il manifesto 8.7.12
Nessuna svolta per Heidegger
Un saggio eloquente sfata il mito che ha nutrito le favole postmoderne
«Heidegger, l’introduzione al nazismo nella filosofia» di Emmanuel Faye
di Maurizio Ferraris
Equilibrismi ermeneutici per tenere separati nazismo e razzismo
«C’era una svolta». Così per noi, studenti di filosofia negli anni Settanta del secolo scorso, incominciava la favola di Heidegger. Raccontava di un filosofo che dopo essere stato il padre dell’esistenzialismo, a un certo punto, negli anni Trenta o subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, con una svolta (Kehre) speculativa, si sarebbe «posto all’ascolto del linguaggio e dell’essere», avrebbe inventato una nuova ontologia basata sulla passività. La fiaba racchiudeva, in un involucro mitico, una allusione al rapporto di Heidegger con il nazismo, ma questo lo abbiamo capito solo tempo dopo.
Sulla fine degli anni Ottanta se ne seppe molto di più, in senso non mitico, attraverso due libri, di Victor Farias e di Hugo Ott. Qui si apprendeva che Heidegger non era stato nazista occasionalmente e per ingenuità, durante il breve periodo del rettorato nel 1933, ma era stato precocemente antisemita, e poi organicamente nazista, sino alla fine della guerra, e dopo non aveva mai ammesso le proprie colpe, impegnandosi piuttosto nella stesura di testi di autodifesa che erano stati presi per oro colato dai suoi esegeti. La svolta, in parole povere, veniva a significare: prima una filosofia dell’impegno e dell’urto, della comunità nazionale; poi, dopo la guerra, una filosofia dell’abbandono e della pazienza (Abbandono, uno dei testi chiave della svolta, è stato scritto nel 1944, dopo una conversazione con Ernst Jünger in cui Heidegger capì che la guerra era perduta).
È in questo clima di nuova consapevolezza che, nel 1944, uscì Heidegger e il suo tempo di Rüdiger Safranski, il cui titolo in italiano è anodino, mentre nell’originale tedesco (così come in molte traduzioni in altre lingue) è ben più eloquente, ossia Un maestro tedesco, con riferimento ai versi di Fuga di morte di Paul Celan: «la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro ti colpisce con palla di piombo».
Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, il monumentale libro di Emmanuel Faye (la cui edizione ampliata risale al 2007, e che viene ora proposta in italiano dall’Asino d’oro con l’eccellente cura e introduzione di Livia Profeti e una ricca prefazione dell’autore per l’edizione italiana, pp. 544 € 30) compie un ulteriore e decisivo passo in avanti per l’uscita dal mito, mostrandoci come Heidegger non solo fosse personalmente e convintamente nazista, ma come tutta la sua filosofia sia radicalmente inseparabile dal nazismo, e abbia realizzato – come una sorta di Lili Marleen speculativa – la singolare operazione di traghettare nella sinistra postmoderna parole d’ordine, termini e concetti che appartenevano alla visione del mondo nazista.
Come si spiega che il massimo successo di quella che un contemporaneo, Lévinas, definiva «la filosofia dell’hitlerismo» abbia avuto luogo a sinistra e non a destra, e dopo la guerra? L’arcano si svela abbastanza facilmente. Da una parte, parlare nel dopoguerra, a destra e in Germania, di autori nazisti come Heidegger, Jünger, Schmitt (e di un loro riferimento comune, Nietzsche) sembrava implausibile, ne momento in cui la cultura tedesca era, comprensibilmente, interessata a voltare pagina. Diversamente andavano le cose in Francia e in Italia, ed è così che si spiega l'edizione di Nietzsche di Colli e Montanari, come pure il rilancio di Heidegger, prima in Francia (spesso in funzione anti-satriana, a partire dalla Lettera sull'umanismo), poi in Italia. Questo sdoganamento (è il caso di dirlo, visto che comporta un passaggio di frontiere, e poi un ritorno in Germania attraverso la Francia e gli Stati Uniti) suscitava le ironie di un uomo di spirito come Junger, che osservava di aver trovato tutte le sue opere nella biblioteca di Mitterand, ma che del resto c'erano già tutte nella biblioteca di Hitler. Tuttavia, a mio parere, c'è un secondo motivo più determinante. Nel dopoguerra, è come se la sinistra avesse avocato a sé il monopolio del politico. Politica e sinistra erano coestensive, dunque ogni pensatore del politico, fosse pure il giurista di Hitler, come Schmitt, diventava fruibile a sinistra. E quello che l'analisi di Faye ha il merito di illustrare con chiarezza e profondità è l’intima struttura politica del pensiero di Heidegger, che lo rendeva particolarmente riciclabile in un’epoca iper-politica come il Sessantotto. La storia e la decisione sono l’unica realtà (cosa che era in sintonia con quel funesto antirealista che è stato Hitler, ma anche con quegli antirealisti più benintenzionati che proclamavano la necessità della immaginazione al potere), si tratta di combattere l’oggettività in nome della solidarietà, il freddo intellettualismo in nome del radicamento in una comunità di popolo: «Questo interrogare, attraverso cui il nostro popolo sopporta il proprio essere storico, lo patisce nel pericolo, lo conduce sino alla grandezza del suo compito, questo interrogare è il suo filosofare, la sua filosofia».
Un movimentismo filosofico che appare molto evidente nel seminario del ’34 omesso dalla «Opera completa» (che dunque, osserva giustamente Faye, è tale solo di nome) così come in un seminario su Hegel del medesimo periodo, dove l’intento fondamentale di Heidegger è politicizzare in massimo grado l’argomento, per cui, per illustrare la tesi della identità di razionale e reale, decreta che il Trattato di Versailles non è reale. L’insistenza sulla storicità, intesa come quel divenire che può giustificare qualunque cosa, è la chiave di volta del costruzionismo heideggeriano, che si traduce, in sostanza, in un trionfo della volontà di potenza. Quando i postmoderni hanno sostenuto che qualunque tesi e qualunque verità devono essere indicizzate alla loro epoca lo hanno fatto con intenti emancipativi, ma ripetevano l’argomento di Heidegger in difesa del Führerprinzip. Desideroso di trasferirsi a Monaco per stare più vicino a Hitler (come si legge nella corrispondenza con la Blochman), forse almeno in una occasione ghost writer del Führer, Heidegger opera una continua trasposizione del presente nell’eterno, del politico nel metafisico, e viceversa.
E il fatto che nella seconda metà degli anni Trenta i riferimenti politici si diradino non va interpretato come una presa di distanza ma, proprio al contrario, come l’ottemperanza a una direttiva dall’alto. Il Ministero, preoccupato di una università in cui la fedeltà politica sembrava contare più del merito e in cui si improvvisavano corsi iper-politici (è per l’appunto il caso del seminario di Heidegger su Hegel, di cui gli studenti si erano lamentati) aveva chiesto argomenti più accademici. Il che non impedì a Heidegger incresciose allusioni. Come quando, commentando Nietzsche nel 1940, Heidegger si infiammò per l’avanzata dei carri armati di Guderian nella Francia arresa che dimostravano l’indigenza metafisica della patria di Cartesio. O quando, durante l’operazione Barbarossa, l’attacco all’est, scelse di commentare Hölderlin, che racconta il movimento dei tedeschi verso il Danubio e dice che «lo spirito ama la colonia».
Ma l’esempio più clamoroso di cortocircuito tra l’eterno e il presente è la circostanza, segnalata da Faye, per cui il tempio greco di cui Heidegger parla in L’origine dell’opera d’arte sembra sia stato, nelle prime versioni pubbliche della conferenza, lo Zeppelinfeld di Norimberga, allestito in stile classicheggiante (si ispirava all’altare di Pergamo) per accogliere il discorso di Hitler, che evidentemente Heidegger identificava con il divino. Il che – sia detto di passaggio – getta una luce inquietante sulla sua dichiarazione del 1966 secondo cui «ormai solo un Dio ci può salvare». La denazificazione di Heidegger ha avuto tante vie. Anzitutto quella storico-grammaticale, per cui a leggerlo bene, a capirlo e a metterlo in contesto, si scioglierebbero tutti gli equivoci. Così François Fédier, che negli Scritti politici di Heidegger postilla la chiusa della allocuzione del 17 maggio 1933 in cui Heidegger scrive: «Alla nostra grande guida, Adolf Hitler, un Sieg Heil tedesco» con parole che sembrano uno scherzo di cattivo gusto: «Ancora oggi l’espressione ‘Ski Heil’ – senza la minima connotazione politica – viene impiegata, tra sciatori, per augurarsi una buona discesa» (p. 329 della traduzione italiana, Casale Monferrato, Piemme 1998). Ma c’è anche stata – e continua a esserci, per strano che possa apparire – una via mistico-allegorica, che traducendo in modo incomprensibile il gergo heideggeriano produce una denazificazione per confusione. Come ad esempio nel caso del brano riportato più sopra, che è stato reso non trent’anni fa, bensì l’anno scorso, come segue:«Questo interrogare, nel quale il nostro popolo aderge il suo geniturale adessere, ossia lo tiene erto per entro la tentazione e fa sì che esso si erga nell’extraneum della nobiltà del suo incarico, questo interrogare è il suo filosofare, la sua filosofia» (Che cos'è la verità? edizione italiana a cura di Carlo Gotz, Milano, Christian Marinotti edizioni, 2011). Con questa ermeneutica anche gli ordini di un Soderkommando sul fronte orientale possono esser trasformati in poemi simbolisti o in ricette di cucina.
A rompere le uova nel paniere fu però proprio Heidegger, che – come dimostra Faye con analisi rigorose e pazienti – reinserì brani compromettenti nell’edizione delle sue opere che incominciarono a uscire nel 1975, un anno prima della morte.
