulso. Il reportage di Medu esce appena dieci giorno dopo che il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muižnieks, a seguito della sua visita a Roma dal 3 al 6 luglio 2012, aveva presentato un rapporto in cui esortava «a eliminare gradualmente la pratica della detenzione amministrativa dei migranti irregolari in strutture simil-carcerarie, favorendo piuttosto misure alternative più idonee». Il Rapporto è rivolto alle autorità italiane.

Corriere 2.10.12
«Quando (al Ministero) imparai a confezionare circolari incomprensibili»
di Antonio Pascale


Il primo giorno di lavoro è come il primo bacio. Il primo giorno da ministeriale, quello, è stato ancora più importante. Al concorso, tra le varie domande, avevo risposto sugli art. 97 e 98 della Costituzione. Bellissimi. «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione». Il 98 invece: «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Insomma sarei stato un civil servant. E con questa ambizione entrai al Ministero.
Poi un vecchio direttore il primo giorno di lavoro, mi chiamò: legga questa circolare esplicativa ancora in bozze e mi dica con tutta sincerità cosa capisce. Mi ritirai nella mia stanza, in mano la famosa matita rosso blu e cominciai a leggere. Ora, sarà stato per le subordinate che si inseguivano senza tregua, per i rimandi snervanti, per una serie di punti numerati con A) a) A1 aa1 e via dicendo, io pensai che solo una mente alienata potesse aver prodotto quel documento. Così andai dal vecchio direttore e balbettando dissi: non ho capito niente. E lui rispose con un mezzo sorriso: bene, allora è perfetta! Ne parlai con i colleghi e alla fine, chi più chi meno, scoprii, tutti avevano letto una circolare simile. Nel lontano 1989, quella fu una piccola lezione. Le leggi non devono mai essere chiare, perché se lo sono, con la chiarezza forniamo potere a chi legge. Il Superiore Ministero deve mantenere la possibilità della interpretazione autentica. Ero scettico ma poi cominciai a partecipare alle riunioni con membri di varia provenienza, regionali, provinciali, confederazioni varie e notai come ognuno di loro si sentiva parte dello Stato solo quando doveva ricevere soldi e contro lo Stato — assumevano venature anarchiche — quando era il momento di prendersi responsabilità statali. E allora nel momento del massimo fracasso, quando le opinioni si scontravano con clamori e cigolii, arrivava il vecchio direttore, si sedeva vicino a me, salutava tutti e diceva: leggiamo cosa dice in proposito la circolare esplicativa. Calava il silenzio. E il vecchio direttore si rilassava sulla poltrona e suggeriva l'interpretazione autentica.
Cominciai a scrivere anche io circolari con molte subordinate e un'infinita varietà di punti, e avrei potuto facilmente abituarmi allo stile se non fosse arrivata la legge sulla trasparenza. La 241/90. Per fortuna. Non c'era più la (superiore) Amministrazione e l'amministrato, ma Stato e Cittadino. Compito di chi fa le leggi sarà quello di esporle in maniera chiara e trasparente. Sentivo che le cose sarebbero migliorate da un giorno all'altro. Mi sbagliavo. Come scrittore andai a Francoforte. Davanti a un pubblico misto, italiano e tedesco, tradotto in simultanea, dissi le parole: condono edilizio. La traduttrice mi sussurrò: non abbiamo la parola per tradurre condono edilizio. Ah no? No! Allora cominciamo dal principio: si costruisce là dove non si può costruire. E un tedesco subito alzò la mano: e allora perché costruite? Cominciai a balbettare: perché? e... e... perché è abusivo. E perché non abbattete? E perché? A fine presentazione il tedesco mi chiese: ma se volessi costruire una casa davanti al Colosseo, potrei farlo? No, dissi. No? Boh? Non ci capivo più niente, rispetto al resto dell'Europa eravamo in netto svantaggio. Troppi anni di vecchi direttori e di interessi privati avevano creato un linguaggio pubblico opaco.
Tuttavia, i tempi stanno per cambiare e non ho mai perso fiducia nella pubblica amministrazione, ha un ruolo di fondamentale importanza nella giusta allocazione delle risorse, e poi i suoi mali sono i mali della comunità. Da funzionario che ne ha viste abbastanza di circolari opache, suggerirei di spingere ancora di più la linea della trasparenza. È il momento giusto, e poi le innovazioni tecnologiche consentono di far partecipare alle scelte dello Stato i cittadini, e chiedere loro non opinioni astratte ma qualificate collaborazioni. Il vecchio discorso del presidente americano Pierce (1850) è valido. A un signore che passando vicino al Casa Bianca gli chiese: che bella casa, si può visitare? Pierce rispose: ma mio buon signore, certo che potete entrare, questa non è casa mia, ma è la casa della gente.

