Corriere 10.10.12
Agenda di governo da «rottamare» È duello nel Pd
Fassina attacca. Letta: passato il segno
di Monica Guerzoni
ROMA — L'osservazione che il senatore Stefano Ceccanti consegna a Twitter rivela quel che molti pensano, anche tra i dirigenti del Pd: «Se il responsabile Economia e il vicesegretario dicono cose opposte appoggiando il medesimo candidato forse ci vuole un congresso, non primarie di coalizione». Al centro dei tormenti democratici c'è ancora il «giovane» Stefano Fassina, il responsabile Economia che siede nella segreteria di Bersani. Lunedì aveva accusato Renzi di copiare il programma del partito e ieri ha scritto sul Foglio un lungo articolo intitolato, a caratteri cubitali, «Rottamare l'agenda Monti».
Il proclama contro le riforme ha incendiato le polveri e se ora nell'area filo-montiana c'è chi evoca il congresso è anche perché Bersani si è limitato a contenere Fassina, mentre il suo vice lo ha duramente sconfessato. «Si è passato il segno» è il monito di Enrico Letta, che legge la posizione del leader dei «Giovani turchi» come una «stridente contraddizione» con il sostegno a Monti: «Bersani è sempre stato inequivocabile. Motivo per tanti di noi determinante per appoggiarlo convintamente alle primarie». Il vicesegretario pensa insomma che le tesi di Fassina siano «smentite nella realtà» dalle scelte di Bersani, mentre il leader prova a risolverla così: «Monti ha dato un'idea di rigore e di credibilità al Paese che è un punto di non ritorno, ma noi vogliamo metterci più equità». E poi, per stoppare le critiche interne: «Abbiamo rinunciato a qualcosa di nostro per appoggiare Monti, quindi chi vuole convincerci che va difeso si riposasse. Ora il Paese deve tornare alla normalità e il punto è se abbiamo diritto di votare».
La frattura con l'ala riformista dunque resta e il problema, per il segretario, è come mediare tra le posizioni antitetiche incarnate da due figure chiave della sua maggioranza. E infatti a Berlusconi, che non esclude il «bis», il leader del Pd replica secco: «Chi tira per la giacca a fini elettorali Monti non fa un buon servizio, né a Monti, né all'Italia». I rapporti tra il segretario e il premier sono distesi, così almeno è apparso al lancio della Uman Foundation di Giovanna Melandri. Prima di correre in Consiglio dei ministri Monti ha voluto farsi vedere in casa pd, proprio nel giorno in cui Berlusconi non ha escluso di proporlo come leader dei moderati. E Bersani ne ha approfittato per un breve colloquio.
Ma il Pd è in allarme. A Montecitorio i democratici rievocano con terrore la «gioiosa macchina da guerra» con cui Achille Occhetto andò a infrangersi nel 1994. Quello della vittoria pregustata che diventa disfatta è lo scenario più agghiacciante e, se Pierluigi Castagnetti ne parla senza infingimenti a Tgcom24, Beppe Fioroni scaccia a suo modo i fantasmi del '94: «La riedizione di un'alleanza con Vendola, Di Pietro e la sinistra che è fuori dal Parlamento non è tollerabile». Ma se qualcuno nel Pd aspira a un Monti bis retto dalla maggioranza attuale, quel qualcuno non è Bersani: «Grande coalizione? Basta. Io non faccio più maggioranze con Berlusconi». L'ex premier confermerà il passo indietro? «Noi non ce ne occupiamo — risponde il segretario —. È come interpretare la Sibilla Cumana».
Sul fronte interno, oltre a Renzi che vuole rottamarlo e che lo attacca sulle spese della campagna, Bersani deve vedersela con l'aggressività dell'esordio di Vendola. Un suo manifesto rimbalza sul web e crea polemica. C'è scritto «Il massacro della Diaz oppure Vendola» e lo slogan è così forte che il leader di Sel è costretto a spiegarlo dalla prima pagina del suo blog: se andrà a Palazzo Chigi farà una legge «per l'identificazione dei poliziotti impegnati in operazioni di ordine pubblico», introdurrà il reato di tortura e istituirà «quella commissione di inchiesta sempre barbaramente negata».
il Fatto 10.10.12
Pd, divisi pure i bersaniani
Stefano Fassina vuole rottamare l’agenda Monti, Enrico Letta s’indigna
di Wanda Marra
Rottamare l’agenda Monti”: il titolo - a caratteri cubitali - che il Foglio dà a un lungo commento a firma Stefano Fassina (responsabile Economia del Pd) fa saltare ancora una volta i nervi - già tesi - dei Democratici. “Ha passato il segno”, va all’attacco Enrico Letta. “Vi è una inaccettabile conclusione che appare in stridente contraddizione con tutto ciò che di positivo il Pd ha fatto in questi mesi”. Ma soprattutto Letta ci tiene a chiarire un punto: “Il Pd ha agito e assunto impegni diversi da quelli delineati dall’articolo. E Bersani è sempre stato inequivocabile da questo punto di vista. Motivo per tanti di noi determinante per appoggiarlo convintamente alle primarie del centrosinistra”. Sì, perché il responsabile economico e il vicesegretario del partito pur su posizioni opposte, sostengono il segretario alle primarie. Letta è stato il vero sponsor del governo Monti. Fassina viceversa, fin dai primi passi dell’esecutivo si è messo in una posizione di “lotta e di governo”, criticandone le scelte e partecipando a qualche manifestazione contraria. Ritagliandosi il ruolo di uomo del dissenso da sinistra (pure l’altroieri si è fatto notare per aver attaccato Renzi, reo di copiare il programma del suo stesso partito). E ora, eccoli Fassina e Letta dalla stessa parte, mentre quelli che si sono arrogati l’etichetta di montiani doc stanno con Matteo Renzi. “A leggere Fassina resto sgomento”. A sentire Fioroni (pure lui col segretario) non c’è da stare allegri per l’alleanza bersaniana. “I migliori sostenitori di Renzi sono Fassina e la Bindi”, ironizza soddisfatto il montiano Ceccanti. Ma cosa scrive davvero Fassina? “Nell'area euro siamo su una rotta di aggravamento degli squilibri macroeconomici”, esordisce. Di più: “L’agenda Monti non funziona”, “nell’euro-zona va archiviata la via mercantilistica e allargata la prospettiva dello sviluppo sostenibile”. Accanto a cotali dichiarazioni però chiarisce: “Soltanto la propaganda strumenta-le può leggere nella proposta correzione di rotta la volontà di smontare gli interventi degli ultimi mesi. Aggiustamenti vanno fatti (su esodati e sugli squilibrati assetti degli ammortizzatori nella legge Fornero). Ma, sono aspetti marginali.”. Insomma “è fuori discussione il rispetto di tutti gli impegni sottoscritti dall’Italia”. Difficile capire in questi termini fino a che punto la politica economica di un eventuale governo Bersani potrà differenziarsi da quello Monti. Intanto Bersani mentre apparentemente prende le distanze, in realtà conferma posizioni non molto diverse da quelle del suo responsabile economico: “Ho già detto in assemblea che non è questione di agenda Monti o agenda Bersani ma di un’agenda europea che non funziona. Bisogna cambiare l’agenda europea e quindi quella italiana”. Ma “il rigore di Monti è un punto di non ritorno”. Un perimetro dentro cui dovrebbero stare tutti. Eppure Fassina sull’economia sembra come Nico Stumpo sulle regole: i fedelissimi fanno lo sfondamento, passando un messaggio che il segretario in prima persona non può traghettare.
il Fatto 10.10.12
Ceclia Pezza
“Renzi, un fintissimo democratico”
di Wa. Ma.
Lui va a giro a dire che me e altri due o tre ci vuole far fuori”. “Lui” è Matteo Renzi il lanciatissimo sindaco di Firenze. E a parlare, con spiccato accento fiorentino, è Cecilia Pezza, 26enne consigliera comunale, ex segretaria della Sinistra giovanile cittadina, convintamente bersaniana. In realtà si tratta di uno sfogo, un “fuorionda” (modalità ormai entrata prepotentemente nella prassi mediatica) trasmesso dall’Ultima parola di venerdì scorso. “Lui è un fintissimo democratico. Qui in città la gente ha paura di schierarsi sulle primarie. Cioè quelli che non stanno con lui hanno paura. Perché se fanno un lavoro che minimamente c'entra con l'amministrazione non si schierano perchè hanno paura”. Accuse pesanti. E la Pezza era stata durissima anche “in chiaro”, intervenendo in consiglio comunale: “Io penso che nel corso di questi 3 anni l’ufficio del Sindaco sia diventato un ufficio di dimensioni ministeriali. La buona politica, che va a raccontare in giro per l’Italia, comincia da queste cose”.
LE ACCUSE della Pezza a Firenze non sono passate inosservate. Il Pdl ha cavalcato il caso, chiedendo una discussione in consiglio comunale. Chiarimento che il Pd ha preferito evitare. Il capogruppo Pdl Marco Stella ha denunciato: “La gravità delle accuse lanciate da Pezza non può e non deve cadere nel vuoto, abbiamo il dovere di andare fino in fondo per sapere se Firenze è una città libera o se le nostre imprese vivono un clima di terrore e intimidatorio”. Non è la prima volta che la Pezza si schiera apertamente contro Renzi. E anche in questo caso sceglie di rincarare la dose di quanto detto in maniera più o meno informale: “In consiglio comunale siamo in 7 bersaniani. Ci chiamano i dissidenti”. Non solo: “Non c’è modo di discutere di nulla, di entrare nel merito di nessuna questione che riguardi la città. Perchè se tu provi a fare un ragionamento diverso ti liquidano dicendo ‘tu sei bersaniana’”. Bel clima a Firenze: “Sei tacciato costantemente di essere un traditore, appena hai un’opinione diversa”. Questo vale per tutto, si parli della tranvia, dei teatri o dello sfruttamento dei punti anagrafici. E dunque: “Il mandato dato a me e ad altri non è rispettato”.
MA l’establishment del Pd sarebbe pronto a lavorare con Renzi? “Noi con lui si lavora anche, ma lui non c’è mai. La discussione sul libro di bilancio è molto difficile e lui è sempre a giro a fare campagna elettorale”.
Insomma, la “narrazione” di Renzi secondo cui Firenze è la città più felice del mondo sarebbe solo una favola: “ Quest’anno a una manifestazione importante come i 100 luoghi, quando si fa il punto sui progetti portati avanti in città c’erano 3000 persone tutte arrabbiate, l’anno scorso erano 11mila. E la gente in generale è incazzata nera”. Perché poi, “il mondo è molto più sfaccettato, non si può certo ricondurre tutto a una contrapposizione tra bersaniani e renziani”. Per esempio, c’è il caso della libreria Edison, una di quelle storiche della città che chiude. “Il Comune di Firenze per tutelare un negozio di questo tipo ha un vincolo urbanistico. Ma il Sindaco dice: ’Io faccio una deroga e ci metto la Apple’”. Insomma: “È una città che può essere governata molto meglio”. Non male come critica per uno che si candida a governare il paese. Per chi non avesse capito: “Il sindaco non c’è, io ne prendo atto”.
