l’Unità 9.7.12
La sinistra dopo Hollande
La dottrina delle due sinistre è stata rovinosa
Ora serve una nuova forza popolare radicata nel lavoro
Un partito capace anche di dare rappresentanza alle nuove forme di diseguaglianza ed esclusione
di Michele Prospero
Una grande crisi, come quella scoppiata nel 2007, costringe sempre i partiti ad aggiornare i paradigmi e a cercare nuove vie per resistere all’urto di tempi difficili. È in questa giuntura critica che Mario Tronti solleva opportunamente il tema di una rivisitazione analitica della dottrina delle due sinistre, che domina ormai da vent’anni con esiti catastrofici. Dopo il crollo dell’89, lo spazio politico ha visto un confuso condominio tra una inclinazione (nuovo centro, terza via) a cavalcare le spinte della globalizzazione, mitigandone talune escrescenze per incassare i frutti della innovazione, e una mentalità antagonista minoritaria.
Una mentalità incapace di resistere agli sconquassi di un turbo capitalismo finanziario che spezzava antiche legami sociali generando malesseri profondi raccolti dai populismi di ogni risma.
Un po’ ovunque in Europa la sinistra sta uscendo daI lungo letargo dogmatico che l’aveva resa poco credibile come alternativa ai processi di de-democratizzazione sprigionati dal liberismo trionfante. Con la vittoria di Hollande, comincia una nuova fase nella quale la sinistra è la principale alternativa alle nuove marginalità. Archiviato il tempo della sinistra che in Francia definiscono “bo-bo”, cioè radicata nelle istanze postmaterialiste della società civile, i socialisti si propongono come una forza popolare capace di dare rappresentazione alle nuove forme di diseguaglianza ed esclusione. Muovendo dal lavoro, è possibile anche declinare i nuovi diritti, parlare cioè il linguaggio dell’inclusione e della partecipazione civica.
Questa è la lezione francese che parla in maniera trasparente anche all’Italia. Non per astratte questioni identitarie, ma per stringenti motivi politici la confluenza sempre più organica con un lavoro di risistemazione teorica che vede impegnata la sinistra europea è una necessità oggettiva, ineludibile. Per tutto il campo del centrosinistra italiano l’alternativa è secca: o si entra in sintonia con le nuove categorie del socialismo europeo oppure si precipita in una condizione di completa marginalità. La foto di Parigi è da questo punto di vista una conquista di non ritorno, indica una prospettiva politica cui è ormai difficile sfuggire.
L’incrocio tra la prospettiva italiana e la dimensione specifica delle culture politiche europee deve essere posto alla base di un superamento della cattiva tradizione delle due sinistre. Oggi c’è spazio solo per una sinistra che si candida al governo del Paese non rinunciando alla sua ambizione progettante. Ciò implica il superamento dei limiti strutturali dei partiti italiani della Seconda Repubblica che sono tutti quanti sorti sul mero terreno elettorale. Sul semplice piedistallo della competizione elettorale da affrontare con cartelli eterogenei però non si definiscono delle solide prospettive di partito, che richiedono sempre di essere innestate nelle tendenze di più lunga durata della storia italiana ed europea. Solo un dialogo intenso con le culture e le organizzazioni della sinistra europea può consentire la fuoriuscita dall’eccezionalismo italiano.
Guidare la difficile transizione del sistema politico italiano verso nuovi lidi, in grado di edificare una radicale alternativa alle ritornanti minacce del populismo e dell’antipolitica, e garantire l’ancoraggio europeo delle sue categorie è la principale sfida che sta dinanzi alla sinistra. Partire dal lavoro e dalla sua autonomia politica per definire anche un senso nuovo del generale è l’imperativo prioritario. Oggi ciò che resta della media e grande impresa capitalistica, con Squinzi parla un linguaggio innovativo (il benservito al metodo Marchionne segna un punto di svolta negli orientamenti della Confindustria) e palesa una sensibilità verso i limiti congeniti della stessa esperienza del governo tecnico che non può lasciare indifferente la sinistra e il sindacato.
Il punto di maggiore sofferenza oggi continua ad essere rintracciabile nelle manifestazioni della piccola impresa diffusa. Nei territori del micro capitalismo padano permangono intatte le tendenze all’alienazione politica di ceti rimasti orfani di nuovo della rappresentanza politica e quindi disponibili a inseguire i fantasmi di populismi redivivi. Una sinistra matura, oltre al suo mondo di elettori secolarizzati e scolarizzati annidati nelle metropoli, deve saper guardare alle inquietudini di ceti economicamente centrali ma politicamente devianti, altrimenti l’irrisolta questione settentrionale è destinata a produrre nuove catastrofi nella vicenda repubblicana.
l’Unità 9.7.12
La crisi va letta da sinistra altrimente vince la destra
di Alfiero Grandi
presidente associazione Rinnovamento della Sinistra
LA DISCUSSIONE APERTA DA TRONTI MERITA ATTENZIONE. SONO CONVINTO CHE LA LETTURA DELLE DUE SINISTRE È IL PRODOTTO DI UN’IDEOLOGIA. Marx ci ha insegnato che l’astrazione serve per interpretare la realtà, ma non può sostituirsi ad essa. In realtà l’ideologia punta a plasmare la realtà e ha avuto due versioni che si sono alimentate reciprocamente e che Tronti definisce contestatori e liberisti.
Il risultato è sotto i nostri occhi ed è deludente per tutti. Concentrarsi sulle due sinistre trascura la miriade di posizioni di sinistra, vecchie e nuove, che non sono riconducibili a questo schema ideologico, a partire dall’amplissima area dell’astensione. Chi ha scelto la via del Partito democratico ne capisce i limiti di fondo. Chi ha scelto altre strade avverte l’impotenza di fronte al dilagare di ricette neoliberiste, ora assurte a teoria di Stato con la modifica dell’articolo 81 della Costituzione. Oltre Marx anche Keynes si rivolta nella tomba.
Tronti coglie un punto vero della fase politica: il rischio dello snaturamento della sinistra, o di fare la fine degli Orazi e dei Curiazi. La posizione di forza relativa del Pd oggi non è sufficiente, anche perché la forza del Pd è la crisi verticale del Pdl e della Lega.
Ha ragione Vendola quando propone di partire da un rilancio dell’Unione europea per farne uno Stato federale, dando un senso ambientale, sociale e politico all’Europa del futuro. Meno convincente la proposta di eleggere direttamente il presidente del Consiglio europeo. Ciò che non è buono per l’Italia non può esserlo per l’Europa. Semmai dovrebbe essere il Parlamento ad eleggere il governo europeo.
Tronti mette al centro la risposta da dare al neoliberismo del capitalismo-mondo. È il terreno su cui c’è stato il forte ripiegamento della sinistra. Eppure molte scelte, a partire dall’esigenza di mettere regole nette alla finanza e le briglie alla speculazione, debbono diventare prima possibile decisioni a livello non solo europeo ma mondiale. Per questo occorre uscire dall’angolo difensivo, con la destra che usa il ricatto dei mercati e la sinistra in un angolo, in difesa.
Sui temi di fondo della vita del pianeta stiamo vistosamente arretrando, o pensiamo che sono argomenti per i periodi delle vacche grasse? È un tema posto con forza anche da Giddens. La decrescita, schema che non condivido, ha il merito di contribuire a porre il tema del modello di sviluppo, della sua sostenibilità ambientale e sociale, del rapporto tra le generazioni, per non lasciare un mondo peggiore di come l’abbiamo ereditato. Le soluzioni neoliberiste tentano di rimettere in moto il trabiccolo che ci ha portato a questa crisi. Per uscire dalla quale viene di nuovo detto che il mercato è tutto e si autoregola e lo Stato un impiccio. Pompare sempre più denaro è la vana speranza di tornare a prima della crisi. Il passato non tornerà. Semmai tutto verrà ridotto a mercato e i costi della crisi verranno pagati dal lavoro, dai pensionati, dalle classi più deboli, dai giovani, la cui disoccupazione crescerà ancora, anche per le misure del governo Monti. Questa è una linea classista, i cui interpreti sono a livello mondiale Buffet e in Italia Marchionne.
Il vecchio internazionalismo non esiste più, eppure i grandi moderni-vecchi Schmidt e Delors hanno proposto uno sguardo lungo sul futuro dell’Europa. L’Italia non può diventare il franchising della Merkel. Occorre ricostruire una coerenza tra proposte e pratica. Prendiamo la Tobin tax. Possibile che l’unica cosa da fare sia attendere le decisioni di altri? C’era una proposta di legge del centrosinistra già arrivata in Parlamento nel 2007: perché non rilanciarla ora per spingerne l’adozione in Europa?
Occorre una lettura della crisi diversa dai conservatori, altrimenti vincono loro. Se si pensa che questa è l’unica minestra possibile è meglio non scaldarsi più di tanto. Se la discussione dovesse concentrarsi sulle forze (?) esistenti rischiamo di non uscirne e anche la carta delle primarie va rimotivata. Affidare alle primarie la scelta della piattaforma alternativa è un errore. Occorre un quadro di valori e obiettivi di fondo condivisi. Bersani ha ragione, ma non può deciderli da solo. Per di più i protagonisti non sono solo i partiti ma anche le forze sociali e soprattutto gli elettori. Occorre fare impallidire la partecipazione alla fabbrica del programma di Prodi. Altrimenti non ne usciamo. Tutti dobbiamo avere coraggio e cambiare, ma il problema è in quale direzione? Obama allarga l’assitenza sanitaria, noi pensiamo di restringerla ? Veramente qualcuno pensa che possa esserci ripresa senza una valorizzazione dei lavoratori tale da beneficiare del loro contributo? Veramente qualcuno pensa che oggi il problema dello Stato sia di farsi piccolo piccolo e non di delineare con la necessaria chiarezza e durezza i parametri di legalità, di efficienza, di solidarietà, di regolazione dell’economia e della società?
Non so se quanto resta della vita del governo Monti sarà un riparo per discutere con calma del futuro. Chi paga sulla sua pelle la crisi non ha questa tranquillità e anche lo spread non è affatto sotto controllo. I mercati sanno che l’Italia per ora sta aumentando il debito pubblico in rapporto al Pil perché non c’è ripresa economica e occupazionale.
I problemi su cui dovrà tornare la prossima legislatura cominciano ad essere molti e costosi. Prima si forma la nuova coalizione meglio è per rendere credibile e fare pesare prima possibile un’alternativa. Dobbiamo sapere se torneremo alla figuraccia dei Dico o ci sarà una capacità riformatrice dei diritti. Il problema del rapporto con i centristi sta qui. Occorre decidere prima, non subire lo stillicidio dello svuotamento del programma in corso d’opera, come è capitato a Prodi. Da destra.
Una forza di sinistra unitaria e plurale può affrontare meglio questo percorso. Certo, se la cura fosse il continuismo con Monti la sintesi diventerebbe complicata. C’è poi la questione dell’Idv. Errori ci sono stati, ma abbiamo tutti riconosciuto qualcuno esagerando che i referendum sono stati importanti per la crisi del berlusconismo. È immaginabile questo risultato senza Di Pietro? Ci sono altri soggetti a sinistra, politici e sociali, e ancora di più uomini e donne che vorrebbero capire e partecipare, ma non sono disponibili alla delega in bianco, che ne facciamo? Come parteciperanno? Avviare un percorso unitario per la sinistra e per una coalizione alternativa potrebbe motivare energie e ridare slancio ad un percorso di uscita dalla crisi.
l’Unità 9.7.12
Europa, l’aria nuova che viene dai progressisti
di Patrizia Toia
Vicepresidente Gruppo S&D
IL CONSIGLIO EUROPEO HA MOSTRATO, OLTRE AL RESTO, UNA NUOVA VITALITÀ POLITICA DELLE ISTITUZIONI EUROPEE CHE FA BEN SPERARE PER LA RIPRESA del cammino verso un’integrazione più piena e, per noi federalisti, verso le tappe per gli Stati uniti d’Europa. L’iniziativa di alcuni Paesi, dopo la diarchia Merkel-Sarkozy, ha messo in campo nuovi leader e un’azione che, se comunitaria deve essere, non può né emarginare né umiliare Paesi e popoli. Al vertice c’è stato un nesso tra questi risultati e l’azione politica dei progressisti europei. Se si respira aria nuova, con una voce più forte della Commissione e il presidente del Parlamento per la prima volta protagonista, ciò è dovuto, oltre che alla leadership di Monti, al nuovo scenario, a Hollande e Schulz ma anche al robusto reseau di forze socialiste, socialdemocratiche e democratiche che dall’Italia alla Francia agli altri Paesi, hanno creato un’unica posizione politica europea progressista, quella piattaforma costruita nei mesi scorsi che è stata un’autentica novità.
È stato un lavoro di costruzione di alleanze, scambi, elaborazione di proposte. Si è costruita così una forza progressista europea unita, anche se variegata, in cui Bersani a nome del Pd e altri leader italiani, hanno «tessuto la comune tela europea». Nel processo di «buona politicizzazione» della vita europea si è inserita anche la collocazione europea degli eletti del Pd. Nel 2009 il Pd ha deciso di contribuire, assieme al precedente Gruppo socialista, alla nascita dell’Alleanza dei Socialisti e Democratici. In questi anni, con un percorso certo non facile, la nostra presenza e il nostro ruolo si sono «imposti» e rafforzati, con un contributo complessivo positivo. La scelta era stata fatta nella convinzione che la «novità italiana», cioè il partito plurale del Pd, potesse essere fonte di innovazione anche sullo scenario europeo, sprigionando lì almeno tre dei suoi elementi: il bagaglio culturale più ricco (in quanto plurale), la capacità di andare oltre le diverse storie (senza rinnegarle) e, infine, la capacità di aprirsi. Non si trattava e non si tratta, banalmente, di costruire un Pd europeo. Bensì di aiutare a innovare un gruppo parlamentare un po’ statico, chiuso nella riproposizione di linguaggi e proposte, come erano e sono gli altri gruppi europei.
Di fronte alla crudezza dei cambiamenti di questi decenni, dall’illusione della crescita mirabolante, al disastro di un capitalismo senza regole, tutte le famiglie politiche europee si sono ritrovate con un bagaglio di visioni e ricette superate o insufficienti. In questo scenario la svolta del gruppo socialista, con la nascita del nuovo gruppo S&D, ha creato l’unica novità nel Parlamento dal 2009 in poi, mentre gli altri gruppi, soprattutto quello a prevalente impronta conservatrice del Ppe, sono stati fermi. Per questo l’operazione S&D è stata positiva: ha creato una nuova alleanza strategica tra formazioni diverse per storia e sensibilità, ma capaci di interagire e di affermare una leadership in termini di visione europeista. Il dialogo che si è aperto tra noi, espressione di 27 forze politiche nazionali, oggi 28 nel nostro gruppo con la Croazia già presente, ha molte potenzialità, anche per l'apporto delle voci cattoliche, e il nostro contributo è intenso e qualificato sul piano legislativo: in tutti i dossier donne e uomini della delegazione italiana sono stati in prima linea.
l’Unità 9.7.12
Tagli agli armamenti
Il Pd: si prendano lì 5-6 mld per il sociale
di Massimo Franchi
Parte oggi dal Senato il cammino parlamentare della Spending review. Pubblicato venerdì in Gazzetta ufficiale, il decreto numero 95 «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini» dovrebbe essere convertito in legge entro la prima settimana di agosto, in tempo per la pausa estiva parlamentare prevista da venerdì 3.
Come accaduto per ogni provvedimento del governo Monti, il suo iter non sarà semplice. La stessa maggioranza, a partire dal Pd chiede a gran voce di modificarne molte parti, a cominciare dai tagli a sanità ed enti locali. Su un dato però governo e partiti concordano: come ribadito da Mario Monti, i saldi sono invariabili. Si potrà dunque modificarla solo trovando uguali risorse. Una prima stima sulla entità la fa il responsabile economia del Pd Stefano Fassina: «Per modificare i tagli insopportabili su sanità ed enti locali servono tra i 5 e i 6 miliardi già quest’anno». Una «prima idea» su come reperire i fondi necessari per rendere i tagli a sanità ed enti locali «sopportabili» è quella di ridurre «drasticamente la spesa in armamenti». Fassina e la Fp Cgil (che sul tema ha lanciato una campagna) la pensano allo stesso modo: «Con un F35 in meno si tengono aperti un centinaio di asili nido». Se questa proposta va annoverata fra uno spostamento di comparto all’interno dei tagli di spesa pubblica, Fassina poi rilancia anche l’imposta sui grandi patrimoni: «Con la patrimoniale potremo alleggerire fortemente i tagli a sanità ed enti locali e ripristinare un minimo di equità nelle politiche del governo», spiega il responsabile Economia del Pd. Della stessa opinione è l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano: «Dalla riforma delle pensioni a quella del lavoro abbiamo sempre dovuto correggere i testi del governo. Ora nella spending review il grosso del piatto è contro i lavoratori pubblici e lo Stato sociale con gli interventi su sanità ed enti locali. È necessario un riequilibrio: la patrimoniale sarebbe un segnale importante», spiega il capogruppo Pd in commissione Lavoro alla Camera.
