La Stampa 1.10.12
La nuova corsa al centro
di Marcello Sorgi
Contrariamente a quel che gli chiedono due su tre dei suoi principali alleati, Mario Monti non deve affatto chiarire le sue vere intenzioni, né candidarsi alle prossime elezioni, in alternativa a Bersani (se vincerà le primarie del Pd) e a Berlusconi (se alla fine sceglierà di scendere di nuovo in campo). Dopo quel che ha detto a New York tre giorni fa, il presidente del Consiglio, per fare il bis a Palazzo Chigi, deve solo continuare a governare, limitando allo stretto necessario, come fa sempre, le sue esternazioni.
Quando è all’estero - e gli capita sovente, viste le dimensioni globali della crisi -, Monti, si sa, parla soprattutto ai suoi interlocutori stranieri e ai mercati, che gli chiedono sempre cosa sarà dell’Italia dopo di lui. In questo quadro, è bastato che dichiarasse la sua disponibilità a restare al suo posto anche dopo le elezioni del 2013, per provocare un terremoto politico dalla portata imprevedibile.
Basta solo rivedere cosa è successo nei fatidici tre giorni seguiti all’intervento al Council of Foreign Relations. A cominciare dalla novità di Montezemolo, che dopo un’attesa durata troppo a lungo, ha sciolto finalmente la sua riserva. E invece di scendere in campo in prima persona, ha deciso di schierarsi per il bis dell’attuale premier. Già prima che il presidente della Ferrari si pronunciasse, tuttavia, lo schieramento centrale che punta a un rassemblement dei moderati a sostegno di Monti era nato e cresciuto, e da ieri si presenta piuttosto affollato.
Quando Casini, il 7 settembre, aveva cominciato a dire chiaramente che non c’era altra strada, più di uno aveva arricciato il naso. Anche la fondazione «Italia futura», che fa capo a Montezemolo, aveva criticato l’accelerata centrista, in mancanza di un vero rinnovamento del personale politico. Ma adesso, dopo la disponibilità manifestata da Monti, sono in tanti a prendere atto che aveva ragione Pierferdy, e con il mestiere politico che tutti gli riconoscono, aveva colto subito il mutar del vento.
Così che oggi lo schieramento montiano può contare su Fini, sul suo Fli e sui nuovi movimenti di Oscar Giannino e Ernesto Auci. Altri probabilmente verranno nei prossimi giorni. E c’è perfino chi si chiede cosa succederebbe se Renzi, battuto nelle primarie, dovesse tuttavia raggiungere un risultato che gli consenta di influire sulla linea del Pd.
Quelle, simmetriche, di Bersani e Alfano, sono infatti al momento le resistenze che minacciano di ostacolare il successo dell’operazione. Dato che si tratta di posizioni meditate, conviene analizzarle e approfondirle: perché si tratta certamente di atteggiamenti coincidenti, ma frutto di percorsi diversi. Non va dimenticato che Bersani, oltre ad essere impegnato nelle primarie - e quindi impossibilitato, come possibile candidato premier, a farsi da parte in favore di Monti -, aveva già rinunciato a novembre 2011 a elezioni anticipate che lo avrebbero visto favorito e avrebbero colto Berlusconi nel suo momento più basso. Quindi il «no» del leader del Pd al bis è meditato e in qualche modo obbligato.
Il quadro del Pdl invece è differente. Pur sapendo che è impossibile, Alfano sfida Monti a candidarsi alle elezioni, e non esclude che il Pdl possa appoggiarlo. Sotto sotto, questo è il retropensiero di Berlusconi, che non a caso, seppure sollecitato dal suo partito, aspetta a dirsi pronto a riscendere in campo. Magari alla fine lo farà: ma se Monti, come ha fatto già capire, dovesse dichiarare che è disponibile a restare, se anche la larga maggioranza che lo sostiene sarà confermata, c’è da giurare che l’atteggiamento del Cavaliere potrebbe cambiare.
Stiamo insomma assistendo a una sceneggiata. Il leader del Pd e quello del Pdl sanno benissimo che una parte dei loro elettori non vogliono né il bis né restare alleati di quelli che considerano i loro avversari. Ma sanno altrettanto bene che gli toccherà farglieli digerire dopo il voto. Adesso è il momento dei sogni. Dopo verrà l’ora di fare i conti con la realtà.
Corriere 1.10.12
Fioroni
«Il premier trovi il modo di candidarsi e sia il ponte tra Bersani e i moderati»
di Monica Guerzoni
ROMA — Montezemolo ha deciso di «guidare la macchina dai box», come dice Bersani?
«No, ha deciso con molta serietà di affidare la macchina del Paese a Monti. La dichiarazione di disponibilità del premier è un dato positivo, ma serve un passo in più».
Onorevole Beppe Fioroni, il premier è senatore a vita, non si può candidare...
«Per questo mi auguro che faccia un altro regalo all'Italia, trovi cioè prima del voto i modi e le forme che ritiene opportuni per essere presente alle prossime elezioni».
Monti leader di un'alleanza?
«Il Monti bis ci sarà solo con un passaggio democratico e non grazie all'inciucio di una legge elettorale che non consente a nessuno di vincere. Mi auguro che Monti diventi il punto di riferimento per tutti quegli italiani che, delusi dalle scelte populistiche di Berlusconi, non vanno più a votare».
Tifa per la lista Monti?
«Penso a quell'area moderata che ha bisogno di trovare una sintesi armonica, perché composta da tanti solisti capaci, però privi di un direttore d'orchestra».
Il problema è che Bersani non la pensa come lei. Cosa farà il leader del Pd? Sosterrà Monti o correrà alle primarie con Vendola?
«Prima dei veti e dei diktat di Vendola, Bersani aveva delineato con chiarezza l'alleanza tra riformisti e moderati per cambiare assieme l'Italia».
Ora però Vendola non vuole stare con Casini, e viceversa...
«Il Pd non può essere prigioniero di Vendola, che per partecipare alle primarie ci chiede contemporaneamente di rinunciare all'accordo con i moderati e di pronunciare un'abiura sul nome di Monti. La novità è la metamorfosi di Matteo Renzi, che ha tirato fuori un dirompente antimontismo. E questo è grave, perché le primarie decideranno il candidato premier e le alleanze».
Teme per la tenuta del Pd?
«Arroccarsi in una posizione antimontiana ci fa correre il rischio del 1994 e della gioiosa macchina da guerra di Occhetto. Non possiamo dire che non ci alleeremo mai coi moderati e che siamo contrari all'agenda Monti».
Antonio Polito suggerisce a Renzi di lasciare a Monti, in caso di vittoria alle primarie e alle politiche...
«Qui non servono colpi di teatro, ma il buon senso di costruire un ponte verso il futuro che veda insieme Monti, Bersani, i riformisti e i moderati. Non farlo sarebbe un errore. Premesso che qualunque scelta dovrà essere frutto di una coalizione politica, saranno le elezioni a stabilire se il capo del governo sarà l'attuale premier oppure Bersani, l'unico del Pd che è legittimato a farlo in quanto capo del primo partito».
Sta chiedendo a Renzi di fare un passo indietro, o a Bersani di rinunciare alle primarie?
«Tanti candidati alle primarie si dovrebbero rendere conto che pensare di sostituire Monti, con Monti in campo, è una cosa molto complessa. Chiedere agli elettori di scegliere tra un'Italia governata da Monti e un'Italia governata dal coraggio dell'incoscienza è come sintonizzarsi su Scherzi a parte».
Bersani è nell'angolo, come ne esce?
«Il 6 ottobre c'è l'Assemblea nazionale e le cose da fare sono chiare. Renzi sottoscriva il programma del Pd, che anche lui ha votato. E Vendola firmi una stringente carta d'intenti e un programma compatibile, senza pregiudiziali sulle alleanze con i moderati. Altrimenti tanto vale che il Pd vada da solo e faccia il congresso, invece delle primarie. Perché con questa tipologia di soggetti la gente non ci capisce».
Con quale stato d'animo voterà alle primarie?
«Spero che Monti in campo convinca tutti a riflettere. Il mio terrore è che il secondo turno delle primarie faccia esplodere la conflittualità tra un'area che ricorda la sinistra di tanti anni fa e un'altra, che ricorda la vecchia Forza Italia».
Teme la scissione?
«Il rischio è una implosione del Pd, che costringa una parte a fare altre scelte. Renzi non può dire "chi vince impone il programma", perché se in una coalizione c'è chi impone, agli altri non resta che andarsene».
Repubblica 1.10.12
Fassina: “Con lui poteri forti non c’è solo la sua agenda”
I poteri forti sono per un governo di larga coalizione condizionato da Berlusconi
Stefano Fassina i supermontiani li capisce: «Il Professore è una persona seria, il suo impegno per il Paese è emerso in netto contrasto con il livello infimo di credibilità raggiunto da Berlusconi». E però, il responsabile economico del Pd crede che dietro la corsa a Monti ci sia una ragione più preoccupante.
«La convinzione che l’agenda Monti sia l’unica agenda possibile in quanto frutto di un pensiero unico. Invece, l’agenda mercantilista che prevale nell’eurozona sta portando all’aumento del debito pubblico, a un aggravamento della recessione e della disoccupazione».
«Una parte dei poteri più forti di questo Paese spera in un governo di larga coalizione condizionato dal centrodestra berlusconiano, per evitare di contribuire ai costi dell’aggiustamento che l’Italia è chiamata a fare».
«Credo che tutti coloro che sono nel Pd accetteranno il risultato delle primarie. Poi, bisogna che tutti guardino ai fatti laicamente: l’anno prossimo avremo un debito pubblico più elevato di quello del 2011. Il saldo strutturale - che Monti ha richiamato come indicatore di successo per il 2013 - è inferiore a quello che il ministero dell’Economia aveva previsto nel 2011. Dopo la profonda recessione di quest’anno, lo saremo ancora l’anno prossimo. La disoccupazione, soprattutto giovanile, avrà fatto un balzo di diverse centinaia di migliaia di uomini e donne. Per questo noi proponiamo un’agenda progressista, contro l’avvitamento austerità recessione
Repubblica 1.10.12
Perché votare Un dilemma italiano
di Ilvo Diamanti
VOTARE per scegliere chi governerà. Oppure scegliere chi governerà indipendentemente dal voto e dal risultato. Questo è il dilemma.
Amplificato dalle recenti dichiarazioni di Monti, che ha confermato l’intenzione di non candidarsi come premier, alle prossime elezioni. Ma non ha escluso l’ipotesi di «dare una mano, se fosse richiesto ». Per proseguire nell’impegno avviato da quasi un anno. Un messaggio raccolto, per primo, da Montezemolo. Che ha annunciato, infine, la sua “discesa in campo”. A sostegno di Monti. Con la convinta adesione di Casini e Fini. Che hanno proposto un “cartello elettorale”. Nel nome del Professore. Al quale, però, interessa presentarsi e agire – come premier al di sopra delle parti e dei partiti.