La Stampa 10.10.12
“Volevo lasciare ma ho deciso di restare Renzi si farà male”
D’Alema all’attacco: “A Sulmona ci è andato in jet privato E sul camper è salito soltanto alle porte della città”
di Federico Geremicca
«Un paio di mesi fa ne avevo parlato con Bersani. Ma ora no Per quanto mi riguarda no»
«Sono stato a Matera e c’era il doppio della gente rispetto a quanta era accorsa da Renzi»
Guardate, ne avevamo perfino parlato, io e Bersani. Un paio di mesi fa. Gli avevo detto: ragioniamo, troviamo un modo per un mio impegno diverso. Del resto, lavoro già tantissimo, lo sai, un appuntamento dietro l’altro, spesso all’estero: valutiamo assieme l’ipotesi che io non mi ricandidi al Parlamento... Ma ora no. Così, per quanto mi riguarda, no. Poi, naturalmente, parlerà il partito... ». Erano in tanti ad attendere la decisione di Massimo D’Alema: si ricandida o arretra - come molti speravano sotto l’impetuoso attacco di Renzi e dei suoi «rottamatori»? Ora quella decisione è finalmente nota. L’altra sera, infatti, ad un paio di fidatissimi amici di partito, ha confidato: «Lo sapete che se mi stuzzicano reagisco. E che se c’è da combattere, combatto. Renzi ha sbagliato, e continua a sbagliare. Si farà del male».
Erano in tanti ad aspettare un segnale: perché in queste primarie segnate da un drammatico scontro generazionale, la sorte di tanti - appunto - dipende dalla rotta di Massimo D’Alema. Un suo passo indietro, infatti, avrebbe costretto alla resa molti dei leader e dei parlamentari con più di tre mandati alle spalle e messi all’indice da Matteo Renzi; un suo «resistere, resistere, resistere» - invece - dà ora più forza a chi ritiene che la «rottamazione» sia un metodo selvaggio e opportunistico di intendere il rinnovamento e la lotta politica. Ora che la rotta di D’Alema è nota, molti possono tirare un sospiro di sollievo: e accartocciare, assieme alle narrazioni che davano il líder maximo offeso e depresso, i preannunci di un suo imminente passo indietro.
Naturalmente, che sia rimasto personalmente turbato dal trattamento riservatogli dal sindaco di Firenze, è più che possibile (e comprensibile): infatti, non c’è cinema, teatro o studio televisivo nel quale Renzi non mostri la faccia di D’Alema che dice «se vince lui, il centrosinistra è finito» per poi replicare «se vinco io, al massimo è finita la sua carriera parlamentare». Un tormentone - anzi, praticamente una gag - che lo sta trasformando nel simbolo di ogni male, nel nemico da abbattere. Capita, a volte. Capitò a Craxi, poi ad Andreotti, infine a Berlusconi: ma non è, insomma, che sia una gran compagnia...
Renzi, per altro, non lo convince e non gli piace. È persuaso che si tratti di un fenomeno mediatico o poco più. Ieri in Transatlantico, di ritorno dalla Basilicata, D’Alema spiegava il suo punto di vista ad alcuni deputati del Pd: «Sono stato a Matera per una iniziativa su Berlinguer: c’era il doppio della gente rispetto a quanta era accorsa ad ascoltare Renzi. Però i giornali non lo scrivono, perché “rottamare” il Pd conviene a molti». Non solo: contesta - per esempio intorno all’ormai noto camper - ingenuità incomprensibili. «La settimana scorsa Renzi è andato a Sulmona. Sapete come? Jet privato da Ciampino, poi una Mercedes... In camper c’è salito alle porte di Sulmona: ma quando è arrivato in piazza, tutti ad applaudire il giovane ribelle che “altro che auto blu, lui viaggia in camper”. Non lo ha scritto nessuno che si muove così. Anzi no, sbaglio: lo ha scritto “Repubblica”. Ma in cronaca di Firenze. Ora leggo che è finanziato, addirittura dall’America, da Paolo Fresco... Che altro dire? ».
Già, che altro dire? Magari che è anche per questo che è arrabbiato con Renzi? «Non ho il tempo di essere arrabbiato con lui - spiega agli amici deputati -. Sono presidente della più importante Fondazione dei progressisti europei, dovreste vedere gli uffici di Bruxelles e la quantità di impegni in giro per l’Europa. Figurarsi se, tra il lavoro che mi attende quando torno in Italia e le iniziative in altri Paesi europei, ho il tempo di arrabbiarmi con Renzi. È anche per questo che stavamo valutando con Bersani la possibilità di un mio abbandono del Parlamento. Del resto, questo non avrebbe ostacolato un qualche mio impegno al governo, se vinceremo le elezioni e se sarà ritenuto necessario».
Ora, però, non è più il caso di parlarne. Certo, agli amici di partito che come lui - sostengono Bersani, non nasconde che «queste primarie sono un risiko, Pier Luigi le vincerà, ma ci sarà da tenere gli occhi aperti». È anche per questo - oltre che per difendere il proprio onore - che sarà in campo: per salvaguardare un quadro di alleanze e una prospettiva di governo che gli paiono più convincenti di quelli proposti dal sindaco di Firenze. Poi, naturalmente, c’è il rischio, la difficoltà della sfida: e le difficoltà - da sempre - piuttosto che spaventarlo, lo hanno sempre motivato...
In fondo in fondo - ma proprio molto in fondo - non è che D’Alema non colga il senso della battaglia ingaggiata da Renzi per un radicale rinnovamento di uomini e politiche: magari non lo ammetterà mai, ma è nell’agone da troppi anni per non sapere che, ciclicamente, la questione del ricambio si pone. E solitamente (e naturalmente) sono i giovani a porla. Del resto è capitato anche a lui. Aveva appena compiuto 39 anni quando fu inviato in Liguria per spiegare a Natta (sconfitto alle elezioni dell’anno prima e colpito da lieve infarto) che era giunta l’ora che si facesse da parte; e soltanto 45 quando - nel 1994 - diede battaglia per la sostituzione di Achille Occhetto (battuto alle elezioni da Silvio Berlusconi).
Dunque, non contesta la regola secondo la quale chi è sconfitto - talvolta - debba farsi da parte. Ma c’è modo e modo, verrebbe da dire... «A me quella parola, “rottamare”, non piace proprio per niente - spiega ai due deputati che lo stanno ad ascoltare -. Voi dite di Natta e di Occhetto... ma io non ho mai spinto verso il ricambio per sostituire qualcuno, per un fatto personale. Dopo Achille, il segretario poteva farlo tranquillamente Veltroni: e in ogni caso, nessuno riempì di insulti il leader uscente. Quanto a Natta, gli dissi semplicemente quel che ero stato incaricato di dirgli per conto del partito. Lui, un dirigente serissimo, capì. E alla fine ci stringemmo in un abbraccio... ». Altri tempi, sicuro. Migliori o peggiori non sapremmo dirlo.
Esodati, bocciata la proposta Damiano: “Non è coperta”
il Fatto 10.10.12
Esodati, Usiamo i fondi degli F35
di Furio Colombo
Questa mattina (9 ottobre) il ragioniere ha mandato a dire: per coloro che sono restati all'improvviso senza lavoro e senza pensione, a causa di un cambiamento improvviso di “policy” (la parola copre un trucco, e dunque è bene usare la parola inglese) devono accontentarsi: non c'è un euro per loro, ovvero per le decine di migliaia che sono rimasti fuori dal gruppo dei 50 mila graziati dalla Fornero. Non è cattiveria, precisa il ragioniere, non ci sono proprio gli euro per mettere in salvo gli altri. Il ragioniere è il Ragioniere generale dello Stato, a cui è stato chiesto di dare il triste annuncio, perché la piazza e le strade intorno a Montecitorio sono gremite di uomini e donne seri e sensati, non tanto giovani, ma carichi di disperazione e di energia che ti tirano per la giacca e ti dicono sulla faccia: “E io come campo sette anni (ma anche cinque o quattro o nove, perché gli incontri sono tanti e le situazioni sono tutte assurde) senza lavoro e senza pensione? Me lo dice lei come campo? ”. Non glielo dici, riconosci un ex collega di un passato di lavoro o di un altro (non la persona, piuttosto il vestirsi casual del tempo libero di ex dirigenti, di ex quadri, di ex laboriosi e fastidiosi capi ufficio che si portavano il lavoro a casa) e capisci che un incubo ha afferrato e sta scuotendo con assurda violenza una parte degli italiani, mentre stavano attraversando la strada (che è sempre ansiogena) fra l'ultimo lavoro e la pensione. Si è creato un nome strano per una situazione assurda, che fra privati configurerebbe la violazione di un contratto (io prometto, tu fai, e io mi rimangio la promessa di cui ti sei fidato e lo faccio mentre sei senza difese).
QUI ENTRA la proposta di legge Damiano, l'ex ministro del Lavoro Pd, che affronta la situazione (che non puoi lasciare lì sulla piazza) e che esige una soluzione. Lo fa per tante ragioni: una è che il Pd, Renzi o non Renzi, ancora per un poco è un partito di sinistra. Un'altra è proprio Renzi, che non perde il sonno per gli esodati, è giovane, moderno e crede nei conti in ordine, chi ci sta ci sta e gli altri si arrangino. Ma ci sono le primarie e Damiano vorrà segnare il suo punto non proprio vicino a Renzi. Però resta il fatto che nel Pd, alla Camera, parola di Bersani, si era detto: intanto votiamo (la legge sul lavoro e la riforma delle pensioni) perché così richiede l'Orco-Mercato. Poi troveremo una soluzione. Eccoci qua, pronti alla soluzione. Pronti chi? Il ragioniere – abbiamo detto – ha fatto sapere, e il governo ha confermato: giù le mani o crolla tutto. Mancano i soldi, punto e basta. Il problema è che gli esodati ci sono davvero, Damiano e la sua legge (che forse arriva adesso per sospette ragioni elettorali e di battaglia interna, ma risponde a una drammatica situazione vera) aspetta una risposta e non sarebbe facile ritirarla.
Infine mancano i soldi. Però, come diceva Kennedy, non c'è problema umano che gli umani non possano risolvere. Esempio: vendiamo un po’ di caccia-bombardieri F-35. È più facile che vendere il Colosseo, il mercato tira, e noi facciamo una pura e semplice operazione contabile. Mancano soldi (ha ragione il ragioniere) e li troviamo. Siamo sempre nel campo della difesa. Difendiamo, come prescritto dalla Costituzione, cittadini che hanno servito il Paese.
il Fatto 10.10.12
L’intervista, Cesare Damiano, Pd
“Salviamo gli esodati senza toccare la riforma”
di Salvatore Cannavò
È stato indicato come colui che vuole smontare la riforma Fornero sulle pensioni. Ma Cesare Damiano, deputato Pd in Commissione Lavoro già ministro del Welfare nell’ultimo governo Prodi, non ci sta a passare per guastafeste e nemmeno per colui che vuole affossare Monti. “In realtà – spiega in questa intervista al Fatto – è il ministro Fornero che ha lanciato un allarme spropositato realizzando un autogol per il governo. A noi interessa solo la questione esodati e a quella ci atteniamo”. Contro Fornero, Damiano non usa mezzi termini, segno di un rapporto sempre più logorato tra il ministro e il Partito democratico.
Onorevole Damiano, ci spiega qual è l’obiettivo di questa proposta di legge che è sembrata essere una mina sulla strada dell’esecutivo.
L'obiettivo, nonostante la controinformazione che fa il ministro Fornero, non è quello di smontare la sua riforma, ma di correggerne gli errori. Quando parliamo di errori alludiamo a una riforma che ha cancellato qualsiasi gradualità e transizione e causato quel fenomeno di lavoratori che sono rimasti senza stipendio, perché si sono licenziati in buona fede, e che dovranno aspettare anni prima di riscuotere la pensione. Questo errore va corretto e la nostra iniziativa è unitaria di tutta la commissione e non di parte o propagandistica.
Però voi avete introdotto il progetto di legge in esame alla Camera con un articolo, il primo, che vuole riformare l’attuale legge sulle pensioni
Il nostro progetto di legge parla solo di estendere agli uomini l'attuale legge che prevede per le donne di poter andare in pensione con 35 anni di contributi e 58 di età a patto che queste persone accettino la liquidazione dell'assegno con il calcolo contributivo. Vuole sapere da chi è stata avanzata questa idea? Non certo da noi.
E da chi?