UDC E PDL DIFENDONO IL GOVERNO
Bisogna però fare i conti con gli altri partiti della maggioranza e la parola “patrimoniale” l’Udc non la vuole neanche nominare. «Non è la soluzione e poi avrebbe un gettito basso spiega Gian Luca Galletti, vicecapogruppo Udc alla Camera . Per noi il presupposto è mantenere i saldi invariati per evitare l’aumento dell’Iva ed aiutare le popolazioni terremotate dell’Emilia e ad allargare la platea degli esodati continua Galletti . Detto questo, chi critica il decreto ha un obbligo: fare proposte alternative. Se ci saranno presentate buone idee in Parlamento non vedo perché non dovremmo votarle. La struttura della spending review va mantenuta, ma su alcuni capitoli si può interventire. In settimana anche noi dell’Udc inizieremo a discutere, ma al momento i nostri rappresentanti negli enti locali sono tutti abbastanza tranquilli e non si lamentano eccessivamente dei tagli», conclude Galletti.
Dal Pdl la difesa della spending review diventa poi un modo per attaccare il neo-presidente di Confindustria Gior-gio Squinzi, reo di avere posizioni «troppo filo Cgil». Per Giuliano Cazzola, che negli anni settanta è stato anche segretario nazionale della Fiom Cgil, difende le scelte del governo: «Se si vuole tagliare la spesa pubblica non ci sono misure diverse da quelle, forse ancora timide, previste nella spending review. Tanto più che una quota dei risparmi realizzati andranno a risolvere, almeno in parte, il tormentone degli esodati. Non so dove Giorgio Squinzi intraveda la “macelleria sociale” di cui parla assieme a Susanna Camusso». Sulla stessa lunghezza d’onda del Pdl c’è ReteImprese, l’associazione che riunisce i piccoli imprenditori. «Non possiamo non condividere la manovra del governo tesa a ridurre la spesa pubblica è la posizione espressa in una nota . Siccome sarebbe di grave danno a tutta l’economia italiana qualsiasi altra nuova imposta, diretta o indiretta, quel che va fatto è una severa riduzione della spesa pubblica, divenuta negli anni un mostro in grado di divorare ogni creazione di ricchezza».
Ma il Pd non si limita a criticare i tagli a enti locali e sanità. Anche le norme sui dipendenti pubblici «non sono coerenti». «Se il governo, per i dipendenti pubblici da accompagnare alla pensione, prevede una deroga all’applicazione della riforma previdenziale targata Fornero sino al 2014, perché si chiede Cesare Damiano non estendere questa stessa norma ai lavoratori privati e autonomi, anzichè fare continui rattoppi che non risolvono il problema? Del resto aggiunge l’esponente Pd trattamenti pensionistici diversi tra lavoratori non sarebbero accettabili e sarebbero contraddittori».
E che la conversione del decreto sulla spending review rappresenti un passaggio parlamentare delicato per il Pd lo conferma le dichiarazioni del senatore Marco Follini:
«Era ovvio che la spending review non potesse essere una passeggiata su un letto di rose. Tuttavia la riduzione della spesa è un passaggio ineludibile e fa parte di una moderna cultura di governo. Il partito aggiunge dovrà esercitare tutta la sua costruttività nel passaggio parlamentare che abbiamo davanti. È anche da questa cruna dell'ago che passeranno i futuri destini politici del nostro Paese».
l’Unità 9.7.12
Il Pd conferma le primarie «Non sono in discussione»
Renzi invita i vertici a «non fare melina» e a indire subito la consultazione
Stumpo: «La direzione ha approvato all’unanimità la relazione di Bersani: i gazebo dopo la costruzione dell’alleanza»
di Maria Zegarelli
ROMA Il sindaco di Firenze Matteo Renzi nell’ultima direzione nazionale del Pd non ha parlato ed è andato via prima del voto sulla relazione del segretario, ma adesso torna alla carica sul tema che più gli sta a cuore: le primarie. Invita Pier Luigi Bersani, via intervista, a smetterla di «fare melina» sulla questione e chiede che si aprano i gazebo secondo la consolidata formula del 2005, 2007, 2009, cioè, «primarie libere e aperte». E se poi le primarie si svolgessero nello stesso giorno di quelle Pdl, «sarebbe meraviglioso».
È sicuro che l’argomento sarà sollevato durante la prossima Assemblea nazionale di sabato, ma dal Nazareno tagliano corto. Si evitino «polemiche senza fondamento», dice infatti Nico Stumpo, responsabile organizzazione del partito. «La direzione nazionale del Partito democratico ha approvato all’unanimità la relazione di Bersani che al suo interno conteneva un percorso politico di costruzione di intenti comuni di governo del centrosinistra e poi le primarie».
PRIMARIE DI COALIZIONE
Dunque, come lo stesso segretario ha più volte ribadito, le primarie «non sono in discussione», si faranno entro l’anno, ma saranno di coalizione e dunque, data e regole, spiegano dal Pd, verranno stabilite da un Comitato formato dai partiti che faranno parte della coalizione, quindi «il tema non può essere affrontato ora né durante la prossima Assemblea». Per il segretario, fanno sapere i suoi collaboratori, la priorità in questo momento è la Carta di intenti da proporre agli alleati e questo sarà l’argomento di cui si discuterà sabato prossimo, cercando di fissare i punti attorno a cui disegnare quel «perimetro del centrosinistra» indicato durante la direzione nazionale. Lavoro, riforme istituzionali, imprese e sviluppo del Paese saranno i punti cardine delle proposte del Partito democratico, compreso il delicatissimo tema dei diritti civili, dunque la discussione del documento varato dall’apposito Comitato lo scorso mese. «A noi interessa gettare basi concrete per il lavoro che ci aspetta nei prossimi mesi dice Stumpo e dunque iniziamo dai programmi, dalle questioni che riguardano gli italiani e la ricostruzione del Paese. Le primarie, come ha detto Bersani, vengono dopo tutto questo, ed essendo di coalizione le regole non le decide il Pd soltanto».
IL RICAMBIO
«Il ricambio è fondamentale dice Renzi non si mette vino nuovo in otri vecchi. Tra la tecnocrazia di Monti e il grillismo c’è una terza via: è lo spazio politico del Pd se si libera da una visione novecentesca della società e del partito». Intanto gran lavoro a bordo campo: di nomi ne circolano già diversi, da Pippo Civati a Stefano Boeri, assessore alla Cultura di Milano che nei giorni scorsi è stato chiaro: «Quando ci saranno le primarie mi candido di sicuro», e anche lui come Renzi trova «molto preoccupante» la decisione di non prevedere all’ordine del giorno dell’assemblea nazionale i gazebo.
Ma Pier Luigi Bersani preferisce non replicare. «Ho detto quello che c’era da dire nella mia relazione alla direzione», ha commentato con i suoi. Il segretario del Pd preferisce iniziare a tessere la tela delle alleanze in un clima di grande difficoltà con Antonio Di Pietro per niente disposto a mollare gli attacchi frontali al Partito democratico per il suo appoggio al governo Monti, e Nichi Vendola altrettanto critico seppur con toni ben diversi non si placano le inquietudini dell’Udc verso i possibili alleati dei democratici.
Per questo il segretario cerca il punto di svolta con la Carta di intenti, punti chiari su cui chi vuole ci mette la firma e chi non è d’accordo resta fuori, per poi passare alla fase successiva: un patto di legislatura con i moderati su alcune questioni, anche queste decise prima del voto in maniera inequivoca, «pochi punti fondamentali, come le grandi riforme di cui c’è bisogno».
D’altra parte la strada è stretta, soluzioni di altro tipo sarebbero un salto nel buio che al momento nessuno vuole fare, troppo bruciante il ricordo dei carrozzoni del passato dove si saliva in troppi e con mete di viaggio talmente diverse tra loro da rendere impossibile arrivare a fine corsa. Ecco perché stavolta sembra necessario un vero esercizio di acrobazia politica.
l’Unità 9.7.12
Ai cattolici di Todi 2 serve la democrazia «deliberativa»?
di Domenico Rosati
PRESTO IL DOCUMENTO PREPARATORIO DELL’INCONTRO DI TODI 2 TRA LE MAGGIORI ESPRESSIONI DEI CATTOLICI ORGANIZZATI è, per così dire, uscito di scena, sopraffatto, per citare un caso, dalla disputa sull’opportunità o meno di dar vita a un partito cattolico (ovviamente moderato) secondo i precetti del Corriere della Sera. Eppure quel testo conteneva molti spunti di riflessione che meritavano di essere esaminati sia dentro l’area cattolica che fuori.
Uno di essi adombra l’impegno dei soggetti cattolici a «confrontare le posizioni e a costruire convergenze e unità di intenti in vista del bene comune dell’Italia» e fin qui nessuna meraviglia ma subito precisa l’intenzione di «operare scelte vincolanti in base a pratiche di democrazia deliberativa»; e ciò per «interloquire con le rappresentanze che intendono condividerle; e per
sostenere il dialogo strutturato con le varie istituzioni».
Nessuna ulteriore spiegazione sul modo di intendere la «democrazia deliberativa». Ed è qui che qualche parola in più non sarebbe stata sprecata per evitare equivoci e soprattutto per delimitare il perimetro di applicazione di uno strumento la «democrazia deliberativa», appunto che può essere utile ma può anche non esserlo; e dunque non è neutrale.
L’accostamento dei due concetti democrazia e deliberazione (cioè decisione) è suggestivo. Se ne è fatto uso e abuso in tutti gli ambulacri della politica come risvolto della inconcludenza delle procedure usuali della democrazia rappresentativa (o conflittuale, o competitiva, come la chiamano i fautori del nuovo conio). Ma al di là del fascino di una prospettiva di maggiore efficienza, quando si esce dal generico ci si imbatte in qualche difficoltà che merita di essere messa a fuoco.
Nel binomio descritto, infatti, né democrazia è sinonimo di sovranità del popolo né deliberazione equivale a decisione. Si tratta di una metodologia di formazione del consenso affidata all’azione di gruppi più o meno ristretti, comunque selezionati, di soggetti interessati a uno specifico problema, i quali «deliberano» nel senso di discutere, con l’ausilio (determinante) di figure qualificate (esperti, mediatori, facilitatori) fino a che non giungono a maturare una conclusione (compromesso?) condivisa. A quel punto sarà l’autorità istituzionale ad adottare formalmente o meno l’indicazione ricevuta, ma difficilmente potrà discostarsene visto il livello della ponderazione preventiva.
Lo schema è desunto da quello del «sondaggio deliberativo» patrocinato dall’americano Fishing e variamente accreditato tra sociologi economisti e politologi (finora si sono salvati i teologi). Con gradazioni diversificate: è un’integrazione delle procedure democratiche o una loro sostituzione a opera di un’autorità che movimenta il consenso tramite il sapiente intervento degli esperti?
Con le note che precedono, è più che legittimo chiedersi quale può essere l’impatto di siffatte procedure pilotate in un habitat plurimo ed esigente come è e deve essere quello delle comunità cristiane. Applicazione indistinta all’universo delle questioni? O limitazione ad alcune peculiari situazioni, e quali? E cosa si intende per operare, con la democrazia deliberativa, «scelte vincolanti» non meglio identificate? Vi si include, ad esempio, l’opzione tra partito politico, pluralismo animato nelle comunità, o «soggetto unitario diffuso»? Con corollari non meno impegnativi: chi e come formula i quesiti, chi dirige i «forum», chi trae le indicazioni terminali?
Più si scava, insomma, e più ci si accorge di addentrarsi in un cunicolo... franoso. Altro è istituire un «forum» per acquisire un’opinione fondata su un’opera pubblica o un piano regolatore, altro è «deliberare» in ambiti tanto complessi quanto scabrosi. Sui quali detto con franchezza varrebbe la pena di far esercitare davvero la libera capacità di ricerca e di proposta dei cittadini cristiani, anziché rischiare di imbottigliare aspirazioni e propositi in operazioni surrogatorie imperniate, chissà?, su sistemi di equazioni a incognite preventivamente ridotte.
Se appena si riflette sulla realtà cattolica italiana dell’ultimo ventennio, ci si accorge con straordinaria facilità che la vera risorsa da mettere in campo non è l’adozione di una qualche procedura di consultazione, ma la riattivazione nelle comunità cristiane della capacità di ricerca e di esplorazione sulle cose del «secolo». Quella che si è tanto indebolita da lasciare il campo all’abitudine di parlare solo dopo che i vescovi si sono espressi. Anziché sgravarli da oneri di indirizzo non dovuti rispetto alla responsabilità laicale nelle cose del mondo. Il che significa riprendere la parola e ricominciare a discutere-deliberare nelle comunità.
La Stampa 9.7.12
Nuova Balena bianca il sogno impossibile di un partito cattolico
Dopo l’incontro di ottobre a Todi prevale lo scetticismo
di Andrea Tornielli
L’incontro di Todi che ha dato vita al dibattito sull’impegno dei cattolici in politica e sull’ipotesi di dar vita a una nuova formazione Il rapporto con la Chiesa Su un punto tutti gli interlocutori del progetto concordano: è urgente mettere al centro della politica italiana i valori espressi dalla Chiesa
La nuova «balena bianca» vedrà davvero la luce o è destinata rimanere solo un sogno? Le associazioni che in ottobre si sono riunite a Todi daranno vita a una iniziativa politica o avrà avuto ragione chi, come Ernesto Galli della Loggia, ha parlato di «irrilevanza dei cattolici»? Un appuntamento da tener d’occhio è il convegno che si terrà a Roma il 20 luglio, organizzato dalla Fondazione Pastore della CISL, dalla Fondazione De Gasperi di Franco Frattini, dalla Fondazione Liberal di Ferdinando Adornato e dalla rivista «Il Domani d’Italia» del parlamentare PD Giuseppe Fioroni, insieme ad esponenti del Forum delle associazioni cristiane del mondo del lavoro e dell’UDC.
«Non credo che ci sarà la nascita di un nuovo partito cattolico o la rinascita della DC – spiega a La Stampa il ministro Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio e storico della Chiesa – vedo piuttosto la “condensazione” dei cattolici in alcuni settori degli attuali schieramenti, nell’alleanza dei moderati ma anche nel centrosinistra. Questo comunque non significa essere irrilevanti». Sul nuovo movimento politico Riccardi preferisce non esprimersi: «Ci avviciniamo ormai alla fase pre-elettorale, non vedo progetti chiari, bisognava muoversi prima».
Raffaele Bonanni, segretario della CISL, indicato come uno dei possibili leader della nuova formazione politica, chiarisce: «Nessuno vuole un partito cattolico, perché sarebbe uguale agli altri partiti. Dobbiamo prima preoccuparci di riannodare i fili tra politica e cittadini: c’è bisogno di tanta pre-politica, tanta iniziativa sociale, tanta sussidiarietà». «Solo così – aggiunge Bonanni – può sorgere una nuova classe dirigente. Bisogna ripartire dall’idea che le comunità si risollevano con la responsabilità di ciascuno». Il leader della CISL in realtà non esclude che possano nascere nuovi movimenti «per fare incontrare realtà culturali diverse ma compatibili tra di loro, senza cercare a uomini della Provvidenza o a salvatori della Patria».
Il più esposto per il nuovo partito è Carlo Costalli, presidente dell’MCL, che pensa a una formazione «moderata e riformista, nell’ambito del Partito popolare europeo. Un movimento politico non confessionale, aperto, dove cattolici e laici possano collaborare e che abbia come bussola la dottrina sociale della Chiesa». È convinto anche Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato: «Noi lavoriamo per formare un soggetto politico capace di aggregare più culture che si uniscano per cercare di risolvere i problemi complessi del Paese. I cattolici – aggiunge – hanno sempre dato un contributo determinante nei momenti più difficili e quello che viviamo, anche se c’è ancora chi non lo capisce, è uno di questi. C’è un popolo che vuole impegnarsi ed essere rappresentato…».
Insiste sulla necessità di continuare l’opera iniziata da Mario Monti il presidente di Confcooperative Luigi Marino. «C’è bisogno di nuove offerte politiche e i cattolici devono dare il loro contributo. Purtroppo siamo ancora bloccati dagli egoismi. Ritengo utile – spiega Marino – dar vita a un nuovo movimento politico che sia anche cattolico, liberale e sociale. Non certo confessionale». Marino lo immagina come «un raggruppamento per la modernizzazione del Paese, che mescoli culture diverse ma con un ruolo importante per quella cattolica e che si impegni a proseguire la linea di Monti, dando però più respiro alla crescita».
Tiepida verso l’iniziativa è invece la posizione di Andrea Olivero, presidente delle ACLI, l’associazione che ha sempre visto i suoi ex leader impegnarsi nel centrosinistra. «Noi sproniamo a partecipare, l’offerta politica attuale va ripensata. Esiste una disponibilità del mondo cattolico per rinnovare la politica e questo vale sia per eventuali nuovi contenitori, sia per i partiti già esistenti». Per Olivero «il nostro compito è quello di mettere in campo le risorse che ci sono ed essere esigenti su valori e programmi, senza prestarci a operazioni di maquillage o a fare da stampella a qualcuno. Come cattolici abbiamo l’ambizione di riformare il sistema politico, come ACLI la responsabilità di rinnovare il cattolicesimo democratico che ha esaurito la sua spinta propulsiva».
Tra i tiepidi c’è anche la Compagnia delle Opere guidata da Bernard Scholz. Politici legati a CL sono presenti nel Popolo della libertà. Maurizio Lupi ritiene che «un partito cattolico sia superato e antistorico, nel PDL c’è già l’idea dell’incontro tra laici e cattolici. Se invece il tema è quello di aggregare una coalizione più ampia nel solco del Partito popolare europeo, possiamo cercare di farla, ma vedo grandi resistenze. Ci sono cattolici che sono già oggi protagonisti, dovremmo cercare di aggregare e non frammentare ulteriormente».