Dunque, al di sopra e al di fuori della competizione elettorale.
Investito dalla volontà di un’ampia maggioranza del Parlamento. L’idea, d’altronde, non piace neppure ai leader dei partiti maggiori, Pd e Pdl. Per non ridursi a svolgere un ruolo gregario. Non è, quindi, detto che la “disponibilità” annunciata da Monti si traduca in decisione. Ma il fatto stesso che l’ipotesi oggi appaia verosimile è significativo. D’altronde, l’unico leader di cui gli elettori si fidino veramente è lui. Monti. Il cui consenso personale è di nuovo in crescita, nelle ultime settimane. Come il sostegno al governo. In entrambi i casi, superiori alla metà dell’elettorato (dati Ipsos). Gli elettori, dunque, vogliono un governo espresso dalla maggioranza che emergerà alle prossime elezioni. Basta che a guidarlo sia Monti.
Il dilemma della democrazia rappresentativa, in Italia, è tutto qui. Se il voto “non serve” a scegliere chi governa, attraverso i rappresentanti eletti, a che “serve” votare? E com’è possibile, in queste condizioni, parlare ancora di democrazia rappresentativa?
Questo dilemma, però, non è poi tanto paradossale – e neppure inedito. Almeno in Italia. Secondo alcuni osservatori, sarebbe alla base della nostra “anomalia”.
In fondo, per quasi cinquant’anni il sistema politico italiano è apparso “bloccato”. Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, la frattura geopolitica internazionale ha impedito una vera alternativa, per la presenza, in Italia, del più importante partito comunista occidentale. Si è così affermato un “bipartitismo imperfetto”, per citare Giorgio Galli. Dove la competizione elettorale, indipendentemente dal risultato, proponeva un esito comunque scontato. Perché, comunque la Dc avrebbe governato, da sola o in coalizione. Mentre il Pci avrebbe guidato l’opposizione. Lo stesso Pci ne era consapevole. Complice. Coinvolto in un sistema consensuale e consociativo. Dove aveva influenza in tutte le principali scelte. Questa “anomalia” è proseguita, non a caso, fino al crollo del muro di Berlino e della Prima Repubblica. Ma, per quasi cinquant’anni, gli italiani hanno votato pur sapendo che gli equilibri di governo, nonostante i cambiamenti elettorali, peraltro notevoli, non sarebbero mutati in modo sostanziale. Il Capo del governo lo decidevano la Dc, i suoi capicorrente e i suoi alleati. In base ai rapporti di forza interni ai partiti. Che cambiavano spesso, nel corso della legislatura. Senza possibilità, per i cittadini, di reagire e intervenire. Eppure, gli italiani, nonostante tutto, continuarono a votare. In grande numero. Alle politiche: tra il 90% e l’80% degli aventi diritto, fino ad oggi. Un tasso di partecipazione elettorale tra i più alti, nelle democrazie occidentali.
Anche se la fiducia nei partiti non è mai stata troppo alta. Neppure in passato. In Italia, però, si votava egualmente. Pro o contro i comunisti. Pro o contro la Dc e, sullo sfondo, la Chiesa. Per fedeltà. Per fede. Ma anche per sentirsi parte. Per partecipare.
Nella Seconda Repubblica questo modello è cambiato profondamente. Ma non del tutto. Sono crollati i sistemi comunisti, ma in Italia il comunismo, meglio ancora: l’anticomunismo non è mai morto. Evocato e tenuto vivo, per primo, da Berlusconi. Che in questo modo ha cristallizzato il passato a proprio favore. Così gli elettori hanno ripreso a schierarsi. A dividersi come prima. Fra anticomunisti e antiberlusconiani. La novità, semmai, è la personalizzazione. I partiti riassunti nei loro leader e viceversa. Le elezioni trasformate in referendum. Pro o contro Berlusconi. Così il Paese si è presidenzializzato in fretta. Senza riforme istituzionali e costituzionali. Di fatto. Gli italiani: si sono abituati ad affidarsi a un premier espresso dai partiti. O meglio: a leader, di cui i partiti apparivano e appaiono una protesi. Gli elettori: indotti a votare per parlamentari nominati dai partiti e dai loro leader. Fino alla deriva a cui assistiamo oggi. Che ha travolto la credibilità dei partiti. Non qualcuno in particolare. Tutti. I
Partiti, nell’insieme. Nessuno dei quali appare credibile. Legittimato a esprimere il Capo (del governo).
Così oggi gli italiani, in maggioranza, tendono a tener separata la partecipazione elettorale dalla scelta del premier. Anzi, pongono i due processi quasi in contrasto. Vogliono votare. E pretendono che il governo venga espresso dalla maggioranza uscita da voto. Ma al governo, vogliono il Tecnico. Monti. Perché non viene dai partiti. Di cui diffidano. Come nella Prima Repubblica, si ripropone il distacco fra voto e rappresentanza. È l’anomalia italiana che si rinnova. Ieri come oggi. In nome del vincolo internazionale. Ieri: per ragioni ideologiche e geopolitiche. Oggi: per ragioni economiche e monetarie. Ieri: in nome dell’anticomunismo; oggi: dello spread. Con una differenza significativa: non ci sono più la “fede” ideologica o religiosa a mobilitare gli elettori. Pro o contro i partiti.
Per questo, dubito che la dissociazione fra i principi della democrazia rappresentativa – partecipazione e governo – possa riprodursi a lungo, senza conseguenze serie, dal punto di vista politico e istituzionale.
Lo suggerisce il successo del M5S. Un soggetto che raccoglie il sentimento “antipartitico” e sostiene, in alternativa all’attuale sistema, la democrazia diretta – attraverso
rete.
Lo sottolinea, ancora, il dilatarsi dell’area degli indecisi. Ormai prossima al 50%. Più che per incertezza: per disaffezione verso i “canali” della rappresentanza democratica.
Da ciò il dubbio. Che la dissociazione fra partecipazione – elettorale – e governo dissolva i partiti. Releghi la Politica “in un cerchio chiuso in se stesso”, come ha osservato Edmondo Berselli. Perché, in questo caso, “la democrazia si incarta, come in una partita malriuscita: funziona peggio. Rischia il grippaggio”. E Monti, premier al di sopra delle parti e del verdetto elettorale, si troverebbe a governare da solo in mezzo a tutti. Solo contro tutti.
l’Unità 1.10.12
Il problema grave delle primarie è che le fa solo il Pd
C’è una grande domanda di partecipazione e di politica. Ma non ci sono risposte di sistema
di Carlo Buttaroni, presidente Tecné
Voterò alle primarie della sinistra dando la mia preferenza a Matteo Renzi (...). Se alla fine Renzi risulterà vincitore, alle prossime elezioni voterò per il Pd; se i vincitori saranno Bersani o Vendola me ne guarderò bene.(...)? È scandaloso tutto ciò? In molti ritengono di sì.(...). Eppure, quel diritto io ritengo di possederlo». Sofia Ventura, giornalista ed editorialista, è l’autrice dell’articolo uscito sul Foglio da cui è tratto il virgolettato. Un articolo che ha fatto discutere, perché la Ventura è un’intellettuale di destra e interpreta un sentimento diffuso tra gli elettori della sua area politica. Un elettorato, per molti versi, orfano di leader e partiti capaci di perimetrare un campo politico, che intende partecipare alle primarie del centrosinistra anche per sopperire alla sensazione d’impotenza che nasce dal non poter compiere una scelta analoga all’interno della loro area.
Non sono pochi, infatti, gli elettori di destra che la pensano come la Ventura, delusi della degenerazione che ha segnato il crepuscolo berlusconiano, e da cui lo stesso Berlusconi sembra prendere ora le distanze. Alcuni di questi si stanno attivando per partecipare, in modo organizzato, alle primarie del centrosinistra. Non per inquinare la competizione, come alcuni temono, ma semplicemente per dire la loro.
La Ventura si chiede se questo comportamento sia scandaloso. E la risposta, sotto questo punto di vista, non può che essere negativa. Non è scandaloso perché questo tipo di scelta non prefigura una categoria morale. Semmai, ciò che occorre chiedersi è se è legittimo. È possibile, cioè, che un partito scelga il proprio leader e la propria politica, con il contributo, magari decisivo, di chi la pensa diversamente, tanto da collocarsi su un campo politico opposto? E se gli elettori di destra contribuiscono a scegliere il leader della sinistra (e viceversa) non c’è il rischio che, alla fine, i leader somiglino sempre meno agli elettori che sono chiamati a rappresentare? Non sarebbe più corretto, invece, che fossero espressione d’idee e valori che interpretano la società nello stesso modo e guardano il futuro con le stesse ottiche, trovando forma compiuta in un progetto politico? Non sarebbe più giusto che un progetto politico ottenga il consenso anche di elettori di destra ma solo dopo la sua nascita, al momento del voto politico, anziché alle primarie? Sono queste le domande che solleva l’intervento di Sofia Ventura. Sarebbe stato del tutto normale se avesse annunciato il suo voto al Pd nel caso di vittoria di Matteo Renzi. Ma annunciare il contrario, cioè di votare alle primarie Renzi e, solo in caso di successo di quest’ultimo, il conseguente voto al Pd, non ha nulla a che fare con la dimensione morale, ma apre la discussione sul funzionamento di un sistema che ambisce a governare i processi politici e che fonda la legittimità delle azioni sulla dialettica democratica e sulle scelte che ne conseguono.
LEADERSHIP E DEMOCRAZIA
Certo è che il ragionamento della Ventura è espressione di una visione individuale della partecipazione, dove tutto è trasferito al leader e dove tutto si risolve nell’esercitare il voto. Mentre nel mezzo c’è l’entropia che si alimenta del nichilismo di un pensiero debole, che ha messo in dissolvenza la forza della partecipazione collettiva e della rappresentanza sociale, che caratterizzavano le organizzazioni politiche di massa del Novecento. Al posto delle visioni totalizzanti, figlie d’ideologie immutabili, si è affermato il loro contrario: un palinsesto simbolico perennemente provvisorio che si è nutrito di politiche fast food, dove sono contati gli aggettivi anziché i sostantivi. Non a caso “nuovo” è stata la parola evocativa della Seconda Repubblica. A prescindere da ciò che doveva qualificare, e senza sottintendere né cosa, né come, sarebbe stato realmente il “nuovo”.