Malgrado questo Gianni Vattimo, recensendo il libro di Faye (Tuttolibri, 2/6/2012), sostiene che Heidegger era nazista ma non razzista. Vien quantomeno da chiedersi: ammesso e non concesso che si possa dare il caso di un nazista non razzista, non è già abbastanza grave essere stati nazisti e continuare a esserlo, come riconosce Vattimo quando con approvazione osserva che Heidegger non ha voluto essere un filosofo «democratico» (tra virgolette, e ci si chiede perché) e «disciplinatamente atlantico»? A occhio si direbbe che è grave, molto grave. A meno che non ci si ponga sulla stessa lunghezza d'onda di un volume citato da Faye, Revolutionary Saints. Heidegger, Noational Socialism and Antinomian Politics di Christopher Rickey (Pennsylvania, UP 2002), in cui legge: «Per quanto scioccante possa essere questa suggestione per la nostra sensibilità morale, la nostra integrità intellettuale ci obbliga a domandarci se il nazionalsocialismo non rappresenti la risposta autentica alla questione di come dovremmo vivere»
l’Unità 8.7.12
La recensione
La Carta del ’48, altro che Blair. Il libro dei giovani antinuovisti
La strada dei democratici: «Tornare ai princìpi
della Costituzione e alla lezione della Costituente»
«Con le nostre parole» è il pamphlet con cui Matteo Orfini, responsabile Cultura del Pd,
incita la sinistra a uscire dall’angolo, dopo vent’anni di subalternità al pensiero neoconservatore
di Giuseppe Provenzano
Prova a dirlo con parole tue», si dice al bambino smarrito nel maldestro tentativo di ripetere a memoria parole di altri, concetti non suoi. Così la sinistra esausta degli ultimi vent’anni, di fronte alle domande poste dalla crisi, colta in uno stato di «afasia», o appunto a «parlare con le parole degli altri». È Con le nostre parole. Sinistra, democrazia, eguaglianza (il suo pamphlet appena uscito per Editori Riuniti), che Matteo Orfini prova e incita a «uscire dall’angolo», da una «società di individui» che è il «terreno imposto dall’avversario».
Costante è il richiamo al compianto Tony Judt, e tra citazioni di Euripide e di West Wing, si accende la polemica con chi a sinistra «fatica a rovesciare culturalmente le “idee morte”... mettendosi comodamente sulla scia del pensiero dominante». Per Orfini, la sinistra e i suoi protagonisti hanno avuto l’«incancellabile merito storico» di andare al governo, legando il Paese all’Europa, ma non sfuggono a una critica (più o meno aspra) che sfata il mito della «meglio classe dirigente» a cui ispirarsi. In discussione è la qualità di un riformismo – ben oltre la comoda scorciatoia del «riformismo dall’alto» – che non ha saputo risolvere in senso democratico la crisi istituzionale e riaffermare, allora che era tempo buono, un forte modello sociale nello sviluppo. La «Terza via» imboccata, del resto, non faceva autonomamente i conti col mondo che si ammalava, con la regressione del lavoro. E la ripetizione delle sue idee di fondo è ideologia nel senso deteriore del termine, quello dell’irrealtà.
La stagione bersaniana è il terreno della battaglia politica quotidiana di Orfini. Il riconoscimento maggiore è l’aver dato legittimità al pensiero critico auspicato, e il limite più grave, un po’ paradossale, è di essere ancora lontani da un modello di partito davvero democratico, la cui vita interna è occupata da asfissianti equilibri di corrente.
Molte cose andrebbero discusse e chiarite, nel bilancio di vizi e virtù del Pd – coi suoi nodi ancora irrisolti, a partire dall’«appartenenza» internazionale. Però Orfini è netto: il Pd sarebbe dovuto essere «il primo partito della Terza Repubblica», e invece è stato soprattutto l’«ultimo della Seconda». E quale fotografia migliore, dopo il voto delle amministrative? Il nucleo duro della sua riflessione è proprio sulla Seconda Repubblica, che «è la cancrena della Prima», liquidata a sinistra con fallace opportunismo durante gli anni della svolta. Si parla di «ventennio» uno scandalo per quella «meglio classe dirigente» al governo (sempre punita dagli italiani) – e delle storture del suo sistema politico, col «bipolarismo coatto» tuttavia incapace di rappresentare interessi collettivi. È il ruolo mancato della sinistra, delle sue leadership tutte intente a ripetere da vent’anni sempre lo stesso esame di liberalismo da «improbabili giudici», restando subalterne e finendo per soccombere nella sfida col berlusconismo. Incapaci di rovesciare quel «principio fondante» di un’intera stagione: «Non disturbare il conducente... in azienda, al governo, nel partito». Ed è questo che ha allestito la scenografia per il «gran ballo della fine della Repubblica», un’«orgia antipolitica» a cui si presta «una schiera di aspiranti leader, sempre pronti a compiacere il potere economico e mediatico».
«Tornare ai princìpi della Costituzione e alla lezione della Costituente» è la strada indicata per ritrovare le nostre parole. Il richiamo è forse un po’ mitizzato – ma in un panorama di giovani politici che coltivano miti scadenti e scaduti non può essere un difetto. Al fondo, il nesso più stringente è col Dopoguerra, con la ricostruzione di un tessuto civile e democratico nel contesto di un’acutissima questione sociale. In nuove forme, è il tema del nostro tempo. E bisognerà trovare quella prossimità ai bisogni che s’è persa, quelle parole.
La Stampa 8.7.12
“Non si può fare crescita con manovre restrittive”
Fassina (Pd): l’eccitazione post-vertice era infondata
intervista di Amedeo La Mattina
ROMA Stefano Fassina, responsabile Economia del Pd, boccia senza mezzi termini la parte della revisione di spesa pubblica che riguarda i tagli alla sanità e agli enti locali. A suo parere fa parte della stessa ideologia che ispira Angela Merkel e le parole di Jorg Asmussen. «Non c’è niente di nuovo: le affermazioni di Asmussen confermano che l’eccitazione post vertice Ue sulla possibilità di utilizzare le risorse del Fondo salva Stati per ridurre i nostri spead era largamente infondata, purtroppo».
Asmussen sostiene che l’Italia può farcela se incrementa la propria produttività e punta alla crescita .
«Per lui e la Merkel la crescita si fa con le manovre restrittive di finanza pubblica, come la spending review, che ci stanno portando a fondo. È una visione che si sta rivelando irrealistica. In Italia e nell’aerea euro abbiamo problemi di domanda aggregata: se questa non si anima, ci avviteremo in una spirale di recessione e di instabilità di finanza pubblica».
Non salva nulla delle misure varate dal governo?
«La parte che riguarda la sanità e i tagli a Regioni ed enti locali è recessiva quanto lo sarebbe stato l’aumento dell’Iva, è regressiva sul piano sociale, allontana il raggiungimento del pareggio di bilancio, già lontano. Invece c’è tutta la parte curata da Bondi sul funzionamento della macchina amministrativa che non solo sosteniamo ma fa parte delle nostre proposte. Mi riferisco ai standard per l’acquisto di beni e servizi, la riorganizzazione degli uffici territoriali del governo».
Vi accusano di essere prigionieri della Cgil.
«Il Pd è attento alle presone in carne e ossa, alle persone più in difficoltà. I tagli alla sanità e ai servizi regionali e comunali saranno un colpo pesante sulle loro condizioni di vita.«.
Allora sarà battaglia in Parlamento.
«Noi lavoriamo per cambiare il provvedimento e quindi per poterlo votare. L’ipotesi di non votarlo, non lo prendo in considerazione. Spero che il governo voglia ascoltare non tanto il Pd ma la stragrande maggioranza degli italiani già in difficoltà».
Monti ha detto che si possono fare cambiamenti ma solo a saldi invariati
«A saldi invariati significa aggravare le condizione del Paese. Dopodiché, se deve essere a Madrid saldi invariati si intervenga sul settore Difesa cancellando alcuni acquisti: con un F35 in meno teniamo aperto un centinaio di asili nido. E poi introduciamo l’imposta patrimoniale ordinaria sui grandi patrimoni».
l’Unità 8.7.12
I contenuti di una politica della sinistra
risponde Luigi Cancrini
In tema di politica economica finanziaria, è possibile mettere al centro un intervento non liberista e di tipo keynesiano? È possibile introdurre una patrimoniale progressiva e recuperare i capitali finiti all’estero? In tema di politica del lavoro è possibile riconquistare i diritti lesi dai governi Berlusconi e Monti? È possibile realizzare riforme coerenti con il concetto di laicità dello Stato? Quelli citati sono solo alcuni punti fondamentali per chiarire la «piattaforma politica» della Sinistra. O no?
BACCHI P., BONAZZI P., BONFIGLIOLI P., CESARI M., FERRARESI P., FURCHÌ E., MAZZOLI M., SUFFRITTI E..
Le due sinistre devono ricomporsi in un'unica forza politica, ha scritto Tronti giovedì su questo giornale, ma è difficile per me non pensare che le sinistre erano due già al tempo di Karl Kautsky e di Rosa Luxemberg e nel 1921 quando, a Livorno, nacquero il Pci e questo giornale, nel tempo della guerra fredda e in quello della svolta di Occhetto. Il problema di scegliere fra l'impazienza del cambiamento sentito come necessario e improcrastinabile e il tentativo di mediare con l'avversario politico (un tempo dicevamo «di classe») non è per niente semplice e la storia non aiuta a capire chi avesse davvero ragione nelle fasi in cui questo conflitto è stato più forte. Io che ci ho vissuto dentro per tanti anni, oscillando nel tempo fra le due posizioni penso, oggi, che le due sinistre si possono riavvicinare solo se riescono a confrontarsi su un problema alla volta. Sugli armamenti (gli F35) e sull'immigrazione, sulla traduzione in pratica del loro impegno per l'equità e per il rispetto dei diritti di tutti, compresi quelli oggi incredibilmente negati di troppi esseri umani, bambini e adulti, che vivono (e soffrono o muoiono) accanto a noi. Sul «che fare?» di Lenin riportato all'attualità dai problemi che abbiamo, voglio dire, meglio e più che sulle formule e sulle alleanze. Considerando una ricchezza l'esistenza delle diverse sensibilità legate alla storia delle due sinistre.