Dal ministro Fornero nella sua replica alla Camera il 20 giugno. Gliela leggo integralmente: ‘Da ultimo sempre nella valutazione del costo collettivo e dell'impatto sul trattamento previdenziale si potrebbe considerare di ricorrere a una norma per estendere il contributivo retroattivo anche per gli uomini – ricordo che tale norma è già in vigore per le donne – come opzione di scelta da demandare a lavoratore e azienda’.
Questo l’ha detto il ministro Fornero?
Esatto. È un suo suggerimento e noi l'abbiamo tradotto in forma di legge. E vuole sapere chi ha voluto inserire questa norma nella proposta?
Dica.
L'onorevole Giuliano Cazzola, Pdl, che si è fatto interprete del suggerimento del ministro. Quindi, la logica dei gradini è stata ispirata dal ministro che ora si lamenta. Per quel che mi riguarda quella norma può essere tolta, non l'abbiamo mai caldeggiata. Noi caldeggiamo solo la soluzione per gli esodati, lavoratori in mobilità, prosecutori volontari e licenziati individuali.
Sta dicendo che il Pd non chiede la riforma o la correzione delle pensioni?
Con l’applicazione del calcolo contributivo quella norma non sarebbe recepita dai lavoratori. Per parte nostra può decadere.
Vi concentrate, quindi, sui 270 mila esodati per i quali non è stata ancora trovata soluzione.
Mi sono stancato di inseguire i numeri. Noi parliamo di diritti e vogliamo salvaguardare queste persone.
Ma la copertura dove si trova? Quella indicata dalla vostra legge, i giochi on line, è stata bocciata dalla Ragioneria.
Si può trovare nella spending review 2: una quota dei soldi risparmiati può essere destinata alla salvaguardia degli esodati.
Il governo sta pensando a una soluzione graduale non ancora precisata. Sareste d’accordo?
Una soluzione deve essere trovata e se la soluzione aiuta la discuteremo. Importante è che abbiamo rimesso il problema al centro della discussione.
Siete però accusati di fare un’operazione squisitamente elettorale, in vista anche delle primarie del centrosinistra.
È un’accusa falsa e infondata. Abbiamo a cuore un problema sociale. La proposta è unitaria e i soldi risparmiati possono essere utilizzati per questo obiettivo.
Vi accusano anche di voler far saltare l’agenda Monti.
Non facciamo saltare nessuna agenda Monti. Quando il ministro ripete che noi vogliamo la controriforma è lei che dà l'impressione che si voglia far saltare Monti. Ma noi non abbiamo messo in discussione né i 67 anni necessari per la pensione di vecchiaia, né quelli per la pensione di anzianità, né l'età pensionabile delle donne. Stiamo intervenendo sugli esodati. Il punto per noi è solo questo.
Da quello che sta dicendo possiamo desumere che l’articolo 1 del progetto di legge sarà cassato?
I lavoratori lo guardano con grande sospetto per via della forte decurtazione: quindi, per quello che mi riguarda, è un falso problema. Se è un ostacolo, può essere eliminato. Ma il ministro non si lamenti, l'ha suggerito lei.
il Fatto 10.10.12
Radio Radicale incassa per il 2013 10 milioni di euro
ANCHE
STAVOLTA Radio Radicale si salva. La scure della spending review ha
messo da parte 10 milioni di euro da destinare all’emittente del partito
di Marco Pannella ed Emma Bonino che trasmette i lavori parlamentari e
fa informazione politico-istituzionale 24 ore al giorno (oltre a
raccontare le vicende interne del partito)..
E proprio in questo sta,
secondo i Radicali, l’assenza di contraddizione tra la loro - reiterata
- richiesta di abolire i fondi pubblici da destinare ai partiti e il
fatto di esser finanziati dal governo: occupandosi di politica e
istituzioni, ospitando voci di ogni genere, la radio merita 10 milioni
di euro per l’anno 2013. A fine 2011, per il 2012, avevano ottenuto 7
milioni.
il Fatto 10.10.12
Che sorpresa, Fitoussi no-global
Il professore è noto in Francia, celebre in Italia soprattutto perché parla italiano e quindi è facilmente intervistabile. Ma certo Jean-Paul Fitoussi non era mai stato personaggio per il grande pubblico finché Adriano Celentano non lo ha invitato sul palco della sua RockEconomy, all’Arena di Verona, trasmesso su Canale 5. Settantenne giovanile, sempre elegantissimo, abbronzatura perfetta trasversale alle stagioni, accento sempre morbidamente parigino, Fitoussi ha stupito anche chi lo conosce nella sua veste professionale per i toni anti-sistema, perfettamente in linea con l’apologia della decrescita (l’idea che è sbagliato inseguire l’aumento del Pil) all’inizio della trasmissione. Fitoussi si è lanciato contro “il sistema”, denunciando addirittura la fine della democrazia per il prevalere delle logiche finanziarie sulla volontà popolare, “siamo quasi in dittatura, pensavo fosse una dittatura benevola ma ora non lo credo più”. Perfino il cantante-predicatore si scopre moderato, a confronto di Fitoussi.
AL PROFESSORE emerito di Sciences Po, l’università della classe dirigente francese, bisogna fare la tara: un po’ tutti gli economisti francesi, che non si sono mai convertiti alla deriva quantitativa degli americani, sono distruttivi, polemici, critici. Ma anche con questa premessa sono toni sorprendenti per chi da curriculum sembrerebbe un perno di quel sistema che, secondo lui, prepara la dittatura. In Francia è uno dei consulenti più ricercati, secondo soltanto a Jacques Attali, ha collaborato con il presidente Nicolas Sarkozy per un famoso rapporto sul progresso firmato con i Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz. É amico di Dominique Strauss-Khan, l’ex direttore del Fondo monetario internazionale travolto (e poi assolto) da uno scandalo sessuale, che doveva diventare presidente al posto di François Hollande. In Italia è docente alla Luiss, l’università della Confindustria, editorialista del quotidiano La Repubblica e membro del consiglio di amministrazione di due società simbolo del capitalismo di relazione, come Telecom Italia e la banca Intesa Sanpaolo.
Repubblica 10.10.12
Nuovi fantasmi perché gli operai hanno smesso di esistere
Un saggio di Airaudo, sindacalista della Fiom, sulla condizione dei lavoratori
Vengono raccolte una serie di storie e di testimonianze su questa metamorfosi
di Luciano Gallino
Il
senso del libro di Airaudo, La solitudine dei lavoratori (Einaudi) è
racchiuso nella frase con cui termina: «Dobbiamo riportare nella
politica… la rappresentanza, e con questa la cittadinanza del lavoro,
per uscire da quella solitudine che, per troppo tempo, in questo paese,
ha trasformato in fantasmi le donne e gli uomini che lavorano».
Responsabile del settore auto della Fiom, l’autore parla soprattutto di
Fiat, ma quel che scrive vale per l’intera società italiana. Dove sembra
che i massimi riconoscimenti in campo economico e sociale vadano di
preferenza alle imprese e ai dirigenti i quali hanno stabilito che la
democrazia, e perfino la Costituzione, si arrestano ai cancelli delle
fabbriche e in genere dei luoghi di lavoro. Per primi i governi si sono
sbracciati nell’elargire tali riconoscimenti soprattutto alla Fiat, ma
tutto ciò che hanno concesso a questa nel campo delle relazioni
industriali e delle riforme del mercato del lavoro si è rapidamente
diffuso a gran parte dell’industria italiana.
Per contro le donne e
gli uomini che lavorano sono stati trasformati in fantasmi, privati di
ogni rappresentanza in politica perché nella quasi totalità i media e i
politici non hanno la minima idea di un rapporto essenziale per la vita
dentro le fabbriche. È il rapporto tra il lavoro alla catena e
democrazia. Per illustrarlo l’autore richiama due casi assai efficaci.
C’è
un operaio a Mirafiori (ne parlò mesi fa il Corriere della Sera) che da
tredici anni avvita bulloni per montare le cinture di sicurezza sul
lato destro delle vetture. Sono nove in tutto (sei di essi hanno un nome
un po’ diverso, ma non fa differenza). Usando un attrezzo ad aria
compressa che pesa parecchi chili, l’operaio, chiamato Sergio nel libro,
impiega per montarli circa 180 secondi, tre minuti. Poi ricomincia la
stessa operazione. In un anno monta più di 70.000 bulloni. Operazioni
del tutto simili le fanno altre migliaia di Sergio e di Anna negli
stabilimenti Fiat. Che cosa c’entra qui la democrazia lo spiega, in
un’altra citazione, una delegata anch’essa di Mirafiori. L’accordo
imposto dall’azienda la vincola a far rispettare i tempi di lavoro. Un
traguardo che per molti Sergio e Anna può essere, sovente, difficile da
raggiungere. Per diversi motivi: «Perché la linea di montaggio va troppo
velocemente, o le pause sono insufficienti, o fa troppo caldo o troppo
freddo o, ancora, i componenti da montare sono difettosi o mal
posizionati ». Ma la delegata non può farci niente. L’accordo non
consente che possa dichiarare sciopero, che ci siano mezzi per difendere
i lavoratori o per farsi ascoltare dai capi, che la delegata trovi il
modo di rappresentarli. La delegata, a norma di quel contratto
legalmente stipulato, non conta niente. È un fantasma. E con lei non
contano niente Sergio e Anna, in tutti gli stabilimenti Fiat, come in
molte altre fabbriche. Devono soltanto ubbidire. La democrazia è stata
fermata dai sorveglianti ai cancelli.
Il libro dedica giustamente
spazio a un articolo della Costituzione, il 4, che di solito è poco
presente nella discussione sulle relazioni industriali e le politiche
del lavoro. In realtà è un articolo fondamentale, perché vari articoli
della Carta, dal 35 in avanti, parlano di diritti del lavoro,
riferendosi palesemente a chi un lavoro ce l’ha, mentre questo afferma
che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro». A
rigore, potrebbe essere inteso nel senso che lo stato si adopera per
dare un lavoro a tutti. Un pronunciamento della Corte costituzionale di
vari anni fa ne ha temperato la portata a tale fine, ma è fuor di
dubbio, nota l’autore, che nel sancire il principio del diritto al
lavoro sta il nucleo del diritto alla stabilità del posto. La
legislazione del lavoro degli ultimi quindici anni, sino alla recente
riforma, ha totalmente disatteso il principio dell’art. 4. Un tema che
percorre tutto il libro è ovviamente il disimpegno di Fiat dall’Italia.
Nel 1989 la produzione era giunta a superare nel paese i 2 milioni di
vetture. Quest’anno si prevede che non supererà di molto le 450.000. C’è
la crisi, dice l’amministratore delegato Sergio Marchionne. Però la
crisi ha fatto scendere le vendite del 25 per cento in Europa, non
dell’80 per cento. Al fine di giustificare il disimpegno la società ha
imputato ai lavoratori e al suo sindacato più diffuso, la Fiom, ogni
sorta di inadempienze, dagli eccessi di assenteismo agli intralci recati
alla produzione dai sindacalisti e dagli operai, alla vetustà dei
contratti di lavoro. A questi si è pensato bene di ovviare con l’accordo
di Pomigliano del 2010, esteso poi agli altri stabilimenti del gruppo.
Il succo di esso è che Sergio (l’operaio, non l’amministratore delegato)
dovrebbe avvitare un maggior numero di bulloni al giorno, facendo meno
pause durante l’orario, e lavorare se necessario anche 200 ore in più
all’anno. Che vuol dire oltre un mese di lavoro in aggiunta agli altri e
tanta fatica in più, ogni giorno. A fronte di tanti diritti in meno.