Se le prossime primarie del centrosinistra e del Pd devono rappresentare una svolta anche in questo senso e non limitarsi a offrire l’occasione per scegliere il leader del partito o della coalizione occorre un cambio di prospettiva. Perché la vera cifra del rinnovamento non la restituisce il tasso di ricorso alla società civile (che per sua natura non è né buona né cattiva), o lo stato anagrafico dei leader e degli staff ma la qualità delle idee e dei pensieri. Cioè, la politica e la declinazione delle sue azioni. È sotto questo punto di vista che le parole della Ventura pongono più domande di quante siano le risposte. Perché prima ancora di quali leader, bisogna chiedersi quali politiche. E poi quali partiti. E ancora quale organizzazione interna deve trovare corpo in un processo di selezione delle leadership. Solo così le primarie hanno un senso partecipativo non ambiguo rispetto a un modello di partito, a un’idea di società, a una visione politica più generale.
È qui il punto fondamentale che riguarda le prossime primarie del centrosinistra. Perché in gioco c’è anche la capacità di dar vita a processi di democrazia interna orientati a una logica unitaria, governati da un soggetto politico che vuole mantenere il suo carattere di attore organizzativo. E che nel fare questo assume le primarie come uno strumento consapevole della propria strategia di rapporto con un’area politica che ha pensieri e visioni comuni.
Le primarie finora hanno assolto efficacemente alla funzione di restituire una legittimazione alle leadership che il circuito interno non avrebbe potuto garantire, di sollecitare una mobilitazione che i tradizionali canali non sarebbero stati in grado di attivare. Ma, oggi, questo non è più sufficiente. E ciò che è la forza delle primarie rischia anche di essere il suo limite, nel momento in cui l’arena competitiva deregolata rischia di far degenerare le primarie da strumento democratico di un’area politica (che conserva la propria identità e il proprio profilo), a un campo su cui si scaricano le tensioni interne ed esterne, che riflettono la crisi più generale di sistema. Perché mai, altrimenti, elettori convintamente di destra, dovrebbero scegliere un progetto e un leader dello schieramento opposto?
IL RUOLO DEI PARTITI
Il modo migliore per cercare delle risposte a questa domanda è chiedersi se il ruolo che i partiti hanno storicamente svolto, oggi sia effettivamente esaurito, o se piuttosto non debba, in qualche modo, essere ripreso e reinterpretato. E le risposte non possono che essere in questa seconda opzione. Seppur in forme completamente diverse dal passato, il Paese ha bisogno di partiti dotati di un’ampia base associativa, capaci di riprendere tutte le funzioni che storicamente hanno svolto, come l’aggregazione e l’integrazione degli interessi sociali, il reclutamento del personale politico, l’integrazione sociale, la mobilitazione e la partecipazione, la formazione delle politiche pubbliche. Alcune delle ragioni che hanno portato al deficit attuale di queste funzioni sono storiche, altre contingenti. Ma tra le cause vi è anche il progressivo disgregarsi dei legami organizzativi.
Si può anche ritenere irreversibile un sistema politico, come quello attuale, che guarda con diffidenza al livello di competenza dei cittadini. Ma se si vuole invertire la direzione di marcia che ha condotto i partiti a svolgere un ruolo prevalentemente elettorale, allora anche le primarie devono essere declinate diversamente. Ed è in questa prospettiva che il ragionamento della Ventura non troverebbe spazio. Perché gli elettori del centrodestra dovrebbero aspirare alle loro primarie. Ed è paradossale che ciò non sia ancora avvenuto, perché la Ventura e con lei quanti pensano che la destra in Italia abbia un futuro da incontrare ha tutto il diritto
di scegliere un leader e un progetto politico. Affinché le primarie siano la leva di un rinnovamento effettivo del sistema occorre che tutti i partiti non solo il Pd o il centrosinistra – iscrivano nel proprio dna le regole della partecipazione democratica. E per fare questo è necessario che la politica riprenda il suo ruolo, perché senza politica non ci sono campi su cui investire, ma solo leader da legittimare.
l’Unità 1.10.12
Regole uguale boicottaggio: strana idea di democrazia
di Michele Prospero
ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA DENUNCIA NEL PD UNA CONGIURA DEGLI APPARATI CONTRO UN SIMPATICO GIAMBURRASCA CHE HA IL VOLTO DI MATTEO RENZI. La sua tesi è che, in vista delle primarie, «il predisporre un sistema di regole equivale a un boicottaggio» del sindaco. Che le regole non gli piacciano è noto. Lo storico auspica infatti da tempo l’accensione di una risorsa carismatica che preferisce luoghi fluidi, momenti di incantamento senza argini, situazioni di incertezza in cui ogni coinvolgimento emozionale può esplodere.
Perciò Della Loggia attacca come usurpatori chi costruisce griglie per le primarie ed esalta invece quali paladini della libertà chi respinge ogni garanzia.
Nessuna organizzazione complessa segue però la sua miscela anarchico-carismatica e per ben funzionare preferisce dotarsi di procedure. Quando Galli della Loggia si cimenta con la questione delle regole è sempre originale.
Qualche mese fa recuperava a sproposito la categoria di Carl Schmitt di «stato di eccezione», ovvero di sospensione in nome dell’emergenza di ogni regola costituzionale, per inquadrare la condotta del capo dello Stato. Dopo aver assaporato l’inferno sulla terra repubblicana dominata dall’eccezione (solo immaginaria) imposta dal Quirinale, Della Loggia si rivolgeva al cielo per dettare almeno lì delle ottime regole da utilizzare per l’elezione del vicario di Cristo.
E, dall’alto della sua ingegneria teologica comparata, partoriva la ricetta miracolosa per la designazione del papa: il doppio turno. Per le cose del cielo, il doppio turno gli pareva un congegno sfiorato dalla grazia che orienta verso il bene. Abbandonato il regno celeste e tornato sulla terra, Della Loggia trova però peccaminosa la pretesa del Pd di svolgere le primarie con il metodo del doppio turno.
«Nelle segrete stanze del Pd», una mano assassina prepara la congiura. E infatti per boicottare il sindaco affiora «la rabbia partigiana dei vecchi leoni delle oligarchie» che, guarda un po’, per linciare l’indifeso Renzi mutano lo statuto che non consente altre candidature oltre quella del segretario. Sempre per rovinare Renzi, il Pd pensa persino di modificare la legge che impone le dimissioni dei sindaci sei mesi prima delle consultazioni politiche. Non contento di corteggiare il ridicolo con la sua arte del sospetto, per cui dietro ogni regola opera «qualche intenzione poco chiara», Della Loggia afferma che, per dissipare ogni dubbio, ci vorrebbe una competizione ad un solo turno che aggiudica la vittoria a chi, tra molte, ormai troppe, candidature si piazza per primo, con qualsiasi percentuale. Per non meritare l’epiteto di usurpatore, nessuno deve quindi invocare lo stesso canone usato dai socialisti francesi, imbroglioni che si avvalgono di «una regola capestro».
La preoccupazione politica di conferire il mandato di leader della coalizione a chi ottenga la maggioranza dei votanti per Della Loggia è scandalosa. Lo vada però a raccontare ai partiti americani se non conta nulla conquistare la maggioranza dei consensi in una estenuante battaglia interna. E chieda pure se è consentito a un elettore repubblicano votare nelle primarie democratiche.
Solo a uno storico metafisico verrebbe in mente di celebrare le primarie senza neppure avvalersi di liste predefinite ma di fogli del tutto elastici, aperti tra un turno e l’altro ad ogni passante casuale. La snodata democrazia dei curiosi che Della Loggia auspica contro ogni «albo pubblico» urta però contro la certezza del corpo elettorale che in nessuna istituzione può fluttuare in maniera arbitraria. Il corpo elettorale è un dato, non una costruzione in divenire. Altrimenti il gioco è falsato.
Ogni competizione per essere valida deve postulare la conoscibilità dell’universo coinvolto. E anche il popolo delle primarie, non essendo una entità ontologica, altro non può essere che una costruzione operata dalle regole che definiscono i criteri per il voto. È del tutto insensato denigrare un albo pubblico predefinito degli elettori come istigazione al boicottaggio di Giamburrasca. È forse un boicottaggio impedire a quelli di Casa Pound di decidere le sorti della Sinagoga o ai seguaci di Borghezio di orientare la vita di una Moschea?
l’Unità 1.10.12
Primarie, 20mila firme e doppio turno
Si delineano le regole da sottoporre all’Assemblea Pd di sabato
a cominciare dalla deroga che permetterà a Renzi di candidarsi. Per votare sarà necessario sottoscrivere la carta valoriale. Tetto alle spese: 250mila euro
di Simone Collini
Ventimila firme per candidarsi. Una sola, a sottoscrizione del «Manifesto per l'Italia», per poter partecipare. La consegna di una tessera elettorale di «sostenitore del centrosinistra» che dà diritto a votare, come strumento per evitare infiltrazioni di «Batman» vari. E il doppio turno, nel caso nessuno sfidante ottenesse il 50% dei consensi, per poi andare alla partita per Palazzo Chigi con una forte investitura popolare. Sabato l'Assemblea nazionale del Pd metterà ai voti le regole per le primarie da cui uscirà il candidato premier della coalizione dei progressisti. Per essere approvate, il parlamentino democratico dovrà essere in numero legale, dovranno cioè votare la metà più uno dei membri elettivi (sono in tutto poco meno di mille). E in queste ore dal Nazareno è partita non solo una selva di telefonate per garantire quante più presenze possibili, ma anche un'opera di convincimento nei confronti di quanti (soprattutto tra i «Democratici davvero» di Bindi e gli ex-ppi che fanno capo a Fioroni) sono tentati di far mancare il quorum per fermare sul nascere una sfida ai gazebo che ritengono più dannosa che utile.
Una parte delle norme da approvare riguarda soltanto il Pd: si voterà una misura transitoria che consentirà a Matteo Renzi di correre (in pratica una deroga allo Statuto che prevede sia soltanto il segretario a poter partecipare alla sfida per la premiership), più una norma per evitare il moltiplicarsi incontrollato di candidature (per scendere in campo bisognerà incassare 300 firme tra i membri dell'Assemblea o il 3% di sottoscrizioni tra gli iscritti al Pd, che sono poco più di 600 mila). Ma sabato, nella riunione convocata all'Hotel Ergife di Roma, si dovrà anche dare mandato a Bersani, Renzi ed eventuali altri candidati del Pd di andare a trattare con gli altri sfidanti in campo (verosimilmente Vendola e Tabacci) per andare alle primarie con norme condivise.