«Guai pensare che il superamento delle “due sinistre” possa riportare a una vecchia sinistra. L’orizzonte della battaglia è democratico: dei valori e del radicamento sociale della sinistra devono farsi carico anche i cattolici»
l’Unità 8.7.12
Il bisogno di sinistra
di Claudio Sardo
COSÌ NON VA. LA MANOVRA DEL GOVERNO MONTI DOVRÀ ESSERE CORRETTA IN PARLAMENTO, ALTRIMENTI IL SUO COSTO SOCIALE RISCHIA DI DIVENTARE INSOSTENIBILE: per il taglio dei servizi che penalizza le famiglie e i ceti più deboli, per l’ulteriore spinta recessiva che induce all’economia già depressa. È soprattutto sulla Sanità, sulle Regioni, sui Comuni che si abbatte la mannaia, seguendo purtroppo la filosofia tremontiana dei tagli lineari assai più che l’annunciato proposito di una spending review capace di selezionare ed eliminare gli sprechi.
La più pericolosa continuità con il governo Berlusconi sta proprio nell’accanimento con il quale si colpiscono le amministrazioni locali, e in special modo quelle più virtuose, che potrebbero fornire un contributo alla ripresa con tanti piccoli e medi investimenti e che invece vengono bloccate da tagli ormai indiscriminati ai trasferimenti e dai vincoli tafazziani del patto di stabilità. Sottrarre un altro miliardo al Fondo sanitario nazionale, dopo aver tagliato almeno 14 miliardi in quattro anni, e senza aver ancora definito i costi standard delle prestazioni, vuol dire incidere sulla carne viva del Paese e spingere settori del ceto medio verso la povertà.
Aggiungere altri 500 milioni di tagli ai trasferimenti verso i Comuni nell’ultimo quadrimestre del 2012, mentre lo Stato trattiene per sè la quota maggiore dell’Imu, vuol dire eliminare di netto servizi ai cittadini, dall’assistenza ai nidi, dai trasporti alla manutenzione delle città. E, come già è accaduto in passato, i tagli lineari contengono l’annuncio di oneri ancora più gravosi per gli anni successivi: così anche Monti ha seguito la strada di caricare il governo che verrà nel 2013 di autentici macigni, dall’aumento dell’Iva (slittato di un anno) ad ulteriori, già promessi all’Europa, tagli dei servizi sociali.
Certo, la manovra è necessaria per evitare che due punti di Iva soffochino tutto e subito. E va detto anche che nel decreto ci sono interventi positivi di risparmio e buoni propositi. La razionalizzazione degli uffici giudiziari, con la sforbiciata ai piccoli tribunali, può aiutare a migliorare l’amministrazione della giustizia. L’accorpamento delle Province più piccole può favorire una razionalizzazione dei governi territoriali: ci auguriamo che segua una capacità dei piccoli Comuni di realizzare sinergie nella gestione dei servizi e, perché no?, anche un accorpamento delle Regioni più piccole. Le pubbliche amministrazioni pesano per oltre il 50% del Pil: ridurre questo carico è una delle imprese politicamente più importanti. Ma non è vero che basta «tagliare» per meritare una medaglia, come sostengono i sacerdoti del liberismo. Non è vero neppure che il taglio è di per sé meno recessivo di qualunque aumento delle tasse. Il punto è scegliere il come, il dove, il quanto.
Non serve tagliare per tagliare. Le riforme sono meglio dei tagli. Non a caso nei settori in cui il governo era più preparato le misure di questo decreto sono state migliori. Dove invece ha prevalso il bisogno di fare cassa, il viceministro Grilli ha operato seguendo il fallimentare criterio del suo amico e predecessore Tremonti. Ora non sarà facile correggere il tiro. Dopo anni in cui si parla di federalismo, e dopo una gestione del centrodestra segnata dal più radicale centralismo, ancora non sono stati definiti i costi standard, criterio indispensabile per ottenere migliore gestione e maggiore uguaglianza nelle prestazioni. Il tempo della conversione del decreto forse non basterà per arrivare a un risultato soddisfacente.
La fase di emergenza è un limite, un giogo. Ma è anche il tempo di una battaglia politica e sociale, che da un lato deve risollevare l’onore dell’Italia in Europa dopo l’umiliazione dei governi Berlusconi, dall’altro deve preparare il confronto alle elezioni del 2013 tra due alternative programmatiche. Del resto, è chiaro che non c’è una bacchetta magica: anche gli effetti positivi dell’ultimo Consiglio europeo si sono troppo presto diradati e la prossima riunione dell’Eurogruppo si annuncia difficile e incerta.
I tagli vanno corretti, gli interventi calibrati su una maggiore equità sociale, la stessa maggiore credibilità europea del governo Monti va utilizzata per favorire finalmente misure per la crescita. La spesa pubblica non è cattiva, come dicono i liberisti. La spesa pubblica è necessaria per garantire i diritti e per regolare il mercato. Bisogna renderla più efficiente. Bisogna porla al servizio di una governance più intelligente, più lungimirante, meno condizionata da corporativismi e poteri forti. Occorre ridurre la spesa corrente e aumentare la spesa per investimenti. Ma al fondo, come ha scritto nei giorni scorsi Massimo D’Antoni, occorre costruire una nuova idea di pubblico. Sta qui il fronte decisivo della battaglia contro quel liberismo, che ci ha fatto sprofondare nella crisi e ha imposto il paradigma individualista: può esistere invece un pubblico efficiente e utile ad uno sviluppo equilibrato, ad un rinnovamento del modello sociale europeo, ad una tutela dei diritti. Un pubblico che non concida con la dimensione dello Stato. Ma un pubblico forte, capace di sanzionare il mercato, talvolta anche di competere in prima persona (guai a privatizzare le aziende pubbliche più efficienti e tenere i carrozzoni che nessuno vuole).
Nel tempo che ci separa dalla elezioni bisogna lottare. E preparare il dopo. Sono d’accordo con Mario Tronti: dobbiamo liberarci, insieme a questa declinante Seconda Repubblica, anche del vecchio schema delle «due sinistre», quella che si confronta con il liberalismo fino a restarne accecata e quella che rifiuta la compatibilità, e dunque il governo. La sfida ora è il cambiamento. Possibile solo in una dimensione europea, in collegamento con i progressisti europei. La notizia migliore degli ultimi mesi è stata la vittoria di Hollande in Francia. Ora tocca a noi costruire un progetto di governo per il 2013: siamo ad un tornante storico, siamo di fronte ad un rischio democratico, dobbiamo essere capaci di cogliere il nesso tra la battaglia per la democrazia e quella per l’uguaglianza, per i diritti sociali, per un nuovo sviluppo. Guai a sprecare i prossimi mesi. Guai a ripetere le dispute politiciste dell’Unione. Guai pensare che il superamento delle «due sinistre» possa riportare a una vecchia sinistra. L’orizzonte della battaglia è democratico: dei valori e del radicamento sociale della sinistra devono farsi carico anche i cattolici, i liberali di sinistra, gli ambientalisti che vogliono partecipare all’impresa. Perché una cosa è certa: se i democratici non sapranno rispondere a questo nuovo bisogno di sinistra non riusciranno neppure a costruire quel progetto di alleanza tra progressisti e moderati, che ha il compito di riscattare il senso della politica.
Repubblica 8.7.12
Il sindaco di Firenze sfida Bersani: basta far melina sulla gara per la premiership
“Primarie del Pd in ottobre I voti di destra? Così si vince”
Fassina mi detesta? Ma lui non è il partito
Legge elettorale, attenti a non allontanare ancora la gente dalla politica
Renzi: capo del governo scelto come i sindaci
di Giovanna Casadio
ROMA Sindaco Renzi, tra una settimana c’è l’assemblea nazionale del Pd, ma le primarie sono scomparse dall’ordine del giorno. Lei cosa fa, dà battaglia? «Le primarie si fanno per l’Italia non per la Nuova Zelanda. Servono a definire le idee per il futuro del Paese. Bersani dice “Prima pensiamo all’Italia, non alle primarie”. Il ragionamento di Pier Luigi tradisce un’idea delle primarie come graziosa concessione. Non condivide. Ma s’adegua? «Non condivido. Comunque, se Bersani pensa che non vadano più convocate per il 14 ottobre, come lui stesso aveva annunciato, non polemizzo. Se slittano di un paio di settimane, non è un problema. L’importante è che si facciano». Con le regole attuali delle primarie aperte, o vanno cambiate? «Si applichino le regole per primarie libere e aperte, come nel 2005, nel 2007 e nel 2009 e in decine di amministrazioni locali. Non si cambiano le regole del gioco in corsa, come vorrebbero Marini e D’Alema. Se fossero lo stesso giorno di quelle del centrodestra sarebbe meraviglioso». Ma lei coltiva i voti dei berlusconiani? «Mai vista una polemica così meschina. Per vincere le primarie sono decisivi i voti del centrosinistra; per vincere le elezioni se non si convince qualche ex elettore di centrodestra va a finire come sempre, cioè si perde». Lei è poco amato nel Pd. Fassina le ha dato del portaborse. «Che sia poco amato da Fassina non c’è dubbio, ma questo non mi toglie il sonno. Che il Pd sia Fassina lo vedremo alle primarie. Potrebbe esserci una legge elettorale che renda superflue le primarie? Il “Provincellum” su cui si sta trattando le va bene? «Se davvero Pd e Pdl stanno accordandosi sul “Provincellum”, hanno proprio sbagliato strada. Fatico a immaginare un autogol più grande. Mi sembra fantasioso che dagli incontri segreti tra Migliavacca, per il Pd, e Verdini, per il Pdl, nasca qualcosa di buono per il Paese». Perché il Provincellum non va? «Se l’obiettivo è quello di avvicinare la gente alla politica, non ci siamo. I cittadini hanno perduto potere d’acquisto con la crisi economica, e adesso perdono anche il potere di rappresentanza. Se mando in Parlamento uno che conosco, che ho visto nel collegio, a cui chiedere conto, è un film. Ma non può essere che viene bocciato — in base ai complicati calcoli del “Provincellum” — il candidato con più voti e eletto quello con meno. C’è una sola legge elettorale che funziona: quella per i sindaci». Il premier come il sindaco d’Italia? «È l’unica soluzione seria. La sera sai già chi ha vinto. Chi vince governa 5 anni e il consiglio ha il potere non di sostituirti ma di mandarti a casa. La “madre” di tutti i guai del centrosinistra fu quando Cossiga, D’Alema e Rifondazione mandarono a casa Prodi e nacque il governo D’Alema nell’ottobre ‘98. I sindaci possono avere due mandati, e poi te ne vai a casa». Il suo motto è sempre “rottamare” D’Alema, Veltroni, Bindi, Marini, Fioroni? «Non ne faccio una questione di nomi. Dico solo: massimo 15 anni da parlamentare e nessuna deroga. Lo prevede lo Statuto del Pd. Sia rispettato. La rottamazione è la pre-condizione, poi si passa alle proposte su cui faremo la campagna delle primarie» Non ha neppure un po’ di gratitudine per i leader che hanno mandato avanti il Pd finora? «Gratitudine, certo. Ma nel Paese il desiderio è di voltare pagina. Il ricambio è fondamentale. Non si mette vino nuovo in otri vecchi. Tra la tecnocrazia di Monti e il grillismo c’è una terza via: è lo spazio politico del Pd se si libera da una visione novecentesca della società e del partito».