Politici e commentatori di destra e di centro- sinistra hanno plaudito,
in nome della modernizzazione delle relazioni industriali e della
competitività. Provasse mai, qualcuno di loro, ad avvitare mille bulloni
al giorno.
l’Unità 10.10.12
Diminuiscono gli aborti
Ma è record di obiettori
di Riccardo Valdes
ROMA Dall’entrata in vigore della legge sull' aborto, la 194 del 1978, in Italia si è registrata una costante diminuzione degli aborti, fino ad arrivare nel 2011 a registrare un decremento del 5,6 rispetto all’anno precedente. È il quadro tracciato dal ministro della Salute Renato Balduzzi nella presentazione alla Relazione 2012 sulla legge 194, che il ministro ha firmato e inviato ieri mattina al Parlamento.
Nella relazione vengono illustrati i dati preliminari per l'anno 2011 e i dati definitivi relativi all'anno 2010 sull'attuazione della legge n. 194 del 1978. «L'esperienza applicativa della legge n. 194 pone in evidenza come, dopo un iniziale aumento per la completa emersione dell'aborto dalla clandestinità, la cui entita prima della legalizzazione era stimata tra i 220 e i 500mila aborti l'anno, si sia potuta osservare una costante diminuzione dell'Ivg nel nostro Paese», sottolinea Balduzzi. In particolare nel 2011 sono state effettuate 109.538 Ivg (dato provvisorio), con un decremento del 5,6% rispetto al dato definitivo del 2010 (115.981 casi) e un decremento del 53,3% rispetto al 1982, anno in cui si e registrato il piu alto ricorso all'Ivg.
Se gli aborti calano in Italia, il numero di ginecologi, anestesisti e personale non medico obiettore continua invece a essere altissimo, anche se nel 2010, rispetto agli anni precedenti, sembra essersi stabilizzato almeno tra i medici. Tra i ginecologi infatti si è passati dal 58,7% del 2005 al 70,7% nel 2009 e al 69,3% nel 2010. È questo uno dei dati che emerge dalla relazione al Parlamento sulla legge 194 depositata oggi dal ministro della Salute, Renato Balduzzi. Per quanto riguarda gli anestesisti, negli stessi anni, il tasso di obiezione è passato dal 45,7% al 50,8%, mentre tra il personale non medico si è osservato un ulteriore incremento, con valori di obiezione saliti dal 38,6% nel 2005 al 44,7% nel 2010. La relazione rileva comunque come al sud vi siano percentuali di obiezione più alte, superiori all'80%: 85,2% in Basilicata, 83,9% in Campania, 85,7% in Molise, 80,6% in Sicilia, come pure a Bolzano con l'81%. Anche per gli anestesisti i valori più elevati si osservano al sud (con un massimo del 75% in Molise e in Campania e del 78,1% in Sicilia) e i più bassi in Toscana (27,7%) e in Valle d'Aosta (26,3%).
«Abbiamo più volte denunciato il fenomeno grave del numero troppo elevato di obiettori di coscienza, che rende difficile l'attuazione della legge 194. Le strutture ospedaliere devono garantire che le donne che decidono di fare ricorso all'interruzione volontaria di gravidanza possano farlo senza incontrare troppi ostacoli». Lo dice la senatrice del Pd Vittoria Franco.
La Stampa 10.10.12
In 30 anni aborti dimezzati. Raddoppia l’uso di Ru486
Legge 194, la relazione del Ministro: “Potenziare i consultori”
di Rosaria Talarico
In Italia le donne abortiscono sempre di meno. Nel 2011 infatti le interruzioni volontarie di gravidanza (esclusi quindi gli aborti per cause naturali o per patologie) sono state 109.538, facendo registrare un meno 5,6% rispetto al 2010 (115.981 casi). Ma a balzare agli occhi è il confronto con il 1982, l’anno in cui il ricorso all’aborto ha toccato il picco con quasi 235 mila interruzioni di gravidanza: in trent’anni gli aborti sono calati di oltre la metà (-53,3%). Questi dati emergono dalla relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 194 del 1978, che introdusse nel nostro ordinamento l’interruzione volontaria di gravidanza e le norme per la tutela sociale della maternità. Da allora passi avanti ne sono stati fatti parecchi, come ricorda lo stesso ministro della Salute Renato Balduzzi.
«La riduzione percentuale di aborti ripetuti - ha spiegato il ministro - è la più significativa dimostrazione del cambiamento nel tempo del rischio di gravidanze indesiderate, poiché, se tale rischio fosse rimasto costante nel tempo, si sarebbero avute attualmente percentuali doppie rispetto a quelle osservate». In questo un’opera costante di supporto e informazione viene svolta dai consultori familiari.
La sostanziale riduzione dell’aborto clandestino e l’eliminazione della mortalità materna purtroppo spesso conseguente è stata possibile, prosegue Balduzzi «grazie alla promozione di un maggiore e più efficace ricorso a metodi di procreazione consapevole, alternativi all’aborto, secondo gli auspici della legge. Per conseguire tale obiettivo è importante potenziare la rete dei consultori familiari, che costituiscono i servizi di gran lunga più competenti nell’attivazione di reti di sostegno per la maternità, in collaborazione con i servizi sociali dei comuni e con il privato sociale».
I dati sono stati raccolti grazie al contributo dell’Istituto superiore di sanità (Iss), il ministero della Salute e l’Istat da una parte, le Regioni e le Province autonome dall’altra. Il tasso di abortività (cioè numero delle interruzioni volontarie di gravidanza per mille donne in età feconda tra 15-49 anni) è l’indicatore più accurato per valutare il fenomeno. Nel 2011 è risultato pari a 7,8 per mille, con un decremento del 5,3% rispetto al 2010 (8,3 per mille). Il valore italiano è tra i più bassi di quelli osservati nei Paesi industrializzati.
A livello geografico, si sono verificati più aborti con minorenni nelle Isole (4,4%) ; seguono le regioni centrali (3,3%), quelle del Nord (3,2%) e l’Italia meridionale (3,1). Per quanto riguarda le Regioni, in testa alla classifica ci sono la Sicilia e la Liguria (4,5%).
Riferendosi al tasso di abortività (per 1.000 donne), si registrano più aborti con minorenni al Centro (5,4), quindi il Nord (5), le Isole (3,9) e il Sud (3,5). Tra le Regioni al primo posto c’è ancora la Liguria (8,5), poi il Piemonte (6,3) e il Lazio (6,2). Nel 2010 le interruzioni volontarie di gravidanza effettuate da minorenni (15-17 anni) sono state 3.828, il 3,3% del totale. L’autorizzazione all’aborto per le minorenni è stata data dai genitori nel 70,8% dei casi e dai giudici nel 27%.
Bilancio positivo anche sul fronte della Ru486, la contestatissima pillola del giorno dopo, introdotta in Italia nel2009. Non si sono registrate complicazioni successive al suo utilizzo nel 96,1% dei casi. Inoltre se nel 2010 la pillola era stata usata in 3.836 casi (il 3,3% del totale), solo nel primo semestre 2011 si contano quasi altrettanti casi (3.404), facendo ipotizzare che il dato finale sarà circa raddoppiato. Particolare attenzione dovrà invece essere rivolta alle donne straniere, a maggior rischio di ricorso all’aborto.
l’Unità 10.10.12
Suicidi in carcere, sono sempre più giovani
L’età media di chi perde la vita dietro le sbarre è di 38 anni rispetto ai 45 del 2000. Negli ultimi 12 anni sono morte 2.056 persone 756 delle quali per suicidio
di Davide Madeddu
Aveva meno di trent’anni. Ha deciso di farla finita, qualche giorno fa, impiccandosi alla grata del bagno con la cinta dell’accappatoio nel carcere di Belluno. Lui, giovane tunisino è l’ultimo detenuto che quest’anno si è ucciso in carcere. L’ultimo di un elenco che da gennaio al 6 ottobre conta 44 persone. A raccontare la sua storia è stata l’associazione Ristretti Orizzonti che cura e aggiorna costantemente il dossier «morire di carcere».
A leggerlo poi nel dettaglio si capisce che i numeri forniti sono quasi da bollettino di guerra. Negli ultimi 12 anni, ossia dal 2000 al 2012 nelle carceri d’Italia sono morte 2056 persone, 756 delle quali per suicidio. Numeri importanti che si ripetono più o meno di anno in anno. E che riguardano persone, uomini e donne. Dall’inizio del 2012 al 6 ottobre, si sono registrati 44 suicidi su un numero complessivo di 123 morti. E sempre secondo quanto spiegano i volontari nel dossier, anche l’età di chi muore in carcere nel corso degli anni si è abbassata. Se nel 2000 l’età media di chi moriva dietro le sbarre era di 45 anni ora è di 38 anni. Una situazione che i rappresentanti delle associazioni impegnate quotidianamente nel mondo carcerario definiscono «preoccupante». Soprattutto perché all’interno delle carceri si continuano a fare i conti con il sovraffollamento. Che non vuole dire solo far stare stretti i detenuti.
«Il sovraffollamento si ripercuote su tutto quello che riguarda la vita del carcere spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti -, dal lavoro all’assistenza sanitaria, continuando con la scuola». Basti un esempio. «Oggi capita che in una sezione dove ci stavano 25 persone che ce ne siano 75 spiega è chiaro che tutte queste persone si riversano in un sistema sanitario rimasto uguale al passato con le stesse risorse economiche e umane del passato». Senza dimenticare poi gli spazi. «Molto spesso in celle che hanno dimensioni tre metri per tre aggiunge devono convivere tre persone che assieme a tutti gli altri devono stare negli stessi passeggi e utilizzare le stesse docce».
Risultato? «C’è gente che passa il suo tempo a non far niente spiega -. I suicidi nascono in una situazione in assenza di futuro. C’è disperazione e soprattutto c’è l’assenza di prospettive». Situazione diffusa in tutta Italia come si legge ancora nel dossier e conferma anche Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Per commentare i dati del dossier l’esponente di Antigone non usa giri di parole: «Diciamo che sono numeri tragici commenta già un morto basta per indignarsi». Poi il rappresentante dell’associazione che si occupa di diritti dei detenuti aggiunge: «Dopo le parole del presidente Napolitano non è successo niente forse dobbiamo aspettare tempi migliori». Fa una premessa Riccardo Arena, conduttore di Radiocarcere (martedì e giovedì) su Radio Radicale. «E’ evidente che non bisogna generalizzare spiega -.
Infatti ogni suicidio, ogni decesso per malattia deve essere analizzato singolarmente. Ma è altrettanto evidente che, di fronte a queste cifre, si può tranquillamente affermare come in Italia, pur non essendoci la pena di morte, per una pena si può morire». Quanto ai suicidi spiega che «nelle carceri sono, molto spesso, la conseguenza dell’abbandono di singole persone. Persone inascoltate, non seguite adeguatamente che poi una notte si impiccano in bagno. Non suicidi quindi. Ma persone suicidate da un sistema carcerario che non è in grado di gestire problematiche differenti». Sul versante malattie invece spiega che «Ci troviamo spesso dinanzi alla negazione del diritto alla salute. Molte delle persone detenute morte in carcere sono decedute perché non curate». Soluzioni? «Occorre intervenire su più fronti, riformando il sistema delle pene e il processo penale. Riforma che spetterebbe al Parlamento. Ma chi in questo parlamento ha interesse a un processo che termina in un anno anziché in 8, 9 e anche 10 anni? ».
Repubblica 10.10.12
La Weimar greca
di Barbara Spinelli
Ancora non è chiaro, ma se Angela Merkel ieri è corsa a Atene – dove la sua politica e il suo Paese sono esecrati, dove è stato necessario militarizzare la capitale per domarne la collera – vuol dire che vi sono elementi nuovi, che destano spavento a Berlino. Uno spavento che si è dilatato, dopo l’intervista di Antonis Samaras al quotidiano
Handelsblatt di venerdì. Sono parole diverse dal solito: il Premier greco non si sofferma sui debiti, né sul Fiscal Compact, né sul Fondo salva-Stati approvato lunedì a Lussemburgo. La prima visita del Cancelliere, invocata da Samaras, avviene perché si comincia a parlare dell’essenziale: di storia, di memorie rimosse e vendicative, di democrazia minacciata. Estromessa, la politica prende la sua rivincita e fa rientro. Caos è il vocabolo usato nell’intervista, e il caos impaura la Germania da sempre. Anche perché quel che le tocca vedere è una replica: più precisamente, la replica di una storia che Berlino finge di dimenticare, ma che è gemella della sua.
