La Stampa 11.10.12
Il silenzio di fronte agli scandali
di Francesco Manacorda
Ma che fine ha fatto a Milano e dintorni la tanto decantata «società civile»? Perché di fronte all’ondata di malcostume e di malaffare che si solleva dai palazzi della politica locale tacciono anche le voci di quella che un tempo era una borghesia imprenditoriale e delle professioni che guardava idealmente a Nord dei propri confini e alla quale buona parte d’Italia guardava a sua volta con non poche speranza?
L’ultimo arresto di ieri per un’accusa più Calabria che Baviera di voto di scambio, con tanto di tariffario delle preferenze veicolate dalla ’ndrangheta, si aggiunge a scandali seri e grotteschi (vedi alla voce Nicole Minetti) e certifica l’ennesimo colpo al potere di Roberto Formigoni. Cinque assessori delle sue giunte arrestati in otto anni, rendono sempre più debole la linea difensiva del presidente della Lombardia, che derubrica d’abitudine ogni inciampo della sua squadra a responsabilità personali. La condanna a dieci anni di reclusione appena inflitta al sodale Pierangelo Daccò per la spoliazione del San Raffaele potrebbe traslare sul piano politico responsabilità penali.
Il bel record di quattordici consiglieri regionali indagati a vario titolo su un totale di ottanta allarga il discredito anche al di fuori dello schieramento del governatore.
Ma mentre la lunghissima stagione del formigonismo mostra segnali inequivocabili della sua fine, quel che colpisce è proprio il silenzio che circonda la parabola di un sistema di potere. Quelle stesse categorie che più di tutte le altre dovrebbero essere colpite e ferite da quello che rivelano le inchieste giudiziarie, non foss’altro perché il rapporto inquinato tra affari e politica mina alla base ogni prospettiva di leale concorrenza e distorce in modo definitivo il mercato, non hanno invece reazioni apprezzabili.
Del resto appare quasi impossibile trovare oggi nella capitale economica d’Italia, poteri «forti» che siano in grado di confrontarsi con il sistema costruito da Formigoni nei tre lustri e mezzo di sua permanenza al Pirellone. Le grandi banche, piegate prima sotto il peso della crisi finanziaria e adesso anche sotto quello di una congiuntura economica che affonda la lama nei loro bilanci, sono tutte concentrate verso azioni di risanamento interne. Quel che resta del capitalismo manifatturiero e dei suoi addentellati finanziari appare impegnato in battaglie talvolta feroci che scardinano il vecchio assetto dei patti di sindacato e si rivelano spesso come lotte per la sopravvivenza.
Se dalla grande impresa si passa a quel popolo di professionisti e partite Iva che dovrebbe costruire parte integrante della borghesia, il discorso cambia poco. Ripiegati su se stessi anche per la necessità di far fronte alla crisi economica, i ceti professionali non trovano del resto un’offerta politica che intercetti la loro domanda e affondano anzi nella grande palude dell’antipolitica.
Pesa probabilmente anche la difficoltà a fare i conti con un insuccesso collettivo: ancora pochi anni fa il mondo delle imprese offriva aperture di credito forti al governo regionale lombardo, come dimostra lo sterminato elenco di industriali e finanzieri che aderì al Comitato strategico per la competitività istituito proprio da Formigoni. E chi, come la Lega, ambiva a dar voce proprio ai ceti produttivi del Nord ha preferito almeno fino a ieri sera tirare a campare nel governo della Lombardia, stretta fra tatticismi elettorali e strategie politiche di incerto destino.
La degenerazione all’ombra del Pirellone, sulla quale pesano anche gli allarmi della Procura milanese ripetuti ancora ieri da Ilda Boccassini riguardo alle infiltrazioni della criminalità organizzata nel mondo politico ed economico lombardo, merita però una risposta rapida. Chi produce e lavora nell’area più avanzata del Paese e vede arretrare vistosamente il sistema di governo ha il dovere, forse prima ancora del diritto, di ritrovare la voce e farsi sentire.
l’Unità 11.10.12
Nobel a Kobilka e Lefkowitz
Premio ai due chimici per le ricerche sui recettori degli organi del senso
Grazie ai loro studi viene ricostruito il modo
in cui le cellule accettano i messaggi dall’ambiente e capiscono cosa succede
di Pietro Greco
PREMIO NOBEL PER LA CHIMICA 2012 A DUE AMERICANI, ROBERT J. LEFKOWITZ, che lavora all’Howard Hughes Medical Institute del Duke University Medical Center, di Durham, North Carolina, e a Brian K. Kobilka, della californiana Stanford University School of Medicine. I due, recita la motivazione, hanno dato un importante contributo agli «studi delle G proteine accoppiate». Detta così sembrerebbero studi comprensibili solo agli addetti ai lavori. Invece sono studi fondamentali, che hanno cercato di capire quali sono «gli organi di senso» delle nostre cellule. Come quelle minuscole (ma complesse) unità che possiamo considerare i mattoni elementari della vita capiscono cosa succede nell’ambiente esterno. Un uomo ha i suoi bravi cinque sensi per interagire con l’ambiente: vede, ascolta, tocca, gusta, odora. Per ciascuna di queste attività ha organi precisi di senso: gli occhi per vedere, le orecchie per sentire, la pelle per toccare, la bocca per gustare, il naso per odorare. Ma loro, le cellule, come fanno?
In primo luogo ricordiamo cosa sono le cellule. Anzi, le cellule eucariote. Le grosse cellule di cui siamo costituiti (nel nostro corpo ce ne sono miliardi) sono una sorta di piccole fabbriche vecchia maniera. Hanno una parete (la parete cellulare) che le separa dal mondo esterno. Hanno i capannoni (il citoplasma) dove si producono, a comando, una quantità enorme di beni materiali (le proteine) e poi hanno un centro direzionale (il nucleo) ben separato dai capannoni dove risiede il management (il Dna) che invia ordini su come e cosa fare nei reparti produzione.
Ma come fa il management a sapere esattamente cosa va fatto in un preciso momento? Attraverso una catena di informazioni che provengono dai reparti produttivi, ma soprattutto dall’esterno della fabbrica. E allora, come vengono conseguite queste informazioni? Semplice a dirsi: le cellule sulle pareti esterne devono avere degli organi di senso. Qualcosa di simile a occhi, orecchie, eccetera. I biochimici li chiamano recettori. Luoghi dove si ricevono le informazioni. Per tornare alla metafora della fabbrica, devono avere degli uscieri che ricevono i postini. E poi devono avere dei canali tali che le informazioni possano passare dagli uscieri e andare ai reparti di produzione e, soprattutto, ai piani alti, quelli del management.
La storia della moderna chimica della vita può essere interpretata come il progressivo tentativo di individuare gli attori di questa complessa catena
informatica. Negli anni 50, per esempio, Francis Crick e James Watson mostrarono come lavora il management e come invia gli ordini.