il Fatto 8.7.12
Le indagini non fermano il partitino di Passera
Un pezzo di Pd vuole il ministro per le alleanze al Centro
Le associazioni cattoliche del convegno di Todi non danno peso alle vicende giudiziarie
di Steafano Feltri
Di Corrado Passera hanno bisogno in tanti, per dare un volto e un leader al progetto politico dei cattolici militanti, quello nato in un convegno a Todi a fine 2011. Senza Passera sembra inevitabile “l’irrilevanza dei cattolici”, come l’ha definita Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Almeno di quell’area cattolica che punta il Parlamento e ha bisogno di un biglietto da visita per entrarci. L’indagine della Procura di Biella sul ministro dello Sviluppo economico, per le operazioni con cui Intesa Sanpaolo, all’epoca da lui guidata, ha pagato oltre un miliardo di tasse in meno del dovuto, non scalfisce l’attrattiva di Passera. E neppure il lato oscuro dell’Intesa gestione Passera, rivelato in questi giorni dal Fatto (l’indagine sul presunto riciclaggio praticato dal ramo lussemburghese della banca, il coinvolgimento nella presunta corruzione al centro del caso Penati) bastano a consigliare ai cattolici di Todi di cambiare riferimento.
“Quando uno è amministratore delegato di una grande impresa è responsabile di fatto perché firma il bilancio, ma è poi difficile stabilire responsabilità personali”, sostiene Giuseppe Fioroni che nel Pd è uno dei maggiori estimatori del ministro. Il ragionamento di Fioroni è semplice: la cosiddetta area moderata, che poi sarebbe l’insieme dei delusi di Pdl e Udc più un pezzo di indecisi del Pd, è un serbatoio di voti cui tanti possono attingere, non solo e non tanto i partiti. Fioroni si candida a essere “un pontiere” che tiene il Pd agganciato al progetto di Todi.
PRIMA DEL GOVERNO
Monti il senso di Todi e delle associazioni che hanno organizzato il convegno era offrire ai suoi due principali ispiratori, Maurizio Sacconi e Giulio Tre-monti, un’alternativa al declinare con il berlusconismo. Poi sono arrivati i tecnici, Tremonti ha iniziato a costruirsi un suo percorso autonomo (sempre di sponda con il Vaticano) e Passera è diventato il principale riferimento, il garante delle ambizioni politiche degli altri protagonisti di Todi, ora raccolti nel “Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro” che da poco ha pubblicato il manifesto “la buona politica per tornare a crescere”. C’è Luigi Marino di Confcooperative, Giorgio Guerrini di Confartigianato che ha anticipato il proprio turno alla presidenza di Rete Imprese Italia (la Confindustria parallela dei piccoli) per avere più visibilità nel momento politico. E poi ci sono Sergio Marini della Coldiretti, che un paio di giorni fa ha ospitato il ministro Passera nell’assemblea annuale della propria associazione. E c’è Bernhard Scholz, gran capo della Compagnia delle Opere, il coordinamento delle ricche imprese legate a Comunione e liberazione. Al meeting di Rimini in agosto il più storico dei leader ciellini, Roberto Formigoni, non è coinvolto in alcuno degli eventi in programma (nonostante il settimanale Tempi di Luigi Amicone, pochi giorni fa, se la prendesse con chi insinuava che il “movimento” avesse scaricato il governatore della Lombardia). Passera invece c’è – i suoi guai giudiziari al momento sono molto minori di quelli di Formigoni – e parteciperà a un dibattito su Welfare e sviluppo. Raffaele Bonanni merita un ragionamento a parte. Nello schema originario di Todi lui era il perno di tutto: l’asse tra la sua Cisl e l’allora ministro del Welfare Maurizio Sacconi garantiva quel clima di dialogo tra componenti della società che tanto piace alle associazioni cattoliche più vicine al centrodestra. “Mi raccomando, non scriva che voglio fare politica”, si cautela Bonanni: sta anche provando a ottenere un nuovo mandato alla guida della Cisl, anche se lo statuto non lo consentirebbe. Il fatto che stia puntando ancora sul sindacato, pur non avendo mai nascosto di sentirsi pronto al passaggio alla politica attiva, sembra indicare che Bonanni non crede più al progetto di Todi, pura avendo firmato solo un paio di mesi fa il manifesto per la buona politica in cui si legge che “avvertiamo l’urgenza di un nuovo impegno e la necessità di preoccuparci e occuparci dei problemi della nostra comunità, di interrogarci sulle implicazioni etiche, culturali e sociali delle nostre scelte e dei nostri comportamenti”. In realtà pare che l’atteggiamento di Bonanni non dipenda da una crisi di sfiducia, quanto dal fatto che il suo ruolo è diventato molto meno rilevante durante l’era dei tecnici. Su Passera è piuttosto freddo: “Mi sembra che da ministro stia tenendo un ruolo defilato, secondo me è completamente distaccato dal progetto di Todi, si concentra soltanto sulla sua attività ministeriale”.
DAL SOGNO di una nuova Dc, o di motore di un centro-destra post-berlusconiano, la compagine di Todi sembra ora poter ambire a essere soltanto una specie di comitato elettorale di Passera (e forse di Andrea Riccardi, altro ministro todino). L’ex banchiere lo ha detto più volte che immagina il suo futuro in politica. Non sarà il nuovo leader dei moderati (categoria giornalistica che sembra poco evidente nei sondaggi) che qualcuno si aspettava. Ma se hanno ragione Fioroni e quelli che nel Pd guardano al centro, Passera può diventare un elemento molto utile per spingere il centrosinistra un po’ più lontano dalla sinistra di Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. Sempre che dal passato bancario del ministro dello Sviluppo non emergano altre storie poco commendevoli che potrebbero offuscarne l’immagine. Se non agli occhi dei suoi sponsor (che già si vedono felici peones in Parlamento), almeno davanti a quelli degli elettori.
l’Unità 8.7.12
Sanità, Bersani lancia l’allarme: «Rischiamo il bis degli esodati»
Il leader Pd: «Anche sugli enti locali le norme vanno modificate»
Bindi: «Noi faremo le nostre proposte in Parlamento ma il governo deve capire che occorre cambiare»
di Maria Zegarelli
Cambiare le norme decise dal Cdm sulla spending review ai capitoli «sanità» e «enti locali». Al Nazareno stavolta c’è grande preoccupazione perché i tagli previsti da Giulio Tremonti (8 miliardi nel triennio) sommati a quelli stabiliti da Mario Monti, 4,5 miliardi, rischiano di essere una stangata ulteriore per i cittadini in termini di assistenza sanitaria e servizi erogati dagli Enti Locali. Ieri il segretario Pier Luigi Bersani ha lanciato un vero e proprio allarme: «Si rischia il bis della vicenda esodati». Al governo la richiesta è di cambiare le norme rimodulando le misure e gli interventi anche sulla base delle indicazioni che arriveranno dai governatori delle Regioni.
«Nel decreto dice il segretario Pd che l’altro ieri aveva parlato di una «mazzata al servizio sanitario» ci sono cose buone e le appoggeremo con convinzione. Ci sono anche cose da correggere, quello che soprattutto non va riguarda il taglio delle risorse agli enti locali, già troppo indeboliti e l’intervento sulla sanità, in particolare, per ciò che riguarda la sanità, l’errore è prima di tutto tecnico. Non c’è sufficiente comprensione di come funzioni nella realtà il servizio sanitario». Il ministro della Salute Renato Balduzzi risponde a stretto giro di posta: «Una mazzata al servizio sanitario nazionale io proprio non la vorrei dare, proprio perché voglio bene al servizio sanitario nazionale. Si tratta di riuscire, in condizioni che non sono
facili e nelle quali anche alla sanità è stato chiesto di fare la propria parte nella revisione della spesa, a fare, come dice il titolo del decreto legge, una “revisione della spesa a invarianza di servizi per i cittadini”. È una sfida importante in cui sono coinvolti tutti: dai livelli di governo a tutti noi come utenti del servizio sanitario nazionale, agli operatori e ai professionisti della sanità, ai quali stiamo chiedendo molto, ed è giusto che il Ministro della Salute lo faccia presente».