La proposta che verrà fatta dal fronte bersaniano prevede il doppio turno (e quindi si dovrebbe votare il 25 novembre con eventuale seconda chiama il 2 dicembre) per evitare il ripetersi di situazioni come quelle registrate alle primarie di Napoli o di Palermo, la possibilità di far votare sedicenni e stranieri (era così anche nelle precedenti consultazioni, come fa notare il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo rispondendo all'editoriale del Corriere della sera di ieri), un tetto alle spese della campagna (250 mila euro) e, per poter votare ai gazebo, la sottoscrizione di un manifesto «Per l'Italia bene comune» che sarà in pratica la carta valoriale con cui la coalizione dei progressisti andrà alle elezioni di primavera. Chi firmerà questo documento, che verrà poi pubblicato on-line insieme ai nomi di chi lo ha sottoscritto, riceverà una tessera elettorale di «sostenitore del centrosinistra» che darà diritto a votare alle primarie. Entrambe le pratiche si svolgeranno il giorno della consultazione ai gazebo.
Con questo viene definitivamente archiviata l'ipotesi di dar vita a un albo pubblico a cui registrarsi nei giorni precedenti le primarie, fermamente contrastata dal fronte pro Renzi, ma è tutt'altro che detto che all' Assemblea nazionale di sabato ci sia un via libera con ampia maggioranza. Roberto Reggi, che parteciperà all'appuntamento (il sindaco di Firenze il prossimo fine settimana si muoverà tra la Calabria e la Puglia), fa sapere che «non c'è motivo per cambiare le regole osservate fin qui». Doppio turno e diritto a votare per chi sottoscrive il manifesto e prende la tessera elettorale sono però norme che, stando a preliminari contatti, sono condivise anche da Sel e Api. Renzi dice di fidarsi di Bersani e del fatto che «il Pd saprà cogliere l'occasione per allargare i suoi confini». Bersani spiega che le norme «non sono contro Renzi ma contro Batman (Fiorito, ndr) e le sue 30 mila preferenze». A metà mese verranno coinvolti anche Vendola e Tabacci, ma intanto sabato ci sarà la prima conta.
Corriere 1.10.12
Bersani: le regole non sono anti Renzi
Primarie, il segretario respinge le critiche. Il sindaco: allargare i confini
di M. Gu.
ROMA — Pier Luigi Bersani non ha paura di «Gianburrasca», non teme che Matteo Renzi possa portargli via il partito o sedersi, al posto di Mario Monti, sulla poltrona di presidente del Consiglio. Dalla prima pagina del Corriere di ieri Ernesto Galli della Loggia si è detto stupito per «il tentativo di boicottare in tutti i modi» la candidatura del sindaco di Firenze, con un sistema di regole che il politologo giudica «fatte apposta» per ostacolarne la vittoria. Una interpretazione che il segretario, chiudendo a Lamezia Terme la conferenza nazionale del Pd per il Mezzogiorno, ha respinto con forza, sdegnato e offeso: «Non tollero che, se mettiamo le regole, diventino contro Renzi... Io piuttosto sono contro Batman e le sue trentamila preferenze».
E poiché si è stufato di sentirsi chiedere se davvero non si è pentito di aver aperto la competizione a uno sfidante interno, il leader dei democratici affida a una battuta il suo stato d'animo: «Non ci sto a passare per il buono e anche un po' coglione». Perché lui la sfida che lo attende non la vede a tinte fosche, bensì «positivamente», convinto com'è che «se non le avessimo fatte staremmo mangiando pane e primarie tutti i giorni sui giornali» e che, il lunedì dopo i gazebo, sarà lui a cantar vittoria: «Potremo dire che non ci ammazza più nessuno... C'è bisogno del Pd, basta autoflagellazione».
Bersani che sprona i suoi alla riscossa. Bersani che promette di «far girare la ruota» al congresso del 2013, lasciando finalmente spazio ai giovani. Non è di Gianburrasca insomma, che il segretario ha paura. E non è dunque per fermarne la corsa di Renzi verso Palazzo Chigi che gli «sherpa» del leader stanno modificando le regole delle primarie 2005, quando Romano Prodi fu incoronato leader dell'Unione. «Un minimo di regole — chiede Bersani, confermando l'idea di un albo degli elettori —. Io ti cedo sovranità, tu dimmi chi sei». L'idea del registro dei progressisti non piace però a Renzi, il quale ieri è approdato in camper a Grosseto e ha riempito le mille sedie del Teatro Moderno: «Io mi fido di Bersani e del fatto che il Pd sappia cogliere l'occasione delle primarie per allargare i propri confini». Un modo diplomatico per dire no all'albo e a qualunque altra norma che rischi di restringere la platea degli elettori. Ma poiché il segretario vuol togliere al sindaco ogni argomento che possa rivelarsi un boomerang, al tavolo delle regole Maurizio Migliavacca spinge perché gli elettori si registrino il giorno stesso del voto e non una settimana prima.
Resta la grande paura di «Batman». Il timore cioè che dirigenti del centrodestra provino a condizionare l'esito delle primarie. «Io sono napoletano — racconta Marco Di Lello, al tavolo delle regole per i socialisti —. E vorrei evitare che si ripeta a livello nazionale quel che accadde alle primarie per il sindaco della mia città, quando ci furono fenomeni di infiltrazione malavitosa». Tanto che Bersani vorrebbe far votare al secondo turno solo gli elettori che si sono iscritti a tempo debito e hanno partecipato alla prima fase della competizione. «Non vedo perché dovrei consentire al Pdl di scegliere il mio candidato alla guida del Paese», spiega ancora Di Lello. Per partecipare si verserà un obolo, probabilmente tre euro: una cifra pensata per evitare le file di cinesi «prezzolati», come qualcuno denunciò a suo tempo. Sulla quantità di firme per potersi candidare, Nichi Vendola chiede di abbassare la soglia e l'asticella dovrebbe fermarsi a ventimila, raccolte in almeno dieci regioni.
Corriere 1.10.12
La religione nelle scuole e le responsabilità dello Stato
risponde Sergio Romano
Il ministro Profumo fa una proposta davvero singolare. Sostiene che, poiché ci sono molti immigrati, bisogna modificare l'ora di religione. È esattamente vero il contrario. La società di oggi vive di diversità e si arricchisce con esse. Nel momento in cui un popolo rinuncia alle sue tradizioni viene meno alla sua identità.
Delio Lomaglio, Napoli
La proposta del ministro Profumo contro l'ora di religione cattolica, perché ormai la scuola è multietnica, è certo tra le migliori che siano venute fuori dal governo dei tecnici. Che l'Italia debba uscire dall'asfissiante tutela che la Chiesa cattolica esercita ancora in fatto di educazione religiosa, è il pio desiderio dei laici veri, che non hanno mai gradito che l'insegnamento della religione fosse stato appaltato alla gerarchia ecclesiastica cattolica. Nonostante la Costituzione, la revisione del Concordato del 1929 firmata da Craxi nel 1984 e le sentenze della Corte di Strasburgo che mettevano in discussione la liceità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, l'insegnamento della religione (cattolica) resta ancora appannaggio dei vescovi che nominano i loro insegnanti, pagati però coi soldi dello Stato. È una furbata dalla quale si dovrebbe finalmente uscire, sicché lo Stato dovrebbe esso provvedere all'istituzione di una disciplina come «storia delle religioni», insegnata da docenti nominati dallo Stato stesso e non dai vertici di qualsiasi gerarchia religiosa.
Paolo Fai
Cari lettori,
L' insegnamento della religione cattolica è previsto dal secondo comma dell'art. 9 del nuovo Concordato, firmato il 18 febbraio 1984, ed è regolato da un protocollo addizionale in cui si legge che «nelle scuole materne ed elementari detto insegnamento può essere impartito dall'insegnante di classe, riconosciuto idoneo dall'autorità ecclesiastica, che sia disposto a svolgerlo». Ma il ministro della Pubblica istruzione ha fatto bene a constatare che la società italiana è alquanto cambiata e che quelle norme andrebbero riviste. I musulmani che vivono in Italia sono circa un milione e mezzo, gli ortodossi (romeni, ucraini, bielorussi) superano il milione; e lo Stato nel frattempo ha firmato intese concordatarie con i rappresentanti di tredici culti fra cui i valdesi, gli avventisti del Settimo giorno, gli ebrei, i luterani, gli ortodossi, i buddisti e gli induisti. È giusto che in un Paese ormai pluriconfessionale la sola religione insegnata nelle scuole sia quella cattolica e il suo insegnamento sia monopolio delle diocesi vescovili della penisola? So che la scelta dell'ora di religione è facoltativa, ma l'autorità della Chiesa, insieme a quella combinazione di pigrizia e conformismo che caratterizza la religiosità italiana, la rendono di fatto semi obbligatoria. Credo che alla scuola italiana, in queste circostanze, convenga essere uno spazio neutrale in cui il problema religioso viene affrontato, tutt'al più, in una prospettiva storica e non da un docente nominato dal vescovo.
Ancora una osservazione. Il vero obbligo dello Stato non è quello di riservare alla Chiesa cattolica un posto privilegiato nel sistema educativo della Repubblica. La sua maggiore responsabilità è quella di garantire alle coscienze di esprimersi liberamente, ai fedeli di praticare il culto, a tutte le Chiese di diffondere i loro principi e le loro verità. La Chiesa cattolica, in particolare, dispone in Italia della sua più capillare organizzazione nel mondo: più di trecento vescovadi, migliaia di parrocchie e oratori, numerose scuole, un gran numero di associazioni, giornali, riviste, case editrici e poco meno di un miliardo di euro assicurato dalla tassa ecclesiastica dell'8 per mille. In materia d'educazione può certamente fare da sé.
La Stampa 1.10.12
“Lazio subito alle urne Il voto entro 90 giorni”
Il ministro Cancellieri scioglie i dubbi: no all’election day
di Grazia Longo
No all’election day, meglio elezioni entro Natale. È il ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri ad annunciare che «entro 90 giorni» i cittadini laziali dovranno tornare a votare.
«Prima si va alle urne e meglio è» afferma il numero uno del Viminale, tanto più che le regioni non possono essere commissariate. Si allontana così la possibilità di un accorpamento delle regionali alle politiche e le comunali nella prossima primavera. E il Lazio si candida a diventare il laboratorio politico nazionale, il banco di prova per future alleanze in previsione o meno del Monti bis. E mentre si scalda la macchina organizzativa delle elezioni regionali, si scatena anche il totocandidati. In un’atmosfera sicuramente non facile all’indomani dello scandalo nel Pdl regionale - con l’accusa di peculato all’ex capogruppo Franco Fiorito e i suoi due capi segreteria che potrebbe sfociare nell’associazione a delinquere - che ha travolto la giunta Polverini.