l’Unità 2.10.12
L’autista di Kubrick
Emilio D’Alessandro gli fu vicino fino alla morte
di Alberto Crespi


ROMA «DI TANTO IN TANTO MI CHIEDEVA DI ACCOMPAGNARLO A FARE LA SPESA... ACQUISTAVA SEMPRE LE STESSE COSE: PORRIDGE, MUESLI E CEREALI PER LA COLAZIONE, SUCCO D’ARANCIA E DI ANANAS, NESCAFÈ, FILETTO DI MANZO, MARMELLATA DI CILIEGIE, COCA-COLA, HOT DOG, A CUI SI AGGIUNSERO TONNELLATE DI SALMONE, PESCE SPADA E ALTRE QUALITÀ DI PESCE QUANDO SCOPPIÒ IL CASO “MUCCA PAZZA”. Quando acquistava qualche cibo nuovo era per provare a cuocerlo nel forno a microonde, l’elettrodomestico che adorava di più in assoluto. Se poi il prodotto era di suo gradimento il giorno dopo mi faceva trovare sulla scrivania l’etichetta ritagliata insieme a una nota: compra sei di queste, grazie».
L’uomo che faceva la spesa e adorava i forni a microonde era anche, nel tempo libero, uno dei più grandi artisti del Novecento: Stanley Kubrick. Questi e altri numerosissimi dettagli della sua vita quotidiana (attenzione: quotidiana, non privata. Niente gossip!) vengono da un libro a suo modo strepitoso appena pubblicato dal Saggiatore: Stanley Kubrick e me, di Emilio D’Alessandro (scritto in collaborazione con Filippo Ulivieri, 354 pagine che si leggono d’un fiato, 17 euro benissimo spesi). Emilio D’Alessandro, cassinate emigrato a vent’anni in Inghilterra per sfuggire al servizio militare, non è un semplice «biografo» di Kubrick. È l’uomo che gli è stato vicino, forse più di chiunque altro, dal 1972 fino alla morte (con un intervallo di un paio d’anni prima delle riprese di Eyes Wide Shut).
L’INCONTRO
Inizialmente era il suo autista: lavorava per una compagnia di taxi privati a Londra e gli capitò di fare dei servizi per la Hawk Film, la casa di produzione di Arancia meccanica. Kubrick lo conobbe, gli piacque il suo stile di guida, lo interrogò sul funzionamento delle automobili (era un fanatico della tecnologia, di qualunque tecnologia: dai forni a microonde alle astronavi), fu soddisfatto delle sue risposte e lo assunse. D’Alessandro veniva da una buona scuola: appena arrivato in Inghilterra, negli anni ’60, era stato un pilota di Formula Ford, pare piuttosto bravo. Ben presto, da autista diventò una specie di factotum, al quale Kubrick affidava incarichi di qualunque tipo, dallo scarrozzare gli attori con i quali lavorava al gestire, per esempio, le centinaia di chiavi che aprivano le altrettanto numerose porte della tenuta di Childwickbury dove la famiglia Kubrick viveva. Stanley lavorava «round the clock»: 24 ore su 24. Ed Emilio doveva essere a sua disposizione sempre, fino al punto di avere ben poca privacy (ed era sposato, con figli). Come la sera in cui Stanley gli telefonò a casa per dirgli che non trovava il suo anello nuziale: «My wedding ring is missing, mi disse. La sua tipica costruzione della frase: non “ho perso la fede”, ma “la mia fede è sparita”. Puoi venire a svuotare l’aspirapolvere e vediamo se è finita lì dentro?».