Il caos, i tedeschi sanno cos’è: specie quello di Weimar, quando la democrazia, stremata dai debiti di guerra e dalla disoccupazione, cadde preda di Hitler. È lo scenario descritto da Samaras: Weimar è oggi a Atene, e anche qui incombe una formazione nazista, che si ciba di caos e povertà.
Alba dorata ha ottenuto alle elezioni il 6,9 per cento, ma oggi nei sondaggi è il terzo partito. I suoi principali nemici sono l’Unione, e tutto quel che l’Europa ha voluto essere dal dopoguerra: luogo di tolleranza democratica, di assistenza ai deboli attraverso il Welfare.
Lo straripare della disoccupazione, spiega Samaras, dà le ali a un partito che non ha eguali in Europa, tanto esplicita è la sua parentela con il nazismo e perfino con i suoi simboli (una variazione della svastica). L’odio dell’immigrante,del gay, del disabile, è la sua ragion d’essere. Se l’Europa non aiuta la Grecia dandole più tempo, a novembre le casse statali saranno vuote e può succedere di tutto. In parlamento i deputati nazisti si fanno sempre più insolenti, sicuri. L’ex Premier George Papandreou è bollato come «greco al 25 per cento»: la madre è americana. Ogni nuovo emigrato va tenuto lontano, con mine anti-uomo lungo le frontiere.
Non è male che infine si cominci a dire come stanno davvero le cose, e quel che rischiamo: non tanto lo sfaldarsi dell’euro, quanto il tracollo delle mura che l’Europa si diede quando nacque. Mura contro le guerre, contro le diffidenze nazionaliste, contro la logica delle punizioni. Fare l’Europa significava dire No a questo passato mortifero, ed ecco che esso si ripresenta nelle stesse vesti. Per la coscienza tedesca, uno scacco immenso: la storia le si accampa davanti come memento e come Golem, da lei stessa resuscitato. Oltrepassare i calcoli sull’euro e sondare verità sin qui nascoste aiuta a scoprire quel che Atene sta divenendo: un capro espiatorio. Un laboratorio dove si sperimentano ricette costruttiviste e al tempo stesso si collauda la storia che si ripete: non come tragedia, non come farsa, ma come memoria stordita, morta.
Come possono i tedeschi scordare il muro portante del dopoguerra, e cioè la coscienza che la punizione nei rapporti tra Stati è veleno, e che i debiti bellici della Germania andavano perciò condonati? Nell’accordo di Londra sul debito estero, nel ’53, fu deciso di prorogare di 30 anni il rimborso, e di esigerlo solo qualora non avesse impoverito la Repubblica federale. I greci non l’hanno dimenticato: un comitato di esperti sta calcolando quel che Berlino deve a Atene per i disastri dell’occupazione hitleriana (circa 7,5 miliardi di euro). «Le riparazioni non sono più un problema », replica il governo tedesco. Lo saranno di nuovo, se il castigo ridiventa criterio europeo come nel 1918 verso la Germania.
La Grecia certo non è senza colpe. All’indisciplina di bilancio s’accoppiano la corruzione politica, l’enorme evasione fiscale. Il caos è in buona parte endogeno, come sostenne Alexis Tsipras del partito Syriza quando mise al primo punto del programma la lotta ai corrotti. Ma è un caos non più grave dell’italiano, e anche se Syriza ha manifestato ieri contro la Merkel, assieme ai sindacati, è scandaloso che il Cancelliere si rifiuti di incontrare il primo partito d’opposizione, solo perché le ricette anti-crisi sono ritenute fallimentari.
In fondo non c’è bisogno di Samaras, per penetrare la realtà greca ed europea, e ammettere che nessuno può sopportare una recessione quinquennale. Basta leggere blog e libri indipendenti. Bastano i testi di storia, che raccontano di un paese dove la resistenza antinazista non fu artefice della democrazia postbellica come in Italia, ma venne perseguitata ed esiliata dagli anglosassoni: il potere militare fu da loro favorito per decenni (colonnelli compresi). I romanzi di Petros Markaris sul commissario Kostas Charitos – una specie di Montalbano greco – sono conosciuti in Italia. L’ultimo, pubblicato da Bompiani nel 2012, s’intitola L’Esattore, e narra di un assassino seriale che elimina uno dopo l’altro grandi evasori e politici corrotti, visto che lo Stato non sa né vuole agire. L’assassino assurge a eroe nazionale, gli indignados di Piazza Sìntagma vogliono candidarlo: «L’Esattore nazionale è un Dio! », gridano. Oggi esce in Francia un film di Ana Dumitrescu, Khaos, che raffigura il pandemonio ellenico. Dicono nel film: «Il pericolo è che la collera del popolo si trasformi in terribile bagno di sangue, sostituendosi all’azione politica». Il sottotitolo di Khaos è «i volti umani della crisi»: volti che la trojka non vede, né la Merkel, né i governi del Sud Europa che trattano Atene come paria, per paura d’esser confusi con essa. Ma il paria parla di noi, e dell’Europa tutta. Habermas probabilmente pensava alla Grecia, nel discorso tenuto il 5 settembre davanti al partito socialdemocratico: i piani di austerità delineano, ovunque, un percorso post-democratico.
Quel che assottigliano non è tanto la sovranità assoluta degli Stati nazione – oggi anacronistica – quando la sovranità del popolo, che è costitutiva della democrazia e non è affatto obsoleta. I diritti sovrani sottratti tramite Patto fiscale e Fondo salva-stati semplicemente evaporano, «perché non trasferiti verso un autentico, democratico legislatore europeo». Il potere resta nelle mani di trojke e Consigli dei ministri non eletti dai cittadini europei, o di tecnici che possedendo la scienza infusa pretendono di superare gli Stati nazione da soli, e surrettiziamente.
«Credo che questo sia il prezzo che paghiamo alla soluzione tecnocratica della crisi», conclude il filosofo: «In tale configurazione, imbocchiamo un percorso postdemocratico che approderà a un federalismo esecutivo.
La democrazia si perde per strada, e tutti mancheremo l’occasione di regolare i mercati finanziari (...). Un esecutivo europeo del tutto indipendente da elettorati che possano essere democraticamente mobilitati smarrirà ogni motivazione e ogni forza per azioni di contrasto».
L’ora della verità è quella in cui i numeri non occupano l’intero spazio mentale, e in scena fanno irruzione la storia, le memorie scomode delle guerre europee e dei dopoguerra. Per questo sono importanti l’allarme di Samaras, il disagio che ha suscitato in Germania, l’impervia corsa della Merkel a Atene. Qualcosa si muove: non necessariamente in meglio, ma almeno si è più vicini al vero. Si chiama Alba dorata il pericolo greco, ed è alba tragica. All’orizzonte si staglia la figura dell’Esattore Nazionale, salutato come Apollo vendicatore: che viene e uccide i traditori della democrazia. È così, dai tempi dell’Iliade, che dalle nostre parti iniziano le guerre.
La Stampa 10.10.12
La Buchmesse al tempo del Big Bang
Si apre oggi la kermesse dell’editoria: le tecnologie digitali stanno facendo nascere il nuovo universo del libro
di Mario Baudino
C’ è anche il bosone di Higgins fra gli ospiti della Fiera di Francoforte, che si apre oggi dopo due giorni di frenetiche pre-contrattazioni nei grandi alberghi del centro. I ricercatori del Cern di Ginevra hanno costruito in una hall una sorta di facsimile del loro acceleratore, che simula la collisione fra protoni. E intanto, il più grande mercato internazionale per i diritti editoriali parte anch’esso all’insegna dell’accelerazione. Dopo due edizioni poco ottimiste, quest’anno molti hanno voglia di aumentare il passo. E quei «molti» sono 7400 espositori da 104 Paesi, alla ricerca di nuovi modelli. Secondo Jurgen Boos, direttore della Fiera, il mondo dell’editoria sta vivendo un suo «Big Bang», tanto per restare al linguaggio della scienza.
Un nuovo universo è sul punto di materializzarsi. Come sia, nessuno lo sa, ma la sensazione generale è che tutto stia cambiando fulmineamente. Quando i libri finiscono sui tablet - è il ragionamento di Cristina Foschini, del gruppo Gems - non competono più con altri libri, come è sempre accaduto, ma con innumerevoli altri prodotti mediatici. E questo finisce per mutare l’idea stessa di libro. Prendiamo l’ultimo successo planetario, e cioè le Cinquanta sfumature australiane, nate sulla rete e vendute in decine di milioni di copie in tutto il mondo nei tre volumi che le declinano al grigio, al rosso e al nero (con buona pace di Stendhal). Ci si può legittimamente chiedere se è ancora un libro, o un fenomeno, o un format. Intanto marchia la Fiera, sommersa di proposte simili, soprattutto da agenti ed editori americani, ma anche da ripescaggi clamorosi. Bompiani ad esempio ha appena rinnovato i diritti per un classico come l’ Histoire d’O, suo antico titolo di catalogo con prefazione di Alberto Moravia, battendosi in un’asta indetta da Fayard. Ora verrà ripubblicato in una nuova, smagliante traduzione.
Ieri, vigilia dell’apertura, il caso di giornata era però un libro atipico, difficilmente catalogabile, ma ancora di un australiano, Graeme Simsion. Si intitola The Rosie Project ed è il diario di un genetista affetto - senza saperlo - dalla sindrome di Asperger, che decide di trovare moglie. La malattia di cui soffre inibisce le emozioni, è una specie di autismo. In questo caso l’effetto del diario è spesso esilarante e altrettanto spesso agghiacciante, tra clinica e narrazione. Per l’Italia se lo è già assicurato Longanesi, ma le aste furoreggiano. Qualcosa di analogo è accaduto per il romanzo dell’esordiente americano Peter Swanson - ma qui siamo più vicini alla narrativa intesa in senso tradizionale - con The Girl with a Clock for a Heart, un thriller basato sulla misteriosa ricomparsa di una ragazza che si credeva morta suicida vent’anni prima. E che chiede un favore al suo innamorato d’allora. Anche in questo caso gli italiani - diritti trattati dall’agenzia di Roberto Santachiara - sono arrivati prima della Fiera, e se lo è assicurato l’Einaudi per Stile Libero. Per il resto del mondo, ci si batte a Francoforte. Per le edizioni in lingua inglese, pare si sia arrivati a 400 mila dollari.
Il colpo più grosso, però, è ancora una volta un «libroide», o se vogliamo un libro totalmente trasversale, di quelli oltre il Big Bang: Not That Kind Of Girl, ovvero i consigli di vita (cibo, sesso, viaggi) di Lena Dunham, ventiseienne creatrice e protagonista di Girls, la serie tv di maggior successo in America: Random House le ha pagato un anticipo di 3,5 milioni, ora l’aspetta un ruolo da star alla Fiera. Girls debutta proprio oggi, da noi, su Mtv. E in attesa dei risultati di pubblico, l’agenzia Santachiara che tratta i diritti per l’Italia ed ha già ricevuto varie offerte non sembra aver fretta di concludere.