TAGLI LINEARI
Ma il Pd definisce le misure previste nel decreto niente altro che tagli lineari, in stile Tremonti, e su questo punto Bersani non intende cedere e non è vero, come hanno fatto sapere da Palazzo Chigi che sul tema sono stati sentiti i partiti. Dal Nazareno precisano che l’unico contatto tra il Cdm e il segretario è avvenuto «per altre materie oggetto del provvedimento» anche se il ministro Renato Balduzzi conosceva bene la posizione e le preoccupazioni del Partito democratico. Di questo si discuterà anche lunedì, nella sede del Pd a Roma, per un’iniziativa nazionale sulla Sanità alla quale è stato invitato lo stesso ministro oltre a diversi governatori tra cui quelli di Toscana e Umbria. Già in quella sede gli stessi presidenti di Regione avanzeranno le proprie proposte alternative tra cui quella di lasciare a loro la facoltà di intervenire per raggiungere sì l’obiettivo di risparmio fissato dal decreto ma potendo decidere dove e in che modo tagliare e razionalizzare.
Critica anche la presidente del Pd, Rosy Bindi: «Non basta resistere sui piccoli ospedali ed averli salvati è stato il commento perché in questi anni la Sanità ha già dato. Noi faremo le nostre proposte in Parlamento ma il governo deve capire che c’è bisogno di modificare il provvedimento». Beppe Fioroni proprio su servizi e sanità traccia la linea: «Ben vengano la lotta allo spreco e allo sperpero, e il dimagrimento dello Stato: Monti ha tutto il nostro appoggio. Ma non è pensabile che dietro il motto “non aumentare le tasse al cittadino” gli si mettano pesantemente le mani in tasca per fargli pagare la propria salute e la propria assistenza».
Intanto martedì è fissata anche la segretaria durante la quale Bersani deciderà la linea da tenere in Parlamento e con Palazzo Chigi. È un passaggio delicatissimo quello che si consuma sulla spending review: da un lato l’Udc di Pier Ferdinando Casini che appoggia senza dubbi il provvedimento, dall’altra Sel e Idv sul piede di guerra. E tutti guardano a come il Partito democratico gestirà il passaggio in Parlamento del decreto da approvare prima della pausa estiva delle Camere. I probabili, possibili, futuri alleati anche su questo tema sono agli opposti. Bersani stretto tra la pressione che arriva dagli Enti locali, la sua stessa base elettorale e le forze del futuro centro-sinistra lancia un appello: «Siamo pronti a ragionare su altre soluzioni discutendo con il governo e le regioni e in Parlamento. Ci auguriamo che tutte le forze politiche vogliano impegnarsi costruttivamente su un tema così delicato e che in particolare il Pdl sia disposto ad occuparsi, oltre che della Rai, anche della salute degli italiani». Dal Pdl è Osvaldo Napoli a rispondere: «L'altolà di Bersani sulla sanità appare prematuro e incomprensibile. Il segretario del Pd continua nella sua politica di sostegno basata sul “sì, ma...” e rischia di vanificare l'azione dell'esecutivo sul capitolo della spesa pubblica ritenuto, in Europa e negli organismi economici, decisivo per la credibilità del Paese». Pronto a fare le barricate Antonio Di Pietro: «Tra tutte le porcherie che questo governo ha fatto con tanta sobrietà, il decreto sulla spending review è una delle peggiori. Monti ha fatto l'esatto opposto di quello che aveva promesso: è andato giù con l'accetta». E promette proteste in «piazza, in Parlamento e con i lavoratori».
La Stampa 8.7.12
Bersani: sulla sanità misure confuse
Il segretario del Partito democratico attacca il governo: c’è il rischio di fare il bis della vicenda esodati
Stefano Fassina, Responsabile economico Partito democratico: «I risparmi siano fatti sugli acquisti di armi e sia introdotta un’imposta sui grandi patrimoni»
di Ugo Magri
ROMA Certi tagli Bersani proprio non li manda giù, quelli alla sanità in modo speciale. Dopo aver denunciato in un crescendo che mordono la carne viva della gente, ora il segretario Pd ne fa pure una questione di efficacia, solleva il dubbio che le misure del governo siano in grado di colpire gli sprechi.
«C’è il rischio di fare il bis della vicenda esodati», mette in guardia Bersani, «cioè di creare più confusione che risparmi». Già nei giorni scorsi aveva cautamente suggerito ai professori di non fare pasticci e magari di chiedere consiglio «visto che un po’ di competenza ce l’abbiamo anche noi.... Inascoltato, il leader democratico contesta l’«errore che deriva dalla insufficiente comprensione di come funziona il servizio sanitario».
In pratica dà degli ignoranti a coloro che hanno materialmente redatto il decreto. Dietro di lui c’è tutto un partito in rivolta, particolarmente duro Beppe Fioroni. È un po’ come se giorno dopo giorno il segretario del Pd volesse marcare le lacune dei tanto acclamati «tecnici», e preparare il terreno al grande ritorno dei governi eletti dal popolo.
A Palazzo Chigi nessuno si altera. Porta aperta a eventuali correzioni del decreto, approdato l’altra notte in Senato. Per rispettare i tempi, serve il varo entro il 25 luglio, insomma non c’è spazio per discussioni interminabili. Comunque il governo darà l’ok, se ne può ragionare. A patto che restino invariati i saldi (tanto entra, tanto esce), e che il Partito democratico avanzi proposte concrete. Martedì si riunisce la segreteria, qualche idea verrà senz’altro estratta dal cilindro. Le due al momento più gettonate, come le anticipa il responsabile economico del partito Fassina, consistono nei «risparmi sugli acquisti di armamenti» e in «un’imposta ordinaria sui grandi patrimoni».
Entrambe le proposte piaceranno moltissimo all’elettorato più di sinistra, e faranno da scudo contro gli attacchi di Vendola e di Di Pietro ( il quale si lancia a sostenere che «tra tutte le sobrie porcherie di questo governo, la spending review è una delle peggiori»). Si può bene immaginare lo scetticismo dipinto sulla faccia di Monti, il giorno che questi emendamenti saranno formalizzati. Specie sulla patrimoniale, il Prof sostiene di avere già fatto il possibile con l’Imu e non solo, andare oltre sarebbe molto molto difficile...
Il pressing di Bersani è a tutto campo. Considerato che a Palazzo Madama la maggioranza ce l’ha il Pdl, eccolo pungolare Alfano, «ci auguriamo che da quella parte siano disposti ad occuparsi, oltre che della Rai, della salute degli italiani.... Lo sfottò è bonario, ma di questi tempi i berlusconiani hanno poco da ridere, cosicché le risposte sono state piccatissime.
Cicchitto: «Non siamo un partito a sovranità limitata che fa da sponda al Pd». Il governo non si faccia intimidire da Bersani, protestano la Gelmini e Osvaldo Napoli.
Decisamente sopra le righe il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri: «Bersani avrebbe dovuto fare la spending review al suo amico Penati a Milano, scoprendo cose interessanti». Si affida «all’intelligenza degli italiani» Pier Ferdinando Casini perché stavolta «ci sono costi da pagare, e forse voti da perdere....
il Fatto 8.7.12
Gli italiani, operati d’urgenza
di Furio Colombo
Li vedo lì schierati, ciascuno con la sua professione e la sua specialità nella vita, improvvisamente mobilitati per entrare qui dentro, il pozzo della politica e sospendere tutto il remunerativo e ben pagato lavoro che stavano facendo là fuori per occuparsi di un intervento d’emergenza. Durante un momento rischioso, l'Italia era rimasta improvvisamente senza governo. E subito una squadra di ministri tecnici è accorsa per evitare il vuoto, per governare d'urgenza, perché altrimenti nessuno lo avrebbe fatto. Diciamo che, prima, c'era stato un errore: gli elettori, che si erano buttati con entusiasmo a votare un centrodestra che sembrava così allegro in televisione, nella vera vita si è trovata di fronte persone incapaci, distratte, monotone, stancate dai propri divertimenti, del tutto inutili. E il dramma era che lo avevano capito tutti nel mondo e che tutti si apprestavano ormai ad assistere al disastro italiano.
HA DEL miracoloso, se ci pensate: l'arrivo di questa squadra di governo, persone di statura molto diversa, ma disposte a far parte all'improvviso di un team che non è né costituzionale né anticostituzionale, né politico né antipolitico, né dentro né fuori dalla macchina delle istituzioni. Sappiamo che lo ha mandato qui dentro il Capo dello Stato, con un’inventiva e rapidità che gli sarà riconosciuta anche in futuro. Io sono tra coloro che hanno approvato questa veloce, inaspettata risposta a una emergenza senza precedenti (situazione grave alle porte e nessun governo adulto e capace in carica). L'analogia più calzante che mi viene in mente è quella di Medici senza frontiere. Sono sempre sgraditi a ciò che resta del potere, nei luoghi in cui si mettono a curare e operare, ma loro vanno avanti, elaborando una certa indifferenza, sapendo che ci sono malati e feriti che senza di loro sarebbero abbandonati. Per quel che so, e per quel che ricordo dei Paesi e delle circostanze in cui ho visto i medici senza frontiere al lavoro, il grande sostegno sono sempre gli abitanti, le famiglie, i bambini che non resteranno mutilati, le donne che non perdono i figli.