Nel corso di questa lunga e complicata storia si è capito chi sono i postini, che si presentano all’entrata per consegnare le «lettere sull’ambiente» agli uscieri e indicare al management qual è la domanda del mercato da soddisfare. I postini sono molecole (in genere proteine, ma non solo) chiamati ormoni. Un esempio noto, almeno di nome, è l’adrenalina. È un ormone che porta messaggi del tipo: attenzione, pericolo.
L’ORGANIZZAZIONE DEGLI «USCIERI»
Queste molecole messaggero sono state a lungo studiate. Ma, alla fine degli anni 60 del secolo scorso, si sapeva poco su chi erano e come lavoravano gli uscieri. È a questo punto che entra in gioco Robert J. Lefkowitz. Il quale con una serie di studi piuttosto complessi alcuni di questi uscieri, chiamati recettori cellulari, e ricostruisce il modo in cui accettano il messaggio riconoscendo sempre un postino da un millantatore e il modo in cui lasciano che il messaggio raggiunga l’interno della fabbrica cellulare. Ricevuto il messaggio, il management si attiva in modo da ordinare alla catena di montaggio qual è la domanda di mercato da soddisfare, producendo un certo tipo di oggetti (proteine) e non altre.
Insomma Lefkowitz ha dato un formidabile contributo a capire come le cellule ricevono e rielaborano le informazioni dall’ambiente. Il problema è che la cellula è come una megafabbrica cinese: vi sono decine di migliaia di lavoratori e un’enorme quantità di uscieri che ricevono un’infinità di informazioni.
È qui che, negli anni 80, entra in gioco anche Brian K. Kobilka. Che da un lato individua il gene (il manager) che codifica per i diversi recettori (uscieri) e dall’altro ricostruisce il modo, unico, con cui una intera classe di recettori riceve le informazioni dall’esterno. Il meccanismo non è diverso da quello con cui noi vediamo. In qualche modo Kobilka ha individuato gli occhi delle cellule. Molto recentemente, lo scorso anno, Brian K. Kobilka ha «fotografato» il momento in cui un usciere (il recettore ß-adrenergico) riceve la «lettera dall’ambiente» da parte del postino.
Ormai quella grande fabbrica che la cellula è ben monitorata. E i biochimici hanno capito molto (ma non tutto) del suo funzionamento. Il che aumenta la possibilità di controllare dall’esterno il funzionamento delle unità fondamentali della materia vivente.
l’Unità 11.10.12
La tempesta sul libro. Vendite in calo e aumento dell’Iva
A Francoforte presentato il rapporto Aie: l’editoria perde quasi il 4% dei già scarsi lettori italiani
di Maria Serena Palieri
FRANCOFORTE. NON È STATO UN BUON RISVEGLIO QUELLO DI IERI MATTINA, A FRANCOFORTE, PER GLI EDITORI ITALIANI: LA MANOVRA DEL GOVERNO, CHIUSASI IN NOTTURNA, INFATTI, HA FATTO OMAGGIO DI UN AUMENTO DELL’IVA SULL’E BOOK DAL 21 AL 22%, QUELL’IVA CHE DA QUANDO SI È ANNUNCIATA LA RIVOLUZIONE DIGITALE LORO CHIEDONO VENGA ABBASSATA, ALL’OPPOSTO, AL 4% CHE GRAVA SUI LIBRI CARTACEI.E piove sul bagnato, visto che il paese che in questo 2012 si affaccia alla Buchmesse con le ossa maggiormente rotte è proprio il nostro. Perché ormai la «i» di Pigs sta per Italia e non più per Irlanda. E perché la crisi che da noi aveva risparmiato il comparto del libro nel 2009 e 2010, facendo spendere fiumi di inchiostro (il nostro compreso) sul potere perdurante del libro quando il Bengodi si sgonfia, ha cominciato a prendere a randellate il comparto nel 2011 e continua spietata a farlo nel 2012.
LA CRISI DEL MERCATO
Il rapporto annuale dell’Aie, presentato dal presidente Marco Polillo, com’è tradizione nel mercoledì di apertura della Fiera, alla presenza di un interlocutore di Governo (ieri Paolo Peluffo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria) dice cifre nitide. Nel 2011 il mercato è decresciuto del 3,7% e, nei primi nove mesi del 2012, di un ulteriore 8,7%. Il libro insomma è entrato nella stessa crisi che aveva colpito forte altri settori del tempo libero già nel 2011: il -10,3% del cinema di sala, il -17,6% dell’home entertainment, il -5,0%della musica registrata, il -7,1%dei videogiochi e, su un altro fronte, il-2,2% della stampa quotidiana e il -3,0% di quella periodica.
Se il libro, fino agli ultimi mesi dell’anno scorso, aveva manifestato un «andamento anticiclico» ora non è più così.
Ma il dato più preoccupante, a ben guardare, non è la crisi di acquisti e vendite, la crisi del «mercato». È la crisi della lettura stessa. 723.000 italiani negli ultimi dodici mesi hanno deciso di non leggere neppure quell’unico libro l’anno che li mante-
neva nella categoria dei lettori (debolissimi e con un’attitudine singolare: come si sceglie «il» libro che ci accompagnerà per dodici mesi?. Ma pur sempre lettori). E a questo si accompagna un dato che ha un valore antropologico: non legge neppure un libro l’anno il 19% dei laureati, il 33,7% dei quadri direttivi e il 31% di dirigenti, imprenditori, professionisti. Se è così chi saprà «dirigere» il cambiamento e portarci di là dal guado?
A guardare il solito bicchiere per diagnosticarlo mezzo pieno o mezzo vuoto, aggiungiamo dei dati che dicono che, tuttavia, la nostra editoria si batte sul piano imprenditoriale: la vendita di diritti all’estero negli ultimi dieci anni è cresciuta del 16% l’anno (i libri italiani tradotti sono passati da 1800 a 4629) e al comparto tradizionalmente tradotto, la narrativa d’autore, si è affiancata la produzione di genere, rosa, giallo, noir, fantasy, quella per bambini, la saggistica e i libri d’arte. Diciamo che il settore per l’infanzia (la Fiera di Bologna è considerata l’appuntamento top nel settore) e quello dei generi sono state le due scommesse giocate e vinte negli ultimi anni.
Ma la crisi resta. E la crisi provoca scenari darwiniani... Fa sì che la nostra editoria si presenti a questa Buchmesse particolarmente lacerata da contrapposizioni tra editori indipendenti e grandi gruppi, come ha testimoniato la sfida aggressiva che i due maggiori gruppi Mondadori e Rcs hanno mosso alla legge Levi sul prezzo del libro, quando a fine settembre ha compiuto un anno, legge che i «piccoli» considerano un baluardo imprescindibile alla propria sopravvivenza. Sicché ha destato allarme nei giorni scorsi un rapporto dell’Antitrust che la qualificava come inefficace e perorava un ritorno al regime antecedente (ma tutto dice che la legge Levi per ora continuerà il suo compito).