I nostri editori non sono comunque alla Buchmesse solo per comperare. Anzi, i libri italiani si esportano sempre meglio, ormai da qualche anno. Molti i titoli, primo fra tutti Fai bei sogni, il best seller di Massimo Gramellini, già venduto dalla Longanesi in 13 Paesi - tutti quelli più importanti - e ora pronto a fronteggiare la ressa dei «piccoli». Rizzoli punta su due esordienti (coincidenza: abitano entrambe a Savona): Daniela Piazza, appena pubblicata con Il tempio della luce, e Emanuela Ersilia Abbadessa, in uscita all’inizio del 2013 con Capo Scirocco, straordinaria storia siciliana di amore e di ombre su cui si sta accendendo molto interesse, ambientata a fine Ottocento in una città che ricorda molto da vicino Catania.
Bompiani, oltre alle Terre leggendarie di Umberto Eco, registra un nuovo interesse americano per Vincenzo Latronico e Andrea De Carlo. Sellerio ha parecchi autori in uscita, ma il suo portabandiera, dopo il successo in Germania (che in genere catalizza l’interesse europeo), è Marco Malvaldi con Non tutti i bastardi sono di Vienna. L’elemento nuovo che sembra emergere per quanto riguarda i libri italiani è però la loro durata. Rosaria Carpinelli, agente di autori come Margaret Mazzantini e Gianrico Carofiglio, nota come rinasca a folate un vivo interesse per libri pubblicati ormai da anni (esempio tipico è Nessuno si salva da solo della Mazzantini, che è appena uscito in Russia con grande successo) e soprattutto che si aprono mercati fino a ieri imprevedibili, al di là dell’Europa. Il passato è una terra straniera di Carofiglio, ad esempio, è fresco di stampa in Viet Nam. Al momento senza polemiche su scribacchini e mestieranti.
Repubblica 10.10.12
E Francoforte scopre la “human economy”
Molti tra i testi presentati alla Buchmesse sono critiche al neo-liberismo
di Vanna Vannuccini
FRANCOFORTE Abbiamo comprato crescita economica e venduto stabilità, ora vogliamo un’economia che tenga conto delle persone: humanomics invece che economics.
Quattro anni dopo il crash della Lehman, le critiche a un capitalismo insieme informe e onnipotente sono la novità quest’anno alla Buchmesse. La “distruzione creatrice” che tiene in piedi il capitalismo sembra non aver perso di verità e ha spinto gli economisti a scrivere libri per spiegare l’economia ai laici. La crisi finanziaria, mutata in crisi del debito e poi in crisi dell’euro, è oggi sempre più una crisi di fiducia: non si fidano i mercati, non si fidano gli investitori, non si fidano gli elettori. Leggere aiuta. E non sono solo gli economisti a scrivere. A sorpresa, ricompaiono gli scrittori “politici”. Almeno tre tra i più noti autori di lingua tedesca si sono reinventati il libro “impegnato”, un genere che era finito dai tempi di Günter Grass. Affrontando temi come la democrazia (Ingo Schulze), l’Europa (Robert Menasse), il manager onesto (Rainald Goetz). Forse qua e là peccano di idealismo, ma restano una novità. Per Ingo Schulze ( I nostri bei vestiti nuovi, Hanser Berlin) è stata una formula usata dalla cancelliera Merkel – «democrazia conforme al mercato » – a farlo sobbalzare. Quella formula gli appare un tradimento della politica: «Non dovrebbero invece essere gli attori in Borsa a cercare di riconquistarsi la fiducia della società? Non di democrazia conforme al mercato si dovrebbe parlare, ma di mercati conformi alla democrazia».
“Siamo il 99 per cento” era lo slogan di Occupy Wall Street e anche se il movimento è finito, quello slogan descrive perfettamente il problema delle grandi disuguaglianze che, come scrive il premio Nobel Stiglitz ne Il prezzo della disuguaglianza, sono un pericolo per l’economia e ancor più per la democrazia. A Francoforte verrà premiato questa settimana per L’economia del bene e del male (Garzanti) Tomas Sedlacek, un economista trentacinquenne ceco che era stato consigliere economico di Vaclav Havel e che esplora le fonti del pensiero economico da Gilgamesh a Wall Street, attraverso la Bibbia e i filosofi greci. Per dare un fondamento teorico alle nuove critiche ai modelli economici correnti. La riduzione dell’uomo a agente economico razionale che cerca di ottimizzare il proprio tornaconto ha portato all’esclusione di qualsiasi agire etico, sconfessando perfino Adam Smith (però gli economisti oggi devono congedarsi dall’idea di Smith della “mano invisibile del mercato”). Abbiamo creato un sistema che crolla se sta fermo, dice Sedlacek, come se un’automobile esplodesse quando non cammina. Un “keynesianismo bastardo” perché se nei momenti cattivi i deficit vanno bene, in quelli buoni dovrebbero venir ripianati, mentre in Occidente si è fatta solo la prima cosa, condendola di populismo.
Il problema è se l’economia funzioni come noi vogliamo; e questo ci riporta a questioni filosofiche: vogliamo una società giusta o una società stabile o una società fissata sulla crescita? Il libro di Sedlacek è diventato una commedia che viene data a Praga (anche su Youtube) e lui a volte vi recita. E intanto scrive un libro di dialoghi con David Orrell, un matematico canadese autore di un bestseller sui Miti dell’economia: dieci modi in cui l’economia sbagliae un altro con David Graeber, l’autore di Debito (sottotitolo: “I primi 5000 anni”, Il Saggiatore). Anche Susanne Schmidt, figlia dell’ex cancelliere, presenta alla Buchmesse una rinnovata critica alle banche: Come le banche governano la politica (Droemer). E a Francoforte ci si è ricordati che anche Goethe era critico della corsa folle al denaro e il suo Faust II viene rappresentato come un’allegoria del capitalismo. Gli editori italiani fanno già oggi un primo bilancio: Ponte alle Grazie festeggia Emanuele Trevi che riceverà con il suo Qualcosa di scritto lo European Union Prize for Literature 2012, mentre Bompiani ha acquistato il libro del giovanissimo Joël Dicker, finalista al Goncourt, La vérité sur l'Affaire Harry Quebert, titolo importante della Fiera.
Repubblica 10.10.12
Caput Mundi
La storia dell’Urbe tra dominio e integrazione raccontata in un’esposizione allestita al Colosseo e al Foro romano
Il destino di Roma città aperta racchiuso nel mito di Romolo
di Maurizio Bettini
Quintiliano afferma che «l’antichità produce molta autorità, come accade a coloro che si dice siano nati dalla terra». Ecco un genere di auctoritas che i Romani non si sono mai sognati di reclamare. Al contrario, nel latino colloquiale l’espressione “nato dalla terra” veniva usata per indicare un individuo di nessuna importanza, un “figlio di nessuno”, come diremmo noi. Di sicuro gli Ateniesi, che si volevano nati direttamente dal suolo dell’Attica (fieri della loro “autoctonia”, come la chiamavano), non avrebbero apprezzato questo modo di dire. Lungi dal dichiarare di essere nati dalla terra laziale, i Romani preferivano descriversi come discendenti di un gruppo di Troiani che si erano fusi con la popolazione laziale, secondo la versione del mito resa celebre da Virgilio; in seguito questi discendenti di matrimoni misti avevano fondato prima la città di Lavinium, poi quella di Alba Longa. Dopo di che, da Alba due gemelli si erano a loro volta staccati per fondare una nuova città, Roma – ma solo per popolarla di uomini venuti a loro volta da ogni parte, proclamando apertamente che la nuova città aveva natura di asylum.
«Dalle popolazioni vicine » scriveva Livio «confluì una turba indiscriminata – non importava se fossero liberi o schiavi – gente bramosa di novità, e questo fu il nerbo della futura grandezza». Il nerbo della magnitudo romana – quella “grandezza” che per i Romani corrisponde alla loro stessa identità – si fonda sulla commistione di uomini venuti da fuori. Roma è già ai suoi albori una città aperta.
Ora una mostra parte dal mito fondativo della città per ripercorrerne le tappe, dalla conquista dell’Italia, all’espandersi del potere nelle province più lontane, fino alla creazione di quello straordinario melting pot religioso e culturale che è stato l’Impero. Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione, (promossa dalla Soprintendenza ai Beni archeologici, curata da Andrea Giardina e Fabrizio Pesando) attraverso un centinaio tra sculture, bassorilievi, mosaici, calchi, suppellettili, racconta l’unicum che fu l’avventura di Roma nella storia. La mostra si articola in tre sedi espositive: il Colosseo, la Curia Iulia e il Tempio del Divo Romolo nel Foro romano, che ospita un’interessante appendice dedicata al mito moderno della città: dall’uso politico che ne fecero le rivoluzioni e le dittature, all’uso spettacolare che ne fece il cinema.
Ma in che modo i Romani immaginarono il momento cruciale della propria origine, la fondazione della città? Ce lo racconta Plutarco. Dunque Romolo «scavò una fossa di forma circolare nel luogo dove sta ora il Comitium, in cui furono deposte le offerte di tutto ciò che è bello secondo la consuetudine e di tutto ciò che è necessario secondo la natura. Poi ciascuno gettò nella fossa una porzione della terra da cui proveniva, dopo di che le mescolarono. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, cioè mundus.
In seguito, prendendo questa fossa come centro tracciarono in cerchio il perimetro della città. Il fondatore attaccò al suo aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un toro e una vacca, ed egli stesso li conduceva, tracciando un solco profondo secondo la linea dei termini… Con questa linea definiscono il perimetro del muro, e la parte che sta dietro o dopo il muro viene chiamata per sincope pomoerium».
Inutile dire che la fossa scavata da Romolo, il mundus, è caricata di un grande significato. In essa vengono infatti gettati sia prodotti della cultura (la “consuetudine”), sia prodotti della natura, a significare la creazione di una nuova civiltà. Inoltre in questa fossa vengono gettate zolle tratte dalle rispettive terre patrie di coloro che si sono uniti a Romolo. Questo rimescolamento di terre venute da lontano, e fuse con il suolo laziale, rispecchia perfettamente il rimescolamento di uomini che caratterizza l’asylum. Accogliendo zolle tratte da altri territori, il suolo della città diventa specchio degli uomini che lo calpestano, terra “mescolata” così come “mescolati” sono i futuri abitanti della città. È evidente che questa rappresentazione ha un forte significato politico. Descrivendo la nascita della città come un rimescolamento di terre disparate e come una fusione di uomini dalle origini altrettanto disparate, i Romani mettono in evidenza uno dei caratteri principali della loro cultura: ossia l’apertura verso gli altri. Non a caso Roma è una città in cui non solo gli stranieri, ma perfino gli schiavi possono ottenere la cittadinanza.
Naturalmente, l’altra faccia della medaglia è la volontà di potenza dell’urbe: e il suo destino è ben racchiuso nel celebre verso virgiliano che la descrive come «città destinata a parcere subiectis et debellare superbos».
Lo cita la soprintendente Mariarosaria Barbera nel catalogo Electa, aggiungendo che «alcuni secoli più tardi, all’indomani del terribile sacco di Alarico, Rutilio Namaziano ricorda la stupefacente capacità di amalgamare popoli e civiltà (fecisti patriam diversis de gentibus unam).
Tale doppia natura emerge chiarissima nel confronto tra il concetto di “patria comune a tutta la terra”, proposto dal retore Elio Aristide; e quello, assai più famoso, del “deserto che [i Romani massacratori] chiamano pace”, riportato da Tacito nel celebre discorso antiromano del capo Britanno Calgaco (Agricola 30)».
In mostra è testimoniato un passaggio chiave del sistema Roma: quello che i curatori chiamano “Il manifesto dell’integrazione romana” e cioè il discorso che l’imperatore Claudio fece perché il Senato ammettesse i maggiorenti delle tre Gallie. La lapide dell’orazione e la scultura dell’imperatore (proveniente dall’Archeologico di Napoli) sono esposti nella Curia Iulia.