Come accade allora che i nostri nuovi “ministri senza frontiere” (nel senso politico, ma anche di estraneità alle istituzioni) in pochissimo tempo, dopo il sollievo e i saluti, vengano percepiti come persecutori e creatori di trappole e pericoli e decisioni infide (non sai mai quanto è profondo il buco che improvvisamente trivellano) e sopportati come un passaggio che porta ansia, sentimenti sgradevoli e attese cupe? Come accade che tutto ciò si viva come una prova dura e inevitabile tipo le piaghe di memoria biblica, qualcosa che si accetta con disperata pazienza, in attesa che la prova finisca e che si ritorni a qualche forma di vita “normale”? Mi rendo conto. Una risposta è che la crisi è più grave di quanto si sapeva o si era previsto. Una risposta è che la cura, per quanto dura, stenti a produrre i risultati ragionevolmente attesi. Una risposta è che interventi giusti e tempi giusti si scontrino con una macchina pubblica e politica talmente disastrata da ritardare o addirittura impedire (almeno fino a quando non ci saranno le necessarie riparazioni) qualunque effetto benefico. Ma tutta questa massa di argomenti non mi libera dalla domanda: perché comunicano in questo modo? Perché ogni giorno piovono annunci e avvertimenti che si accumulano con molta più rapidità di ogni possibile intervento buono o cattivo, giusto o sbagliato, ma reso comunque invivibile dall'annuncio-minaccia? Prendo come esempio i titoli dominanti più o meno su tutti i giornali del giorno 4 luglio. Non indicherò le testate perché la questione (mi sembra) non è giornalistica, ma riguarda lo strano modo con cui il governo senza frontiere opera fra gente e partiti allo sbando che sono oggi l'Italia.
ECCO: “Scure del governo sugli statali”; “Scure su statali e sanità”; “Ferie, buoni pasto, stipendi, forti tagli agli organici”; “Ospedali, spariranno 18 mila posti letto”; “Tagli: riduzione del personale del 10 per cento, cura dimagrante per i posti letto negli ospedali”; “Via uno statale su dieci, circa 100 mila dipendenti coinvolti”. Aggiungete i drammatici “lanci” dei telegiornali e giornali-radio di reti pubbliche e private, aggiungete la tempesta di messaggi sui telefonini, e avrete un'idea della cascata di panico generata (non solo tra dipendenti e famiglie degli statali) che si trasforma facilmente in un senso di imminente condanna. Infatti, ogni cittadino italiano è chiamato a temere, autorizzato a immaginare che – se questo è l'annuncio – la realtà non può che essere peggiore in Italia, per decenni, questa è stata l'esperienza persino quando gli annunci erano festosi). La percezione è che invocare la crisi peggiora la crisi, cancella ogni ruolo dei cittadini (che sono chiamati solo a subire) e che dunque qualunque scappatoia è buona, se è possibile oscurando quante più fonti di reddito, piccole o grandi, perché ormai sai che ti devi difendere da solo. La temperatura è gelida, la comunicazione è nulla, il senso della punizione è fortissimo, il desiderio di fuga comprensibilmente grande. Poiché per quasi tutti la fuga non è possibile, sogni dell'altro, ma non vuoi avere a che fare con le istituzioni. Ti appaiono pericolose. Il primo sentimento che muore è quello della solidarietà. Il secondo è il senso di appartenenza a una comunità in cui ciascuno fa la sua parte. Qui hanno tutti un ruolo passivo che ti fa sentire parte lesa, e provoca un atteggiamento vendicativo, senza capire bene per che cosa o contro che cosa. Mandare avanti la paura è un espediente pedagogico per mettere tutti in riga o è un errore? Io credo che sia un errore. Un errore da cancellare subito.
l’Unità 8.7.12
Camusso e Squinzi più vicini «No alla macelleria sociale»
Il numero uno di Confindustria e la leader Cgil hanno trattato temi caldi: la patrimoniale e i tagli
di Francesco Sangermano
L'uno la vede come «un buon primo passo», l'altra come una «manovra mascherata e inaccettabile». Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria e Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, si incontrano faccia a faccia per la prima volta proprio all'indomani della spending review varata dal governo. I distinguo ci sono, certo. Ma si fermano (quasi) qui. Perché nelle due ore di dibattito a Serravalle Pistoiese, appuntamento di chiusura della rassegna Cgil Incontri, non sono pochi i tratti in comune e le condivisioni tra le due anime storicamente contrapposte del lavoro. Dal giudizio «insufficiente» all'operato del governo alla ferma bocciatura della riforma del mercato del lavoro, dalla necessità di un rapido ritorno alla politica dopo l'era del governo tecnico nonché a una maggiore concertazione con le parti sociali fino all'apertura, anche da parte degli industriali, all'ipotesi della patrimoniale, i due leader sembrano più volte essere sulla stessa linea d'onda.
NO ALLA MACELLERIA SOCIALE
L'approccio al tema dei tagli varati dal governo arriva da due fronti diversi. Camusso non usa mezzi termini ed etichetta il provvedimento come una «accetta» che taglia «orizzontalmente» per «fare rapidamente cassa» e preannuncia uno sciopero generale in autunno («ma dobbiamo costruire una mobilitazione su più punti, magari cominciando a luglio con una grande iniziativa sulla sanità»). Squinzi ribadisce che «abbiamo vissuto 30 anni da cicale e ora serve iniziare a pensare da formica» e dunque considera la spending review «un primo passo nella direzione giusta di semplificazione e razionalizzazione della pubblica amministrazione ma...». Ecco. Finite le premesse i distinguo si affievoliscono. Perché dietro a quel «ma» il leader di Confindustria dice di «condividere quasi tutto di quanto detto da Camusso» e, come in una sorta di "patto di Serravalle", sottoscrive uno dei temi più cari alla segretaria Cgil. «Si deve evitare la macelleria sociale in un momento così delicato del nostro Paese» dice perentorio. E dalla platea riceve in cambio il primo applauso. Concetti che Camusso rinforza. «Non si sta facendo una operazione di qualità spiega ma si sta cercando la cosa più semplice. Noi non abbiamo mai opposto un'idea contraria alla spending review nel senso di tagliare dove la spesa non è necessaria, ma quella del governo non è revisione della spesa, bensì tagli lineari a sanità, personale, amministrazioni pubbliche».
Altro punto di condivisione si palesa sulla «necessaria temporaneita» del governo dei tecnici. «Abbiamo bisogno di politica buona, vera, capace di fissare gli obiettivi del Paese e indicare le strade per raggiungerli», attacca Squinzi. Quegli stessi tecnici con cui è sempre stata molto critica Susanna Camusso «specie con chi ha poco rapporto col lavoro» dice in evidente riferimento alla Fornero. Ricordando, però, che «il governo precedente ci stava portando al disastro» e che «si deve riconoscere» all'esecutivo Monti se non altro «l'esser tornati in Europa ad essere un Paese riconosciuto e non un circo Barnum in missione speciale». Ma, ha confermato anche la leader Cgil, «la politica deve tornare presto protagonista».
Un tema, questo, su cui è arrivata a sorpresa l'apertura di Squinzi anche sul tema della possibile introduzione della patrimoniale. Dopo che la Camusso ha ricordato come «positivo il modello Hollande che con questo sistema in Francia ha recuperato 7 miliardi e qui potrebbe servire a trovare risorse per la crescita», il presidente degli industriali non si è detto totalmente contrario. Anzi. «Se siamo proprio all'emergenza e dovesse servire per salvare il Paese potrebbe anche andare bene. L'importante è che non vada a toccare le imprese ma solo i patrimoni personali». Inevitabile, infine, un riferimento a quella riforma del lavoro che lo stesso Squinzi pochi giorni fa aveva definito «una boiata». «È stata una espressione molto condivisa...» ironizza il leader industriale. Che prosegue: «Monti aveva promesso che sarebbe stata diversa, invece è stata fatta in fretta e ora già si lavora a cambiarla». Il tutto, però, continuando a venire meno l'aspetto della concertazione. «Una scelta politica miope e quasi di rivalsa come se il lavoro fosse colpevole» la definisce Camusso. Incassando, una volta ancora, l'assenso di Squinzi. «Per le parti sociali, dopo l'intesa del 28 giugno, il "patto di Serravalle" potrebbe essere un nuovo punto di partenza.
il Fatto 8.7.12
Il compagno Squinzi
Nel dibattito con la Camusso quello di sinistra sembra lui: chiede concertazione e la patrimoniale
di Stefano Feltri
Il luogo: l’Appennino Toscano, Serravalle Pistoiese. L’occasione: il dibattito tra il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e il segretario generale della Cgil, organizzatrice dell’evento, Susanna Camusso. Le frasi: “Serve più concertazione”; “Lo scontro non è il mio modello”; “Il balletto sui numeri degli esodati ci preoccupa”; “Se non tocca le imprese, una patrimoniale mi sta anche bene”. La notizia è questa: le parole precedenti le ha pronunciate Squinzi, non la Camusso.