Chi si è esposto di più in favore del nuovo movimento politico, attende le mosse del leader dell’UDC Pierferdinando Casini, che boccia l’idea del partito cattolico («non l’ha fatto neanche De Gasperi») ma ribadisce la necessità di un «risveglio dei cattolici in politica, nell’ambito di una sintesi tra credenti e non credenti». Anche Casini non esclude affatto la nascita di nuovi soggetti politici: «Io stesso opero perché si possa andare alle elezioni con una forza liberaldemocratica aperta alla società civile. Come UDC siamo disponibili a trasformarci, essere il seme di qualcosa di più ampio, ancorato nella grande potenzialità del cattolicesimo italiano ma che guardi anche oltre esso».
Non sarà comunque il Forum a progettare il partito, né lo faranno le singole associazioni. Se qualcosa nascerà lo si saprà ufficialmente a fine anno, quando anche alcuni ministri potrannoschierarsi senza creare problemi al governo Monti: tra gli interessati ci sarebbero Corrado Passera, Lorenzo Ornaghi, Mario Catania, Anna Maria Cancellieri. La nuova «balena bianca» vedrà la luce? E dove si collocherà? Il cantiere è aperto: c’è chi spera, chi è scettico, chi gufa e chi attende di sapere se i cattolici continueranno a essere «irrilevanti».
l’Unità 9.7.12
Legge elettorale
Finocchiaro: preferenze non trasparenti, meglio i collegi
di M.Ze.
Quanto sia difficile il dialogo sulla legge elettorale tra Pd e Pdl, ma anche con l’Udc le cose non vanno meglio, lo dice quello scambio di «cinquettii» tra i dirigenti politici. Scrive Pier Ferdinando Casini: «La gente è stanca e vuole scegliere i parlamentari, basta meline. Andiamo subito in Parlamento e votiamo alla luce del sole. Al Pdl e al Pd dico: ciascuno si assuma la responsabilità delle proprie scelte». Maurizio Gasparri dal Pdl via agenzia dice: «Sulla legge elettorale è il momento della verità. Le preferenze possono essere l'occasione per una vera scelta da parte dei cittadini». Anna Finocchiaro via twitter risponde sia all’uno sia all’altro: «Il Pd vuole che i cittadini scelgano gli eletti, ma se qualcuno vuole una legge elettorale con le preferenze sappia che non siamo disponibili». Più tardi aggiunge: «Ricordo a tutti che le preferenze furono abolite per i pasticci che avevano creato e per la scarsa trasparenza delle scelte che producevano. E credo che sarebbero, oggi, un elemento che farebbe aumentare i costi delle camapagne elettorali. Il Pd conclude la capogruppo al Senato è convinto che il sistema dei collegi, che nell'esperienza che abbiamo vissuto in Italia ha dato buoni risultati, accompagnato magari da un sistema di consultazione e di partecipazione alle scelte di elettori e di iscritti ai partiti, continui ad essere il sistema migliore».
Distanze siderali sul punto con l’ Udc, a cui invece piacciono parecchio, e anche con il Pdl. Come sul premio di maggioranza: i berlusconiani puntano all’attribuzione al primo partito, il Pd alla coalizione tutta purché ogni sua componente superi la soglia di sbarramento. Insomma, per ora non si intravvedono sbocchi degni di rilievo. I democratici hanno annunciato di essere pronti a presentare alla Camera un testo di modifica del Porcellum, altrettanto l’ex ministro Giorgia Meloni che ha già presentato una proposta di modifica della legge elettorale che prevede le preferenze. Ma il Pdl è combattuto: da una parte sa che andare al voto con il Porcellum sarebbe un bagno di sangue, ridotto come è al 18%; dall’altra non vuole mostrarsi sconfitto politicamente accettando una mediazione troppo sbilanciata rispetto alle proprie posizioni di partenza. In realtà sono in molti, davanti alla assoluta incertezza della composizione delle squadre in campo alle prossime elezioni politiche, a non volersi legare ad un modello che poi potrebbe risultare penalizzante. Durante l’Assemblea nazionale di sabato prossimo il Pd affronterà anche la questione «riforma elettorale» e in quella sede si aprirà il dibattito anche alla luce delle fortissime frizioni che proprio su questo tema ci sono anche con l’Udc.
Corriere 9.7.12
Riforme, lite sulle preferenze Casini le vuole. Pd: indisponibili
Finocchiaro: «Poco trasparenti, noi siamo per i collegi»
di Dino Martirano
ROMA — Sul voto di preferenza (che non c'è più dal '92) i partiti escono allo scoperto e iniziano a darsele di santa ragione. Per il varo di una nuova legge elettorale i tempi stringono e così cresce anche il nervosismo tattico delle segreterie, anche se tutti i leader hanno ben presente che nel 2005 il «Porcellum» (l'attuale legge «porcata» con le liste bloccate e il superpremio di maggioranza) si votò in dicembre, pochi mesi prima delle elezioni politiche del 2006.
Sul ritorno alla preferenza o alla preferenze (prima del referendum Segni, infatti, erano 4 i nomi dei candidati da indicare sulla scheda) le distanze tra i partiti sembrano siderali. Il Partito democratico, che ha impostato da sempre una battaglia contro l'«inquinamento del voto dovuto alla preferenza», ieri si è beccato un rimbrotto domenicale da parte di Pier Ferdinando Casini (Udc) che è uscito allo scoperto su twitter: «Andiamo subito in Parlamento e votiamo la legge elettorale alla luce del sole. Al Pd e al Pdl dico: ciascuno si assuma le proprie responsabilità e le proprie scelte...». Replica a stretto giro di posta, sempre su twitter, Anna Finocchiaro (Pd) che invia un messaggio dopo aver consultato lo stato maggiore del partito: «Il Pd vuole che i cittadini scelgano gli eletti ma se qualcuno vuole una legge elettorale con le preferenze sappia che non siamo disponibili».
Una presa di posizione tanto esplicita spinge Casini ad alzare il tiro. Stavolta il leader dell'Udc sceglie il social network Facebook per far conoscere il suo pensiero: «Rispetto Anna Finocchiaro e le sue opinioni ma con i collegi uninominali sono i partiti a scegliere i candidati. Esempio, un siciliano in Trentino o un emiliano in Puglia. L'unico sistema che fa scegliere il cittadino è la preferenza». Ma il torrido pomeriggio domenicale è ancora lungo e così la Finocchiaro ha modo di puntualizzare: «Le preferenze nella legge elettorale furono abolite perché poco trasparenti. Il Pd è per i collegi, magari con un sistema di consultazioni» che, tradotto, vuol dire scegliere il candidato della lista del Pd con le primarie.
Dunque, riassumendo, quando mancano meno di sei mesi utili di legislatura, siamo ancora in alto mare sulla legge elettorale: sulle strada delle preferenze, tuttavia, si fanno vivi solo gli ex di An Maurizio Gasparri e Giorgia Meloni («Sono una vera scelta da parte dei cittadini») mentre il segretario Angelino Alfano viene attaccato da destra, da Francesco Storace: «Perché Alfano tace?». Parla invece Felice Belisario (Idv) che getta altra benzina sul fuoco: «Siamo punto a capo. Tanto rumore per nulla, i partiti sono paralizzati dalla paura di incappare in una riforma che possa alterare gli equilibri di potere».
Un punto fermo si era raggiunto con il gruppo di lavoro guidato da Luciano Violante (Pd) con una bozza firmata da Quagliariello (Pdl), Adornato (Udc), Pisicchio (Api) e Bocchino (Fli), che prevedeva l'adozione di un sistema elettorale misto molto simile a quello tedesco: 50% uninominale, 50% proporzionale, senza preferenze con liste bloccate, sbarramento anti partitini al 5%, premio di maggioranza del 15% per il primo partito o per la coalizione che supera il 40%. E allora, osserva il costituzionalista Stefano Ceccanti (Pd), «perché Casini, favorevole al sistema tedesco, vuole le preferenze quando in Germania non ci sono?».
Le preferenze in principio erano 4, poi venne il referendum Segni e furono ridotte a una (1992) e infine il «Mattarellum» introdusse i collegi uninominali per i tre quarti degli eletti nel '94. A dicembre del 2005 — quando si stava per approvare il «Porcellum», votato dall'allora centrodestra che comprendeva anche l'Udc — il deputato Pino Pisicchio (ex dc in quell'epoca nel gruppo Misto) presentò un emendamento per la reintroduzione delle quattro preferenze: «Con il voto segreto, su 500 e rotti presenti votammo solo in 53 a favore delle quartine», spiega Pisicchio. Che aggiunge: «Figuriamoci cosa succederebbe ora che alla Camera siamo rimasti solo in 32 a essere stati eletti almeno una volta con le preferenze. Io penso che nessuno le voglia più, le preferenze. E lo dice, con amarezza, uno che ci crede in quel sistema di selezione democratica».
Corriere 9.7.12
«L'impegno disatteso»
di Arturo Parisi
Nulla dice sulla legge elettorale e sulla tragedia della nostra democrazia meglio del calendario. Innanzitutto, per il passato, il ricordo che inizia oggi la quinta settimana da quando Bersani e Alfano ci ripromisero, bontà loro, che entro tre settimane avrebbero trovato l'accordo. E, andando indietro, tanto per farmi del male, il ricordo di quando, esattamente in questi giorni, ci presentammo in Cassazione per consentire ai cittadini di scrivere da qualche parte la loro rabbia e la loro speranza. Perché tanta fretta? Quale referendum?, ci avevano prima opposto. Chiederemo noi la calendarizzazione della legge elettorale entro settembre. Esattamente le parole di oggi. E poi il ricordo dei troppi che troppo e troppo da vicino hanno tifato perché la Consulta rigettasse la domanda di rimettere ai cittadini una questione altrimenti insolubile. Perché disturbare la pace della maggioranza? Ci penseranno i partiti e la moral suasion. Ci penseranno i partiti! Come se la nostra crisi non derivasse proprio dall'incapacità dei partiti di pensare al tutto, ad un tutto che non sia semplicemente la somma e il compromesso tra le parti esistenti. Ma ancor di più e di peggio dice il calendario futuro. Elezioni in aprile, come ha ricordato Napolitano, significa che l'iter elettorale inizia in febbraio. Ma per la legge elettorale si parla già di autunno, esattamente come si promettono primarie entro l'anno. Come se la legge elettorale fosse solo uno strumento che consente a chi è dentro di tener fuori chi è fuori, e le primarie un espediente per aprire la campagna elettorale un mese prima. L'unico modo per non piangere è recuperare il senso comune e i sentimenti dell'uomo qualunque. Se riconoscersi nell'uomo qualunque è quasi sempre una tentazione, ci sono momenti nei quali è un dovere.
La Stampa 9.7.12
Legge elettorale, volata finale
Senza accordo ogni partito presenterà le sue proposte con esiti imprevedibili soprattutto per Pd e Pdl
di Ugo Magri
"I punti controversi: premio di maggioranza (e le sue dimensioni) e calcolo dei seggi Gli sherpa di Alfano e Bersani trattano mentre i centristi stanno alla finestra"
Il tira-e-molla sulla nuova legge elettorale va avanti da un mese e mezzo dietro le quinte. Se ne stanno occupando Migliavacca per conto di Bersani e Verdini a nome di Alfano. Della partita semi-segreta è pure Adornato, in rappresentanza di Casini, ma i centristi per il momento stanno alla finestra e guardano. Che cosa vedono, dal loro punto di osservazione? Che tra i due maggiori partiti l’accordo risulta, al tempo medesimo, vicinissimo e lontanissimo. Basterebbero tre soli passi, anzi tre passettini, per sostituire il «Porcellum» con qualcosa di meno orrendo. Il problema è chi deve andare incontro a chi. Il Pd pensa che toccherebbe agli altri fare la prima mossa; quelli del Pdl, guarda combinazione, sostengono la tesi opposta.
Teoricamente, potrebbero incontrarsi a metà strada. Ed è quanto tenteranno di fare nei prossimi giorni, sebbene non ci siano appuntamenti già fissati. Ma non è detto però che ci riescano. Ai protagonisti del negoziato sembra più probabile un buco nell’acqua. Nel qual caso, posto che il «Porcellum» non lo vuole nessuno, già sono chiare le conseguenze. Passata l’estate, e preso atto del fallimento, ciascun partito presenterebbe le sue proposte, su cui il Parlamento verrebbe chiamato a pronunciarsi. Qui la faccenda comincerebbe a farsi molto molto interessante per i centristi alla finestra, ma pure per Di Pietro, e addirittura per la Lega, dal momento che gran parte delle votazioni sulla nuova legge elettorale si svolgerebbero a scrutinio segreto. Cosicché, lontano dagli sguardi, potrebbero formarsi le alleanze apparentemente più assurde e imprevedibili. Un vero azzardo per i grandi partiti, per gli outsider una ghiotta opportunità.
Per il momento siamo ancora al tentativo di mediazione, complicato da una certa confusione di idee nel partito berlusconiano dove, se si dà retta a chi frequenta i vertici, «parlare di sistema elettorale è come lanciare in aria una sterlina in un pub scozzese, dicendo che chi riesce ad acchiapparla se la tiene», insomma equivale a scatenare una rissa. I nodi della discordia sono, per l’appunto, tre. Uno è il premio di maggioranza, che il Pd vorrebbe assegnare alla coalizione vincente, come è oggi, il Pdl al partito che arriva primo. Facile capire il motivo: Bersani ha molti potenziali alleati, Alfano e Berlusconi invece sono rimasti da soli, con il premio alla coalizione avrebbero chiuso. L’altro nodo è la dimensione del premio. Il Pd lo preferirebbe cicciottello, pari al 15 per cento dei seggi; il Pdl non oltre il 10, meglio se il 5 per cento. Per le motivazioni, vale il discorso già fatto. Infine c’è il nodo dell’assegnazione dei seggi. Migliavacca (lo sherpa di Bersani) propende per il sistema dei collegi, Verdini (inviato speciale di Alfano) vedrebbe meglio le preferenze, come nella Prima Repubblica. Pare che Berlusconi, descritto da Bonaiuti come «interessatissimo» alla faccenda, sia arrivato alla conclusione che l’unico modo per mettere politicamente a frutto le divisioni interne del suo partito, lacerato tra correnti e potentati, sia quello di scatenare una corsa alle preferenze in cui la rivalità faccia da benzina; laddove con il sistema uninominale nessuno si darebbe la briga di sostenere il candidato comune...
Una mediazione possibile potrebbe essere la seguente: premio piccolo alla coalizione vincente, con eletti in base alle preferenze. O in alternativa, premio piccolo al partito vincente, però con il sistema dei collegi. Quagliariello, che insieme con Violante aveva steso una prima bozza di intesa poi ripudiata dalle segreterie, la mette così: «Nessuno può ragionevolmente sperare che i tre passi vengano fatti tutti nella stessa direzione». Ciascuno deve cedere qualcosa. Se non vuole la roulette russa del voto segreto.
Corriere 9.7.12
E i partiti discutono di Grande coalizione
di Alessandro Trocino
Fini rilancia l'idea di un'alleanza allargata per superare la crisi. Il no di Pdl e Pd
ROMA — Le parole di Giorgio Squinzi? «Dichiarazioni di questo tipo fanno aumentare lo spread, i tassi di interesse e incidono non solo sul debito pubblico ma anche sulle imprese». Mario Monti va all'attacco, bacchetta il presidente di Confindustria e individua anche un'altra concausa dello spread elevato: «L'incertezza su quello che succederà nella politica dopo le elezioni del 2013». Parole che a Lega e Idv sembrano la ricerca di un capro espiatorio, ma che vengono respinte anche dal Pdl. Che il quadro politico sia più che incerto in questa fase, lo dimostra il dibattito sulla grande coalizione: invocata da Gianfranco Fini, ufficialmente negata dal Pdl (che però non la esclude per il dopo elezioni) e ufficialmente avversata dal Pd (ma con il sospetto che si tratti di posizione attendista).
Gaetano Quagliariello non condivide la posizione del premier, che pure sostiene: «Monti aveva ragione finché c'era il giochino dello staccare la spina sì o no. Mi sembra che non sia più il caso. Per il resto, l'incertezza in democrazia è fisiologica. Dire che i mercati non gradiscono l'incertezza, cosa significa, che dobbiamo abolire le elezioni?». Quanto a Squinzi, anche qui non ci siamo: «Trovo incomprensibile che le posizioni del presidente di Confindustria convergano con quelle della Camusso, ma sinceramente non penso che sia questa la causa dello spread». Ha ragione, invece, il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, intervistato ieri dal Corriere: «Dice cose assolutamente condivisibili. C'è un problema strutturale: gli Stati nazionali hanno devoluto sovranità e nessuno l'ha recepita. È mancata una vera unione».
Sulla stessa linea di Quagliariello, Osvaldo Napoli: «Monti sta sforando, sta uscendo dal suo, per difendere se stesso. Io sono un difensore del governo, ma non si deve neanche esagerare. Che cosa doveva dire allora Berlusconi, martoriato per mesi sullo spread? Quanto poi a dare la colpa all'incertezza politica, Monti abbia piuttosto il coraggio di non cadere nei ricatti di Bersani e dei sindacati come ha fatto sulla riforma del lavoro. Solo così terrà basso lo spread».