Ma torniamo alla fossa scavata da Romolo al centro della fondazione: la cosa interessante è che porta il nome di mundus, cioè “mondo”. D’altronde gli autori romani, per esempio, sottolineano con una certa enfasi il carattere di orbis, di “cerchio”, che caratterizza il tracciato di fondazione; e anzi mettono in risonanza questa parola con il termine urbs, quasi che il cerchio / orbis e la città / urbs fossero la stessa cosa. Ma orbis non è forse la parola che designa anche l’orbis terrarum, il mondo intero? A questo punto, però, la cosa migliore è tornare a quella fascia circolare, chiamata pomoerium, che secondo il racconto di Plutarco corrispondeva direttamente al tracciato del solco scavato da Romolo. La cultura romana attribuiva una grande importanza al pomoerium.
Questa zona costituiva il confine religioso della città, con particolare riferimento al rapporto fra le attività militari e quelle civili. La cosa interessante però è che, secondo “un costume antico”, come lo definisce Tacito, il comandante che aveva ampliato i confini dell’impero aveva il potere di ampliare anche quelli del pomoerium: tanto che «il pomoerium si ampliò in proporzione alla fortuna di Roma». Dunque il pomoerium è messo direttamente in corrispondenza con i confini dell’impero. Nella concezione romana, marcando il pomoeriumRomolo anticipa, o meglio pre-disegna anche lo spazio esterno di cui i Romani, in proporzione alla loro crescente fortuna, sono destinati a impadronirsi. Questo rapporto scalare fra pomoerium da un lato, e terre conquistate dall’altro, fa probabilmente da sfondo a certe dichiarazioni dei poeti augustei secondo cui la Urbs romana si identifica davvero con l’orbis terrarum. Basterà citare questo distico di Ovidio: «ad altre genti è data una terra segnata da un limite certo: ma lo spazio dell’Urbsromana è lo stesso dell’orbis».
Informazioni utili
“Roma Caput Mundi - Una città tra dominio e integrazione”, Colosseo - Foro romano, Roma, fino al 10 marzo 2013. Promossa dalla Soprintendenza dei Beni archeologici, a cura di Andrea Giardina e Fabrizio Pesando. Orari: dalle 8.30 a un’ora prima del tramonto. Ingresso: 12 euro; ridotto 7,50. Con il biglietto si accede al Colosseo, al Foro romano e al Palatino. Biglietti su www.coopculture.it. L’app iMiBAC Top 40 permette l’acquisto con smartphone. Informazioni: 06-39967700. Catalogo: Electa
Repubblica 10.10.12
Ma l’Impero caduto colpisce ancora
L’Urbe usata da re, dittatori e, infine, dai registi
di Marino Niola
Roma è l’esempio di quel che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo. Nel geniale paradosso di Andy Warhol c’è la chiave del mito della città eterna. Un mito senza data di scadenza, proprio come le sue rovine. Che alimentano da tempi immemorabili l’immaginario del mondo. Facendo del Colosseo e delle Terme di Caracalla, dei Fori e di Ponte Milvio, del Campidoglio e della Domus Aurea altrettanti luoghi dell’anima. Si può dire che, ancor più di Roma in sé, a produrre da sempre mitologia sia Roma in noi. È dalla fondazione della città, nata dal duello mortale tra i fratelli coltelli Romolo e Remo, che i colli fatali dell’Urbe diventano lo sfondo che dà senso alle diverse vicende degli uomini e delle nazioni. Grandezza e decadenza, virtù e vizi, sobrietà e corruzione, democrazia e tirannide, repubbliche e imperi. Opposti che trovano nella romanità una coincidenza. E nelle sue rovine un’allegoria dai mille significati. Forse perché, come diceva Goethe, quelle vestigia sono di una magnificenza e di uno sfacelo tanto straordinari da diventare entrambi emblematici. Ecco perché il cristallo capitolino non ha mai smesso di brillare e proietta i suoi bagliori fino a noi. Già da quando i Visigoti di Alarico mettono a sacco la città nel 410 dopo Cristo scrivendo la parola fine sul dominio imperiale quirita. Ma come è noto, l’impero colpisce ancora. E comincia a farlo da subito trasferendosi armi e bagagli in Oriente, nella Costantinopoli di Giustiniano, il sovrano illuminato che prende in mano la grande eredità giuridica latina e regala al mondo quel corpus iuris che è la base dei diritti moderni.
Insomma, Roma è il mito politico per eccellenza, buono per tutte le stagioni, da Cesare a Mussolini. Non a caso l’astuto Carlo Magno, re dei Franchi, si fa incoronare imperatore del Sacro romano impero proprio nella chiesa di San Pietro, la notte di Natale dell’800 dopo Cristo. E la stessa cosa faranno gli imperatori di Germania, in primis Federico II, dopo il fatidico giro di boa dell’anno Mille che chiude la lunga notte del Medioevo barbarico e inaugura l’attesa della rinascita umanistica. Che avviene sotto il segno di una Roma dalla doppia anima. Che mette insieme la sua nascita pagana e la sua rinascita cristiana. L’uccisione di Remo che fonda la città e il martirio di Pietro che la rifonda. Con il papa che prende il posto dell’imperatore. Il cristianesimo insomma cambia l’immagine della città, da caput mundi a caput ecclesiae.
Traducendo in termini nuovi il destino universalista che lega a doppio filo l’urbe e l’orbe. Roma è un sogno che la chiesa custodisce tenacemente. Sono parole di Leo Longanesi che riecheggiano alla grande nelle oniriche sagome cardinalizie che attraversano il cinema di Fellini. Ed è proprio il grande schermo a rimettere in moto la macchina del mito romano. Con capolavori come Ben Hur e Quo vadis?, kolossal hollywoodiani in cui l’America vittoriosa nella seconda guerra mondiale si identifica con i martiri cristiani vittime del dispotismo pagano. Rappresentato da un Nerone in camicia nera che si gode cantando lo spettacolo di Roma in fiamme. L’allusione alla romanità fascista non poteva essere più chiara. Come dice Andrea Giardina nel suo bellissimo libro su Roma dopo Roma, sarà proprio il generale Clark, capo dell’esercito di liberazione, a mettersi nei panni di Cesare entrando da trionfatore in Roma dall’Appia antica. Senza trascurare di fermarsi ad ammirare i monumenti che la punteggiano. È la città aperta che inizia la sua conversione in mito turistico. Final destination delle vacanze romane.
l’Unità 10.10.12
Haroche e Wineland
Il Nobel della fisica ai «cacciatori quantistici» per aver catturato il gatto di Schrödinger
di Pietro Greco
HANNO CATTURATO IL GATTO DI SCHRÖDINGER. E PER QUESTO HANNO VINTO IL PREMIO NOBEL PER LA FISICA 2012. I DUE CACCIATORI QUANTISTICI sono il francese Serge Haroche, 68 anni, in forze al Collège de France e all’École Normale Supérieure di Parigi, e l’americano David J. Wineland, 68 anni anche lui e ricercatore sia presso il National Institute of Standards and Technology sia presso la University of Colorado a Boulder, in Colorado.
Haroche e Wineland sono fisici sperimentali, esperti di ottica quantistica. Hanno lavorato in maniera del tutto indipendente. E hanno messo a punto due trappole diverse. Ma entrambi sono riusciti in un’impresa che Erwin Schrödinger pensava impossibile: catturare il suo famoso gatto. Un’impresa che ha sia una notevole ricaduta teorica, sia, almeno in prospettiva, una forte ricaduta applicativa. È grazie alle loro «trappole», infatti, che si faranno probabilmente salti spettacolari sia nel campo dei computer sia nel campo della misura del tempo, ovvero nella costruzione di orologi.
Non è il caso di addentrarsi nelle tecniche che hanno utilizzato. Diciamo solo con un minimo di correttezza scientifica che hanno vinto il premio per aver realizzato strumenti che consentono di isolare e anche di manipolare particelle senza modificarne la natura quantistica. Haroche ha messo a punto trappole per isolare un singolo fotone e facendolo «interrogare» da atomi senza modificarne la natura. Wineland, al contrario, ha messo a punto un sistema di isolamento di singoli ioni (atomi carichi elettricamente) e interrogandoli con fotoni luminosi. Ma, forse, capiamo di più perché hanno vinto (meritatamente) il premio se come suggerisce la stessa Fondazione Nobel che glielo ha assegnato ricorriamo al noto e talvolta abusato paradosso del «gatto di Schrödinger».
Tutto nasce alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, quando nasce la meccanica dei quanti ed emerge chiara la bizzarra fisica che governa l’universo alla scala delle particelle microscopiche, quella degli elettroni, dei fotoni e anche degli atomi. Prendiamo un elettrone: la meccanica dei quanti ci dice che quando è isolato si trova in una «superposizione di tutti gli stati possibili». Per esempio si trova contemporaneamente qui sulla punta delle mie dita, dentro il computer di cui sto battendo i testi e in qualche modo anche a Stoccolma, dove hanno assegnato il Nobel. Solo quando si effettua una misura, ovvero quando interagisce con un oggetto macroscopico, la funziona d’onda collassa, dice la teoria quantistica, e l’elettrone assume una delle condizioni possibili. E quindi, in pratica, me lo ritrovo qui sulla punta del dito o nel computer (talvolta può capitare che me lo ritrovi anche a Stoccolma).
Questo comportamento, che non ha analoghi nel nostro mondo macroscopico, appare bizzarro anche a molti fisici. Compresi Albert Einstein e il giovane austriaco che ha elaborato la funzione d’onda che descrive il comportamento delle particelle quantistiche: Erwin Schrödinger. È come se chiudendo in una scatola il mio gatto, diceva Schrödinger, lui fosse contemporaneamente vivo e morto. Solo quando io o qualcun altro apre la scatola, lo trova o vivo o morto. Il che è paradossale. Sono convinto, insisteva, che c’è qualcosa che ci sfugge. La realtà quantistica deve essere diversa da quella descritta, sia pure ottenendo risultati di estrema precisione, dalla mia funzione. Forse non sapremo mai come stanno le cose, perché non riusciremo mai a «vedere» un elettrone o un fotone o un atomo perfettamente isolati. Perché ogni tentativo di osservarlo inevitabilmente fa collassare la funzione d’onda e perturba il sistema.
Ebbene Schrödinger aveva torto. Il momento in cui è possibile osservare una particella isolata degli ioni, nel caso di Wineland, un fotone nel caso di Haroche senza modificarne la natura quantistica è arrivato. I due hanno intrappolato il gatto di Schrö dinger e ce lo fanno vedere mentre è, contemporaneamente, «vivo e morto». O, per uscire dalla metafora, mentre i pesanti ioni, i leggeri elettroni e i fotoni a massa nulla sono in una superposizione di tutti gli stati possibili. Si tratta di una svolta della teoria quantistica. Anche se, probabilmente, il «problema della misura» e la presenza di variabili che ci nascondano una realtà più profonda non è stato ancora risolto.
Intanto le «trappole» di Wineland e Haroche confermano l’esistenza degli entanglements, di correlazioni istantanee a distanza, tra coppie di oggetti quantistici. Per restare nel paradosso dei gatti, è come se Schrödinger avesse due gatti gemelli: uno maschio, l’altro femmina. Ne porta uno a Vienna e l’altro a Roma, chiusi nelle loro scatole. Mentre viaggiano i gatti, che sono quantistici, si trovano in una «superposizione di tutti gli stati possibili»: sono, nel medesimo tempo, maschio e femmina. Quando infine Schrödinger a Vienna apre la scatola, fa collassare la funzione d’onda sessuale, e trova che il suo gatto è femmina, nel medesimo istante la moglie di Schrödinger apre la scatola a Roma e trova che il suo gatto è il maschio.