Si intravedono equilibri precari sia nel centro-destra, sia nel centro-sinistra. Unico punto fermo, l’intenzione in entrambi gli schieramenti di non candidare i consiglieri regionali uscenti. Nel Pd il candidato naturale sembra essere il segretario regionale Enrico Gasparra, che pare tuttavia orientato a preferire un ruolo da «regista». In pole position, almeno per ora, c’è David Sassoli, capogruppo del Pd a Strasburgo e giornalista Rai. Anche i veltroniani stanno valutando di puntare su un proprio uomo di riferimento: l’ex assessore capitolino alla Sicurezza e deputato dem, Jean Leonard Touadi, già ribattezzato «l’Obama della Pisana». Spiccano però anche i nomi di Paolo Gentiloni, dell’ex ministro Giovanna Melandri e dell’eurodeputata Silvia Costa (sostenuta dai parlamentari vicini a Dario Franceschini).
Nel Pdl - dove il segretario nazionale Angelino Alfano ha rimarcato la distanza dall’inquisito Fiorito escludendo la possibilità di candidare i consiglieri uscenti - la situazione è più caotica. Oggi potrebbe addirittura arrivare un commisario per il partito regionale, da anni coordinato da quel Vincenzo Piso, rimasto in sella anche dopo il caso del «panino di Milioni», da cui discende tutta l’instabilità della Regione. C’è anche aria di guerra: da una parte l’asse Tajani-Rampelli, dall’altra quello AlemannoSammarco. Il mini-rimpasto finale della governatrice (che ha defenestrato tajanisti e rampelliani) li ha spezzati. Difficile
I partiti e il toto-candidati trovare un nome di corrente su cui convergere.
I rumors - al di là del sospetto di perdere la competizione elettorale - danno per meno probabili sia la candidatura dell’influente Andrea Augello, sia quella di Giorgia Meloni, rampelliana doc. Meglio, semmai, puntare su un volto come Luisa Todini, imprenditrice nel cda Rai (che nel 2010 fu scavalcata dalla prescelta Polverini) o anche sull’ex capo della protezione civile Guido Bertolaso, Tra gli altri nomi, Beatrice Lorenzin deputata Pdl e l’ex governatore Francesco Storace, segretario de La Destra.
Per quanto riguarda la scadenza elettorale, invece, ecco lo scenario. I tre mesi scadono il 28 dicembre. Ma in base alla legge, la dimissionaria Renata Polverini deve far trascorrere necessariamente almeno 45 giorni tra il decreto e la data del voto. Il tempo, insomma, stringe. Anche perché, per via delle festività, gli ultimi giorni dei tre mesi sono poco praticabili. Se per ipotesi la Polverini (che non ha nascosto di preferire l’accorpamento del ricorso alle urne in un unico giorno) emanasse il decreto oggi, la prima data utile sarebbe il 16 novembre, che però è un venerdì. La domenica immediatamente successiva è il 18 novembre.
Le domeniche successive sono il 25 novembre e il 2 dicembre. Domenica 9 dicembre è in pieno ponte dell’Immacolata, e sembra poco indicata. E infine c’è domenica 16, perché la successiva è il 23 dicembre. Oltre, si supera il limite di 90 giorni voluto dal ministro Cancellieri.
La Stampa 1.10.12
Sinistra in piazza contro Hollande
In 80 mila a Parigi dopo i maxi-tagli: non ti abbiamo votato per questo
di Paolo Levi
Era abituata a manifestare contro la destra di Nicolas Sarkozy. Ma ad appena cinque mesi dalla grande festa della Bastiglia - che ha visto tutta la sinistra riunita per la vittoria all’Eliseo -, la gauche francese torna in piazza per protestare questa volta contro uno di famiglia: l’attuale presidente François Hollande. Nel mirino della manifestazione - cui hanno partecipato 50 mila persone (80 mila per gli organizzatori), prova dello sciopero generale proclamato dai sindacati per l’8 ottobre -, l’austerità e il fiscal compact, che il Parlamento comincerà a discutere domani. «Non ti abbiamo eletto per questo», hanno scandito i manifestanti, delusi dal presidente socialista. Mentre un grande striscione sintetizzava in modo lapidario il motivo del dissenso: «Abbiamo votato per il cambiamento, non per la continuità».
A promuovere il corteo parigino - che si è mosso da Place de la Nation e Place d’Italie, in una splendida giornata di sole, che forse ha contribuito all’elevata partecipazione - è stato il Front de gauche, l’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon, che sembra essersi risollevata dopo la batosta elettorale e il trionfo di un partito socialista che non ha esitato a lasciarli fuori dalla porta. «Questa manifestazione - ha avvertito Mélenchon - rappresenta l’arrivo del movimento del popolo francese al fianco degli altri popoli che protestano contro l’austerità. È una protesta di massa, la nostra scommessa è vinta! ». «Ora il partito socialista è obbligato ad ascoltarci», gli ha fatto eco uno dei suoi fedelissimi, Eric Coquerel.
All’appello di Mélenchon hanno risposto una sessantina di organizzazioni sindacali e politiche, che si sono riunite al grido di «No al trattato Merkozy» e «No al Trattato dell’austerità». Tra i partecipanti, moltissimi non nascondono di aver votato Hollande al secondo turno presidenziale. «L’ho votato con convinzione - dice Corentin, un giovane manifestante -, ma ora siamo delusi. Hollande ha subìto le pressioni della Germania. Noi siamo qui per mettergli pressione dall’altra parte». «Vogliamo un’Europa sociale e non un’Europa delle finanze. Hollande aveva promesso di modificare il patto di bilancio, che invece verrà votato senza alcun cambiamento. La piccola appendice sulla crescita che è stata aggiunta non basta - osserva Marie-Thérèse, che lavora a France Telecom ed è iscritta al sindacato CGT -. Ormai è sicuro, il trattato verrà ratificato... ma con i voti della destra. C’è poco da rallegrarsi». Mélenchon ha ripetuto che la manifestazione non era contro Hollande, ma contro l’austerità. Ma il faccione del presidente, ormai a picco nei sondaggi, campeggiava su tutti i manifesti appesi lungo il percorso con la scritta: «Ricercato per fare i conti con la democrazia».
La Stampa 1.10.12
Netanyahu deve parlare agli iraniani
di Abraham B. Yeoshua
Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu tiene un discorso davanti all’assemblea delle Nazioni Unite si rivolge solitamente a tre o quattro diversi gruppi di ascoltatori: innanzi tutto ai cittadini e al governo degli Stati Uniti, in secondo luogo agli ebrei americani che prestano grande attenzione alle sue parole, in terzo luogo ai rappresentanti dei paesi più o meno amici di Israele in Europa, in Sud America e in Asia e, infine, alla popolazione del suo Paese (benché abbia anche altre occasioni di rivolgersi a noi israeliani). A giudicare dal suo recente discorso all’Onu risulta comunque chiaro che Netanyahu non aveva nessuna intenzione di includere fra i suoi ascoltatori anche il popolo iraniano, l’opinione pubblica di quel Paese o i suoi alleati, nonostante sapesse che, in un mondo di rapide e intense comunicazioni come il nostro, il suo discorso avrebbe potuto facilmente arrivare ai ceti colti dell’Iran e dei Paesi arabi.
Sembra infatti che Netanyahu e i suoi consiglieri considerino perduta in partenza la battaglia per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica iraniana, e questo contrariamente alla tradizione politica sionista che, fin dai suoi albori, si è rivolta ai cittadini arabi e ha continuato a farlo anche negli anni in cui la stampa scritta ed elettronica veniva bloccata dai regimi totalitari dei loro Paesi e del blocco sovietico.
I leader e i portavoce israeliani si indirizzavano alle popolazioni arabe per spiegar loro nel miglior modo possibile il retroterra storico del popolo ebraico, le sue battaglie, la sua presenza in passato in questa regione e molto altro ancora. E nonostante il perdurare di un muro di ostilità sembra che qualcosa sia filtrato nelle loro coscienze se si è giunti non solo agli accordi di pace con l’Egitto e con la Giordania ma anche a quelli di Oslo e di Ginevra con i palestinesi.
Io non sono un esperto dei trucchi propagandistici della leadership iraniana ma ho l’impressione che ultimamente sia passata dall’ignobile negazione della Shoah al totale disconoscimento del passato storico degli ebrei in Medio Oriente. Il nostro primo ministro, però, forse per colpa dei suoi consiglieri religiosi, non si è dato la pena di citare concreti fatti storici. Ancora una volta ha optato per i cliché del Regno di Davide, delle promesse divine fatte nella Bibbia al popolo ebraico e del legame spirituale di quest’ultimo con la terra di Israele.
Non gli è venuto in mente, per esempio, di parlare dell’editto di Ciro, re di Persia, che nel 538 a. C. esortò gli ebrei a fare ritorno in patria e a ricostruire il loro tempio (un innegabile fatto storico che, se citato, avrebbe sgretolato le menzogne di Ahmadinejad e suscitato forse un sentimento di consapevolezza negli iraniani, un popolo dalla profonda coscienza storica). Non gli è venuto nemmeno in mente di parlare della presenza millenaria di comunità ebraiche nelle nazioni del Medio Oriente tra cui, naturalmente, l’Iran, e di lodare persino l’atteggiamento di relativa tolleranza e rispetto dimostrato da questo Paese verso gli ebrei suoi residenti. Non gli è venuto in mente di parlare del riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’Iran e della Turchia, due potenze musulmane, dopo la sua fondazione e del mantenimento dei rapporti diplomatici con esso per più di trent’anni. Non gli è venuto in mente di parlare degli israeliani di origine iraniana che hanno occupato, e ancora occupano, posizioni di primo piano nell’amministrazione civile e militare israeliana. E ai suoi consiglieri non è venuto in mente di suggerirgli di parlare della delegazione israeliana guidata da Lova Eliav rimasta per due anni nella regione iraniana di Qazvin negli Anni 60 per prestare soccorso alle vittime di un terribile terremoto.
Informazioni di questo tipo avrebbero potuto rappresentare una novità non solo per decine di rappresentanti di nazioni africane, sudamericane e asiatiche ma anche per gli stessi iraniani e per i palestinesi rimasti ad ascoltare le parole di Netanyahu. Informazioni di questo tipo avrebbero forse aiutato a confutare le affermazioni iraniane sulla nostra estraneità alla regione, più di riferimenti a promesse divine e al Regno di Davide.
E, in generale, perché assumere sempre il ruolo della vittima costretta a seminare minacce e avvertimenti? E perché rivolgersi soprattutto agli americani, come se Israele fosse davvero una loro succursale o, secondo le parole di uno dei ministri del Likud, una portaerei americana in Medio Oriente?
L’eccessiva «americanizzazione» del primo ministro israeliano è ormai più dannosa che utile.