NON C’È UN SOLDO
«La tempesta perfetta si è scatenata sul libro, travolto dal calo della domanda e dalle difficoltà di accesso al credito in un momento in cui gli editori sono chiamati a ingenti investimenti sul digitale e non aiutati dalla frammentazione delle competenze sul libro», ha perorato la causa della nostra industria Marco Polillo. Peluffo ha annunciato la creazione di una task force. Per dare iniezioni di liquidità agli editori? No, soldi non ce ne sono. Ma la battaglia antropologica si può tentare: una task force per riportare la lettura nel panorama quotidiano degli italiani.
l’Unità 11.10.12
Editori e governo
C’è bisogno di un sostegno reale
«Dateci sostegno per far abbassare l’Iva sugli eBook dal 21% al 4% e dateci un credito d’imposta sull’innovazione digitale. Ma soprattutto date più attenzione al nostro ruolo di operatori culturali. Sono richieste non troppo onerose per le casse dello Stato ma che stimolerebbero una ripartenza per le case editrici, rimettendo in moto il mondo della lettura», ha chiesto ieri il presidente dell’Associazione Italiana Editori, Marco Polillo, rivolgendosi al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con delega all’Editoria, Paolo Peluffo, che ha inaugurato oggi il Punto Italia. «Non è più tempo di parole per il mondo del libro. Ci servono fatti» ha continuato Polillo. «Datevi una politica coordinata per il libro, troppi e frammentati sono i rapporti e gli interlocutori del nostro
mondo su sostegno all’editoria, promozione della lettura e diritto d’autore» ha continuato il presidente dell’Aie. Avrà ascolto? Vedremo... Intanto nella stessa giornata, è stato presentato un nuovo premio letterario. Rivolto a un settore dell’editoria che per fortuna ha un ampio mercato, i libri per l’infanzia. Per il cinquantesimo della Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, nasce il Premio internazionale Bop, il Bologna Prize all’Editore per ragazzi dell’anno. La scelta dei vincitori sarà fatta da tutti gli editori partecipanti alla Fiera del Libro per Ragazzi, sulla base di una serie di nomination, segnalate dalle Associazioni di Editori di tutto il mondo. Sei saranno i riconoscimenti che verranno assegnati, uno per ciascuna area geografica: Europa, Asia, Africa, Nord America, Sud America e Oceania.
La Stampa 11.10.12
Il Nobel agli ispiratori dei super-farmaci
Stoccolma premia gli americani Lefkowitz e Kobilka, scopritori dei recettori delle cellule
di Valentina Arcovio
Quest’anno entrano a far parte dell’Olimpo dei Nobel gli scienziati che hanno scoperto i «sensori» attraverso cui le nostre cellule percepiscono e rispondono agli stimoli esterni. L’Accademia delle Scienze di Stoccolma ha infatti assegnato il Nobel per la Chimica a Brian Kobilka e Robert Lefkowitz, gli scienziati americani che hanno individuato per primi una categoria particolare di recettori che permettono alle cellule del nostro corpo di interagire e adattarsi all’ambiente esterno. E’ grazie a queste speciali «antenne», battezzate «recettori della proteina G», che le cellule percepiscono stimoli come luce, odori, calore e sapori. Questi recettori hanno anche la funzione di mediare sensazioni – ad esempio gioia e paura scatenando vere e proprie reazioni fisiche, come aumento della respirazione e del battito cardiaco. «Esiste un certo numero di tipi diversi di questi recettori – spiega Yuri Bozzi, dell’Università degli Studi di Trento e riceratore dell’Istituto di Neuroscienze del Cnr e ognuno ha una specificità per alcune “molecolesegnali”, come per esempio l’adrenalina».
Questi speciali sensori attivano una serie di reazioni fondamentali per il nostro organismo. Una scoperta che ha stuzzicato le case farmaceutiche che ancora oggi sfruttano il lavoro dei due nuovi Nobel per sviluppare farmaci più efficaci e con meno effetti collaterali. I risultati sono già sotto gli occhi di tutti. «Circa la metà dei farmaci ora in uso ha scritto il comitato dei Nobel nella sua motivazione sfruttano il meccanismo dei recettori della proteina G». Basta pensare alla produzione dei betabloccanti, antistaminici e psicofarmaci. «Ad esempio esistono farmaci che lavorano su recettori adreneregici accoppiati a proteine G che si sono rivelati molto efficaci nella terapia dell’asma», dice Bozzi.
Tutto è iniziato nel 1968, quando Lefkowitz, 69 anni, docente dell’ Howard Hughes Medical Institute e della Duke University, è riuscito a individuare il recettore per l’adrenalina, utilizzando ormoni marcati con isotopi radioattivi. Il passo successivo è toccato a Kobilka, 57 anni, della Stanford University School of Medicine, allievo di Lefkowit, che ha isolato il gene che codifica per questo recettore. Il lavoro di Kobilka ha portato alla scoperta di altri «sensori», oltre al recettore per l’adrenalina, che si legano a numerosi neurotrasmettitori. Si tratta di recettori capaci di mediare la risposta della cellula e dell’organismo a queste sostanze e più in generale agli stimoli esterni che essi codificano.
«Il lavoro dei due scienziati – conclude Bozzi rappresenta un caso luminoso di una scoperta di base che ha delle ricadute incredibili sulla ricerca applicata».
La Stampa TuttoScienze 10.10.12
Il Nobel della fisica ai domatori di particelle
di Gabriele Beccaria
Sono esploratori di un mondo invisibile, dove il senso comune è annullato e le cose si comportano come non dovrebbero: da quell’universo parallelo promettono di riportare indietro molte meraviglie, come i segreti per costruire i super-computer del futuro, talmente veloci e potenti da annicchilire quelli attuali e regalarci poteri di analisi e previsione oggi quasi impensabili.
Ecco perché ieri l’Accademia Reale di Stoccolma ha deciso di assegnare il Nobel per la fisica al francese Serge Haroche e all’americano David Wineland: «Hanno aperto una nuova era nelle sperimentazioni di fisica quantistica recita il comunicato ufficiale dimostrando la possibilità dell’osservazione diretta di singole particelle». Il loro primo miracolo è stato quello di isolare «mini-pezzi» di materia le particelle, appunto e di osservarli nel loro strano habitat senza interferenze e quindi lasciandone intatte le bizzarre proprietà. E’ noto, infatti, che a livello dell’infinitamente piccolo, se non si prendono le necessarie contromisure, l’osservatore distrugge ciò che lui stesso avrebbe dovuto studiare.
Haroche e Wineland hanno vinto la sfida nella micro-realtà dell’ottica quantistica, quella in cui protagonista è l’interazione tra luce e materia. Con tecniche differenti.