Anche questi risultati sperimentali consentono di approfondire il dibattito intorno ai fondamenti della meccanica quantistica. Che si conferma teoria filosoficamente problematica, ma scientificamente molto precisa. La teoria più precisa mai elaborata in fisica. Le possibili implicazioni dei lavori dei lavori di Wineland e Haroche sono molti. A Stoccolma ne hanno indicato due. La realizzazione di orologi, manco a dirlo, ultra-precisi. E lo sviluppo dei computer quantistici. Che molti giurano saranno quelli di prossima generazione: con una potenza di calcolo illimitata e una sicurezza intrinseca inespugnabile.
Repubblica 10.10.12
Da Einstein all’ultimo Nobel, se in classe il genio era un somaro
Spunta la pagella del biologo premiato a Stoccolma: “Un disastro”
di Elena Dusi
PER togliersi il sassolino dalla scarpa ci ha messo 64 anni. Ma l’effetto è stato grandioso. Il Nobel per la Medicina John Gurdon, giudicato al liceo troppo stupido per fare lo scienziato, ha dedicato ieri al suo prof una frase pronunciata con un ghigno di vittoria: «Andavo a scuola. A 15 anni seguii il mio primo semestre di scienze. Il professore nel giudizio finale scrisse che la mia idea di questo mestiere era ridicola. Le sue frasi posero fine al mio rapporto con la scienza a scuola».
La pagella della Eton School è incorniciata e appesa nello studio di Gurdon a Cambridge: «Quando gli esperimenti non riescono, mi diverto a pensare che l’insegnante avesse ragione». Il giovane John nel 1949 aveva avuto il punteggio più basso fra i 250 ragazzi del corso di biologia. «È stato un semestre disastroso» scrisse l’insegnante. «Il suo lavoro è stato di gran lunga insoddisfacente.
Impara male e i fogli dei suoi test sono pieni di strappi. In una prova ha preso il punteggio di 2 su 50. Spesso si trova in difficoltà perché non ascolta, ma insiste a fare le cose di testa sua. Ho sentito che Gurdon ha intenzione di diventare scienziato. Allo stato attuale, mi sembra una cosa ridicola. Se non può nemmeno imparare i fatti basilari della biologia, non ha chance di fare il lavoro di uno specialista. Sarebbe una pura perdita di tempo per lui e per quelli che dovranno insegnargli».
Quanto ad acume predittivo, il prof di Gurdon era in buona compagnia. Quello di Einstein scrisse: «Non arriverà mai da nessuna parte». E il padre della relatività sembrò dargli ragione quando a 16 anni fu respinto dal Politecnico di Zurigo. Ma non è vero che i suoi punti deboli fossero matematica e scienze, anzi. Einstein aveva voti bassi in francese, geografia e disegno. Peggio di lui Stephen Hawking, che degli anni universitari ricorda «la noia e la sensazione che non ci fosse nulla per cui valesse la pena sforzarsi». L’astrofisico inglese studiava non più di un’ora al giorno, non si sentiva dotato e confessò di aver imparato a leggere a 8 anni. Ma quando a 21 gli diagnosticarono la Sla, ha raccontato, ricevette una frustata: «Capii che sarei morto presto e che c’erano molte cose da fare prima ».
«Un ragazzo al di sotto degli standard comuni di intelletto » secondo i suoi insegnanti e «una disgrazia per sé e la famiglia» secondo suo padre. Charles Darwin, dopo un’esperienza disastrosa a medicina, fu apostrofato dal genitore così: «Non pensi ad altro che alla caccia e ai cani». Il giovane Charles fu indirizzato verso la carriera religiosa, ma per fortuna della teoria dell’evoluzione risultò un disastro anche lì. Di Thomas Edison a 8 anni il suo maestro disse che era «confuso ». Sua madre lo ritirò dalla scuola dopo tre anni per educarlo personalmente. Non scienziato ma politico, Churchill era secondo il maestro delle elementari «un costante disturbo, sempre pronto a ficcarsi in qualche guaio».
Il sistema educativo anglosassone non è il solo a soffocare i giovani geni. Margherita Hack in terza media fu rimandata in matematica e oggi ricorda: «Studiavo, ma il professore mi aveva preso in uggia. Tenevo sempre gli occhi bassi facendo finta di leggere qualcosa sotto al banco. Ma non avevo nulla, era solo uno scherzo. Un giorno lui si avventò su di me e trovò un giornale dentro alla cartella, che però era chiusa, arrabbiandosi moltissimo. Comunque è vero, la scienza studiata a scuola è molto diversa da quella che si affronta più tardi, come professione ». A disagio con matematica e scienza era anche Rita Levi Montalcini. Ma il futuro Nobel per la medicina attribuì le sue difficoltà al fatto che le medie Margherita di Savoia di Torino puntavano a formare brave spose e madri di famiglia. Non scienziate.
Repubblica 10.10.12
La scuola, per loro un male necessario
di Piergiorgio Odifreddi
MA LASCIATA a se stessa rimane sicuramente animale. Con buona pace di Gibbon, è più probabile che la scuola sia sempre necessaria, eccetto nei casi in cui è dannosa. Le porte delle scuole devono dunque rimanere aperte a tutti, eccetto a chi è in grado di sviluppare un pensiero indipendente e di guardare al mondo con uno sguardo non convenzionale. Cercare infatti di imbrigliare una tale persona nel sapere comune può appunto tarpargli le ali, e impedirgli di sviluppare le proprie potenzialità. E se non lo fa, crea comunque un ostacolo contro il quale il genio si trova a scontarsi, a volte in maniera tragica e con risultati fatali. È il caso di Évariste Galois, ad esempio, l’inventore dell’algebra moderna, che fu rifiutato per due volte all’Ècole Polytechnique per la sua incapacità di superare gli esami convenzionali, e morì in duello a vent’anni. Meno tragici, ma sempre emblematici, sono i casi di Albert Einstein ed Henri Poincaré, i due massimi fisici teorici del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, che trovarono entrambi molte difficoltà a scuola. Naturalmente, un genio che non vada a scuola rischia di diventare un fenomeno da baraccone, con una cultura squilibrata e incompleta. Per questo la scuola dovrebbe cercare di «dare a ciascuno secondo i propri bisogni intellettuali, e pretendere da ciascuno secondo le proprie possibilità mentali». Ma chi potrebbe pensare e programmare una tale scuola, se non un genio? Cioè, una delle persone meno adatte a farlo?
Repubblica 10.10.12
Niente accanimento terapeutico ma cure soft Non è eutanasia ma rispetto per il malato
La morte dolce di mio suocero il modo migliore per dire addio
di Bill Keller
Il Liverpool Care Pathway adatta al contesto ospedaliero molte pratiche di assistenza in genere limitate agli ospizi, offrendole a un maggior numero di pazienti terminali. «Non si tratta di affrettare il decesso», dice Sir Thomas, «ma di riconoscere che una persona è giunta alla fine della propria vita, e di offrirgli delle scelte. Desidera una maschera di ossigeno sul volto? O vorrà baciare la moglie?».
I medici di Anthony Gilbey avevano concluso che non avesse senso prolungare un’esistenza vicinissima alla fine, tormentata da dolore, immobilità, incontinenza, depressione, progressiva demenza. Il paziente e i familiari erano dello stesso avviso. Perciò l’ospedale ha smesso di somministrare insulina e antibiotici, scollegato i tubi d’alimentazione e idratazione, lasciando solo una fleboclisi per tenere sotto controllo dolore e nausea. L’andirivieni di maschere d’ossigeno, termometri, apparecchiature per misurare la pressione e monitorare il battito cardiaco è stato interrotto. Le infermiere hanno trasferito il paziente in una camera silenziosa, lontana dal bip bip dei macchinari, in attesa del trapasso.
Negli Stati Uniti, nulla infervora il dibattito sulle cure sanitarie più che la questione di quando e come negarle. Il Liverpool Care Pathway, o altre varianti, oggi rappresenta la norma negli ospedali britannici e in diversi altri Paesi, ma non in America. Questo per un motivo ovvio, e per un altro, meno ovvio.
Il motivo ovvio è che i paladini di simili iniziative sono stati demonizzati: criticati dalla Chiesa cattolica nel nome della “vita” e diffamati da Sarah Palin e Michele Bachmann in nome di un vile tornaconto politico. I sostenitori britannici dell’approccio Liverpool sono stati vittime di attacchi analoghi — in particolare dai lobbisti che si battono per il “diritto alla vita”, che lo vedono come una sorta di eutanasia, ma anche dei paladini dell’eutanasia, che non lo considerano sufficientemente “eutanasico”. Le indagini sulle famiglie che si sono avvalse dell’approccio Liverpool rilevano pareri favorevoli; tuttavia, è inevitabile che certe pratiche che toccano le corde più intime delle famiglie e richiedono il coordinamento di diverse discipline mediche, infermieristiche e di consulenza familiare, non riescano sempre ad assicurare una fine agevole quanto quella di mio suocero.
Sospetto, però, che il problema meno ovvio derivi dal fatto che in America i promotori di simili iniziative tendano a presentarle come una questione economica: un quarto o più dei costi dell’assistenza sanitaria si concentra nell’ultimo anno di vita. Questo
indica che stiamo sperperando una fortuna per garantirci qualche settimana o mese in più di vita, da trascorrere attaccati a delle macchine e consumati dalla paura e dal disagio.
L’esigenza di contenere la spesa sanitaria è indubbiamente impellente. Il piano promosso da Obama è un punto di partenza, poiché prevede l’istituzione di una commissione che identifichi possibili aree di risparmio. Ma non è che un inizio. Il buon senso suggerisce che potremmo risparmiare ulteriormente negando le cure mediche nei casi in cui, anziché salvare una vita, servano solo a prolungare per breve le sofferenze.
Tuttavia, credo che si tratti di una posizione discutibile dal punto di vista economico e pessima sotto il profilo politico. Infatti, a prescindere dal buon senso, le prove che queste procedure producano un risparmio sono poche. Studiando i dati, piuttosto lacunosi, Emanuel conclude che, a parte l’assistenza ai malati di tumore, le misure prese per eliminare trattamenti vani nei pazienti prossimi alla morte non si sono tradotte in risparmi significativi.
Anche se si riuscisse a dimostrare che le iniziative come il Liverpool Pathway consentono risparmi cospicui, promuovere l’assistenza per il fine vita per motivi fiscali alimenta i timori di chi ritiene che il sistema medico-industriale abbia fretta di portare i nostri cari all’obitorio per risparmiare il costo dei medici e liberare posti letto. Quando chiedo a degli specialisti britannici se il protocollo di Liverpool riduca effettivamente i costi, questi rispondono di non aver mai posto una simile domanda, né di aver intenzione di farlo.
«Quest’anno sono usciti articoli molto sgradevoli sul Pathway, descritto come un modo per uccidere i pazienti in fretta e liberare posti letto », dice Sir Thomas. «Il momento che si tocca quel tasto si rischia di mettere a rischio l’intero programma».
In America nulla accade senza un’analisi costi-benefici, ma l’argomento a favore di una morte meno straziante potrebbe poggiare su una base più neutra, meno inquietante, ovvero sul fatto che si tratta semplicemente di una morte più umana.
Nei sei giorni precedenti alla morte, Anthony Gilbey, avvolto in una coltre di morfina, ha ripetutamente perso e riacquistato coscienza. Libero da tubi e da medici solleciti, ha potuto ricordare il passato, scusarsi, scambiare battute e promesse di amore con la famiglia, ricevere i sacramenti cattolici e ingoiare un’ostia che è stata forse il suo ultimo pasto. Poi è entrato in coma. È morto umanamente: amato, dignitoso, pronto.
«Ho combattuto la morte tanto a lungo», aveva detto a mia moglie verso la fine. «È un tale sollievo potersi lasciare andare». Sarebbe bello se tutti potessimo morire come lui.
(©The New York Times La Repubblica Traduzione Marzia Porta)