Repubblica 1.10.12
L’incubo dell’Apocalisse. La bomba che fa paura
Lo show all’Onu di Netanyahu contro il nucleare in Iran, l’ingresso nel club dell’Atomica di paesi sempre più instabili
di Vittorio Zucconi
WASHINGTON Credevamo di averla esorcizzata o almeno rinchiusa nella cripta degli incubi di una generazione, ma l’arma della fine del mondo è sempre qui con noi. Quella Bomba che torna ad allungare la propria ombra sul nostro tempo, proiettata oggi dall’Iran, non ci lascerà mai e non potrà essere mai “disinventata”.
La sera del 6 agosto 1945, quando esordì nella storia polverizzando Hiroshima, il presidente americano Harry Truman «ringraziò Dio» per averla «data a noi invece che ai nostri nemici» e pregò perché quello stesso Dio «ci guidasse a usarla per i Suoi fini». È una tragica ironia se oggi coloro che la vorrebbero, e forse la stanno producendo, invochino di nuovo il nome di un Dio che somiglia a quella divinità che uno sconvolto Robert Oppenheimer, guardandola esplodere, definì «il distruttore di mondi».
Dalla “Jornada del Muerto”, il viaggio del morto come si chiamava il deserto del New Mexico nel quale esplose il prototipo, alla cruda illustrazione dei possibili progressi iraniani fatta da Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite giovedì scorso, la “Bomba” è il filo rosso, il fiume di lava sotterraneo che da ormai quasi settant’anni lega la nostra storia e corre sotto la crosta delle tante, piccole guerre, senza eruttare. L’umanità, dopo averne visti gli effetti su due città giapponesi, aveva capito, come tutti i “War Games”, le simulazioni, avevano dimostrato, che nessuno può vincere una guerra atomica. Ma la tentazione dell’onnipotenza che il possesso dell’atomica genera è stato più forte della ragione.
Quell’arma che anche Albert Einstein implorò Franklin Delano Roosevelt di costruire, nel 1939, prima che ci riuscisse Hitler, si è diffusa come una pestilenza che nessun Trattato anti-proliferazione, nessun accordo fra i primi detentori, Usa e Urss, nessuna agenzia internazionale sono mai riusciti a circoscrivere. Se ora i rottami dell’Unione Sovietica e gli Stati Uniti hanno ridotto la demenziale quantità di testate dal picco di 60mila raggiunto alla fine della Guerra Fredda a un totale — pur sempre insensato — di 10mila totali, il “Club Atomico” ha continuato ad accogliere nuovi e sempre più instabili membri.
La “Bomba” è da tempo negli arsenali di Cina, Francia e Regno Unito, le sole tre nazioni, oltre a Russia e Usa, autorizzate a possederne. Ma ne hanno a dozzine l’India e il Pakistan, con i vettori balistici necessari per lanciarle, Israele, molto probabilmente la Corea del Nord e, se il premier israeliano ha ragione, fra meno di un anno anche l’Iran. Tentarono di produrla, o di acquisirla, la Siria del vecchio Assad, la Libia di Gheddafi e l’Iraq di Saddam Hussein, prima del 1991.
Di fronte al gonfiarsi del fiume di lava radioattiva sotterranea, e ai rivoli che affiorano dalla crepe della crosta, aperte sempre e naturalmente per “legittima difesa” secondo i proprietari, oggi fa quasi tenerezza rivedere le immagini, e rivivere i ricordi, dei decenni nei quali noi tutti “figli dell’Atomica” siamo cresciuti. I filmetti di propaganda internazionale e interna prodotti dal Pentagono e dall’Agenzia per l’energia nucleare americana riflettono prima il sussiego della potenza che si credeva monopolista della Bomba nel nome di Dio e poi raccontano il panico, di fronte alla scoperta che appena quattro anni dopo Hiroshima e Nagasaki, esplose nel 1949 “Pervaya Molniya”, il “Primo Fulmine”, la copia di “Fat Boy”, l’ordigno che annientò Nagasaki. Nei cartoni animati proiettati nelle scuole, negli uffici, nelle fabbriche americani, bambini e adulti erano invitati dalla tartaruga Bert a fare come lei, a cercare rifugio, in mancanza di guscio, sotto i letti, i banchi, le scrivanie. “Duck and Cover”, abbassati e copriti, divenne la colonna sonora per milioni di americani cresciuti nella certezza che i “rossi” volessero annientarsi. Duecentoventi modelli diversi di rifugi anti-atomici, da semplice cassoni individuali foderati di piombo a mini- bunker di cemento armato che padri di famiglia con la vanga e madri alla betoniera costruivano in giardino, offrivano l’effimera speranza di sopravvivere almeno per qualche giorno all’attacco. Senza pensare a che cosa avrebbero trovato quando sarebbero usciti. I più fortunati, fu detto all’epoca, sono quelli che moriranno subito, in un attacco nucleare.
La psicosi da annientamento atomico fu il prezzo che l’Europa occidentale, e l’America, pagarono come contrappasso alla propria ritrovata prosperità. Attori nei panni di medici spiegavano che l’ansia da bomba era “atomite”, una forma di paranoia che ingigantiva gli effetti della radiazioni. Ammiragli spiegavano agli abitanti dell’atollo di Bikini, dove fu testata la ancora più micidiale, prima bomba all’idrogeno, che tutto era fatto per il loro bene. Nel documentario del 1982, Atomic Cafè si vede la sequenza commovente degli indigeni di Bikini che se ne vanno, deportati su una nave della Marina americana cantando in coro “You are my sunshine”, “Tu sei il mio sole”. Certamente ignorando che quella bomba avrebbe raggiunto e superato la luminosità e il calore proprio del Sole. Fu dopo l’incontro fra Reagan e Gorbaciov, prima a Ginevra nel 1985 quando i due leader si appartarono soltanto con gli interpreti in una casetta nel bosco e soprattutto a Reykjavik, in Islanda, dove Reagan sbigottì il russo, e i propri generali, proponendo l’Opzione Zero, la distruzione dell’intero arsenale, che la lava sarebbe tornata a scorrere sotto la superficie. Finalmente si poteva esalare, dopo avere trattenuto il fiato per quarant’anni, quando tre volte il mondo era arrivato a pochi minuti dallo scenario Stranamore, dallo scontro nucleare.
Avevamo sfiorato il volto di Armageddon nella Corea dove lo stesso Truman aveva ipotizzato l’uso di armi atomiche per fermare i cinesi, prima di ripensarci e di licenziare in tronco il generalissimo MacArthur, che insisteva. Lo vedemmo sogghignare nelle acque del Caribe nel 1963, dove l’invasione americana di Cuba era già pronta, prima che le navi di Krusciov invertissero la rotta, e gli americani ignoravano che reparti sovietici sull’isola già possedevano piccole testate tattiche antisbarco. Ai pezzi grossi della Casa Bianca erano già stati distribuiti i “pass”, le chiavi magnetiche, per entrare nella caverne predisposte sui monti Catoctin del Maryland. E pochi seppero che nel 1980, nelle ore della ribellione polacca che avrebbe demolito l’impero sovietico, una manovra di routine delle forze Nato fu fraintesa dai generali russi come la preparazione di un assalto in forze. La risposta nucleare preventiva era già pronta, prima che una disperata spia russa nel quartiere generale proprio della Nato a Evere, in Belgio, riuscisse a convincere Mosca che erano soltanto manovre.
Per quasi vent’anni, dalla morte di Breznev nel 1982 al 2001, l’ombra di Hiroshima era sembrata rimpicciolirsi, il fiume lavico raffreddarsi, quando anche la Cina della Rivoluzione Culturale si era convertita al «fate i soldi, non la guerra». Ma in un giorno di settembre a Manhattan, l’isola che dette il nome al progetto atomico, in un’altra mattinata chiara come quella di agosto sopra Hiroshima, i piazzisti della ennesima guerra santa hanno riaperto il timore che qualcuno, incurante di vite e di morti, possa riprendere in mano quel filo rosso. Le lancette di quell’orologio della fine del mondo che dal 1947 i fisici dell’Università di Chicago, dove Enrico Fermi lavorò, regolano, si sono rimesse in movimento e la mezzanotte non era mai stata così vicina. Il dottor Stranamore è emigrato, ma continua a lavorare.
Repubblica 1.10.12
Quella mostruosità oltre l’immaginazione dell’agosto 1945
di Piergiorgio Odifreddi
Nel corso dei secoli, i detrattori della scienza hanno prefigurato gli scenari più catastrofici sui suoi possibili sviluppi.
L’apprendista stregone di Goethe, il Frankenstein di Mary Shelley, Il Dottor Jekill e Mister Hyde di Stephenson, Il dottor Moreau di Wells, mettevano tutti in guardia sul pericolo che le scoperte scientifiche potessero scappare di mano agli scienziati e provocare guai inimmaginabili. Talmente inimmaginabili, che l’immaginazione dei letterati non riuscì a immaginare qualcosa anche solo lontanamente paragonabile alla mostruosità delle due bombe atomiche lanciate dagli Stati Uniti sul Giappone nell’agosto 1945. Si trattò di un crimine contro l’umanità: 300mila esseri umani svanirono in due funghi atomici in un paio di secondi.
Per una macabra prefigurazione del contrappasso di mezzo secolo dopo, l’impresa atomica di Los Alamos si chiamava Progetto Manhattan. Il suo direttore, il fisico Oppenheimer, citò la Bhagavad Gita per descrivere lo «splendore di mille soli» che si era levato nel cielo, e dichiarò che i fisici avevano «conosciuto il peccato». Il matematico Von Neumann, a cui si ispirò Kubrick per la figura del Dottor Stranamore, commentò cinicamente che «a volte qualcuno confessa un peccato per prendersene il merito ».
A costruire gli ordigni, comunque, gli scienziati alleati c’erano andati quasi tutti, con la scusa del pericolo che Hitler potesse arrivare prima di loro alla bomba. Le uniche eccezioni degne di note erano state Einstein, Wiener e il nostro Rasetti: uno dei ragazzi di via Panisperna, che per non sporcarsi le mani abbandonò addirittura la fisica, e passò alla biologia.