Erano le 11 di sera ed Emilio, come gli accadeva di continuo, riuscì a non uscire di casa: «teleguidò» Kubrick al telefono, dicendogli di frugare bene in tutte le tasche, e alla fine la fede saltò fuori. «Non lo dire a Christiane, per carità!», fu la supplica finale del regista. Christiane era (è) la moglie.
Stanley Kubrick e me è forse il libro più importante mai scritto su questo regista. Perché regala un ritratto privato «caldo», addirittura commovente nelle ultime pagine dedicate alla scomparsa di Kubrick. E perché ottiene un effetto paradossale: fa piazza pulita di tutte le leggende un po’ idiote che per anni sono circolate su Kubrick, ma per certi versi le rinfocola, e ne crea di nuove. Il regista è descritto come un uomo sempre concentratissimo sul lavoro, capace di succhiare il sangue ai collaboratori, ma anche umanissimo, simpatico, generoso, spiritoso. Emilio deve aver patito le pene dell’inferno, in certi momenti, ma si capisce dal libro che rifarebbe tutto. E, attenzione: non per cinefilìa! I passaggi forse più spassosi sono quelli in cui Kubrick lo tampina per capire se ha visto i suoi film, e D’Alessandro gli confessa candidamente che vede solo film western («Quando girerai un western, lo vedrò»: peccato non sia successo). Quando Emilio, prima di Eyes Wide Shut, torna per un paio d’anni nella natìa Cassino finisce per rivelare agli amici d’infanzia che, in tutti questi anni trascorsi a Londra, ha lavorato «per un regista cinematografico, Stanley Kubrick»: quelli cascano ovviamente dalla sedia, esclamano «Kubrick?! Il genio?!? Tu conosci Stanley Kubrick?», ed Emilio sembra quasi domandarsi che cavolo abbia mai fatto, questo Kubrick, per essere così famoso. Il rapporto fra i due è di lavoro, ma soprattutto di amicizia, di reciproca dipendenza e, col tempo, di grande affetto.
E proprio l’affetto rende «calde» anche le pagine in cui Emilio, forse senza volerlo, smantella la leggenda. Scopriamo così che il geniale Kubrick, ossessionato dal controllo sui suoi film, era smemorato e pasticcione. Come quel giorno in cui volle collaudare un nuovo forno a microonde... «Emilio, vieni su, è successo un disastro! Varcata la soglia del suo appartamento, trovai il forno avvolto da una nuvola di fumo, Stanley in piedi lì accanto, impietrito, lo sportello del forno a cinque metri di distanza e pezzi di uova ovunque». L’uomo che aveva mandato gli astronauti «su Giove e oltre l’infinito» aveva tentato di cucinare nel forno a microonde delle uova sode, non sapendo che le uova intere, in quegli aggeggi, esplodono. Avrebbe dovuto chiederlo a Hal 9000: ma chissà se il perfido computer gli avrebbe detto la verità.