Pier Ferdinando Casini difende Monti dagli attacchi di Squinzi che, parlando con i suoi, definisce «incomprensibili», e dissente «al cento per cento» dalla sua posizione. Il pd Marco Follini soppesa le parole: «Io tifo Monti e penso che quando evoca l'incertezza su chi possa succedergli, usa un argomento nient'affatto strumentale che fa eco a una preoccupazione diffusa. Detto questo, non scomoderei lo spread per rispondere a Squinzi e consiglierei a Monti, proprio perché lo apprezzo, di non evocare la lesa maestà». Follini si dice «pessimista» sulla situazione: «Ho letto le parole di Visco, sono d'accordo sull'analisi ma faccio fatica a condividere quel refolo di ottimismo che ha aggiunto su un possibile cambiamento a fine 2012».
A proposito di incertezza, la proposta di Fini, che porta allo scoperto quanto molti pensano ma non dicono, ovvero il sì alla grande coalizione, ottiene risposte negative. Fabrizio Cicchitto parla di «ipotesi lunare», perché «come insegna la Germania, la grande coalizione viene resa possibile quando esiste un retroterra di valori comuni, che in Italia francamente non c'è». Rosy Bindi chiude la porta: «La fase emergenziale è destinata a concludersi con le elezioni. Noi siamo alternativi alla destra».
Sparano a palle incatenate, invece, i partiti contrari a Monti, che Grillo definisce «macellaio sociale». Roberto Maroni dà 4 in pagella al premier. Ironizza l'idv Felice Belisario: «Ieri era colpa dei sindacati, oggi di Squinzi, domani toccherà a Minosse, l'ondata di caldo che sta investendo l'Italia?».
Corriere 9.7.12
Ma Bersani per il 2013 ha un'altra idea: «Toccherà a noi creare la maggioranza»
Il leader Pd e i tagli alla spesa: «Correggeremo la manovra in Aula»
di Maria Teresa Meli
ROMA — La frase del premier Mario Monti sull'incertezza politica del dopo-voto in Italia non ha turbato Pier Luigi Bersani più di tanto. Il segretario del Partito democratico non l'ha interpretata (o non ha voluto interpretarla) come una riproposizione anche per il futuro dell'attuale grande coalizione, guidata magari dallo stesso presidente del Consiglio. Secondo il leader del Pd si tratta di «una normale constatazione», dovuta al fatto che, tra grillini, Pdl versione Berlusconi e problemi economici, per qualsiasi governo la prossima non sarà una legislatura facile. Anzi. E «comunque è la straordinarietà dell'oggi» che, per Bersani, «porta necessariamente all'interrogativo sul domani».
E la «straordinarietà dell'oggi» è questa maggioranza, non politica e non coesa, litigiosa e poco affine, che regge un esecutivo tecnico. Perciò il segretario del Pd non ha dubbi: «Tocca a noi — ripete spesso e volentieri — costruire un programma di governo per il 2013, con una maggioranza solida politicamente». È una sfida difficile, il leader del Partito democratico non vuole nasconderlo, ma è anche una sfida che il Pd «dovrà giocare in prima persona, mettendoci la faccia».
Dunque, non sono le parole di Mario Monti sulla vaghezza della politica italiana a preoccupare il segretario. Semmai ciò che lo impensierisce è altro, ossia una spending review che, pur «avendo dei punti validi», presenta alcuni risvolti che «potrebbero produrre costi sociali insostenibili». Sono «i tagli lineari alla sanità, alle Regioni e ai Comuni» a preoccupare Bersani, perché, a suo avviso così verranno colpiti enti locali e servizi sociali, con il rischio di ridurre in povertà persino una parte del cosiddetto ceto medio. È per questa ragione che il segretario del Pd annuncia già da ora: «Correggeremo la manovra in Parlamento, è il nostro fermo intendimento». Con un obiettivo ben preciso: quello della maggiore equità sociale. Bersani ha parlato di questi problemi non solo con il presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani e con quello dell'Anci Domenico Delrio. Ne ha discusso anche con il segretario della Cgil Susanna Camusso, che si oppone con grande determinazione alla spending review. E questo vale per l'oggi. Ma il leader del Partito democratico ha un programma anche per il domani, quando, e di questo è convinto, la politica tornerà a farla da protagonista e il centrosinistra governerà il Paese.
Per questo motivo da qualche tempo in qua Bersani ha cominciato a delineare il futuro che verrà. E sarà un futuro di segno riformista in cui la coalizione che dopo le elezioni prenderà le redini della situazione lo farà «in continuità con il meglio del governo Monti, ma facendo anche cose nuove». Non ci sta, il segretario del Pd, a sentire il rosario dei «luoghi comuni» secondo cui la politica e il dialogo sociale impediscono di prendere le decisioni. Per questo, ogni volta che può, ricorda che è stato proprio un governo politico, di centrosinistra, a fare «lo spezzatino Enel» e a «liberalizzare le licenze del piccolo commercio». E per la precisione è stato proprio lui, quando era ministro, a fare tutto ciò. Ma Bersani non lo dice per farsi bello. Non è nel suo stile. Lo ricorda soltanto per sottolineare che la politica non è un magma indistinto e che non tutti i partiti sono uguali. Proprio per questa ragione sta preparando con cura la carta d'intenti del Partito democratico, ossia il manifesto programmatico che il Pd offrirà alle altre forze dell'alleanza che verrà. Alleanza che, assicura il leader, «non sarà certamente un bis dell'Unione o il vecchio centrosinistra». Sa che con un'improbabile macchina da guerra di questo tipo si possono pure vincere le elezioni, ma non varare «le riforme di cui il Paese ha bisogno in questa fase così complicata».
Il segretario non nega le difficoltà («sappiamo che sarà dura e che la recessione si farà sentire ancora nella prossima legislatura»), ma ripete a tutti i compagni di partito quello che per lui è diventato una sorta di mantra: «Non possiamo tirarci indietro». E Pier Luigi Bersani, per quanto lo riguarda, non si tirerà indietro nemmeno di fronte alla sfida di palazzo Chigi.
l’Unità 9.7.12
La riduzione dei finanziamenti al SSN peggiore le diseguaglianze, anche quelle territoriali
La sanità italiana non regge davanti a nuovi tagli
di Carlo Burraroni
Presidente Tecné
Spending review. È questa la parola magica che esprime l’idea di tagli progressivi alla spesa pubblica, accusata di essere la principale responsabile del debito dello Stato e conseguentemente dell’aggravarsi della crisi finanziaria. Anche se, in realtà, la spesa pubblica è solo un mezzo il principale attraverso il quale la politica governa lo sviluppo e agisce per raggiungere obiettivi di equilibrio sociale, correggendo eventuali distorsioni e iniquità. Se utilizzata in modo inefficiente (com’è avvenuto, ad esempio nell’Italia degli anni ‘80) produce effetti negativi; al contrario, quando è usata in modo da favorire la crescita e il benessere, è in grado di attivare processi virtuosi, talmente potenti da riuscire a invertire il segno negativo degli eventi. Come nel ’29, quando gli Stati Uniti risposero alla grande crisi con altrettanti grandi investimenti pubblici. Una scelta che permise agli americani di diventare una potenza economica mondiale. La ripresa economica conseguente a quelle scelte, e ancor più le politiche d’intervento pubblico nell’economia e nel welfare in Europa, hanno assicurato all’occidente un lungo periodo di prosperità e crescita.
Oggi, i grandi accusatori della spesa pubblica sostengono che i debitori (cioè i mercati e i piccoli risparmiatori) devono essere rassicurati rispetto alla capacità di rimborso. Vero. Ma, anche rispetto a quest’accusa, si confonde il fine con i mezzi. È impossibile pensare di riuscire a pagare un debito crescente se le entrate rimangono le stesse che hanno costretto a contrarre i debiti (o se addirittura diminuiscono e si diventa più poveri). In Europa è passata, invece, l’idea che l’austerità possa essere “espansiva”. Molto più di una semplice contraddizione in termini. È evidente come si rileva dai dati economici dei paesi costretti all’austerità quanto queste scelte stiano peggiorando la situazione economica.
Negli Stati Uniti il presidente Obama ha attuato un piano di spesa pubblica nel tentativo di far ripartire l’economia, cercando di ridare equilibrio ed equità al sistema. Un approccio molto diverso da quello europeo e soprattutto italiano. Diversi economisti americani ritengono tale piano persino troppo timido rispetto alle reali necessità. Obama ha anche attuato una profonda riforma della sanità pubblica. Attualmente, quasi il 15% dei cittadini americani risulta fuori da ogni copertura in quanto non sufficientemente poveri da rientrare nell’assistenza pubblica e non sufficientemente ricchi da potersi permettere un’assicurazione sanitaria privata. Negli Stati Uniti, la quota pubblica della spesa sanitaria è pari al 46%, mentre in Europa è circa del 77%. Non è un caso che, proprio in concomitanza con la crisi, sia stata varata una riforma molto onerosa dal punto di vista dei conti pubblici, tesa a colmare tali ingiustizie e a recuperare il gap con l’Europa.
L’austerità, compresa quella che riguarda la spesa non direttamente produttiva, non è quindi l’unica ricetta per uscire dalla crisi. Se il problema è il debito pubblico, è possibile assumere come obiettivo vincolante la sua riduzione attraverso un piano di crescita guidata dalla domanda interna, anziché esclusivamente attraverso i “sacrifici”. Analizzando quanto il governo Monti sta portando avanti in questo momento, risulta chiaramente come la “spending review” occupi a pieno titolo lo spazio opposto alle riflessioni sinora fatte. Con l’obiettivo della lotta agli sprechi, la manovra del governo taglia drasticamente le risorse destinate agli enti locali, al sociale e alla sanità. Ma ci sono veramente sprechi su cui si può intervenire tagliando la spesa?
Prendiamo la sanità come esempio: nel 2011, la spesa sanitaria pubblica italiana è stata di circa 115 miliardi di euro, inferiore a quella di altri importanti paesi europei come Francia e Germania. Oltre un quinto della spesa sanitaria complessiva (cioè pubblica e privata), inoltre, è coperta direttamente dalle famiglie. Questo significa che c’è un bisogno sanitario dei cittadini solo in parte coperto dal pubbli co. Sempre nel 2011, le famiglie hanno speso per i farmaci 1,3 miliardi di euro, il 33% in più del 2010 e la spesa farmaceutica si è progressivamente spostata dalle casse dello Stato alle tasche dei cittadini. La spesa per medicinali a carico dello Stato lo scorso anno è diminuita dell’8%, grazie anche a un maggior ricorso ai farmaci generici, mentre la quota di partecipazione dei cittadini è passata dal 7,6% al 10,7%. Quando si parla di spesa sanitaria, bisogna fare molta attenzione ai dati e alle dinamiche complessive. Negli ultimi vent’anni, l'Italia ha contenuto i costi della sanità spendendo addirittura meno di quanto il suo livello di sviluppo economico, paragonato a quello di altri paesi europei, avrebbe suggerito. Basti pensare che tra il 2000 e il 2009 il tasso di crescita reale (depurato cioè dell'inflazione) della spesa sanitaria pro-capite è stato dell'1,6%, rispetto a una media Ocse pari al 4%. Più che tagli, quindi, vi sarebbero ragioni sufficienti a favorire nuovi in-vestimenti che favoriscano la crescita “fisiologica” del sistema, ribaltando la politica del sotto-finanziamento che ha contento la spesa negli anni passati, producendo, però, guasti e inefficienze.
Secondo uno studio dell’Università di Roma-Tor Vergata, altri tagli alla sanità non sono sostenibili anche perché, come ricorda lo stesso studio, il Governo Berlusconi era già intervenuto pesantemente in questo senso, nell’estate del 2011. Apparentemente, il finanziamento del SSN è cresciuto in termini nominali nell’ultimo quinquennio, ma, depurando il dato dalla variazione dei prezzi, si registra un decremento in termini reali pari a -0,9% nel 2008 e -0,6% nel 2010.
Nel complesso, in Italia, l’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul PIL è di circa il 7%, quasi un punto in meno rispetto alla media dei paesi europei più avanzati. Il divario, però, è molto più sensibile se si considera la spesa pro-capite a parità di potere d’acquisto: la nostra, l’anno scorso, è stata inferiore del 20%, mentre nel 2001 la differenza era (solo!) del 12%. Il divario quindi è aumentato. E tutto questo solo per quanto riguarda la sola spesa corrente.
Nuovi tagli alla spesa sanitaria pubblica e agli enti locali non faranno che peggiorare le diseguaglianze, comprese quelle inter-regionali, senza però migliorare l’efficienza degli apparati e l’appropriatezza della spesa e dei servizi nelle regioni meno virtuose.
L’Italia ha bisogno di altro. Soprattutto di riprendere a crescere. Non c’è un paese che, nella dinamica di questa crisi, abbia migliorato i parametri economici con interventi recessivi. E per risolverla occorre più “politica”, per comprendere la differenza tra una linea tracciata per far quadrare i conti e quella degli orizzonti economici e sociali. Più che spending review, quindi, una “spending fast-forward”.
La Stampa 9.7.12
Intervista
“La linea del Piave sulla sanità sono i servizi e i diritti”
Bindi: il governo dovrà ascoltare il Pd
di Francesca Schianchi
ROMA Le misure del governo sono praticamente dei tagli lineari che non tengono conto delle diverse realtà regionali Rosi Bindi Presidente Partito democratico
La preoccupazione più grande è legata alla sanità: «Si rischia di non avere più il Servizio sanitario nazionale». Ma è l’intera impostazione del decreto sulla spending review a suscitare dubbi nella presidente del Pd, Rosi Bindi: «E’ un’altra manovra: il Paese la regge? È quello che ci vuole? ».
A suo giudizio no, mi pare di capire...
«Pur apprezzando il lavoro del ministro Balduzzi, le misure sulla sanità assomigliano a tagli lineari che non tengono conto delle diverse realtà regionali. Tra sforbiciate del governo Berlusconi e l’intervento di Monti verranno meno circa 20 miliardi: si rischia di non avere più un’assistenza pubblica per tutti. È un settore che non si può definanziare».
Siamo alle solite: la destra non sopporta le tasse, voi i tagli.
«Ricordo che il sistema italiano è meno costoso della media europea».
Converrà però che ci sono sprechi: il famoso esempio della siringa a 1 euro in una regione e 5 in un’altra...
«Anche nella sanità ci sono sacche di sprechi che vanno combattute, ma non si possono dare generici parametri nazionali, proprio perché ci sono regioni virtuose come l’Emilia e la Toscana e altre che necessitano di interventi pesanti. Ed è un settore su cui bisogna anche investire: non definanziare».
Come giudica invece le misure sugli statali?
«Sono d’accordo che nel 2012 la Pubblica amministrazione vada riorganizzata, ma siamo sicuri che queste misure non servano solo a fare cassa, e non si perda l’ennesima occasione di fare una vera riforma? È sufficiente mettere in mobilità il personale per avere efficienza in quel settore? E poi c’è un altro aspetto».
Quale?
«Ci rendiamo conto delle conseguenze di certi interventi? Penso al Sud, a zone in cui lo Stato è l’unica possibilità di lavoro: tagliamo gli statali, le province, la sanità, i tribunali... Ma qualcuno ha fatto un conto del costo sociale di questo provvedimento? ».
Siamo al posto pubblico visto come ammortizzatore sociale?
«Assolutamente no. La Pubblica amministrazione non deve essere uno strumento del potere politico né un ammortizzatore sociale: deve dare servizi ai cittadini nel rispetto dei diritti delle persone. Qui temo però si faccia cassa senza dare servizi ai cittadini».
Sul taglio delle province siete d’accordo?
«Benissimo intervenire sulle province. Mi chiedo solo se sia sufficiente questo per fare funzionare bene le autonomie locali o se non era meglio fare una riforma più complessiva».
Per fare di più non si rischiava di non fare nulla?
«Vero. Ma vede, la mia preoccupazione prende come emblema il lavoro del ministro Fornero: le sue riforme sono da tempi di crescita, non di recessione, e i governi seguenti dovranno inseguire gli effetti delle sue riforme».
Al “Mattino” ha detto: «Se il governo vuole davvero andare avanti, sulla sanità deve andare indietro». Una minaccia?
«Dico solo che c’è per tutti noi una linea del Piave: la nostra sono i servizi e i diritti fondamentali».
C’è anche chi però nel Pd, come Follini, invita a sostenere il decreto senza fare distinguo...
«Se essere riformisti è combattere gli sprechi, siamo pronti a dimostrarlo. Se invece significa mettere a rischio il Servizio sanitario nazionale, beh allora non saremo riformisti».
Se il decreto restasse così com’è, lo votereste?
«Le rispondo come fece Bersani sull’articolo 18: qualcuno pensa che il governo si possa permettere di non ascoltare il Pd, le Regioni, i sindacati, Confindustria? ».
l’Unità 9.7.12
«La politica ascolti la scienza» Marino lancia I-think
Il senatore del Pd presenta oggi l’associazione: «Puntare sulla ricerca e sul merito, sulle energie alternative e sull’ambiente, l’unica crescita possibile è quella che guarda al futuro»
di Jolanda Bufalini
Il 35 per cento dei 500 migliori ricercatori italiani ha scelto di lavorare all' estero, la percentuale sale se si prende la lista dei migliori 100, in questo caso uno su due va a lavorare all'estero, mentre nella top list dei migliori 50 ben il 54% ha scelto di lasciare l'Italia. Il nostro paese forma ricercatori di altissimo livello che poi non trova collocazione adeguata per svolgere il proprio mestiere, il danno prodotto da questa fuga è calcolato, per gli ultimi 20 anni, in 4 miliardi di euro, una cifra pari all'ultima finanziaria. Un danno che si moltiplica se si guarda alla classifica dei brevetti: il valore attuale dei brevetti realizzati da team guidati dai 20 migliori scienziati italiani all'estero è di 861 miliardi di euro, cifra che raggiunge i due miliardi se si prendono gli ultimi 20 anni. Una riprova della qualità della ricerca italiana è data dal fatto
che, nonostante gli scarsi stanziamenti e il numero ridotto, i ricercatori italiani sono 70.000, meno della metà dei francesi, un terzo dei britannici, l'Italia si colloca al terzo posto, dopo Regno Unito e Canada, prima di Stati Uniti e Germania, quanto a produttività.