Il fisico francese, impegnato al Collège de France e all’Ecole Normale Superieure di Parigi, utilizza un superconduttore, a temperature prossime allo zero assoluto, per far rimbalzare singoli fotoni. Gli specchi dell’apparecchiatura sono così sensibili che ogni particella di luce si muove freneticamente fino a un massimo di un decimo di secondo o per l’equivalente di 40 mila chilometri, come un viaggio intorno alla Terra. In quella cavità vengono poi lanciati speciali atomi noti in gergo come «atomi di Rydberg» con cui si misurano le prestazioni dei fotoni stessi, calandosi così nel vortice degli incantesimi quantistici. E là può succedere, tra l’altro, di assistere al fenomeno dell’«entanglement», la straordinaria (e controintuitiva) capacità delle particelle di comportarsi come un singolo sistema indipendentemente dalla distanza oppure dalla posizione.
Il fisico americano, impegnato al «National Institute of Standards and Technology» e alla University of Colorado, ricorre invece al potere dei raggi laser. Riducono lo stato energetico di uno ione vale a dire un atomo elettricamente carico e consentono anche di intrappolarlo. Così si obbliga lo ione stesso a un’altra condizione decisamente controintuitiva, nota come «superposition» (la sovrapposizione), nella quale è capace di esistere in due stati diversi simultaneamente.
Ma, per quanto incredibile appaia l’abilità di bloccare le particelle in apposite «scatoline» e di manipolarle, molto più concrete e visionarie sono le applicazioni degli esperimenti di Haroche e Wineland. E’ già stato realizzato il prototipo di un superorologio ottico, così preciso sostengono gli studiosi da «poter diventare la futura base per un nuovo standard di tempo» e anche da riuscire a misurare alcuni effetti della gravità sullo spazio-tempo previsti dalla Relatività di Albert Einstein.
E lo scenario si allarga fino ai computer quantistici, veri e propri cervelli sintetici, che, invece di ricorrere al codice binario dei bit, giocheranno con la sovrapposizione dei qubit, in cui lo 0 e l’1 possono magicamente coesistere. Risultato: la capacità di immagazzinare e di processare una quantità enorme di dati, proprio come richiede adesso la «Big Science», la scienza avanzata fondata sulla moltiplicazione esponenziale delle informazioni, oltre le circoscritte capacità cognitive degli esseri umani.
Se un giorno si avranno a disposizione i fantascientifici computer in grado di anticipare l’evoluzione del clima terrestre e gestire codici a prova di hacker sarà anche per merito dei due professori che ieri hanno aggiunto il loro nome alla lunga lista dei Premi Nobel.
Repubblica 11.10.12
Il nuovo saggio di Chiara Saraceno è dedicato a come cambiano le relazioni
Il gioco delle coppie
di Nadia Urbinati
“Non vi è nulla di meno naturale della famiglia” scrive Chiara Saraceno in questo interessante ultimo suo libro sulla non-naturalità delle coppie e delle famiglie (Coppie e famiglie che esce per Feltrinelli). Nonostante l’articolo 29 della nostra Costituzione, il quale afferma che “la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio”, salvo poi complicare le cose nell’articolo 30, che equipara i diritti dei figli “naturali” a quelli dei figli “legittimi”, suggerendo non soltanto che gli obblighi genitoriali esistono a prescindere dal fatto di essere sposati, ma anche che si può essere sposati con una persona e allo stesso tempo avere obblighi verso figli nati da un rapporto con un’altra con cui non si è mai stati coniugati. «In questi casi, è la presenza di figli, non il matrimonio, che origina una famiglia, per quanto “solo naturale”».
La cultura e i diritti liberali hanno contribuito a rendere il matrimonio un abito sempre più stretto, adattandolo al mutamento della famiglia. Nel Seicento, John Locke aveva proposto di considerare la famiglia come un’associazione funzionale al bisogno di cura e di educazione dei nuovi nati, destinata a esaurire il suo scopo con l’avvenuta maturità dei figli. Quando il bisogno si è estinto, suggeriva il padre della filosofia liberale, allora si può pensare alla coppia come a un’associazione davvero volontaria. Così, aggiungiamo noi oggi, la coppia segue la scelta degli individui, tanto nella struttura quanto nella sua composizione. Se la legge interviene lo dovrà fare in modo tale da non contrapporsi alla volontà, alla libertà di scelta, e alla reciprocità, principi che i diritti difendono e affermano. Da questa premessa nascono i problemi con le tradizioni e le religioni che tormentano le nostre società.
Chiara Saraceno mette a nudo questi problemi andando alla radice delle relazioni famigliari, mettendosi cioè dal punto di vista dei bambini (oggetto di bisogno) e da quello della coppia (oggetto di scelta). In entrambi i casi le soluzioni seguono strade che portano fuori dell’alveo della tradizione e di una normativa troppo rigida. La cultura liberale ha agevolato lo slittamento di accento dalla famiglia alla coppia, rendendo la scelta di convivenza il perno delle relazioni famigliari che per questo cambiano seguendo il percorso delle esigenze e delle scelte delle persone, che si uniscono (a chi vogliono loro) e si separano (quando vogliono loro) con relativa facilità. Non soltanto per l’introduzione della legislazione sul divorzio ma anche perché una volta messo l’accento sulla volontarietà della scelta, la dissociazione tra coppia e forma eterosessuale di convivenza è già nelle cose.
L’evoluzione è stata favorita dalle nuove generazioni che propendono sempre più spesso per soluzioni meno formalizzate del matrimonio, forme di convivenza magari riconosciute dalla legge ma più leggere e anche più permeabili al mutamento (soprattutto meno onerose per chi vuole sciogliere il vincolo). Questa leggerezza giuridica che le coppie eterosessuali ricercano apre la strada al riconoscimento delle coppie omosessuali e lesbiche. Infine porta a compimento la dissociazione tra famiglia e matrimonio e poi anche tra famiglia e coppia eterosessuale.
Del resto se è vero che la base della famiglia è la cura e l’educazione, questo bisogno può essere soddisfatto altrettanto bene anche da chi non è genitore biologico. Famiglie cosiddette allargate, esito di più matrimoni, di forme diverse di coppia, di adozioni e di affidi, ma anche di vie artificiali al concepimento (in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, è accettato il contratto di maternità surrogata) sono un esempio molto eloquente della labilità dell’argomento della natura, anche qualora ci si concentri sul più naturale dei rapporti, quello tra madre e figli.
Le resistenze delle culture e dei codici giuridici, già vanificate di fronte alla richiesta di divorzio e di riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio, probabilmente verranno sconfitte anche in questo caso (come sta già avvenendo negli Stati Uniti e in Canada). Sembra che il modello di famiglia al quale ci siamo per alcune generazioni riferiti sia giunto al capolinea. Anche perché ai problemi classici su che cosa sia natura e cultura, le società moderne aggiungono altre complessità, legate non soltanto all’evoluzione delle tecnologie riproduttive ma anche alla celerità e intensità degli spostamenti. Le migrazioni facilitano contaminazioni di culture, di abitudini e di valori.