IL CLIMA AIUTA: pomeriggio di luglio, poche telecamere, zero formalità, l’atmosfera dimessa e un po’ marginale che da qualche mese caratterizza tanto le riunioni sindacali che quelle degli imprenditori, entrambi scavalcati da un governo che ascolta poco pure i partiti. Anche se Cgil e Confindustria sono un po’ in disarmo, i toni di Squinzi risvegliano comunque le intorpidite platee del dialogo tra le parti sociali. Soprattutto perché la tranciante prosa di Squinzi risalta in confronto con i sofismi della Camusso (“A luglio non ci sono le condizioni per lo sciopero generale, ma probabilmente per una grande iniziativa sulla sanita”. Il presidente della Mapei, multinazionale della chimica a ferreo controllo familiare, aveva già palesato la sua scarsa propensione agli eufemismi quando, poche settimane fa, aveva chiosato la riforma del lavoro di Elsa Fornero definendola “Una boiata che però bisogna votare il prima possibile” (per portarla al Consiglio europeo). Mario Monti contava su Squinzi per ristabilire i rapporti con la Confindustria, deteriorati nella fase finale della presidenza di Emma Marcegaglia (che salutò la riforma con un’irrituale intervista al Financial Times, “very bad”). Si è dovuto ricredere subito. Mentre i sindacati gli interessano poco, Monti avrebbe voluto avere un dialogo migliore con le imprese. Per la semplice ragione che se le riforme fanno arrabbiare le associazioni dei lavoratori, i mercati pensano che siano buone, se invece si irritano anche gli imprenditori nasce il sospetto che abbia sbagliato il governo. Mercoledì, durante il vertice con Angela Merkel, Monti si è concesso un inciso sulle imprese che “avrebbero voluto stravincere”. Come dire: l’articolo 18 è indebolito, accontentatevi. Invece Squinzi ribadisce che la riforma “ha tolto flessibilità in entrata senza darne in uscita. Appare un’occasione mancata” e rivendica il giudizio sintetico (“boiata”).
lMentre i sindacati vengono informati – che non significa consultati – dal governo per il decreto di revisione sulla spesa e sembrano intontiti dal colpo ricevuto (gli statali sono stanti nella Cgil, ma ancora di più nella Cisl), Squinzi ricorre alla più tipica espressione sinistrorsa: “Dobbiamo evitare una macelleria sociale, ma si deve semplificare la Pubblica amministrazione perché dobbiamo evitare ridondanze che vanno eliminate”.
NEI GIORNI scorsi l’industriale della Vinavil e presidente del Sassuolo Calcio aveva stupito gli osservatori delle cose confindustriali allontanando Giampaolo Galli e chiamando come direttore generale dell’associazione Marcella Panucci, che al momento lavorava al ministero della Giustizia con Paola Severi-no. Le donne in posizioni apicali in Confindustria non sono molte (la Marcegaglia non conta, lei è figlia d’arte).
Tra la prudente Camusso, sempre timorosa di cedere spazio politico alla Fiom di Maurizio Landini, e la forza polemica della parlata bergamasca, strascicata ma netta, di Squinzi, è facile capire chi sia in grado di creare più imbarazzi al governo dei tecnici. Ma un po’ di prudenza nei giudizi è comunque necessaria: anche Sergio Marchionne, quando arrivò in Fiat nel 2004, entusiasmava per la sua propensione al dialogo con i sindacati, l’attenzione al merito e la visione sociale che Piero Fassino definì “socialdemocratica”. Sappiamo com’è andata a finire.
Corriere 8.7.12
Quegli applausi della Cgil al leader degli industriali
Lavoro, documento comune di imprese e sindacati alla Fornero: valutare il rinvio dell'Aspi
di Marco Gasperetti
SERRAVALLE PISTOIESE (Pistoia) — Alla vigilia dell'incontro pubblico, il primo da presidente di Confindustria, con il segretario della Cgil Susanna Camusso, Giorgio Squinzi non aveva nascosto timori di natura mediatica e retorica. «È più brava di me nella dialettica, la signora Camusso mi farà blu», aveva confessato con quel briciolo di ironica scaramanzia che non guasta anche in un ex capo dei chimici. Sì, proprio come un pugile suonato e ormai vicino al tappeto, si era visto il leader degli industriali, messo alle corde dai pugni della Signora Cgil. E invece, altro che botte. Solo carezze ieri tra Cgil e Confindustria.
Tra i due c'è accordo su (quasi) tutto, con l'improbabile ring trasformato in un salotto dove i due attori non solo si rispettano ma si corteggiano, si scambiano lodi, si guardano con sorrisi di soddisfazione anche (e soprattutto) quando arrivano le critiche e le bordate, anch'esse condivise, al governo Monti. Dialoghi angelici scanditi dagli applausi della platea, per lo più la base della Cgil, e persino da qualche incoraggiamento vocale e l'immancabile battuta toscana. «Ma chi è il segretario della Cgil lui o lei?».
E così, sotto la rocca medievale di Serravalle Pistoiese, durante la sedicesima edizione della kermesse del sindacato, tredici giorni di dibattiti e incontri, si materializza uno «spettro». Non è quello di Castruccio Castracani, che nel castello di Serravalle combatté, ma quello della concertazione e del dialogo. Fantasma malvisto dal governo dei tecnici, dicono i detrattori, ma che Squinzi resuscita dandogli persino quell'alone di indispensabilità se si vuole davvero «remare nella stessa direzione perché, e non è retorica, siamo tutti nella stessa barca». Concertazione che non deve essere veto (nemmeno di scendere in piazza, ovviamente, precisa Camusso) ma risoluzione dei problemi per una condivisione oggi indispensabile al Paese. A tratti sembra essere il presidente della Confindustria a incendiare la base della Cgil. Lo fa, strappando un clamoroso applauso, quando dice di essere contrario «ai tagli lineari» perché si rischia «la macelleria sociale» e conferma di averlo detto senza giri di parole anche al presidente Monti. E ancora quando ammette di «condividere praticamente tutto di quello che dice la signora Camusso». Poi riceve una mezza standing ovation (se pur mitigata dalle circostanze che devono salvare in qualche modo forme e ruoli) quando si mette a criticare le scelte del governo dei tecnici. Al quale dà un voto insufficiente (tra il 5 e il 6) provocando anche il sorriso compiaciuto della leader Cgil, che al governo Monti preferisce affibbiare un insufficiente senza sbilanciarsi troppo nei votacci. E poi, forse sentendosi scavalcata a sinistra, fa sapere che lo sciopero generale s'ha da fare e che comunque se l'esecutivo confermerà i tagli alla sanità a luglio ci potrebbe essere una grande manifestazione per difendere i servizi essenziali di un welfare sempre più in pericolo.
A riprova del clima d'intesa tra imprese e sindacati, giusto due giorni fa Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno firmato un documento comune che hanno inviato ai relatori del decreto Sviluppo in discussione alla Camera, chiedendo sei modifiche alla riforma del mercato del Lavoro, diventata legge il 28 giugno scorso. Nella lettera che accompagna le richieste, le parti sociali sollecitano inoltre la riduzione del cuneo fiscale e contributivo e in particolare di ripristinare la detassazione del salario di produttività. Il documento è stato mandato anche al ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Queste le sei richieste che, se verranno accolte dai relatori, prenderanno la forma di emendamenti al decreto Sviluppo: 1) Affidare alla contrattazione e non più alla legge la disciplina dell'intervallo di tempo che deve intercorrere tra un contratto a termine e il successivo ed eliminare l'intervallo nel caso di lavori stagionali 2) Estendere la possibilità di somministrare apprendisti a tempo indeterminato a tutti i settori produttivi. 3) Prevedere una verifica «nel secondo semestre 2013» tra le parti sociali per decidere se rinviare l'entrata in vigore della nuova indennità di disoccupazione (Aspi) 4) Mantenere la possibilità che c'era prima della riforma di cumulare la cassa integrazione con i voucher da lavoro occasionale 5) Ripristinare la cassa integrazione straordinaria per le aziende ammesse a procedure concorsuali, se sussistono prospettive di ripresa dell'attività 6) Non conteggiare i contratti a termine fino a 6 mesi nella base di calcolo dell'organico che fa scattare l'obbligo di assunzione degli invalidi. Le parti chiedono inoltre un provvedimento per facilitare il trasferimento d'azienda o di rami di essa nel caso di imprese fallite. Sia Giuliano Cazzola per il Pdl sia Cesare Damiano per il Pd hanno già giudicato positivamente le richieste di Confindustria e sindacati.
Corriere 8.7.12
Spending review, sì da 7 elettori su 10
Contrario il 20%. E il 56% rinuncerebbe a qualche servizio per avere meno tasse
di Renato Mannheimer
La maggioranza degli italiani ritiene giusto effettuare i tagli alla spesa pubblica previsti in questi giorni dal governo e dichiara di condividerli. Seppure con molti distinguo in relazione ai tempi di attuazione degli stessi e, specialmente, ai settori della pubblica amministrazione che vengono colpiti.
A un primo quesito di carattere generale sull'opportunità dei tagli, il 34% dei cittadini si dichiara decisamente favorevole, a fronte di circa un italiano su cinque (20%) che si oppone nettamente. La posizione della maggioranza relativa (42%) mostra però che la pubblica opinione si è un po' spaventata per la portata dei provvedimenti proposti: pur reputando opportuno diminuire la spesa pubblica, questa porzione di cittadini obietta infatti che gli interventi andrebbero fatti con «più gradualità».
Appaiono generalmente più favorevoli alle misure proposte i liberi professionisti e i lavoratori autonomi, mentre, come era prevedibile, si rivelano più scettici gli insegnanti, anche perché, forse, si sentono toccati più da vicino dalle misure in discussione, considerato che la maggior parte dei dipendenti pubblici appartiene al mondo della scuola. Dal punto di vista dell'orientamento politico, risultano in linea di principio più convinti dell'opportunità dei tagli gli elettori del Pd, mentre quelli del centrodestra appaiono più perplessi. La più decisa contrarietà si registra tra i votanti per i partiti dell'estrema sinistra.
Approfondendo l'analisi, emergono opinioni fortemente differenziate a seconda dell'ambito in cui vanno a cadere i tagli proposti. Da un lato, la decurtazione delle spese ai ministeri risulta essere il provvedimento più condiviso: lo approvano senza riserve quasi due terzi degli italiani e solo meno del 10% esprime al riguardo un giudizio negativo. Questo dipende dal fatto che i ministeri vengono visti come l'espressione del potere e della burocrazia «romana», spesso oggetto della critica e del risentimento dei cittadini.