Questi contraddittori dati sono alla base del programma di lavoro di I-Think, l’associazione che oggi il senatore Ignazio Marino presenta a Roma (Alle 11 in via Petroselli 47, Hotel Fortyseven) con l’ambizioso proposito di cambiare l’agenda politica del paese: «La strada obbligata per un paese che voglia puntare su futuro e crescita sostiene il senatore è fare della scienza un driver dell’economia».
Per spiegarsi meglio, il presidente della commissione d’inchiesta sulla sanità cita il fondatore del taoismo: «Laozi diceva: tenersi in punta dei piedi non è crescere. Le mie esperienza di trent’anni, prima da ricercatore, poi da professore universitario e infine da politico raccontano di un Paese che vive in punta dei piedi e costringe le sue menti migliori a farlo o a crescere più serenamente lontano da qui». Ma l’Italia non può permettersi «questa dinamica improduttiva e costosa».
L’ambito del Think tank messo insieme da Ignazio Marino è quello della qualità della vita, la salute, l’ambiente, energie alternative e Green Economy, l’Associazione si propone di fare da start up per le buone idee utilizzando la rete per premere sulla politica e spingerla a rinnovare la propria agenda. Fra le buone idee sostenute da I-Think c’è quella di Marco Mandelli, ingegnere dei materiali , ricercatore e imprenditore nato nel 1977, inventore di un inchiostro marca-catena del freddo, con incredibili, potenziali, applicazioni nel campo della farmaceutica, della cosmetica e dell'industria alimentare. Il lavoro di Mandelli sarà presentati oggi perché I-Think si propone di tenere aperto uno spazio per il merito e di fare da “lobby delle idee” per «ridurre la distanza tra la domanda e l’offerta di innovazione, che faccia incontrare ricerca, istituzioni e imprese, con l'obiettivo di migliorare la vita delle persone».
A questo si aggiungono alcuni progetti concreti, «Stiamo lavorando spiega Ignazio Marino a campagne informative per la prevenzione dell'Hiv e delle epatiti, uno studio sui giovani e il fumo e un convegno sul merito in sanità, organizzato da Lorenza Sommella, che si svolgerà a Roma il 19 luglio».
L’obiettivo del convegno, al quale partecipano fra gli altri Pietro Ichino e molti dirigenti della sanità in Toscana e Emilia Romagna, è discutere una lettura qualitativa e quantitativa del valore della prestazione sanitaria. È un orientamento, sostiene Marino, che si sta dimostrando efficace in alcune Regioni, e mira a far emergere le criticità del sistema. In tempi di Spending Review uno strumento particolarmente utile.
La Stampa 9.7.12
Intervista
“Con la nostra ricerca cresce tutta l’economia”
Una delle scopritrici del bosone: “Così il lavoro si ridurrà della metà”
di Barbara Gallavotti
TORINO Che l’annuncio della scoperta del bosone di Higgs potesse essere il canto del cigno della fisica italiana, non l’avevamo messo in conto. Tutto avrebbe fatto pensare il contrario: l’enorme valore del contributo dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) al Cern, provato dalla presenza di moltissimi italiani ai vertici del Laboratorio Europeo, la gioia senza ombre di centinaia di scienziati, e l’entusiasmo del grande pubblico. Eppure sabato, ad appena tre giorni dall’evento, è arrivato quella che suona come una condanna a morte. Tra tutti i grandi enti l’Infn è il più colpito dai tagli alla ricerca previsti dalla spending review. Nadia Pastrone, dell’Infn di Torino, coordinatrice dei fisici italiani impegnati in Cms (uno dei due esperimenti che hanno scoperto la nuova particella), non nasconde gli enormi problemi che si profilano.
Dopo l’entusiasmo del giorno dell’annuncio, come si sente oggi?
«Estremamente preoccupata, questa decisione è un vero disastro e non ce la saremmo aspettata. Per molti anni abbiamo cercato di essere un ente virtuoso e di mantenere al minimo le spese fisse, come gli stipendi, in modo da dedicare buona parte del nostro bilancio alla ricerca. Ora questi sforzi ci si ritorcono contro, perché siamo i più tagliati. Da qui alla fine del 2012 ci viene chiesto di risparmiare una cifra che è circa la metà di quanto spendiamo per esperimenti come quelli al Cern».
Quali sono le conseguenze?
«Dovremo ridurre drasticamente le nostre attività di ricerca, cosa non facile perché molti dei nostri studi si svolgono nell’ambito di collaborazioni internazionali nelle quali ci siamo impegnati anche economicamente Ad esempio l’entità del nostro contributo finanziario al Cern non è rinegoziabile».
Il Paese ci perde a tagliare sulla ricerca?
«A mio avviso perde moltissimo. La ricerca ha spesso delle ricadute economiche importanti, anche a breve termine. Noi ad esempio collaboriamo con molte imprese, commissionando loro strumenti. In questo modo “reinvestiamo” automaticamente parte dei fondi che riceviamo dallo Stato, e allo stesso tempo aiutiamo le imprese a crescere e ad acquisire nuove competenze che spesso le rendono più competitive a livello internazionale. Lo stesso fanno molti degli enti di ricerca che oggi vengono tagliati».
Capita mai che alcuni degli strumenti da voi sviluppati aiutino tutti a vivere meglio?
«Capita spessissimo. La ricerca del bosone di Higgs può sembrare futile in un momento di crisi, eppure da questo tipo di ricerca discendono ad esempio strumenti che aiutano la diagnostica medica come la Pet».
È la perdita di questo tipo di ricadute che la preoccupa di più?
«No, la cosa che più mi preoccupa è la perdita dei giovani. La ricerca di base è una scuola straordinaria: forma persone capaci di risolvere problemi complessi, che sanno affrontare le difficoltà e raccogliere le sfide. Moltissime di queste persone non scelgono poi di lavorare nella scienza, ma si riversano ovunque ci sia bisogno di menti versatili.
Per un Paese rappresentano una risorsa straordinaria. Per formare queste persone ci vuole continuità: non si può pensare che si possa interrompere una grande tradizione scientifica per uno o due anni e poi ritrovarla come prima. In queste condizioni i fili si spezzano».
Eppure in questo momento tutti sono in difficoltà, sarebbe stato pensabile che la ricerca si salvasse?
«Non sono i sacrifici a spaventarci, ma la modalità con cui vengono imposti. In condizioni difficilissime siamo pronti a fare delle scelte, per quanto dolorose, ad esempio a privilegiare degli esperimenti e magari a rinunciare a nuovi progetti che non sono ancora partiti.
Ma i tagli che colpiscono in modo improvviso sono catastrofici perché ci impediscono di formulare un piano per minimizzare il danno. Così siamo costretti a risparmiare in modo orizzontale, penalizzando le nostre eccellenze».
Corriere 9.7.12
«Non solo il Cern, a rischio anche Frascati e Gran Sasso»
di M. Antonietta Calabrò
La spending review non guarda in faccia al bosone di Higgs. Tutti pazzi in rete e su twitter per la «particella di Dio». Ma in Italia dopo le lodi è arrivata la scure dei tagli sull'Istituto di Fisica nucleare che ha contribuito in modo rilevante alla scoperta del Cern. Questa settimana ci saranno incontri con il ministro della Ricerca Francesco Profumo e il presidente dell'Infn, Fernando Ferroni, scriverà al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, visto che è pronto, insieme a tutto il board dell'Istituto, alle dimissioni se i tagli non rientreranno. Ferroni entra nel dettaglio e spiega che cosa significa in pratica una decurtazione del 10 per cento per i prossimi anni. Fa degli esempi concreti dei progetti a rischio. «Se si hanno meno soldi si fanno meno cose» dice Ferroni. «Sia all'estero che in Italia». Innanzitutto: «L'Infn dovrà investire meno nell'unico grande progetto estero che è poi l'acceleratore Lhc, quello che ha permesso la scoperta dell'Higgs». Non usa mezzi termini il presidente dell'Istituto: «Il taglio ci costringerà a ritirarci: per l'Italia non ci sarà più spazio, lasceremo il passo ad altri Paesi emergenti». C'è insomma da essere preoccupati. «Sì», risponde. L'effetto sulle possibilità di lavorare per i nostri scienziati sarà molto pesante. «Bisogna infatti considerare — continua Ferroni — che noi attualmente contribuiamo con l'11 per cento del budget del fondo di ricerca del Cern, ma con quell'investimento, dato che i nostri ricercatori sono veramente bravi abbiamo quasi il doppio dei posti per gli scienziati italiani... Per un altro po' di tempo i nostri forse rimarranno, ma certo nessuno vive di carità». C'è infine l'impatto sulle commesse alle nostre aziende, «visto che oltre 50 aziende italiane hanno partecipato alla costruzione della macchina».
In bilico anche i due grandi progetti avviati nel nostro Paese «con i quali volevamo attrarre investimenti e capitali in Italia». Il primo è il cosiddetto SuperB di Frascati: un grande acceleratore che richiede risorse importanti. «Vedendo l'incertezza del governo italiano, gli investitori esteri adesso scapperanno» dice sconsolato Ferroni. E il secondo? «Riguarda i laboratori del Gran Sasso che nei prossimi anni si dovrebbero concentrare sul doppio beta dei neutrini e sulla ricerca della materia oscura che è poi la nuova frontiera della fisica, dopo la scoperta del bosone di Higgs».
E qui lo scenario si fa ancora peggiore. «Un mese fa abbiamo stretto un accordo con i cinesi per la fornitura di una tonnellata di ioduro di cesio necessario. Adesso, non so cosa avverrà». C'è infine anche un terzo esempio. «Quello della macchina acceleratrice dei Laboratori di Legnaro che dovrebbe servire anche ad una linea per produrre radiofarmaci di grande utilità in medicina, ma di cui c'è carenza in tutt'Europa, in collaborazione con l'industria canadese. Ecco tutto questo è a rischio». Insomma il taglio è gravissimo per i progetti «ma la cosa ancora più grave è la perdita della nostra credibilità».
La Stampa 9.7.12
De Gennaro: solidale con i poliziotti condannati
Il sottosegretario che nel 2001 era il capo dei funzionari “Profondo dolore per chi ha subito torti e violenze a Genova”
di Grazia Longo
Capo della polizia nel 2001, all’epoca del G8, Gianni De Gennaro, 63 anni, è sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Per l’assalto alla Diaz, assolto in primo grado, condannato in Appello a 1 anno e 4 mesi e prosciolto in Cassazione lo scorso novembre Più volte evocato, in maniera più o meno diretta, dopo la sentenza della Cassazione sulla Diaz che ha azzerato i vertici dell’eccellenza investigativa della polizia, ieri ha deciso di intervenire di persona.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni De Gennaro, capo della polizia durante gli scontri del G8 a Genova nel luglio 2011, a tre giorni dalla condanna definitiva e l’interdizione dai pubblici uffici delle più alte cariche degli apparati investigativi, prende carta e penna sostanzialmente per due motivi. Esprimere «profondo dolore per tutti coloro che a Genova hanno subito torti e violenze».
Ma anche e soprattutto per difendere i suoi uomini, la sua squadra. La spina dorsale di un sistema di indagini che ha raggiunto ottimi successi contro Cosa Nostra e il terrorismo. Con una nota da Palazzo Chigi, De Gennaro rivendica quindi «umana solidarietà per quei funzionari di cui personalmente conosco il valore professionale e che tanto hanno contribuito ai successi dello Stato democratico nella lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata».
Anche lui, del resto, è stato processato in merito ai pestaggi di Genova. Accusato di istigazione alla falsa testimonianza (avrebbero «suggerito» a Francesco Colucci, ex questore di Genova, la versione da fornire durante il processo sull’irruzione alla scuola Diaz) De Gennaro è stato assolto in primo grado, condannato in appello a 1 anno e 4 mesi, e definitivamente prosciolto dalla Cassazione, che, nel novembre 2011, ha annullato la sentenza d’appello «perchè il fatto non sussiste».
E oggi, l’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi (già capo del Dis, Dipartimento per le informazioni e la sicurezza) ribadisce la sua posizione. «Per quanto mi riguarda sottolinea ho sempre ispirato la mia condotta e le mie decisioni ai principi della Costituzione e dello Stato di diritto e continuerò afarlo con la stessa convinzione nell’assolvimento delle responsabilità che mi sono state affidate in questa fase».
Non trascura neppure l’aspetto prettamente giudiziario. «Le sentenze della magistratura devono essere rispettate ed eseguite dichiara -, sia quando condannano, sia quando assolvono. In seguito alle decisioni per i gravi fatti di Genova, le competenti autorità hanno puntualmente adempiuto a tale dovere, operando con tempestività ed efficacia».
Parole che non convincono, tuttavia, Giuliano Giuliani, padre di Carlo, il ragazzo ucciso durante quel G8 del luglio. Soprattutto perché mancano le scuse, «a differenza del suo successore, Manganelli, che le ha pronunciate seppur di facciata». Giuliani stigmatizza: «De Gennaro prova dolore, ma non chiede scusa. Lui era il più alto in grado e quindi lui dovrebbe sentire su di sé tutte le responsabilità di quanto accaduto quella notte alla Diaz. Non mi sembra che nelle sue parole ci sia questo e in più dimentica anche di chiedere scusa». E ancora: «M’aspettavo altro. E invece c’è il solito cerimoniale, nulla di autenticamente sentito. Ripeto non ci sono le scuse e manca una ammissione di responsabilità».
Parole di critica arrivano anche da Vittorio Agnoletto, portavoce del Gsf (Genoa Social Forum) al G8 di Genova: «Le parole di De Gennaro sono opposte a quelle che ci si dovrebbe aspettare da un uomo che ha giurato di servire le istituzioni e che oggi rappresenta il governo; sono parole molto più simili a quelle di un capobanda che, dopo aver subito una sconfitta, resta consapevole dell’enorme potere di cui ancora dispone. Dovrebbe dimettersi».
Corriere 9.7.12
Beni fantasma, spese poco trasparenti
Così l'Italia non tutela i capolavori
La Corte dei conti: «Manca una stima delle opere possedute dai musei»
di Sergio Rizzo
ROMA — Il nome in codice era «Giacimenti culturali». E ancora oggi rimane un dubbio. Al progetto di catalogazione del patrimonio artistico e monumentale italiano avevano dato quel nome consapevoli che si stava parlando del nostro petrolio, o perché sapevano che l'operazione si sarebbe rivelata una miniera d'oro per società di informatica private? Le tracce di tutti quei soldi (2.110 miliardi di lire, pari a circa 2,1 miliardi di euro di oggi) stanziati a partire dal 1986 (al governo c'era Bettino Craxi) si sono ormai perse. Ventisei anni dopo resta un'amara considerazione della Corte dei conti, rintracciabile a pagina 310 della memoria del procuratore generale Salvatore Nottola al giudizio sul rendiconto dello Stato approvato il 28 giugno: «Nonostante vari tentativi di giungere a una stima attendibile dei beni culturali, non esiste oggi una catalogazione definitiva specie per i reperti archeologici. Inoltre, per i grandi musei statali non esiste una stima del valore delle opere possedute». Molte delle quali, fra l'altro, restano chiuse nei magazzini. Un caso? Il museo più visitato d'Italia, e uno dei più frequentati del mondo, considerando il numero dei turisti in rapporto alla superficie. Ovvero, la Galleria degli Uffizi di Firenze. Ricorda però il giudice contabile Francesco D'Amaro, autore del capitolo sui beni culturali della memoria di Nottola, che il museo fiorentino espone al pubblico 1.835 opere mentre «ne conserva in deposito circa 2.300, offrendo in visione solo il 44%» di quelle possedute. Problemi di spazi espositivi, ma non soltanto. E dire che gli Uffizi, secondo uno studio di The European house Ambrosetti, hanno una quantità di visitatori per metro quadrato quattro volte maggiore del Louvre (45,8 contro 11,8). Anche se i numeri assoluti non sono certo confrontabili con quelli del museo parigino. L'anno scorso la Galleria degli Uffizi ha staccato un milione 369.300 biglietti, a cui si sono aggiunti 397.392 ingressi gratuiti. Incasso: 8,6 milioni di euro. Al Louvre sono entrati invece in più di 8 milioni, per un introito superiore a 40 milioni.
C'è chi dice che il nostro è un problema di abbondanza. Troppi beni architettonici, troppi siti archeologici, troppe opere d'arte da tutelare. Dice sempre la Corte dei conti che abbiamo 3.430 musei, di cui 409 in Toscana, 380 in Emilia-Romagna, 346 in Lombardia, 302 nel Lazio. Poi ci sono 216 siti archeologici, 10 mila chiese, 1.500 monasteri, 40 mila fra castelli, torri e rocche, 30 mila dimore storiche, 4 mila giardini, 1.000 centri storici importanti... A tutta questa roba si devono aggiungere i 4.381 immobili del demanio storico artistico che sono utilizzati come uffici pubblici. E di quelli, almeno, si conosce il valore esatto. Sono a libro per 16 miliardi 697 milioni 86.283 euro. Ovvio che tutto questo immenso patrimonio sia complicato da gestire. E che responsabilità nei confronti del resto del mondo, se si considera che l'Italia ha il maggior numero di beni tutelati dall'Unesco come patrimoni dell'umanità: 45 su 911.