E’ questa ampia gamma di trasformazioni e discontinuità della visione e della pratica della coppia, come famiglia e come legame giuridico, che Saraceno fotografa con efficacia lasciando il lettore nell’impressione che a forza di dissociare e complicare, ciò che resta è la persona singola con le sue preferenze e la sua libertà di scelta, e (ciò che si tende a sottostimare), con la sua responsabilità sempre più grande, una responsabilità che cresce in misura proporzionale al declino delle famiglie tradizionali e, insieme ad esse, dello stato sociale. Responsabilità nella solitudine che il peso della libertà genera: una riflessione che fa crescere un certo sconforto. Proprio perché il welfare si fa più leggero e la famiglia si allarga, sarebbe opportuno conclude giustamente Saraceno che si estenda il raggio di riconoscimento dei rapporti di coppia e famigliari, che si riveda criticamente l’insieme dei diritti e dei doveri che si attribuiscono alla famiglia e alla coppia coniugata. Affinché la libertà non sia un peso troppo oneroso.
Corriere 11.10.12
Una mostra a Pisa
Kandinsky Nell'anima russa
I sogni di un ribelle prima dell'esilio La nascita dell'astrattismo nei dipinti che riflettono la cultura della sua terra
Nell'armonia cromatica il senso di una ricerca spirituale
di Elena Pontiggia
A l di là della soglia — che dalla luminescenza solare dei lungarni pisani ci introduce in un atipico corridoio di luci artificiali e ombre — c'è un mondo antico ed esoterico, simbolico e folcloristico. Filatoi contadini, giocattoli di legno, vestiti tradizionali, ataviche novelle con rappresentazioni grafiche, personaggi mitici. E colori, con quelle tonalità così intense da inebriare il visitatore incantato e smarrito per questo salto quantico verso una Russia inattesa.
È la rappresentazione allegorica di quel plancton culturale del quale Wassily Kandinsky si cibò elaborando e trasmutando l'ormai insostenibile leggerezza della cultura europea (che aveva ammaliato e permeato la Grande Madre Russia e, dopo l'invasione napoleonica, aveva iniziato ad appassire) per guardare all'io individuale e all'io sociale, nascosti, rimossi, cancellati, sbiaditi forse come colori amorfi.
È lo stesso cibo che assaggia il visitatore, se pur in un frammento dell'anima piccolo e fugace ma così intenso da restare indelebile, immergendosi nella straordinaria e unica mostra sul padre dell'astrattismo che si inaugura da sabato sino al 3 febbraio del 2013 a Palazzo Blu di Pisa.
È un evento perché per la prima volta in Italia si svela il Kandinsky del periodo russo (1901-1921) e lo si mette a confronto con l'avanguardia del suo tempo, quella del suo Paese natale e quella della Germania, dove Wassily fuggì perseguitato dal regime sovietico. Così le opere di Alexej Jawlensky, Marianne Werefkin e Gabriele Munter (solo per citare alcuni nomi) si intersecano in questo cammino dell'arte, simbolica prima e astratta dopo, di un genio trafitto dal demone dell'arte fin da bambino ma rapito completamente, da avvocato, durante quel viaggio fondamentale, nella regione della Vologda, in Siberia, tra le izbe, le case rurali russe, decorate e colorate e i paesaggi, tanto da aver la sensazione, come scriveva entusiasta e commosso, di «vivere dentro un quadro».
Ed è proprio questa sensazione di realtà virtuale che si percepisce nel corridoio che ci introduce alle tredici sale della mostra in un percorso artistico (e anche un po' metafisico) alla scoperta di un pittore che da un simbolismo, se pur già diverso da quello dei suoi contemporanei, si proietta verso l'astrattismo di cui è l'artefice. Sono 150 le opere esposte a Palazzo Blu, una cinquantina di Kandinsky e le altre di contemporanei (russi e tedeschi), ma ci sono anche dipinti di Arnold Shöenberg (tra i quali un magico autoritratto), amico di Wassily, il genio austriaco inventore della musica dodecafonica. Che anch'essa, probabilmente, può essere in parte paragonata all'astrattismo di Kandinsky, una frattura epistemologica nell'arte del '900.
In una sala, accanto a «Macchia nera», il dipinto del 1912 con il quale l'artista abbandona ormai ogni riferimento figurativo, si sfiorano strumenti sciamanici tra i quali un tamburo, riprodotto (la macchia) nello stesso capolavoro. E sembra quasi di sentirlo vibrare, questo tamtam rituale, insieme a un'orchestra impossibile, che diffonde le cascate di note (e colori) della Sagra della Primavera di Igor Stravinskij.
Si cammina tra le sale che ripropongono i primi dipinti di Kandinsky, in quell'atmosfera simbolista del periodo di Murnau. Si scivola, senza accorgersene, incontro alle grandi tele dell'avanguardia russa e occidentale, intorno al Der Blaue Reiter, e i maggiori protagonisti della sperimentazione russa, da Michail Larionov alla Goncharova. E infine ecco i capolavori, prima della sua fuga dal regime sovietico, quando accetterà da Walter Gropius l'insegnamento al Bauhaus.
Nella sala del drago, se così possiamo chiamarla, l'emozione è al culmine. Ci sono le iconografie di San Giorgio nell'eterna lotta contro il mostro. E c'è la magia di un capolavoro di Wassily: «San Giorgio» (1911). Così, mettendo a confronto icone e dipinto, tradizione e astrattismo, si percepisce quel processo di decostruzione della realtà.
Poco più avanti, ecco la «sala delle barche»; e anche qui un dipinto di un pittore simbolista con le vele sul fiume serve a entrare in «Improvvisazione» (1910) e nell'«Improvvisazione» del 1917 con le «stesse» barche, gli uomini che remano, l'acqua, il cielo.
«È stata una sfida difficile quella di spiegare forse l'artista più concettoso nel Novecento», spiega Claudia Beltramo Ceppi, co-curatrice della mostra insieme Eughenia Petrova, direttrice del museo russo di San Pietroburgo.
Ma perché proprio Kandinsky? «Ci ha affascinato proporre questo periodo particolare della sua vita che segna la definitiva e totale immersione nella pittura — risponde Cosimo Bracci Torsi, presidente della Fondazione Palazzo Blu —. Inoltre, dopo il ciclo dedicato al Mediterraneo con mostre di grandissimo successo su Chagall, Mirò e Picasso, pensiamo a una serie di mostre dedicate all'astrazione».