E praticamente tutti quelli che c’erano andati, ci rimasero: anche dopo la fine del 1944, quando i servizi segreti erano ormai certi che i tedeschi alla bomba non ci stavano lavorando. L’unico che “fece il gran rifiuto” fu Rotblatt: all’epoca guardato con gran sospetto e trattato da spia, ma nel 1995 vincitore del premio Nobel per la pace per non “aver tradito la propria professione”, alla stregua del Galileo di Brecht. Quanto agli scienziati nazisti, da Heisenberg a Hahn, nell’agosto del 1945 erano prigionieri degli inglesi, in una villa vicino a Cambridge piena di microfoni. E le registrazioni documentano il loro sgomento alla notizia che gli scienziati alleati avessero osato fare ciò che loro avevano rifiutato.
l’Unità 1.10.12
Antonio Gramsci e le sue tre donne
Le sorelle Schuct con cui si lega a staffetta, centrali nel libro di Vacca
Le novità storiografiche esaltano i ruoli di Eugenia, Tatiana e Giulia. Sono tre protagoniste indispensabili per comprendere idee, dilemmi, misteri della sua sopravvivenza in carcere
Le idee non sono staccate dai corpi, questa è una intuizione politica delle donne e questo libro finalmente ne da conto
di Cristina Comencini
LA VITA E I PENSIERI DI ANTONIO GRAMSCI, DAGLI ANNI IMMEDIATAMENTE PRECEDENTI L’ARRESTO E PER I DIECI DELLA SUA DETENZIONE, FURONO INTRECCIATI INTIMAMENTE E POLITICAMENTE ALL’ESISTENZA DI TRE DONNE RUSSE. Non figure secondarie a servizio di un uomo grande, chiuso in cella e separato dal suo destino politico, ma tre caratteri femminili fondamentali, tre sorelle, che a staffetta corrispondono, si legano, interagiscono, amano e odiano anche l’italiano geniale che la comune passione politica porta nella loro famiglia. Il libro di Giuseppe Vacca (Vita e pensieri di Antonio Gramsci. 1926-1937) vuole tenerle al centro della vicenda umana e politica di Gramsci. Eugenia, Tatiana e Giulia Schuct diventano nel libro di Vacca tre protagoniste indispensabili alla comprensione delle idee, dei dilemmi, dei misteri, della sopravvivenza intellettuale, fisica e affettiva di Gramsci.
Nella famiglia delle tre sorelle Schuct circolano idee rivoluzionarie dalla fine dell’Ottocento. Sia il padre che la madre si sono appassionati agli ideali rivoluzionari, sono amici del fratello maggiore di Lenin e poi di Lenin stesso e della Krupskaja. Le figlie di Apollon Schuct sono convinte sostenitrici della rivoluzione: Eugenia partecipa attivamente alla guerra civile, Giulia lavora negli organi di sicurezza interna. Rivoluzione e musica sono le passioni delle sorelle, e anche l’Italia perché negli spostamenti continui della famiglia, vivono e studiano arte e musica a Roma. Per nessuna delle tre, come per Gramsci, i sentimenti privati e famigliari saranno divisi dall’impegno politico che sta cambiando il mondo. Come scrive anche Gramsci di sé: «Io non sono molto sentimentale e non sono le questioni sentimentali che mi tormentano. Anche le questioni sentimentali mi si presentano, le vivo, in combinazione con altri elementi (ideologici, filosofici, politici) così che non saprei dire fin dove arriva il sentimento e dove incomincia invece uno degli altri elementi, non saprei dire forse neppure di quale di tutti questi elementi precisamente si tratti tanto essi sono unificati in un tutto inscindibile e una vita unica». La storia personale e la Storia grande è una vita unica e questo libro ci restituisce questo intreccio, attraverso le lettere, i codici, i silenzi tra i protagonisti che svelano, come in un romanzo, più delle parole scambiate.
SI PARTE DALLA CLINICA RUSSA
Il libro parte non a caso dall’incontro con Eugenia nel 1922, nella clinica russa dove Gramsci si era ricoverato dopo i lavori del Komintern. La sorella più forte, più preparata politicamente, lo interessa molto e lei probabilmente si innamora di lui. Così quando poco tempo dopo appare sulla scena la sorella minore, Giulia, la più bella, la violinista, si consuma tra i tre un tradimento che alimenterà molte incomprensioni, drammi e sofferenze. In una notte passata insieme nella clinica, di nascosto alla sorella maggiore, Antonio e Giulia parlano di gufi sulla veranda e di Dante: «... poi parlammo di tante cose generali, ma specialmente di un verso di Dante che dice “Amor che a nullo amato, amar perdona”, poi dovevamo dormire e c’era un letto solo e allora io ti feci piangere, cinicamente. Ti feci piangere, proprio apposta, perché ero proprio cattivo; ti volevo molto bene e ti avrei voluto baciare gli occhi, ma non credevo che tu potessi volermi bene e allora ti volevo far del male, perché ero molto cattivo».
Che meraviglia e che coraggio citare una lettera così, far parlare con queste parole il nostro grande pensatore politico! Le idee non sono staccate dai corpi, questa è una intuizione politica delle donne, e questo libro finalmente ne da conto. Giulia e Antonio si desiderano fisicamente, tradendo la sorella maggiore, come Paolo e Francesca tradiscono il fratello di lui. Il loro amore ha una forte componente erotica alla quale nessuno dei due è preparato. Lei piange, lui la fa piangere, lui ha paura di non essere amato ma la vuole. Nel carcere, tutti questi sentimenti torneranno ad accompagnare l’isolamento politico e umano di Gramsci. Amore e rivoluzione, come il titolo del libro di Adele Cambria, si alterneranno nell’anno e mezzo in cui gli amanti riusciranno a strappare alla politica delle ore per loro stessi, per procreare il loro primo bambino in Russia, il loro secondo in Italia. Gramsci vuole assolutamente avere figli, come fosse una traccia concreta, corporea di un amore che non può avere futuro. L’arresto di Gramsci spezza la vita dei due, fa ammalare Giulia e chiude l’attività politica sul campo di un capo che era nato per questo, che non ha mai disgiunto il pensiero dall’azione. Amputati, lui, lei, lontani. Lei in Unione Sovietica dove i due schieramenti lottano per il potere dopo la morte di Lenin, e nelle mani della sorella tradita, ostile a Gramsci e molto più forte di lei. Lui chiuso in carcere subito dopo aver mandato una lettera «inopportuna» al Komintern, come la giudica Togliatti, in cui sostiene la maggioranza capeggiata da Stalin ma lo fa criticamente.
I termini della partita tragica ma anche molto prolifica che si giocherà nei dieci anni del carcere sono già presenti al momento dell’arresto: ricerca di nuove strade da parte di Gramsci per costruire consenso e vittoria del socialismo, disaccordo serpeggiante con Togliatti e con la sua adesione obbligata alle posizione del Komintern, sospetti di tradimento da parte del suo partito, di boicottaggio della sua liberazione, che investiranno, nel punto più alto della tragedia, anche la moglie lontana. Nel carcere, lontano dal mondo, Gramsci regalerà alle generazioni future categorie nuove di pensiero politico e culturale, capirà meglio di chi sta fuori i momenti che si preparano, dissentirà su questo con i compagni dentro e fuori dal carcere, non avrà per ragionarci che se stesso.
Ma tra lui e Giulia, esuli che incarnano la segregazione stessa delle idee che avevano sconvolto il mondo, appare la terza donna, la sorella rimasta in Italia, meno impegnata politicamente e che, come succede nella Storia, sarà quella a cui noi tutti dobbiamo la sopravvivenza di Gramsci e del suo pensiero. Tania è il messaggero tra Gramsci, Sraffa e il partito, il messaggero d’amore e di disamore tra lui e Giulia. Di nuovo i termini privati si intrecceranno in questa fase al lavoro politico fuori e dentro il carcere, nell’Italia fascista, in Unione Sovietica, nella Francia degli esuli. Tra i silenzi di Giulia che lui prenderà per abbandono, delle lettere non pervenute, delle risposte non conosciute, nella lontananza dei figli, nella costruzione di codici per sfuggire alla censura, quella fascista e quella sovietica, nei tentativi di liberazione falliti, si svolge la seconda parte del libro, fino alla morte.
Tania si attacca a Gramsci non solo per fedeltà alla causa, e neanche solo perché è il compagno della sorella lontana e il padre dei suoi nipoti, si lega a lui seguendo un destino femminile di amore e protezione per un uomo fuori dal comune, difficile, solo, diffidente, brusco che cerca disperatamente di continuare a pensare e a fare politica. «Andavo ogni settimana a trovarlo, eppure il tempo mi pareva sempre interminabile tra una mia visita e l’altra, poi egli riceveva da me due volte al giorno il soccorso, col mio scritto, metteva la sua firma e un saluto sulla distinta, era come una comunione tra lui e i suoi cari».
NELL’AMBASCIATA SOVIETICA
Tania lavora all’ambasciata sovietica, questo le garantisce l’extraterritorialità e una possibilità di comunicazione rapida con i famigliari ma anche con il partito russo. Anche qui le missive private, i sentimenti di dolore per la lontananza dei figli e di Giulia, sono annodati alle nuove elaborazioni politiche dal carcere, alle analisi che Gramsci fa della situazione politica italiana e internazionale. Tania copia le lettere di Sraffa frutto dei colloqui con Togliatti e il partito, inoltra relazioni sullo stato di Gramsci, sulle sue condizioni di salute, sulle sue esigenze, trasmette le lettere di Giulia. Qualche volta decide di non inoltrare lettere di Gramsci a Giulia e viceversa, quando la lontananza, i sospetti di lui e il clima di paura in cui vive Giulia in Unione Sovietica, rendono quelle lettere particolarmente indecifrabili per l’uno o per l’altra. Gramsci si irrita con Tatiana di alcuni toni delle sue lettere che potrebbero lasciare pensare a Mussolini che lui sia pronto a chiedere la grazia. Tatiana è testimone del crescere dei sospetti del prigioniero, che si sente abbandonato e tradito da Togliatti e dal partito, soprattutto dopo la lettera di Grieco che gli sembra affermare la volontà dei suoi compagni di tenerlo in carcere. Gramsci non può concepire la verità: è soprattutto l’Unione Sovietica, l’unica che avrebbe forse la possibilità di liberarlo, a non intraprendere nessun passo serio e vincente, per le sue posizioni politiche eterodosse, in contrasto con la linea del Komintern. Ma per Gramsci al contrario l’Unione Sovietica resta la meta da raggiungere una volta liberato, per lui è ancora la patria del comunismo e il Paese dove vivono Giulia e i due figli.
La tragedia politica si rispecchia fino alla fine nella tragedia personale. Così scrive Tatiana a Giulia: «Tu vivi la vita di un grande paese, che sta costruendo il futuro di tutto il mondo, tu sarai per lui una risorsa unica, ma non pensare che questa sua convinzione si basi sul fatto che si aspetti da te delle relazioni scientifiche, no, non è questo, brama solo di sentire il pulsare della vita dello Stato bolscevico, durante semplici e infinite conversazioni con te. Vive di questo». Tatiana raccoglie fino all’ultimo respiro, nella clinica romana dove Gramsci sta morendo, liberato infine ma mai libero, gli assilli del prigioniero: le accuse ai compagni, il lascito dei Quaderni che Antonio vuole nelle mani fidate delle donne della sua vita. Le tre sorelle, ricongiunte in Unione Sovietica, tenteranno invano, scrivendo direttamente a Stalin, di toglierli dalle mani del nuovo capo del Partito italiano a cui saranno invece affidate proprio da Stalin stesso. Nelle parole finali del suo libro, Vacca nomina a questo proposito la eterogenesi dei fini, che potrebbe essere usata anche per interpretare il senso profondo del suo libro, non nel senso manzoniano dell’inutilità delle azioni umane a produrre gli effetti voluti, ma nell’idea che spetta alla Storia portare alla luce il disegno complesso, contraddittorio, le conseguenze non intenzionali delle azioni degli uomini e delle donne, i cui legami e sentimenti sono spesso sottovalutati e lasciati nell’ombra.