Ma il modo in cui trattiamo tutto questo ben di Dio è comunque sconfortante. A cominciare dalla «diffusa perdurante carenza dello stato di manutenzione delle aree archeologiche, spesso oggetto di gestioni commissariali con possibilità di deroga rispetto all'ordinaria amministrazione, che determinano», sono parole della Corte dei conti, «poca trasparenza nelle procedure di spesa». Un chiaro riferimento alla vicenda del commissariamento di Pompei, che era stato già bombardato di critiche dalla stessa magistratura contabile. Ma i giudici, dopo aver concesso che causa di tale situazione sono anche i tagli al personale e alle risorse destinate alla manutenzione decisi dal ministero dell'Economia, non risparmiano nemmeno alcune soprintendenze, quando sottolineano «una certa incapacità di spesa degli organi periferici del ministero dei Beni culturali, che ha generato la formazione di una consistente giacenza di cassa, sia pure in parte determinata dalla lentezza delle procedure di gara e dal ritardo nell'accreditamento dei fondi statali». Vero è che quando si devono fare le nozze con i fichi secchi non è sempre facile. I fondi pubblici per i beni artistici e culturali sono ormai ridotti al lumicino: la Corte dei conti segnala che si è scesi allo 0,19% della spesa pubblica, contro lo 0,34% di «pochi anni fa» e lo 0,21% del 2010. Questo mentre lo stato francese ha un budget cinque volte superiore al nostro (oltre 7 miliardi di euro contro 1,4 miliardi) e la Germania ha aumentato quest'anno gli stanziamenti del 7 per cento. Non bastasse, se il dicastero del Collegio romano era stato risparmiato dai tagli «lineari» decisi dalle ultime manovre di Giulio Tremonti, ci ha pensato il governo di Mario Monti a pareggiare i conti con gli altri ministeri. Dirottando alle carceri 57 dei 140 milioni dell'8 per mille destinati ai beni culturali con il decreto sull'emergenza delle prigioni approvato in fretta e furia alla vigilia di Natale del 2011.
Un giro di vite al quale non si è rimediato neppure in seguito. A dispetto delle dichiarazioni ufficiali. Da quando esiste il dicastero dei Beni culturali non c'è mai stato un ministro che non abbia detto pubblicamente come l'attuale, Lorenzo Ornaghi, «la cultura deve agire come volano reale per la crescita». Ma la verità è probabilmente quella che si è fatta sfuggire il segretario generale del ministero Roberto Cecchi qualche mese fa, prima di essere nominato sottosegretario: «In Italia la cultura non è vista come uno strumento per lo sviluppo del Paese. Ci s'inalbera contro il vandalismo, come contro i musei che non sono perfettamente all'altezza della situazione. Ma poi quando si tratta di investire, non si investe».
Regola osservata anche in questa occasione. Nel decreto sviluppo appena sfornato dal governo Monti, non c'è traccia di interventi per i beni culturali e il turismo.
l’Unità 9.7.12
Egitto, Morsi sfida i militari e salva il Parlamento
Il presidente annulla il decreto della Corte costituzionale
Vertice d’emergenza dei generali, tensione alta
di U.D.G.
La coesistenza è durata nove giorni. Il tempo necessario a Mohamed Morsi per dimostrare di non essere un presidente sotto tutela. E l’Egitto torna a tremare. Lo scontro con i militari deflagra nel tardo pomeriggio quando, con una nota presidenziale, Morsi annuncia di avere annullato lo scioglimento del Parlamento deciso dalla Corte costituzionale. Nel giugno scorso una sentenza della Corte Costituzionale aveva dichiarando incostituzionale la legge con la quale era stata eletta l'Assemblea del Popolo (la Camera bassa del Parlamento), sentenza che aveva comportato lo scioglimento dello stesso organismo. Con un decreto presidenziale, Morsi ha deciso ieri che l'Assemblea del Popolo resterà in vigore fino alle prossime elezioni legislative che dovranno essere fatte entro 60 giorni dall'entrata in vigore della nuova Costituzione, che una Assemblea costituente sta elaborando.
Passa meno di un’ora, e arriva la risposta dei militari. Il Consiglio supremo militare ha convocato una seduta d'emergenza dopo il decreto presidenziale che annulla lo scioglimento del Parlamento da parte dei militari dopo una decisione della Corte costituzionale. A riferirlo è la tv di Stato egiziana. L'incontro sarà presieduto dal maresciallo Hussein Tantawi che guida il Consiglio militare supremo che ha governato l'Egitto dalla caduta dell'ex presidente Hosni Mubarak e che il mese scorso ha sciolto il parlamento dominato dagli islamici in base a una sentenza della Corte costituzionale.
«È UNA FORZATURA»
I generali, riferisce l'agenzia Mena, si riuniscono per «studiare e discutere le ripercussioni della decisione del presidente Mohamed Morsi di riconvocare il Parlamento». La tensione è altissima. Fonti dello “Scaf” hanno fatto sapere all’agenzia Reuters che né il maresciallo Tantawi, né altri generali, erano stati preavvertiti dell'iniziativa: «Quella messa in atto dal presidente – rileva la fonte militare – è una forzatura che non rasserena il clima in un momento in cui il Paese ha bisogno della massima unità». Con Morsi si schiera il presidente del Consiglio di Stato egiziano, l'islamista Saad Katatni, membro del partito Libertà e Giustizia (braccio politico della Fratellanza Musulmana) come il presidente. La giunta militare aveva sciolto il Parlamento, controllato dal partito Libertà e Giustizia (con oltre il 40% dei seggi) e da al Nour, espressione dei salafiti (oltre il 20%) il 15 giugno scorso. L'esercito ha formalmente consegnato il potere a Morsi il 30 giugno. Il neo presidente egiziano ha prestato simbolicamente giuramento davanti ad una folla venuta ad acclamarlo in piazza Tahrir, al Cairo, luogo simbolo della rivolta anti-Mubarak.
Nei giorni scorsi, Morsi aveva emesso un altro decreto presidenziale in cui ordinava una revisione delle indagini e dei processi relativi alle morti di circa mille dimostranti. Secondo l'agenzia di stampa ufficiale egiziana, una commissione di inchiesta composta da 16 membri, tra cui giudici, un procuratore, poliziotti, militari e sei rappresentanti delle famiglie delle vittime dovrà presentare un rapporto a Morsi entro due mesi. Per il loro ruolo nelle repressioni delle proteste, Mubarak e il suo ministro dell' Interno sono stati condannati all'ergastolo. Il braccio di ferro avviene nel giorno in cui Morsi ha incassato un importante successo internazionale: Barack Obama ha invitato il nuovo presidente egiziano a recarsi in visita negli Stati Uniti il prossimo settembre. A riportarlo è il sito web dell'emittente araba Al Arabiya, citando fonti ufficiali. Il presidente Usa ha assicurato all'omologo egiziano l'impegno dell'America per «una nuova partnership» con il Cairo. Una fonte dell'amministrazione americana ha confermato il bilaterale che Obama e Morsi terranno in settembre a New York a margine dell'Assemblea generale dell’Onu. Prima di Obama, ad incontrare il neopresidente egiziano sarà però il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che sabato 14 luglio sarà al Cairo.
l’Unità 9.7.12
Angelo Del Boca
«In Libia sta vincendo la libertà contro chi la voleva divisa
Lo storico: «Il dato più significativo del voto libico è l’alta affluenza. E se davvero hanno vinto i laici, sarà un risultato di grande importanza»
di Umberto De Giovannangeli
«L’alta percentuale dei votanti testimonia di una voglia di riconquistare la libertà da parte del popolo libico. E questa partecipazione è già di per sé un risultato importantissimo». A sostenerlo è lo studioso italiano che più e meglio di chiunque conosce ogni sfaccettatura della Libia: Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano, autore della biografia di Muammar Gheddafi: Gheddafi. Una sfida dal deserto, Laterza Editore.
In attesa dei risultati definitivi, qual è l’aspetto più significativo delle elezioni in Libia?
«Direi senz’altro l’alta affluenza alle urne. Si tratta di un risultato importantissimo perché da 42 anni in Libia non si votava e la voglia di riconquistare la libertà è talmente diffusa che si è manifestata nel voto».
C’è chi temeva un voto segnato da incidenti e dal disordine.
«C’è lo temeva e chi se lo augurava, perché una Libia divisa, in preda al caos, con le sue ricchezze petrolifere a disposizione può far gola a molti, alcuni dei quali sono gli stessi che hanno deciso la guerra. Qualche disordine c’è stato, soprattutto in Cirenaica: l’abbattimento di un elicottero che trasportava materiale per le urne, l’uccisione di una persona, il tentativo in alcuni centri di impedire l’afflusso ai seggi. Ma tutto sommato le cose sembrano essere andate abbastanza bene anche se c’è ancora il problema delle fazioni in armi che non intendono essere disarmate. E questo sarà un grosso problema per chiunque sarà chiamato a governare il Paese».
I primi dati del voto sembrano indicare un successo dell’alleanza dei partiti laici a Tripoli e a Bengasi.
«Dati che la commissione elettorale, nel momento in cui parliamo, non ha ancora confermato: ragione in più per esercitare prudenza. Quanto ai primi dati ufficiosi, essi indicherebbero che gruppo di 60 partiti laici e di centro – su 140 partiti che hanno depositato la loro richiesta – avrebbero ottenuto, ma il condizionale è davvero d’obbligo, un risultato notevole, segno di un cambiamento che se non va enfatizzato non va neanche ritenuto un dato scontato».
Alla vigilia da più parti si paventava un successo dei partiti islamisti.
«In realtà i Fratelli Musulmani non hanno mai avuto in Libia un grande seguito, e questo – dobbiamo riconoscerlo – anche perché Gheddafi aveva condotto una lotta spietata con questi movimenti che lui considerava estranei alla mentalità libica».
Nel futuro della “nuova Libia” che peso avranno ancora le tribù?
«Direi un peso notevole. Ritengo che ancora per molti anni in Libia ci sarà la divisione tribale. Non bisogna mai dimenticare che in Libia esistono più di 150 tribù, alcune delle quali hanno un peso enorme nella vita sociale, e in parte politica, del Paese. Pensare di cancellarle è semplicemente illusorio». Partendo dalla Libia ma allargando l’orizzonte ai Paesi del Maghreb, quale ruolo, a suo avviso, dovrebbe avere l’Europa, a cominciare dai Paesi – Francia, Italia, Spagna della sponda Nord del Mediterraneo?
«Dopo aver fomentato la guerra civile in Libia – soprattutto da parte di Sarkozy – l’Europa dovrebbe quanto meno non intervenire nelle vice politiche i questo Paese. Hollande mi sembra molto più cauto del suo predecessore, soprattutto riguardo l’Algeria. Quanto all’Italia, dovrebbe restare molto cauta, anche per i suoi trascorsi in Libia, e non mi riferisco, per intenderci, al lontano passato coloniale, ma a qualcosa di molto più recente, e vergognoso: mi riferisco ai campi di concentramento in cui venivano segregati i migranti somali, eritrei... L’Italia ha ancora molto fa farsi perdonare in quel martoriato Paese».
Corriere 9.7.12
«È la prova che nel mondo musulmano si fa strada la democrazia»
di Stefano Montefiori
PARIGI — La vittoria in Libia dei liberali di Mahmoud Jibril, se confermata, sarà la prova che una terza via tra tirannide e integralismo islamico è possibile?
«Sì, anche se occorre fare attenzione a non sovrapporre alla realtà del Medio Oriente le nostre griglie di lettura. I liberali libici non sono liberali come li intendiamo noi: è sbagliato contrapporre da una parte Jibril, ai nostri occhi modernizzatore e secolarizzato, e dall'altra musulmani anti-occidentali e oscurantisti. Anche i liberali libici sono musulmani, e non sarei affatto sorpreso che prima o poi si tornasse a parlare dello spazio da riservare alla sharia, la legge islamica, nella Costituzione». Olivier Roy, 63 anni, islamologo francese docente all'Istituto universitario europeo di Fiesole, è moderatamente ottimista sugli sviluppi in Libia e nei Paesi confinanti toccati dalle rivoluzioni, Tunisia e Egitto.
Qual è la sua opinione sul vincitore, Mahmoud Jibril?
«Ha vinto perché ha saputo assecondare meglio gli interessi locali e tribali. Jibril ha avuto un anno di tempo, si è messo con grande pazienza a tessere rapporti e alleanze con i notabili e i capitribù».
L'Islam resterà un fattore importante in Libia?
«Senza dubbio perché la Libia è un Paese molto musulmano, anche se l'appartenenza religiosa islamica può prendere in ogni Paese forme diverse, e non necessariamente allarmanti per l'Occidente. In Libia non ci sono minoranze cristiane, gli unici cristiani sono immigrati, l'apporto musulmano è storicamente molto forte. Prima di Gheddafi la Libia è stata una monarchia retta dalla dinastia dei Senussi, confraternita musulmana fondata alla Mecca nel 1837».
È l'islam l'elemento unificante del Paese?
«Non ce ne sono molti altri, la Libia ha sempre avuto il problema di definirsi come Stato nazionale, al di là delle appartenenze tribali, e per questo la tradizione religiosa e culturale islamica è essenziale».
Che cosa distingue allora i liberali dai Fratelli Musulmani?
«Soprattutto una maggiore capacità politica e il radicamento nel territorio».
Al momento della missione in Libia, un anno fa, abbiamo visto bandiere francesi e britanniche sventolare a Bengasi e non solo. Come si posizionerà la nuova Libia a livello internazionale?
«Credo che Jibril praticherà l'apertura all'Occidente, ma se avessero vinto i Fratelli Musulmani non sarebbe stata una catastrofe. Anche loro non sono ostili all'Occidente, e non lo è più persino Abdel Hakim Belhaj, il capo militare di Tripoli reduce dell'Afghanistan».
Nessun tradimento delle primavera arabe quindi?
«Sotto l'aspetto dei rapporti con l'Occidente, direi di no. Questo è un dato che possiamo considerare come acquisito: nelle manifestazioni dei mesi scorsi e ancora oggi non si sentono i soliti slogan contro l'America o contro Israele. C'è stata una svolta, siamo passati dal tradizionale panarabismo anti-occidentale a un contesto più nazionale, patriottico. Tutti concordano sul fatto che la democrazia è una buona cosa, anche se non tutti ne danno la stessa definizione».
Sbaglia l'Occidente a identificare i Fratelli Musulmani con l'integralismo islamico?
«A mio parere dobbiamo sforzarci di capire che le cose non sono così semplici. Salafiti e Fratelli Musulmani, per esempio, sono due movimenti entrambi di ispirazione religiosa ma in competizione tra loro. I Fratelli Musulmani stanno cercando una sintesi tra tradizione islamica e modernità. È difficile, naturalmente, ma ci provano. Non hanno minimamente contestato la vittoria di Jibril, nessuno ha neppure provato a parlare di brogli. C'è una nuova cultura democratica che si sta radicando, anche presso gli islamisti».
Pensa che Libia, Tunisia e Egitto siano sulla buona strada?
«In nessuno dei tre Paesi c'è una forza preponderante capace di governare da sola, e questo è un bene. In Tunisia, per esempio, la lotta tra presidente e premier si combatte secondo regole costituzionali, non attraverso le milizie. In Libia, Tunisia ed Egitto ormai c'è questa idea che la democrazia e le elezioni sono inevitabili, che ci vogliono soluzioni politiche e costituzionali. A mio parere, abbiamo voltato pagina».
l’Unità 9.7.12
Primavera araba: l’Ue ha capito gli errori del passato
di Carla Attianese
L’aggiunta all’ultimo momento all’ordine del giorno di Strasburgo delle dichiarazioni dell’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue su Siria ed Egitto lasciava presagire delle novità. Ma si sa, la politica estera è l’altro punto debole, insieme all’economia, sul quale l’Unione non riesce ancora ad agire come un corpo solo, con la conseguenza di apparire debole o, peggio, poco influente. Ne parliamo con Antonio Panzeri, eurodeputato Pd e presidente della Delegazione Maghreb al Parlamento europeo, che tra viaggi e missioni come osservatore, su Primavera Araba e dintorni vanta ormai una certa esperienza.
A che punto siamo in Siria ed Egitto?
«Per la Siria, la novità è il nuovo piano presentato da Annan a Ginevra, che prevede una coalizione tra l’opposizione e le forze vicine ad Assad, fermo restando il cambio alla guida del Paese».
Il piano di Annan è una resa?
«Direi di no, e lo prova la freddezza con cui è stato accolto. Poi, lo dico agli osservatori, la Siria non è la Libia dove peraltro è significativo il processo che si è aperto con le elezioni -, non solo per il veto di Russia e Cina ma per la disomogeneità delle forze in campo. Per una soluzione governata e pacifica è indispensabile un simile processo.
Resta lo stallo e Assad rilascia interviste in cui si mostra molto sicuro si sé.
«Certo, perché l’empasse delle diplomazie occidentali lo mette in una condizione di forza, mentre invece andrebbe indebolito. È necessario fare pressione su Russia e Cina per convincerle che non possono permettersi una situazione incandescente come quella siriana. Purtroppo bisogna chiedersi se al di là delle posizioni ufficiali, tutti stiano davvero marciando nella stessa direzione. In ogni caso sono da condividere le proposte di Hollande alla riunione degli "Amici della Siria" a Parigi». In Egitto la vittoria dei Fratelli musulmani ha provocato qualche allarme.