Corriere 11.10.12
L’acquerello che portò alla luce un mondo fatto di linee e colori
di Marco Gasperetti
Dire che l'astrattismo è nato con Kandinsky è come dire che l'America è stata scoperta da Colombo. L'America, in un certo senso, era già conosciuta, perché i Vichinghi vi erano sbarcati intorno all'anno Mille, mezzo millennio prima del navigatore genovese. Però quella scoperta se l'erano tenuta per sé e solo con Colombo l'America è diventata oggetto di conoscenza per tutti.
Con Kandinsky avviene qualcosa di simile. L'astrazione, cioè un'arte «senza oggetti», in cui linee e colori non rappresentano immagini del mondo esterno (astrarre viene appunto dal latino «ab-s-trahere» che significa «tirare via»), esisteva anche prima. I pavimenti cosmateschi del XII-XIII secolo, per fare un esempio tra i tanti possibili, sono formati da intrecci di cerchi, spirali e curve che si potrebbero già considerare astratti. Solo con Kandinsky, però, e precisamente col suo «Primo acquerello astratto» del 1910, l'astrattismo è realizzato e teorizzato consapevolmente.
Certo, in arte, come in tutte le cose dell'uomo, niente nasce dal nulla. Solo due anni prima dell'acquerello di Kandinsky uno studente tedesco, Wilhelm Worringer, aveva discusso all'Università di Berna una tesi intitolata «Astrazione ed empatia», in cui sosteneva che l'arte non nasce per riprodurre la realtà, ma «tende alla pura astrazione». Chi avesse avuto la pazienza (ce ne voleva tanta) di leggere lo scritto, avrebbe capito che riguardava soprattutto l'espressionismo, nato poco tempo prima, ma intanto il nome e il concetto di Abstraktion circolavano. Già alla fine dell'Ottocento, poi, due studiosi anch'essi tedeschi, Fiedler e Hildebrandt, avevano elaborato la teoria della pura visibilità, secondo cui l'arte non si limita a interpretare gli elementi della natura, ma crea forme completamente nuove.
Se fosse stato per teorici e studiosi, comunque, il concetto di astratto sarebbe rimasto chiuso nelle aule universitarie. Invece l'acquerello di Kandinsky (un foglio di carta alto poco più di cinquanta centimetri, tutto macchie e grumi di colore, che a prima vista sembra lo scarabocchio di un bambino ma racchiude un'energia e un senso dello spazio che solo un artista può avere) esercita un influsso incalcolabile sull'intero secolo. Crea una poetica, una filosofia, quasi una fede.
Oggi se si sente qualcuno definire astratto o figurativo un quadro si può star certi che ha almeno quarant'anni. È una distinzione che ai giovani non interessa più, eppure fino a qualche decennio fa suscitava contrapposizioni, scontri, lacerazioni. E pensare che Kandinsky, invece, era tutt'altro che dogmatico e ammetteva benissimo l'immagine, purché non naturalistica, accanto alla pittura di sole linee e colori di cui era il padre. Quello che gli stava a cuore, e l'aveva portato ad allontanarsi dall'arte imitativa, era la ricerca della spiritualità. «Lo spirituale nell'arte» si intitola appunto il suo testo più famoso: un libretto che scrive nel 1909 e per tre anni gli viene sistematicamente rifiutato, finché l'amico Franz Marc riesce a trovargli un editore. L'artista, sostiene Kandinsky, non deve dipingere la materia, ma l'essenza, l'interiorità, l'anima delle cose. Per esprimere il movimento, per esempio, non deve dipingere un cavallo (o magari una macchina in corsa, come negli stessi anni facevano i futuristi): basta un triangolo, che già con la sua forma acuta e le sue linee oblique suggerisce il dinamismo. Analogamente accade coi colori: il blu dà un senso di quiete, il viola di malattia. Anzi l'effetto è ancora più intenso, perché l'armonia cromatica giunge subito all'anima.
Spiritualità, interiorità, colore: ma Kandinsky è il primo dei moderni o l'ultimo dei bizantini? Forse entrambe le cose. Giunto nel 1866, a trent'anni, a Monaco di Baviera, dove nel 1911-12 fonda con Franz Marc il gruppo del «Cavaliere Azzurro», punto di partenza dell'astrattismo europeo, Kandinsky era nato a Mosca. E nella sua formazione devono aver contato non solo l'impressionismo di Monet e l'esperienza delle coloratissime izbe dei contadini, come lui stesso ha raccontato, ma anche la visione delle icone millenarie. Dove il colore è sempre stato un'espressione dell'anima.
Corriere 11.10.12
Usò l'Italia fascista come ponte per farsi riabilitare in Germania
Sospettato di bolscevismo, puntò sui buoni uffici dei futuristi
di Francesca Bonazzoli
«Qual è il Paese che può rivendicare Kandinsky?» si chiedeva la moglie del pittore, Nina, nell'autobiografia pubblicata nel 1976. La Russia, la Germania o la Francia dove Kandinsky è morto, da cittadino francese e sepolto al cimitero di Neuilly? Nemmeno Nina aveva una risposta, ma certo è che per un periodo, quello fascista, anche l'Italia entrò fra le opzioni di Kandinsky.
La prima volta che l'artista russo mise piede in Italia fu con i genitori, nel 1869. Aveva solo tre anni e di quei giorni riportò il ricordo angosciante di «una foresta inestricabile di colonne fittissime, quella terribile foresta della cattedrale di San Pietro da cui mi pare che invano la mia governante e io cercassimo a lungo l'uscita». E come se non bastasse, il colore che più gli rimase impresso fu il nero: quello di una carrozza nera su un ponte e di una gondola presa di notte sull'acqua nera. Esperienze di puro terrore.
Anni dopo Kandinsky si riconciliò attraverso vacanze soleggiate a Forte dei Marmi, Rimini, Rapallo, Palermo, Verona, Pisa («Là un tempo hanno costruito degli uomini veri!»). Ma soprattutto Kandinsky pensò all'Italia come al Paese-ponte attraverso cui, grazie ai buoni uffici del fascismo, tornare nella Germania nazista da cui si era dovuto allontanare.
La storia è complicata e racconta un'Europa ben più lacerata di quella di oggi, colpita in confronto dalla leggera febbre dello spread. Come molti altri europei, infatti, dalla Rivoluzione russa fino alla fine della seconda guerra mondiale Kandinsky dovette passare da una nazione all'altra inseguito da fame, guerre, persecuzioni razziali, pregiudizi religiosi e politici.