Corriere 1.10.12
Solo un demiurgo ci può salvare
di Arturo Colombo
Chi ha letto il dialogo Timeo, ricorda che Platone usa il termine «demiurgo», per definire una sorta di divinità, di creatore e artefice del mondo; ma ormai questa parola è pochissimo usata.
Anche se a recuperarla e rimetterla in circolazione è stato, negli anni 30-40 del secolo scorso, un singolare umanista e scienziato, Filippo Burzio, un piemontese vissuto dal 1891 al 1948 (direttore de «La Stampa» negli ultimi tre anni), cui adesso Paolo Bagnoli dedica un lungo e impegnativo profilo biografico dal titolo Una vita demiurgica (Utet, pp. XIV-296, 18).
Infatti, Il demiurgo e la crisi occidentale, apparso nel 1933, non è solo l'opera maggiore di Burzio; è anche «il punto di arrivo di un'idea lungamente incubata», sostiene nel suo libro Paolo Bagnoli, spiegando che «il demiurgo si propone di essere la risposta all'insieme della crisi alla stregua di un'idea-forza che è, al contempo, anche un ideale pratico: due fattori che, da una parte, interpretano la crisi in atto e, dall'altra, ne prospettano le vie risolutorie».
Per Burzio la crisi dell'Occidente è tanto più grave, perché costituisce il risultato di un duplice fallimento, nel campo della filosofia e in quello della scienza, che ha finito per ostruire, o addirittura cancellare — a danno dei singoli e della collettività — qualunque prospettiva di felicità. Invece, ogni essere umano — insiste Burzio — ha bisogno, per essere felice, «di gusto della vita e di fede nell'azione»: con la conseguenza, anzi la certezza per Burzio, che il mondo in cui viviamo acquisterebbe un notevole valore migliorativo, se si riuscisse a rendere operante l'esigenza del demiurgo — esatta «antitesi rispetto all'individuo collettivizzato dal comunismo sovietico e all'individuo massificato dal consumismo americano», come precisa Valerio Zanone nella presentazione.
Nonostante l'indubbia originalità, però, questa tesi burziana non ha avuto finora una grande fortuna. Semmai, molto più nota e, soprattutto, più aderente alla situazione politico-sociale, è un'altra opera, che Filippo Burzio pubblicò all'indomani del crollo del fascismo, che lo aveva visto avversario rigoroso («granitico» lo definisce Paolo Bagnoli) fin da quando, nel 1925, era stato tra i firmatari del manifesto promosso da Croce in risposta a quello degli intellettuali fascisti, preparato da Gentile. Essenza ed attualità del liberalismo si intitola questo saggio, apparso nel 1945, che riflette bene la forma mentis di Burzio, un liberale di ascendenza cavouriano-giolittiana, e che nel contempo insiste a sottolineare il ruolo fondamentale svolto dalle élite, ossia dalle minoranze attive che costituiscono la vera classe politica, soprattutto all'indomani di una disastrosa esperienza autoritaria. Soltanto un regolare, periodico avvicendarsi delle élite al potere costituisce a suo giudizio, come logica conseguenza, un'autentica garanzia per qualunque democrazia liberale.
Converrà non dimenticarlo mai, nemmeno ai giorni nostri.
Corriere 1.10.12
In un mare di vuoto
Ubertini, il cacciatore di buchi neri
«Spio quello enorme della Via Lattea»
di Giovanni Caprara
Un massiccio buco nero è incastonato nel cuore della nostra galassia, la Via Lattea, alla cui periferia noi abitiamo. «Teniamo gli occhi bene aperti aspettando che divori qualche astro delle vicinanze e così possiamo rubargli altri segreti», racconta Pietro Ubertini dell'Istituto nazionale di astrofisica, celebre cacciatore dei mostri celesti. E intanto ci anticipa qualche dettaglio dell'appassionante ricerca di cui parlerà sabato 6 ottobre a BergamoScienza.
Pietro Ubertini è un astrofisico delle alte energie, cioè si occupa dell'universo violento dove si manifestano gli eventi cosmici più impressionanti. Tra questi ci sono i buchi neri, protagonisti di primo piano sia nella teoria che nell'osservazione, grazie anche agli strumenti che ora permettono di indagarli con interessanti risultati. Ubertini ha progettato e costruito, assieme al francese François Lebrun Ibis, un rilevatore imbarcato sul satellite Integral dell'Esa per raccogliere i raggi gamma generati da sorgenti cosmiche e in grado di mostrare quello che accade lontano dalla Terra. «È stato così — spiega lo scienziato — che, scrutando il centro galattico nella direzione della radiosorgente Sagittario A, abbiamo messo insieme l'identikit del buco nero le cui caratteristiche erano prima incerte».
Gli scandagli incominciarono dieci anni fa, poco dopo il lancio di Integral, esattamente nell'ottobre 2002, e alla fine si capì che il «mostro» aveva una taglia pari a 3,7 milioni di volte la massa del Sole. «Considerevole, ma tutto sommato non era gigantesco rispetto a quello che avremmo scoperto dopo altrove. Però nella sua attività divoratrice aveva fatto piazza pulita di tutte le stelle circostanti».
Quindi ora appare solitario in un grande vuoto, ma sempre pronto a esercitare la sua mortale attrazione gravitazionale la quale, essendo fortissima, è capace di accalappiare altri astri non vicinissimi. «Ogni decina o centinaia d'anni può accadere — aggiunge — e quindi lo scrutiamo in continuazione per non lasciarci sfuggire un'importante occasione di studio».
La Via Lattea è un'isola di stelle (se ne contano circa trecento miliardi); anzi, fa parte di un gruppo di isole stellari tra cui c'è anche Andromeda, destinata a scontrarsi con noi fra quattro miliardi di anni. Dopo aver scandagliato il cuore galattico l'osservatorio Integral è stato puntato su numerose altre zone. «E abbiamo individuato centinaia di buchi neri dispersi nel grande territorio, compresi i bracci che escono dall'area centrale. Sono piccoli, da dieci a cinquanta volte la massa del Sole, ma rappresentano una popolazione diffusa».
Negli ultimi anni lo sguardo è andato oltre la Via Lattea, verso galassie più remote. E qui è arrivata la sorpresa trovando, sempre al centro, buchi neri davvero mostruosi con masse addirittura dieci miliardi di volte superiori a quelle del Sole.
«Dopo un decennio di ricognizioni — nota Ubertini — ci siamo resi conto di come fosse comune la presenza di un buco nero in un cuore galattico. E sono nate tante domande. Inizialmente pensavamo che grandi galassie avessero enormi buchi neri e invece non è così e la risposta ancora non la conosciamo. Inoltre sappiamo che dall'universo primordiale di idrogeno si sono formati dei filamenti nei quali gli atomi si aggregavano, arrivando passo dopo passo ai buchi neri addensando sempre più materia. Ma per capire i passaggi bisognerebbe riuscire a spiegare bene come si sono formate le prime stelle, perché è dalle loro caratteristiche e dalla loro evoluzione che poi scaturivano i buchi neri. Se riuscissimo a veder stelle vecchie di 12-13 miliardi di anni, sicuramente ci aiuterebbero a sciogliere quei misteri delle origini».
Perché le stelle diventino dei buchi neri alla fine della loro vita, cioè quando hanno esaurito l'idrogeno che le alimenta, devono avere una massa almeno tre volte quella del Sole, secondo una regola generale risalente ancora al grande fisico americano Robert Oppenheimer. Poi collassano fino a non lasciar sfuggire nemmeno un raggio di luce. Ma la questione è ben più complicata. «E oggi sappiamo che questi mostri celesti sono diffusi dovunque, non sono delle eccezioni nell'universo, ma fanno parte della sua evoluzione», sottolinea Pietro Ubertini.
Mentre si discute di materia oscura che riempie buona parte del cosmo c'è anche chi si chiede se non esistano dei buchi neri diversi, appunto costituiti di questa materia oscura che si sa presente ma la cui natura non è stata ancora decifrata. Un mistero nel mistero.
Corriere 1.10.12
Vauro lascia «il manifesto» e passa al «Fatto»
di P. Co.
ROMA — Tristissimo addio di Vauro a il manifesto che approda al Fatto. Niente polemiche. E nemmeno recriminazioni. Ma un filo di angoscia, sì. Basta leggere le righe di ieri in prima pagina: «La decisione di Vauro di lasciarci ci sorprende. E ci amareggia. Perché riguarda una persona che ha contribuito a scrivere la storia del nostro giornale. Comprendiamo la sua scelta. Il manifesto sta attraversano il momento più difficile della sua esistenza quarantennale. La direzione, la redazione, i tecnici, tutte e tutti sanno di avere un futuro incerto perché siamo «"in liquidazione" e del doman non v'è certezza», Spiega Norma Rangeri, direttore responsabile: «Capisco la scelta di Vauro, siamo in pesantissima difficoltà. Ma non la condivido. Siamo sul fronte di una battaglia finale e in certe situazioni si compiono scelte di vita oltre che professionali. Come Vauro scrive nel commiato, non ci sono certo motivi politici o legati ai contenuti».
Infatti Vauro se ne va con un saluto oggettivo, affettuoso soprattutto verso Valentino Parlato: «Ho il debito di una libertà mai "concessa" ma sempre scaturita dal confronto, dalla discussione anche aspra sulle idee e sul modo di scriverle o disegnarle. Un debito che sento in maniera particolare nei confronti di Valentino. Vecchio compagno che in questi tempi di rampanti "giovani" rottamatori continua a spendere tutto se stesso con passione, dolore e ostinazione...». Nelle righe di addio a Vauro, c'è solo un punto che va oltre l'amarezza: «Ci siamo illusi che il confronto anche aspro, ma sempre franco, la passione per la battaglia politica fossero una garanzia per poter continuare a combattere. Forse ci siamo in parte illusi. L'uscita di Vauro lo conferma». Vauro, forse, a sua volta capisce: «Dire addio è sempre un po' penoso, lo è ancora di più dopo aver vissuto insieme per trent'anni la splendida e tormentata avventura de il manifesto, tanto penoso che sarei stato tentato di andarmene zitto zitto, quatto quatto. Ma non me lo sarei mai perdonato...».