«Il tempo occorso per la proclamazione dimostra il lungo braccio di ferro tra i vincitori e i militari. Il risultato è un compromesso, con alcuni poteri che restano all’esercito, probabilmente sotto l'attenta osservazione degli Usa».
È di ieri la notizia dello stop di Morsi alla sentenza della suprema Corte egiziana che scioglieva il Parlamento.
«È una decisione che può stare nelle cose ma c’è da augurarsi che non dia il la ad un conflitto istituzionale. L’impegno a scrive-
re una nuova Costituzione democratica va preservato. In Egitto si è aperta una nuova fase. L’auspicio è che l’atteggiamento dell’Europa e dell’Occidente sappia essere di disponibilità».
A conti fatti, è possibile un bilancio della Primavera araba?
«Si, a patto di utilizzare del discernimento: siamo in presenza di un grande sommovimento ma bisogna essere realisti, simili processi non si risolvono in pochi mesi».
L’Ue ha fatto abbastanza?
«Intanto, ha capito gli errori fatti finora. Ora si sta muovendo su una nuova politica di vicinato basata sulle cosiddette tre M: ‘Money-Market-Mobility’, e cioè risorse finanziarie, la creazione di zone di libero scambio e una nuova politica dell’immigrazione. Bisognerà insistere su questa linea».
l’Unità 9.7.12
Afghanistan, video-choc: «È adultera». E la uccidono a colpi di mitra
di Gabriel Bertinetto
Non ha nome né volto, la donna messa a morte dai talebani a Qimchok, villaggio a un’ora di macchina da Kabul. Un video di pessima qualità mostra alcune scene dell' esecuzione. Si sente una voce maschile sentenziare in nome di Allah che «l’adulterio è una colpa». La condannata è inginocchiata a terra, avvolta nel burqa, immobile sul ciglio di una strada sterrata. Il boia è vestito di bianco, e ha in testa il patul, una specie di basco. Imbraccia un fucile automatico.
Quando l'uomo inizia a sparare, la telecamera ha un movimento quasi pudico, ed è l'unico momento pietoso nella registrazione di una storia orribile: senti i colpi, secchi, cinque in tutto e in rapida successione, ma non vedi il carnefice né la
vittima. Solo i rami degli alberi nella vicina boscaglia. Poi ancora un'immagine della donna, a terra, esanime. Raggomitolata, quasi nella stessa posizione, come se non fosse cambiato nulla. Come se fosse già morta, quando era ancora in vita.
Dicono avesse 22 anni. Dicono fosse una mamma. Dicono anche che fosse contesa fra due capi locali del movimento armato in rivolta contro il governo di Hamid Karzai. Storie di paese, ma storie tragiche. Qualcuno sostiene l'abbiano violentata entrambi. Altri raccontano che no, niente stupro. L'unica che non ha potuto fornire la sua versione, perché nessuno gliel'ha chiesta e nessuno le ha permesso di farlo, è lei, l'adultera. Scelta dal pregiudizio come unica colpevole di una vicenda in cui se c'erano dei colpevoli erano altri. «Quando ho visto le immagini afferma il governatore della provincia di Parwan, Basir Salangi, ho chiuso gli occhi. Ho avuto pietà per quell'innocente. Colpevoli sono quelli che l'hanno uccisa». E che nel video festeggiano l'avvenuto assassinio inneggiando ai combattenti mujaheddin.
CHI DETTA LEGGE
Storie di paese. Storie di un pezzo di Afghanistan dove l'esistenza scorre esattamente ancora come ai tempi in cui gli studenti del Corano avevano il potere. Perché qui, come in tante altre parti di Afghanistan, i talebani hanno ripreso il controllo e dettano legge. Fawzia Koofi, combattiva deputata del Parlamento di Kabul, piange mentre guarda il filmato. Lamenta il silenzio del governo su episodi come questo, che non sono purtroppo isolati e richiederebbero invece un atteggiamento di «tolleranza zero». «Dobbiamo reagire, non solo come donne, come esseri umani».
Un'indagine di ActionAid rivela che per il 72% delle donne afghane le condizioni di vita femminili sono migliorate rispetto all'epoca in cui comandavano Omar e i suoi mullah. Ma ben l'86% ha paura del futuro e prevede un ritorno all' indietro, soprattutto se la partenza già programmata delle truppe straniere avvenisse in una situazione di caos istituzionale. Al vertice Nato di Chicago, in maggio, si è parlato in generale dei problemi della sicurezza e della riorganizzazione sociale e civile in rapporto al prossimo ritiro dei contingenti alleati, ma nulla è stato detto in specifico per quanto riguarda le donne. Allo stesso modo, sottolinea Guhramaana Kakar, consigliera presidenziale, le questioni femminili vengono del tutto ignorate nei negoziati in corso fra rappresentanti del governo e emissari talebani.
Secondo Selay Ghaffar, direttrice di Hawca, associazione afghana per la tutela di donne e bambini, dopo i progressi realizzati nei primi anni successivi alla caduta del regime teocratico, c'è stata ura progressiva involuzione. «A partire dal 2007 dice sono cresciute insicurezza e discriminazione». In perfetta coincidenza temporale con la ripresa del movimento talebano. Forte delusione ha suscitato nelle organizzazioni progressiste l'avallo di Karzai al codice di condotta femminile formulato quattro mesi fa dal Consiglio degli Ulema, massima autorità religiosa nazionale. Fra le regole enunciate, la necessità che la donna viaggi in compagnia di un tutore maschio e che eviti contatti con estranei nei luoghi pubblici, siano essi l'ufficio, la scuola, il mercato.
La Stampa 9.7.12
Il giallo della fuga di Tlass “Nessuna diserzione è stato cacciato da Assad”
Il generale ormai inviso al regime era agli arresti domiciliari
di Francesca Paci
Le amicizie A sinistra, Manaf Tlass con Bashar al Assad Sopra, è con alcuni amici francesi: l’uomo a capotavola è Therry Meyssan, esponente del partito radicale di sinistra francese e autore di un libro «complottista» sull’11 settembre
A confrontare le foto di Bashar Assad e del suo ex amico Manaf Tlas sembra di vedere la rappresentazione iconografica del male contrapposta a quella del bene. Tanto il presidente siriano appare spigoloso e scostante quanto l’altro, il generale disertore, risulta morbido, amabile, un Che mediorientale consapevole del proprio fascino al punto da rendere più che credibile il conoscente che racconta d’averlo visto flirtare alla toilette d’un ristorante trendy di Damasco con la bella commensale seduta fino a poco prima allo stesso tavolo di sua moglie.
Mentre l’inviato dell’Onu Kofi Annan incontra Assad nel tentativo estremo di riesumare l’ormai esangue piano di pace, la defezione «anomala» del più fido graduato del regime alimenta dietrologie e vaticini. L’ultimo ad aver parlato con lui sarebbe l’attivista e collaboratore della Cnn Omar al Muqtad che giovedì notte, a poche ore dalla sua scomparsa, avrebbe raccolto via Skype il racconto della fuga in Turchia determinata dallo sdegno «per la brutalità del governo» e agevolata dalla brigata del Libero Esercito Siriano Maher Noaimi.
«I media occidentali cercavano un disertore d’alto livello e l’hanno trovato», scrive su Al-Akhbar l’analista As’ad AbuKhalil. Resta da capire se, al di là della reazione del regime che additerà «il traditore» denunciandone la corruzione, il coup de théâtre del generale, seguito da cotanto battage, sia frutto di sincero disgusto per la repressione, se sia stato concertato con un Paese straniero (la Francia?) o sia una pensata di Damasco per fornire alla transizione un volto accettabile all’estero ma garante del sistema e dei suoi segreti.
«Tlasss voleva scappare da mesi, stava cercando il luogo migliore in cui trasferire i soldi e la collezione paterna di spade dell’Imam Ali quando il mukabarat ha stretto la corda e lui ha dovuto accelerare», rivela un amico al quotidiano libanese The Daily Star. Un altro ricostruisce a La Stampa i suoi ultimi mesi: «Si sapeva che era stato messo da parte perché aveva rifiutato di eseguire un ordine durante l’assedio di Homs. Non si vedeva più in giro ed era strano per uno come lui, un compagnone con la battuta sempre pronta, un frequentatore di discoclub come il Marmar, un amante dei sigari, del pesce, del vino Tignanello, un ospite eccellente che apriva volentieri agli amici la sua casa di montagna scavata in una specie di grotta a Bloudan».
Sebbene salutata come «un buon segnale» dall’attivista di Damasco Amer al Sadeq, la fuga del Che mediorientale lascia l’opposizione contrastata. Fidarsi del pentimento tardivo del vecchio compagno d’armi di Bassel Assad (con cui condivideva la passione per le auto) passato poi al sodalizio con Bashar? Utilizzarlo come soft power contro l’hard power del regime che dopo aver denunciato gli Usa come «parte attiva nel conflitto» ha mostrato i muscoli producendosi in massicce esercitazioni della marina militare ?
«Non aveva scelta, il presidente non gli aveva perdonato d’aver partecipato al funerale di un suo servitore nella natia Rastan trasformatosi in protesta antigovernativa: Maher Assad l’aveva quasi messo agli arresti domiciliari», ricostruisce una fonte di Damasco. Il sospetto diffuso è che i Tlass, facoltosa famiglia sunnita (la sorella di Manaf, Nahed, sfoggia un collier della regina Zenobia) vogliano assicurarsi un ruolo nella futura Siria obliando la memoria del padre Moustafa, ex ministro della difesa e braccio destro di Hafez nel massacro di Hama 1982. Il bel generale, meno inviso ai siriani del fratello
Firas passato ai ribelli dopo una vita a far business con l’esercito, potrebbe garantire una rottura nella continuità quantomeno ideologica col regime, vantando credenziali antisraeliane (e antisemite?) grazie ai contatti con la destra francese di Frédéric Chatillon e all’amicizia con Thierry Meyssan (autore dell’Effroyable Imposture) e con l’antimperialista, antigay e antigiudaista Alain Soral. Risentiremo parlare presto di Manaf Tlass.
La Stampa 9.7.12
Timbuctu, la città santa non piace ad Al Qaeda
I suoi mausolei simbolo di un islam tollerante sono oggi minacciati dai Tuareg integralisti
di Marco Aime
Era già successo nel marzo del 2001, quando i talebani dell’Afghanistan distrussero le statue dei Buddha di Bamiyan, importanti testimonianze artistico religiose risalenti al V secolo. Questa volta tocca a Timbuctu, millenaria città sahariana, antico crocevia di commerci e di culture, mitizzata dagli europei e venerata come santa dai musulmani. «La città dei 333 santi» recita uno slogan divenuto ormai noto, che ricorda le numerose tombe di uomini pii, che costellano la città. Ora a quel numero più che perfetto, ne mancano almeno tre: Sidi Mahmoud, già profanato e parzialmente bruciato nel maggio scorso, Sidi Moctar e Alpha Moya. I tuareg della formazione integralista chiamata Ansar Dine (contro l’Occidente), vicina e alleata del gruppo terrorista Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) hanno infatti distrutto tre storici mausolei al grido di Allah aqbar! Sanda Ould Boumama, portavoce del gruppo, dopo aver annunciato altre distruzioni, ha dichiarato che costruire tombe è contrario all’Islam e pertanto proibito. Musulmani che si scagliano contro simboli della loro stessa religione. La cosa può apparire paradossale, ma per questi fondamentalisti, addestrati militarmente nella Libia di Gheddafi, ma versati a un’interpretazione presuntamente integrale, falsamente ortodossa del Corano, l’islam di Timbuctu non è autentico.
Nonostante lo storico tunisino asSadi scrivesse nel 1667 che «Timbuctu è una città il cui suolo non è mai stato toccato dagli idoli», l’islam praticato fin dall’antichità in questa città di commercianti (e pertanto aperta) è sempre stato improntato alla massima tolleranza. Al punto che il grande viaggiatore del XIII secolo Ibn Battuta, nel lasciare la città manifestava il suo disgusto, scrivendo: «Se a Timbuctu c’è l’islam, non è un islam puro». Parole che sette secoli dopo, sembrerebbero essere condivise dai fanatici di Ansar Dine.
«Gli arabi si aspettano una città islamizzata, pura, santa, le donne velate e nascoste», mi raccontava un giorno Ismaël Haidara, storico tombouctien e scrittore di fama, «poi vengono qui e scoprono che non è così. Al fiume ci sono le donne che lavano a seno nudo e questo per loro è terribile. Qui le donne hanno sempre praticato il commercio. La costruzione della moschea di Sankoré è stata finanziata da una donna! Per gli arabi questa è terra di animismo. Non si vuole accettare che questa è una città borghese con forti influenze mediterranee».
I primi cronisti e tradizionalisti ci hanno trasmesso l’immagine dominante dell’origine musulmana della città, che appare così islamizzata «da sempre». Il fatto che la costruzione della moschea di Djinguereber risalga a due secoli dopo la fondazione della città e che quella di Sankoré sia ancora posteriore, contraddice però l’ipotesi che l’islam fosse un elemento fondamentale nella Timbuctu delle origini, che peraltro era una città tuareg e, come molti altri popoli della regione, i tuareg non sono mai stati musulmani ortodossi.
Spesso le élite dei dominanti abbracciavano l’islam per ragioni politiche. Sebbene la sua diffusione fosse avvenuta in tempi rapidissimi, il verbo del profeta non ebbe vita facile nei villaggi saheliani. Ad aderire alla nuova religione furono infatti le aristocrazie guerriere e i commercianti, nei quali destarono sicuramente interesse anche l’arte della contabilità e della scrittura che i mercanti islamici contribuivano a diffondere assieme al culto di Allah. A Timbuctu l’arabo è la lingua del triangolo del potere: palazzo, moschea, mercato. Nella strada, infatti, si parla songhay o tamashek.
Tra le masse contadine dei villaggi continuavano a resistere le religioni tradizionali. Al-Bakri, cronista arabo del secolo XI riporta che a quel tempo nell’impero del Mali la maggior parte della popolazione era dedita a culti idolatri. In ogni caso, anche se i re e i loro apparati di governo si erano islamizzati, i principi del potere reale rimanevano di tipo tradizionale. Sarà solo nel secolo XIV che le scuole coraniche inizieranno a diffondersi capillarmente sul territorio e ad avviare un’opera di alfabetizzazione religiosa. A Timbuctu l’islam è sempre stato una presenza forte, ma mai portata ai livelli descritti dai cronisti e a partire dal secolo XVIII in tutta l’Africa occidentale è l’islam sufista delle confraternite a diffondersi davvero tra le classi popolari. Erigere una statua o qualunque altro monumento ha sempre un forte significato politico e simbolico. Produrre segni nello spazio implica inevitabilmente una manipolazione dell’ambiente e i monumenti sono espedienti concettuali, impiegati dalle diverse società per offrire un’immagine di sé in termini di stabilità e di durata temporale. È contro questi segni, testimoni di una grande tolleranza religiosa, che si scaglia la furia iconoclasta di Ansar Dine. Quell’antica apertura alla diversità, che ha fatto di Timbuctu «il Brasile del Mali», dà loro fastidio, è troppo moderna, troppo luminosa per la loro cecità.
Corriere 9.7.12
Cina e Vaticano, volontà di dialogo: i toni duri sono una facciata
di Alberto Melloni
La politica cinese è per vocazione globale. Per chiamarsi «il Paese di mezzo» bisogna aver coscienza delle distanze, del come tenerle e del come traversarle. È in questa visione globale che la Cina legge le chiese, da sempre. Oggi ne fa parte la solenne visita del metropolita Hilarion di Volokolamsk a Pechino: un gesto facilitato dal fatto che la Russia coordina le visioni del mondo politiche e spirituali in un modo che l'Europa non vuole e l'Italia non sa praticare. Su questo orizzonte c'è l'Africa nella quale l'ambizione cinese di essere un partner globale è già oggetto di studio per gli storici del cristianesimo.
Perciò sarebbe sbagliato isolare la tensione esplosa fra Cina e Vaticano in questi giorni (in concomitanza con la visita del ministro Ornaghi a Pechino), fermandosi ai toni duri e amarissimi dei due comunicati contrapposti. Nel suo Propaganda Fide ha stigmatizzato l'annuncio di nuove consacrazioni illecite, ha deplorato le divisioni che innesca e ha spiegato che Yue Fusheng, futuro vescovo di Harbin, «è stato informato da tempo» del fatto che la sua ordinazione non sarà riconosciuta. Il che vuol dire che ciò che accade è il frutto d'una fiducia insufficiente o non corrisposta.
Dal canto suo il Sara, cioè l'Amministrazione statale per gli affari religiosi, ha replicato ribadendo che Yue Fusheng e Ma Daqin saranno ordinati ad Harbin e Shanghai, ha rivendicato il ruolo dei 190 vescovi ordinati senza mandato papale e ha comunicato che questa pratica (audacemente definita come una espressione di «libertà religiosa») continuerà, ma solo «fino al raggiungimento dell'accordo fra le due parti». Il che vuol dire che l'obiettivo è quello (grazie a Dio) di raggiungere un accordo.
Come ai tempi dell'Ostpolitik, il tono della voce non decide mai un dialogo fra sordi, se si intravede un tessuto di obiettivi condivisi, a dispetto dei teorici di un bellum perpetuum, che non sono rari, ma nemmeno egemoni, ad entrambe le estremità di questo filo di seta.