Quando dunque Kandinsky tornò in Italia nel 1936, aveva già lasciato la sua Mosca, dove c'era stata la Rivoluzione ma anche la Germania dove aveva studiato e dove era tornato a vivere nel 1921. Era diventato cittadino tedesco ma il Bauhaus, dove insegnava, era stato chiuso dai nazionalsocialisti e la sua arte considerata degenerata. Per di più, su di lui gravavano sospetti di bolscevismo, per il solo fatto che era di origini russe. Nel 1933 si era quindi dovuto trasferire in Francia dove però il trattato di mutua assistenza franco-sovietica del 1935 minacciava di nuovo la sua sicurezza essendo egli ancora cittadino tedesco, seppure in fuga. Le sue idee antimarxiste dunque non lo salvarono in Germania ma nemmeno lo aiutarono in Francia dove le avanguardie artistiche stavano a sinistra e i rapporti intrattenuti nella casa di Parigi con Marinetti e i futuristi lo rendevano sospetto.
Ecco dunque che per l'errante Kandinsky il consenso nell'Italia fascista poteva diventare il ponte per una riabilitazione agli occhi della Germania dove, fino al 1939, l'artista sperò di tornare. In una lettera, scritta a un amico a Berlino nel 1933, si illudeva così: «Naturalmente per noi, artisti "moderni", è molto spiacevole che il nuovo governo non capisca la nuova arte. In Italia pare che la situazione sia molto diversa! La nuova architettura e la nuova arte (futuristi italiani) vi sono riconosciute come arte fascista ma forse i nazisti si renderanno conto che gli italiani si comportano nel modo giusto».
Scottato dall'esperienza moscovita, Kandinsky temeva l'avvento al potere del partito comunista sia in Francia che in Germania e si ostinava a pensare che le posizioni naziste contro il Bauhaus, l'astrattismo e l'arte degenerata fossero un semplice incidente di percorso, recuperabile attraverso il successo di cui godeva in Italia, dove veniva riconosciuto come «il più celebre pittore astratto di tutti i paesi». Il suo avvicinamento all'Italia, ignorata fino al 1930, fu quindi strumentale al bisogno di rifarsi un'immagine.
Non a caso, quando i fratelli Ghiringhelli gli organizzarono una personale alla galleria del Milione di Milano, nel marzo del 1934, non si impegnò particolarmente e inviò solo opere su carta preoccupandosi soprattutto che la galleria fosse «di assoluta e tipica modernità fascista».
Ma non andò come Kandinsky aveva sperato e nemmeno il sollecitato aiuto dell'amico Marinetti riuscì a riabilitarlo agli occhi dei tedeschi. Ci volle il crollo del nazismo.
In Italia, invece, nonostante a quel punto poco gli importasse, Kandinsky continuò a godere di un grande successo anche dopo il fascismo: nel 1950 Enrico Prampolini lo definì «il Giotto del XX secolo» perché lo vedeva come l'artefice del superamento della tradizione figurativa occidentale. Nel 1966 Piero Dorazio lo acclamò come «il salvatore dalla soffocante influenza di Picasso e della sua mitologia mediterranea» e anche Giulio Carlo Argan vide in lui il liberatore dall'elitaria estetica ellenistico-figurativa.
Repubblica 11.10.12
Le radici visuali e le componenti spirituali dell’opera del maestro russo raccontate in una mostra allestita a Palazzo Blu di Pisa
Wassily Kandinsky. Inventare l’astrazione per dare voce all’anima
di Claudio Strinati
Di Wassily Kandinsky sono chiari molti aspetti ma la mostra che si tiene ora a Pisa permette di verificare in concreto l’attendibilità di quanto sembrerebbe ormai entrato nella coscienza comune di coloro che sono attenti alle cose dell’arte. Kandinsky da un lato fu un russo completamente calato all’interno del clima culturale e spirituale diffuso nella sua terra verso la fine dell’Ottocento (era nato nel 1866 e raggiunse la prima maturazione nel corso del nono decennio) e dall’altro è subito coinvolto con l’ambiente tedesco che lo indirizza verso il culto del Simbolismo e dello Jugendstil, spingendolo ad approfondire la componente spirituale dell’arte sottratta a un confronto diretto con il peso della realtà ma all’opposto orientata sulla scandaglio del profondo, della memoria, dell’introspezione.
Questa sorta di doppia radice, russa e tedesca, sarà determinante per tutta la parabola del grande artista destinato a restare sempre un po’ apolide, persino mal sopportato nella sua stessa patria. La mostra, curata da Eugenia Petrova, direttrice aggiunta del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo in collaborazione con Claudia Beltramo Ceppi raccoglie una cinquantina di opere provenienti da San Pietroburgo e da altri musei russi e europei, le affianca quelle dei compagni di strada tedeschi (da Gabriele Munter a Alexej Jawlensky, da Marianne Werefkin a Arnold Schönberg), e apre un orizzonte nuovo sulle possibili interpretazioni della questione decisiva dell’arte moderna: l’astrazione.
Kandinsky può esserne considerato il fondatore ma forse non il padre, perché l’astrazione non fu mai per lui un fine dottrinalmente perentorio, ma un metodo per esplorare territori sconosciuti dell’arte, presenti però alla coscienza umana fin dalle origini.
Quando Kandinsky scrisse Lo Spirituale nell’Arte questo punto era in effetti già latente. Ma l’esatta comprensione del suo pensiero stentò a emergere, anzi soltanto adesso la ricostruzione della storia dell’arte di quell’epoca si sta liberando da inveterati pregiudizi. La genesi de Lo Spirituale nell’Arte è
emblematica. Scrisse il testo in tedesco nel 1909 sotto l’urgenza di dare una sistemazione teorica a quel che stava facendo tra mille contraddizioni e ripensamenti. Poi l’anno dopo lo riscrisse in russo e già questo solo fatto la dice lunga sul suo animo tormentato perché la lingua russa di Kandinsky, come ci viene ben spiegato nel catalogo, era già di per sé una lingua scritta in modo difficile e altezzoso.
In veste di scrittore il maestro si espresse nella sua lingua madre in modo sempre forbito e sovraccarico di una terminologia ad alta densità filosofica e teosofica. Era una lingua destinata a una cerchia di iniziati anche se pretendeva di lanciare un messaggio generoso e ardente a tutta l’umanità, mentre la stesura tedesca accentuava l’argomentazione tecnica. Il libro venne completato e uscì tra il 1911 e il 1912. Kandinsky vi parla, con enfasi, dell’avvento di un’epoca di eletta spiritualità e del principio della necessità interiore che l’artista deve assecondare e tradurre nel concreto dell’opera realizzata. La parola chiave è “anima”.
È l’anima che si deve vedere nell’opera, ma la rappresentazione dell’anima è di necessità astratta perché la verità della dimensione spirituale non ammette figura ma pretende “forma”. In questa aporia misteriosa sembra risiedere l’esigenza perentoria del cambiamento in Kandinsky.
Ma egli in realtà restava libero dai suoi stessi principi senza averne mai fatto una sorta di dogma. Quante sollecitazioni aveva dovuto coordinare lungo il cammino per giungere alla conclusione di potersi presentare come teorico, docente, educatore del popolo, poeta segreto.