Giorno dopo giorno trent’anni di amicizia con un genio del cinema
In trent’anni di sodalizio professionale e umano con il regista Stanley Kubrick, Emilio D'Alessandro scopre i segreti della settima arte, un mondo fantasmagorico, lontanissimo dalle sue origini, che lui vive da protagonista. Emilio D’Alessandro, insieme a Filippo Ulivieri, racconta la sua esperienza straordinaria, grazie anche a un’inedita documentazione fotografica e alla raccolta delle lettere e dei messaggi che Kubrick gli ha inviato. Gesti quotidiani, drammi familiari, partenze e ricongiungimenti, chiacchiere davanti a una tazza di caffè americano, lunghi viaggi in auto in cerca di location. Giorno dopo giorno, Emilio diventa indispensabile per Stanley e Stanley per Emilio. «Stanley Kubrick e me» (pagine 354, euro 17,00, Il Saggiatore) è la cronaca della carriera di un genio del cinema raccontata attraverso gli occhi del suo assistente personale, ma anche la storia di una profonda amicizia e di una meravigliosa avventura.

Repubblica Salute 2.10.12
Arriva in Italia il libro di Kirsch (Harvard) che scatenò le polemiche
Depressione. Risultati migliori se la psicoterapia integra le pillole
di Francesco Bottaccioli


«Come la maggior parte delle persone pensavo che gli antidepressivi funzionassero ». Così inizia il libro di Irving Kirsch, professore di psicologia ad Harvard e a Plymouth, ora disponibile in italiano (Tecniche Nuove editore) col titolo I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito. Dalle pillole della felicità alla cura integrata.
Pagina dopo pagina, con la forza dei numeri, Kirsch chiarisce come sia giunto alla conclusione che i farmaci antidepressivi, se paragonati al placebo, hanno un modesto grado di efficacia, documentabile solo nelle forme gravi di depressione, una piccola minoranza delle manifestazioni della malattia.
Il libro ha scatenato un putiferio, tutt’ora in pieno sviluppo. Sono scesi in campo, da un lato, Marcia Angell, già direttore del New England Journal of Medicine, che ha preso spunto dal libro per tracciare un’analisi impietosa della psichiatria americana giudicata al carro dell’industria farmaceutica (negli ultimi 20 anni il consumo di antidepressivi è aumentato del 400 per cento!), dall’altro lato Peter D. Kramer, il capo della taskforce incaricata di redigere la quinta edizione del DSM, il Manuale diagnostico della psichiatria internazionale, che ha difeso gli antidepressivi. In mezzo, Thomas Insel, direttore del National Institute of Mental Health, che su Psychiatric Timesha dichiarato che, in effetti, il vantaggio sul placebo è riscontrabile solo nelle forme gravi di depressione e che quindi è vero che molte persone non rispondono al trattamento farmacologico. Secondo le meta-analisi di Kirsch, la differenza tra farmaci e placebo oscilla tra il 16 e il 18% a favore dei farmaci, con una riduzione di appena due punti della scala Hamilton, che è lo strumento di misura dei sintomi depressivi. Insomma poca roba, tra l’altro ricca di effetti collaterali, che non giustifica imperniare la cura della depressione nel trattamento farmacologico. Nel capitolo finale Kirsch riassume gli approcci alternativi esistenti: psicoterapia, meditazione, attività fisica, fitoterapia. Alla fine di luglio, un gruppo internazionale di ricerca di cui fa parte Kirsch, su Plos ha pubblicato una dettagliata analisi su oltre 100 studi controllati esaminando l’efficacia di psicofarmacologia, psicoterapia e terapie alternative. I dati confermano che tra farmaci e psicoterapia non c’è alcuna differenza. Modesta quella tra loro e il placebo, mentre non c’è differenza statisticamente significativa con le terapie alternative (attività fisica e agopuntura). Una certa differenza positiva di efficacia è riscontrabile dalla combinazione di farmaci e psicoterapia. Insomma, l’integrazione delle cure è la strada giusta. Kirsch ne parlerà a Milano al convegno sulla depressione (24 novembre, www. sipnei. it ).
* Presidente on. Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia

Repubblica Salute 2.10.12
Anche un breve corso di meditazione riduce sintomi e ormoni dello stress


In questo quadro di confronto tra trattamenti farmacologici, psicoterapici e non convenzionali anche la meditazione si dimostra uno strumento utile. Un nostro recente studio - sottoposto per la pubblicazione a una qualificata rivista internazionale e presentato nella seconda edizione di Meditazione psiche e cervello (Tecniche Nuove editore, in libreria in questo mese) - dimostra che un breve corso di quattro giorni riduce la sintomatologia depressiva di quasi tre volte. Lo studio, realizzato da un gruppo interdisciplinare comprendente psicologi della Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia e ricercatori e docenti delle facoltà di Medicina di Ancona e di Farmacia di Urbino, è stato condotto su 125 persone partecipanti ai nostri corsi di meditazione.
La forte riduzione della sintomatologia sia di tipo ansioso che depressivo, in genere associate insieme, si è registrata alla fine del corso. Inoltre, alla riduzione dei sintomi si è avuta anche un’altrettanta netta riduzione, con miglior regolazione della scarica di cortisolo nel sangue, che è il principale ormone dello stress, sempre alterato nelle sindromi di tipo depressivo.
(f. b.)