Corriere 9.7.12
Le 36 milionarie cinesi che cercano marito online
Trentasei donne, cinesi, single e soprattutto ricche, alla ricerca di altrettanti mariti. Una caccia all'uomo, è proprio il caso di dirlo, è stata lanciata attraverso il sito di incontri 51Taonan.com (a sinistra). Da nord a sud, dalle campagne del Sichuan alle metropoli come Shanghai. «Credo sia la prima volta», ha spiegato al Daily Telegraph Johnny Du, amministratore delegato dell'azienda che gestisce il sito. La disparità demografica tra uomini e donne in Cina è diventata un problema che anche l'autorità centrale sta cercando di risolvere: nel Paese si contano 180 milioni di single. Numeri che hanno fatto proliferare il mercato degli incontri online. Quanto alle donne milionarie in cerca della dolce metà il percorso non è semplice. «Si tratta di persone sempre molto impegnate», continua Johnny Du, «non hanno molto tempo per gli incontri galanti». Non solo. «C'è anche un pregiudizio maschile sulle donne di successo e questo le porta ad essere sole». Allo stesso tempo, però, «queste donne cercano in un uomo alti standard», il che complica ancora di più la vita. Insomma, i soldi, qui, non bastano.
Repubblica 9.7.12
Piccole lezioni di filosofia fiscale
Due saggi, di Sloterdijk e Massarenti, sono dedicati a tasse e tangenti
di Maurizio Ferraris
Due cose sono inevitabili, la morte e le tasse, diceva Benjamin Franklin. Due filosofi, Armando Massarenti e Peter Sloterdijk si stanno impegnando, in modi complementari e con un concreto impegno civile, a rendere facoltative almeno le seconde. In La mano che prende, la mano che dà (Raffaello Cortina) Sloterdijk sostiene che la tassa come imposizione statale, mai giustificata sino in fondo, e soprattutto che finisce strutturalmente per gravare e sulla parte produttiva della società, può essere sostituita (con un processo anche molto lungo) da una tassa come libera donazione dei più ricchi, che riceverebbero dei vantaggi simbolici e che non subirebbero significativi cambiamenti del tenore di vita. Persino in Germania, dove i giornali sono venduti in teche in cui le persone depongono la somma esatta senza che nessuno controlli, la proposta è apparsa irrealistica non solo agli occhi del senso comune, ma anche di filosofi, per esempio Axel Honneth, ultimo esponente della teoria critica di Francoforte. Il che però ha consentito una ritorsione a Sloterdijk: se (con la scuola di Francoforte) siamo disposti ad ammettere che non c’è solo un agire strumentale, ma c’è anche un agire comunicativo, perché dobbiamo poi ridurci a pensare a un essere umano egoista ed economicista, che paga solo se costretto? Eppure pro- prio questo è il tipo d’uomo presupposto da chi dice che se le tasse diventassero una elargizione volontaria, una regalia, ben pochi le pagherebbero. A questo punto, Sloterdijk si impegna in una antropologia del dono e in una apologia del desiderio e dell’orgoglio come moventi sociali sottovalutati in una visione economicistica. Non è vero che l’uomo agisce solo per interesse, ed è ancor meno vero che gli interessi umani si riducono all’economia. Ma a ben vedere nel discorso di Sloterdijk, per quanto ricco e spiazzante, c’è una impasse di fondo. Non si ha alcuna difficoltà a pensare un miliardario che si rovina per prestigio, ad esempio finanziando una squadra di calcio, ma si ha una qualche difficoltà a pensare che dia dei soldi per una finalità razionale: se il dono è per definizione l’espressione di una economia dello sperpero, non lo si può finalizzare a scopi di economia ristretta. Dall’impasse di Sloterdijk ci tira fuori Massarenti con Perché pagare le tangenti è razionale ma non vi conviene( Guanda). Basandosi sulla teoria dei giochi, Massarenti illustra il meccanismo per cui tutti concordemente scelgono la via razionalmente meno economica (pagare per avere un appalto). In effetti, si tratta di una variante del “dilemma del prigioniero” per cui a due persone accusate di un reato viene offerta separatamente la scelta tra denunciare l’altro e avere la libertà o non denunciarlo e venire liberato dopo un anno di carcerazione preventiva. La scelta razionale sarebbe non denunciarlo, ma Tizio, supponendo che Caio lo denunci, opta per denunciarlo a sua volta, sicché i due si trovano in galera per ben più di un anno. Insomma, non tanto “il massimo bene per il maggior numero di persone” quanto piuttosto “mal comune mezzo gaudio”. Nel caso delle tangenti, poi, i giocatori non sono due, ma un numero indefinito, dunque si tratta di prevedere il comportamento di una massa indistinta di persone. E soprattutto le trattative sono occulte, per cui non si può introdurre il correttivo, che invece la teoria dei giochi contempla nel caso di trattative palesi, per cui il free rider, quello che non sta al gioco, viene emarginato, sicché appare alla lunga più conveniente rispettare i patti. Qual è il risultato di questa situazione? Un fenomeno sorprendente, e cioè che i concussi pagano le tangenti senza che nessuno gliele chieda, secondo un tariffario preciso, con una oblatività volontaria e libera. Bene, facciamoci caso: la realtà delle tangenti in Italia, così come viene analizzata da Massarenti, non è forse la realizzazione, sia pure perversa e illegale, della proposta tedesca o lunare di Sloterdijk? Dei ricchi pagano le tasse senza che nessuno gliele chieda. Nel farlo, ci rimettono economicamente (perché in teoria guadagnerebbero di più non pagando le tangenti), non alimentano un apparato statale pesante e costoso ma solo alcuni motivati furfanti, e – con un tocco sublime – agiscono con una mirabile modestia, senza farlo sapere in giro, diversamente dai ricchi vanitosi di Sloterdijk. Il cammino che da Gomorraporta a L’etica protestante e lo spirito del capitalismoè certo lungo e tortuoso, ma non è detto che col tempo non si possa percorrere.
Corriere 9.7.12
Lotte di potere e profitto: così Shakespeare anticipò Marx
di Sergio Perosa
Nell'ampio volume Shakespeare filosofo dell'essere (Mimesis), che presenta da una prospettiva singolare tutti i drammi di Shakespeare, Franco Ricordi, studioso, uomo di teatro e regista, ne fa un grande filosofo: non sistematico, ma nella concretezza teatrale.
La filosofia, intesa come domanda sull'essere e sul non essere, è vissuta nella drammaturgia; parla il linguaggio del teatro, che è specchio e metafora del mondo. Al tempo stesso, o per questo, Shakespeare è epicentro e ispiratore della cultura occidentale; ha rapporti con tutti e tutti strega: illuministi e romantici, Wagner e Verdi, Marx (che vi trova espressa la legge del tornaconto e del profitto) e Freud (che vi trova le basi stesse della psicanalisi). L'articolazione data ai drammi di Shakespeare, pur suggerendo il senso dei rapporti cronologici fra loro, è geografica, a seconda dei Paesi in cui sono ambientati o a cui sono riferiti. In quelli in rapporto con la Grecia (Troilo e Criseide fra tutti), il drammaturgo rintraccia i fondamenti del teatro là dove nasce la filosofia, l'efferatezza e l'inganno, il senso di ansia, il metateatro e quello che Ricordi chiama il «nichilismo spettacolare» che sarà tipico dei nostri tempi.
In quelli romani, il senso della Storia è motore del discorso politico-religioso, sul potere e sul delitto, ma il suo meccanismo è antifilosofico, succube piuttosto del Destino e delle casualità. Segna il crollo degli ideali e la constatazione pessimistica del proprio fallimento: non si può migliorare il mondo, solo tentare di salvarlo. L'Italia e il Mediterraneo di molti altri drammi sono la culla dell'amore romantico e tragico (Romeo e Giulietta per tutti); vi si mescolano fantasia e realtà, fiaba e conflitti, crisi di identità e angoscia. In quelli di storia britannica (compreso Macbeth) predominano la Storia come azione e distruzione ed il rovesciamento dei valori: significativamente, la sessualità pervade la lotta per il potere e i testi stessi. Il momento massimo e cruciale è in quelli — come Amleto e Misura per misura — legati a una sorta di Mitteleuropa, che preludono alla crisi della filosofia fra '800 e '900 e alla «calamità attraente» dell'attuale cultura occidentale.
Da ultimo, drammi come Re Lear e i «romances», Cymbeline e La tempesta, slegati da strette rispondenze geografiche (benché l'ultimo mostri una premonizione dell'America), sono visti come esempi di un Teatro Universale in cui la «filosofia del naufragio» è percorsa da un modernissimo senso di inquietudine e incombente catastrofe, di crisi di identità — quel «io non sono quel che sono» che distingue e ispira i momenti più alti della drammaturgia di Shakespeare. Lì «il Tempo è drammaturgo del mondo» e trionfa il suddetto nichilismo spettacolare. Lì il teatro diventa esibizione di sé, autoriflessivo, ma anche teatro del corpo e dell'assurdo, del perdono e della redenzione.
Ricco di motivi, riflessioni e spunti, appassionato e traboccante di gusto teatrale, il libro ha belle e pungenti analisi dei singoli drammi, prolungate letture da regista-attore. In forma sincretica, ne tracciano un'ampia e convincente campitura. Ci lasciano con uno Shakespeare campione del teatro-mondo e della speculazione filosofica calata ed esaltata sulle scene.
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Il libro: Franco Ricordi, «Shakespeare filosofo dell'essere», Mimesis Edizioni, prefazione di Emanuele Severino, pagine 518, 28
La Stampa 9.7.12
Il Maestro e la musica
Antonioni? Un sadico Parola di Pink Floyd
“Carnefice con decine di musicisti”: un libro ricostruisce le strategie del regista per arrivare alla colonna sonora ideale
di Sandro Cappelletto
Violinista mancato «Antonioni e la musica»: è il titolo del libro uscito per Marsilio scritto da Roberto Calabretto e dedicato al regista (foto) scomparso nel 2007 Amore di gruppo nel deserto Per creare la musica di questa famosa scena del film Zabriskie Point Michelangelo Antonioni scelse Jerry Garcia: gliela fece rivedere per un tempo interminabile, senza pause, costringendolo a suonare. Furono le immagini a “creare” la musica In cerca di perfezione I Pink Floyd collaborarono nel Settanta con Antonioni: «Lavorare con lui era l’inferno, bello e buono! Mancava sempre qualcosa per raggiungere la perfezione» Passione di una vita Il chitarrista Jerry Garcia, dei Grateful Dead, compose per «Zabriskie Point». Per Antonioni «la musica era un amore perduto. Un vuoto. Un amore mai dimenticato»
This Antonioni creature is not normal. He is a sadist». Per John Fahey, chitarrista e compositore statunitense, Michelangelo Antonioni era un sadico. L’opinione dei Pink Floyd, chiamati a scrivere la colonna sonora di Zabriskie Point, non è diversa: «Troppo triste, troppo forte, c’era sempre qualcosa nei nostri pezzi che mancava per raggiungere la perfezione. Lavorare con lui era l’inferno, bello e buono! ». Ed ecco il terzo indizio, lampante, che raggiunge la forza di una prova: «Prima ancora che gli strumentisti abbiano eseguito le batutte iniziali, lui, seduto in cabina accanto al tecnico, fa vibrare l’interfono e, con voce irritata, a tratti afflitta, esclama: “Giovanni, non si può fare a meno di questo strumento? E questo brano, perché non lo eliminiamo? ”. Nei confronti della musica, si comporta come un uomo che odia una donna perché la ama troppo». Parole di Giovanni Fusco, che soffrì con lui per sette colonne sonore, da Cronaca di un amore aL’eclisse.
Il libro, appena uscito per Marsilio, che Roberto Calabretto dedica a Antonioni e la musica (20 euro, 206 pagine), è montato come un racconto giallo: stabilito che il carnefice di decine di musicisti è lui, quale strategia aveva in mente, per costruire la sua colonna sonora ideale?
«La musica è un amore perduto. Un amore che non ho dimenticato. Da bambino non me ne rendevo conto, ma con il passare degli anni ho sentito molto il vuoto che aveva creato in me la rinuncia a quel mezzo di espressione», dice di sé il regista, nato a Ferrara nel 1912 e scomparso a Roma nel 2007. Non sopportava di veder ridotta la musica a commento, a riempitivo, a un effetto cui ricorrere per aumentare il riverbero di una situazione emotiva del film. Non la riteneva una serva delle immagini, distanziandosi in questo dalla persuasione dominante e condivisa anche da Ennio Morricone, per il quale invece «la prima qualità di un compositore di colonne sonore è porsi al servizio del regista».
Nel 1964 per Deserto rosso Antonioni ed è il primo a farlo chiede a Vittorio Gelmetti una colonna sonora di effetti elettronici, una «trasfigurazione dei rumori reali», la sola compatibile con lo smarrimento dei protagonisti e con la loro percezione della «realtà»: i suoni e i rumori della vita esistono in quanto e nel modo in cui i personaggi li ascoltano. La meta è chiara, e Antonioni la raggiunge per tappe progressive: «Fino a quando la musica può essere scissa dal film per essere incisa in un disco che abbia una sua validità autonoma, allora devo dire che quella musica non è musica per il cinema».
Gli darebbero molto fastidio i concerti di «colonne sonore» diventati oggi abituali e frequentatissimi, con o senza la proiezione delle immagini del film, o perfino, come ha recentemente fatto Nanni Moretti con i prediletti Franco Piersanti e Nicola Piovani, con parole, quelle dei dialoghi e della sceneggiatura. Calabretto evidenzia la sempre maggiore presenza nei film di una musica «diegetica», cioè intrinseca alla narrazione e al suo sviluppo (l’autore si innamora di questo termine caro agli studiosi di semiotica): e dunque spazio ai complessi pop e rock che suonano, ai musicisti ambulanti, a radio, giradischi, juke-box che irrompono nell’azione.
E quale musica scegliere per la scena d’amore di gruppo nel deserto, come far «suonare» queste immagini di Zabriskie Point (1970)?: «... Mark e Daria si rotolano lungo un pendio, abbracciati... Altri due, inginocchiati, scattano come gatti, sullo sfondo un gruppo di quattro... e poi tre donne strette assieme, due uomini, gambe, braccia, corpi che, a furia di rotolarsi, hanno lo stesso colore della polvere»? Antonioni sceglie il chitarrista Jerry Garcia; lo chiude negli studi della MGM, dove la scena viene proiettata di continuo, senza una pausa e Garcia suona e suona mentre guarda la pellicola: furono le immagini a «creare» la musica.
Il libro raggiunge i momenti più alti quando il racconto procede associando sceneggiatura, partitura, immagini: «La macchina da presa inquadra la stanza con la finestra in fondo e poi impercettibilmente si avvicina all’inferriata. Una voce lontana chiama: “Miguel, viene aqui”. Rumori di uccellini. Il vecchio chiama un cane che gli gironzola intorno. Fischio di un treno in lontananza. Voci di uomini... ». È l’ineguagliata sequenza finale di Professione reporter (1974), che rappresenta, scrive l’autore, «il risultato finale della sua poetica sonora: esautorare la musica da qualsiasi commento pleonastico, esaltando i rumori che qui diventano la vera musica cinematografica».
Il violinista mancato Michelangelo Antonioni amava troppo la musica per violentarla, come tanti registi di cinema, teatro e televisione ancora abusano fare.
Corriere 9.7.12
Limite etico ai ritocchi? l'esempio degli antichi
di Eva Cantarella
Sono problemi davvero molto seri quelli sollevati dal parere del Comitato nazionale di bioetica (Cnb) sui limiti della chirurgia estetica e ricostruttiva. Che siano inaccettabili gli interventi «sproporzionati, in quanto eccessivamente invasivi o inutilmente rischiosi e inadeguati rispetto ai possibili benefici richiesti dal paziente, ovvero che si traducono in una sorta di accanimento estetico o in mero sfruttamento del corpo» è cosa difficile da mettere in discussione. Ma, ciò premesso, è tutt'altro che facile individuare, nella infinita varietà dei casi individuali, quali siano le situazioni in cui questi confini vengono valicati. Come stabilire quando una richiesta di chirurgia estetica è «strettamente terapeutica» e quando non lo è? I concetti di salute e bellezza variano, oltre che di luogo in luogo, di cultura in cultura e di momento in momento. Un tempo, la bellezza andava di pari passo con il valore. Un eroe, in Grecia, era tale solo se era bello (kalos). Ma se non era anche valoroso (agathos), la bellezza, in lui, diventava un disvalore: come nel caso di Paride, bello e vile. La sua bellezza era un inganno. Oggi essere belli non è meno importante di allora, ma lo è in modo radicalmente diverso: quanto vale oggi esserlo, e perché? Il rapporto con il proprio corpo è complesso, è anche rapporto con la propria psiche, è rapporto con il proprio ruolo professionale, è rapporto con la propria immagine sociale. La sua diversità di caso in caso è tale da impedire la statuizione di «regole» che non siano da un canto quelle della responsabilità individuale del paziente (alla quale si deve lasciare il doveroso spazio) e dall'altro quelle dell'etica professionale del medico. I criteri di cui la nota del Cnb richiama l'osservanza sono criteri deontologici di cui sarebbe bello non fosse necessario dover ricordare l'esistenza. Il fatto che il Cnb senta il bisogno di farlo fa pensare che, purtroppo, questa necessità esista. Eppure sono criteri che, se violati, dovrebbero essere oggetto di una severa valutazione e sanzione da parte degli ordini professionali (sempre che non valichino i confini del diritto). Personalmente, leggerei la nota del Cnb soprattutto come un auspicio e un importante invito in questa direzione.