All’inizio degli anni Ottanta, giovanissimo, aveva viaggiato per la Russia settentrionale ed era rimasto incantato da questo mondo che sembrava vivere ancora nella dimensione della favola, nell’izba contadina gremita di oggetti, sfavillante di colori, calda e accogliente come un grembo materno. Così racconta il suo ingresso nell’izba di Vologda: «Mi fermai sulla soglia, mi sembrava di entrare nel colore. Avanzai all’interno di un quadro». Quest’esperienza fu fondativa per lui: per tutta la vita cercò la potenza del colore e della forma. Ed è bello che la mostra di Pisa dedichi una sezione alle radici visive dell’opera del maestro russo con oggetti appartenenti alla tradizione dello sciamanesimo raccolti negli stessi anni in cui Kandinsky li appuntava sui suoi taccuini, e da coloratissimi oggetti della tradizione folclorica. Ma ci volle del tempo prima che incontrasse la sua strada. La sua prima formazione era avvenuta in campo giuridico presso la facoltà di Legge di Mosca. Qui aveva lavorato a lungo, appassionandosi alla disciplina e dedicandosi particolarmente a speculazioni teoretiche di filosofia del diritto. Aveva avuto chiara cognizione della dialettica tra diritto romano antico e diritto russo. È proprio nel diritto che aveva individuato una peculiarità russa, rivolta alla cognizione dell’anima. Eccone la interessante chiave interpretativa: il diritto romano insegna a giudicare il fatto, il diritto russo insegna a giudicare l’animo umano, evidenziandone le motivazioni e i relativi comportamenti. Scrive Kandinsky stesso che nel diritto prediligeva la dimensione dell’astrazione concettuale piuttosto che quella della concreta applicazione della norma, anche rispetto alle grandi questioni sociali che di lì a poco avrebbero portato alla rivoluzione e alla vittoria dei principi del materialismo storico.
Ma il materialismo storico era proprio all’opposto di quella via dell’anima che l’artista riteneva determinante e esclusiva per attingere la verità dell’arte. Credeva non a Marx ma al mistico duecentesco Gioacchino da Fiore che aveva profetizzato (e anche Dante lo seguì) i tre regni dell’umanità, sotto il dominio del Padre (il tempo della legge), del Figlio (il tempo della redenzione), dello Spirito Santo (il tempo della rivelazione).
Nasceva in quel momento la convinzione in Kandinsky che la vera rappresentazione dell’anima umana consistesse nella capacità di fissare in immagine quella “risonanza interiore” che genera il suono da un lato (e si estrinseca nella musica) e il colore dall’altro (e si estrinseca nella pittura) concretizzandosi attraverso la combinazione degli elementi essenziali del sapere, che per antonomasia è quello visivo: il punto, la linea, la superficie. Ecco il racconto figurativo dell’anima. Un’utopia, che non gli impedì di continuare contestualmente a rappresentare le favole antiche della gente della sua terra, vista in una lontananza siderale ma captata in uno spazio che ha perso peso e consistenza, per poi ritrasformarsi nell’altro da sé della pura astrazione.
Repubblica 11.10.12
Il pittore e le forme dei teosofi
Le influenze del circolo blavatskiano sulla rivoluzione astratta
di Gregorio Botta
C’è un errore all’origine dell’arte astratta, secondo la storia (o la leggenda?) che lo stesso Kandinsky ha raccontato: un giorno, mentre stava dipingendo, lasciò lo studio per una passeggiata. Al suo rientro, guardò stupito la tela sul cavalletto: non la riconosceva più, ma fu sedotto dalla sua forza e dalla sua potenza. Poi capì: il suo quadro era stato rovesciato dalla donna di servizio venuta a fare le pulizie. Quell’inversione fece compiere all’arte del Novecento l’ultimo passo che ancora mancava: liberare completamente il colore e la forma dall’obbligo di descrivere anche lontanamente una realtà visibile.
Probabilmente Kandinsky sarebbe arrivato lo stesso a varcare la soglia dell’astrazione. Il salto era nell’aria: e molti artisti percepivano il vento del cambiamento prossimo venturo. Un ruolo, nella rivoluzione estetica dei primi del secolo, l’ha certamente avuto la Società Teosofica di Madame Blavatsky. È noto che tutti gli artisti che hanno avuto a che fare con l’astrazione, Malevic, Mondrian, Kandinsky entrarono in contatto con le sue teorie e con quelle dell’eretico Rudolf Steiner, e ne furono in qualche modo contagiati. (Non Paul Klee, che invece nei suoi diari esprime una certa diffidenza per il movimento). Il titolo del manifesto di Kandinsky Lo Spirituale nell’arte è una chiara testimonianza di quelle influenze. Ma è invece meno conosciuta una strana coincidenza: quella di un piccolo e curioso libretto pubblicato dal circolo blavatskiano qualche anno prima delle Improvvisazioni
astratte. Si intitolava Le Forme-Pensiero, e gli autori erano Charles Webster Leadbeater e Annie Besant: spiegavano come pensieri e sentimenti fossero energie che assumevano nello spazio pattern e colori precisi: peccato che solo i chiaroveggenti fossero in grado di vederle. Ne disegnarono il catalogo. Qualche esempio? Un triangolo acutissimo rosso è un segno d’ira, un ovale rosato un pensiero d’amore, un sole (scontato, no?) è amore irradiante, un cerchio circondato da un alone azzurro è il sembiante di un pensiero d’aiuto, mentre una nuvola con una coda di ami uncinati rappresenta l’avidità. E via così. Anche la gamma dei colori è stata interpretata: il blu lapislazzuli significa “alta spiritualità”, il verde smeraldo simpatia, il giallo ocra un “forte intelletto”, il grigio scuro, naturalmente, depressione, il verde marcio inganno.
Tutto questo può fare anche sorridere, le associazioni tra forme e sentimenti sembrano fin troppo semplici e infantili. Ma i chiaroveggenti andarono a “vedere” – se così si può dire – le forme prodotte dall’esecuzione di musiche di Mendelssohn, Gounod e Wagner. E qui la somiglianza con le opere che più tardi avrebbe dipinto Kandinsky è impressionante. Linee guizzanti, nuvole di colore accesi, verdi intensi e rossi squillanti, e nessun riferimento alla realtà.
Il maestro russo scriveva che le sue opere non nascevano dall’arbitrio. “Tutto ciò che è necessario è nascosto. Ciò che è nascosto è alla base dell’opera, dell’opera viva”. E per questo sentì il bisogno di decifrare il codice delle forme che usava. In Punto, linea, superficie l’artista creò il catalogo che spiegava il movimento, il calore, l’effetto, in una parola il senso di linee rette e curve, di triangoli e cerchi, e dei colori. Un vero e proprio dizionario delle forme astratte: simile, in fondo, a quello dei teosofi. Sarebbe bello sapere se la sua biblioteca ospitò anche quel libricino.