Anche i tagli alle spese per la Difesa vengono visti con favore dalla maggioranza relativa degli elettori, in misura però decisamente più contenuta (45%): aumenta in questo caso la quota di chi suggerisce una maggiore gradualità e anche quella di chi si oppone decisamente (17%). Un livello di consenso ancora inferiore viene manifestato riguardo alla diminuzione del numero dei tribunali e, specialmente, alla limitazione del numero dei dipendenti pubblici: in questo caso il tasso di approvazione scende al 34% e quello di contrarietà sale al 24%. Riguardo alla razionalizzazione della spesa sanitaria, viceversa, si registra una netta opposizione della maggioranza (il 58% degli italiani, specialmente i più giovani) e un consenso di poco superiore a un decimo della popolazione (13%). L'evocazione di un bene prioritario come la salute comporta un timore per la qualità delle prestazioni. Probabilmente la necessità di interventi in questo settore — alcuni, come la chiusura degli ospedali più piccoli, spesso essenziali (lo ha spiegato anche il professor Umberto Veronesi sul Corriere di venerdì) — andrebbe quindi comunicata in modo più esteso e convincente.
Al di là dello specifico — e delicato — settore della sanità, gli italiani appaiono comunque tendenzialmente persuasi della necessità dei tagli, anche se, come sempre, gli intervistati esprimono maggiori perplessità quando si parla del settore cui appartengono o cui sono vicini. E sottolineano in ogni caso la necessità di mantenere inalterato il livello dei servizi offerti dalla pubblica amministrazione. Di fronte all'aggravarsi della crisi, però, si diffonde la disponibilità a rinunciare anche a parte di questi ultimi, pur di non accrescere la pressione fiscale, rappresentata, ad esempio, dalla minaccia dell'aumento dell'Iva in autunno. Alla classica (e, com'è talvolta necessario nei sondaggi, inevitabilmente semplificatoria e drastica) domanda se sia meglio pagare più tasse e ottenere più servizi o, viceversa, ridurre il carico fiscale anche a costo di una riduzione di questi ultimi, per la prima volta da molti anni la maggioranza degli italiani aderisce alla seconda ipotesi.
La pressione fiscale è diventata talmente elevata (e, per alcuni, non più sostenibile) da portare la gran parte dei cittadini a rinunciare a qualcosa, pur di non dovere subire ancora più tasse.
l’Unità 8.7.12
Riforma elettorale, il Pd vuole il testo in settimana
di C. Fus.
Finocchiaro (Pd): «Il tempo è scaduto, adesso è necessario arrivare presto in Parlamento con la nuova legge». Ma il Pdl punta alla “grande coalizione”
Le tre settimane sono scadute. Si entra nella quarta e l’unica cosa che rimbalza dai tavoli del Pdl addetti alla riforma della legge elettorale sono messaggi un po’ provocatori. Il Corsera, ad esempio, mette nero su bianco l’opzione “grande coalizione” per il dopo Monti e, di conseguenza, una legge elettorale che renda più difficile al vincitore comporre una maggioranza. Tutti insieme appassionatamente e che nessuno prenda il sopravvento. Un’opzione che fa comodo solo al Pdl inchiodato nei sondaggi tra il 18 e il 20 per cento. Mentre il Pd è saldamente il primo partito con il 25 per cento e quindi non ha alcun interesse a lavorare su un’ipotesi di legge elettorale ten-ten, di quelle che non scontentano nessuno. Ma che farebbe fuggire definitivamente gli elettori.
Così, di fronte alle carte calate dal Corriere della sera con tanto di schemi e schede e quadri sinottici sui punti controversi, il Pd non può che reagire in modo netto. Per dire che non ci sta.
Non solo: ancora qualche giorno di attesa e poi la squadra di Bersani presenterà la propria proposta di modifica della legge elettorale. Con buona pace dei propositi sottoscritti quattro settimane fa da Alfano, Casini e Bersani: «Tre settimane di tempo e troveremo l’accordo sulla legge elettorale». Ne sono passate quattro e siamo ancora soltanto alle ipotesi.
Di fronte ai messaggi mezzo stampa del Pdl, che hanno anche il sottile obiettivo di irritare gli elettori, diventa categorica la capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro. Non si può «fallire sulla legge elettorale» così come è avvenuto con le riforme costituzionali. «Si arrivi presto in Parlamento perché il tempo è scaduto. Non c'è forza politica che non abbia annunciato che la priorità sia quella di cancellare il Porcellum e di fare una nuova legge. La politica farebbe una pessima figura, forse l’ultima, se non riuscisse a fare la riforma».
Il Pd, quindi, prova ad accelerare. Vietato fallire, come è già successo per le riforme istituzionali grazie alla rinnovata saldatura Pdl-Lega. Il partito di Bersani fa sapere di essere pronto a presentare alle Camere un progetto di legge di modifica al vigente Porcellum per riportare «nelle aule parlamentari» un dibattito che si svolge «da troppo tempo», come osserva l'Idv, «nelle segrete stanze». L'Assemblea nazionale del Pd, convocata per sabato 14, potrebbe essere un'occasione per discutere anche di questo.
Al tavolo della riforma sono impegnati Maurizio Migliavacca per il Pd, Denis Verdini per il Pdl, Cesa e Adornato per il Terzo Polo. «Noi siamo pronti al confronto», ribatte il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri, facendo capire però come su alcuni punti il suo partito non sembri intenzionato a mollare. Ma una vera intesa tra Pd-Pdl e Terzo Polo non è stata ancora raggiunta. Anche perché nessuno sa con certezza cosa succederà da qui alle elezioni, quali le formazioni sono pronte a scendere in campo. Difficile, in queste condizioni, ritagliare ora una legge elettorale su misura.
Il Pd sostiene di avere le idee chiare: «Schema bipolare, sapere la sera chi ha vinto, scelta dei parlamentari attraverso i collegi» spiega uno dei tecnici. Sul premio di maggioranza, al partito o alla coalizione che è la vera questione dirimente anche nel Pd non è stata ancora raggiunta una soluzione condivisa. «Sul punto manteniamo ancora un po’ di flessibilità» si spiega. È un punto decisivo per le alleanze. Comprensibile.
I nodi restano sempre gli stessi: preferenze sì, preferenze no; premio di maggioranza, quanto? Al partito? Alla coalizione? Soglia di sbarramento. Opinioni diverse anche all’interno degli stessi partiti. Carmelo Briguglio (Fli) invoca le preferenze mentre Fini «chiede l'uninominale per un futuro anglosassone». «Tanto rumore per nulla sintetizza Felice Belisario (Idv) tutti dicono di voler cambiare la legge elettorale, ma nessuno lo fa davvero...»
Corriere 8.7.12
Legge elettorale, ultimatum Pd: subito l'intesa o avanti da soli
«Pronti ad andare in Aula con la modifica del Porcellum»
di Alessandro Trocino
ROMA — «Tempo scaduto, si vada in Parlamento». Il Pd accelera e minaccia di portare in Aula con un ordine del giorno la sua proposta, se non si troverà un accordo sulla legge elettorale in tempi brevissimi. Lo fa con Anna Finocchiaro e Luigi Zanda. Due le incognite principali: il premio di maggioranza (al primo partito o alla coalizione vincente?) e l'uscita dal voto bloccato (collegi o preferenze?). Scelte non soltanto tecniche, che hanno a che fare con lo stato di salute dei partiti (vedi alla voce sondaggi) e con le alleanze possibili (vedi alla voce grande coalizione).
Per Beppe Fioroni si è alla «tecnica del gambero»: un passo avanti e due indietro. Tutti vorrebbero correggere i due principali difetti del Porcellum, l'attuale legge elettorale: le liste bloccate (che creano un Parlamento di nominati dai partiti) e l'abnorme premio di maggioranza alla coalizione, che incoraggia alleanze eterogenee incapaci poi di governare.
Per uscire dalle liste bloccate, ci sono, semplificando, tre sistemi: quello simile al tedesco, che prevede un 40 per cento di seggi assegnati in collegi uninominali; il Provincellum (gli eletti dei collegi sono quelli con la percentuale più alta nel partito); le preferenze. Il Pd è sulla prima posizione, sgradita al Pdl, che vuole le preferenze. In particolare le vuole Angelino Alfano, per risolvere (delegando la scelta agli elettori) i problemi di convivenza tra le varie anime (FI, An, ecc) e di scelta dei candidati (le poltrone pdl saranno meno stavolta). Maurizio Gasparri non ha dubbi: «Il vero problema da risolvere sono le preferenze. Collegi e Provincellum sono una truffa, che impediscono ai cittadini di scegliere. Dicono: facciamo le primarie. Ma mica possiamo fare 700 primarie di quartiere. Le preferenze sono l'unica soluzione». Bersani non le apprezza: fanno aumentare i costi elettorali e sono a rischio brogli. «E nei Comuni allora? — insiste Gasparri — Lì si è appena votato così, senza problemi».
L'altra questione da risolvere è il premio di maggioranza. Il Pd preferisce darlo alla coalizione: attribuirlo ai partiti ha senso soprattutto se ci sono due partiti forti, ma così non è. E poi i democratici temono che Alfano riesca a coagularsi con altri, vincendo la sfida. Ma, naturalmente, il premio non è una variabile indipendente e darlo ai partiti è soluzione più compatibile, se si va verso un governo di grande coalizione. Gasparri la vede così: «In nessun Paese la grande coalizione può essere oggetto di programma elettorale. È il risultato di uno stato di emergenza o di uno stallo nei risultati. Io preferisco vincere. Comunque, dico no a premi che sfalsino le coalizioni e le portino dal 30 per cento dei voti al 55 per cento dei seggi».
l’Unità 8.7.12
Questa può essere la vera «riforma epocale» della giustizia
di Antonio Ingroia
Sul terreno della riforma della Giustizia regna da anni in Italia la confusione più totale. Ed è bene che i lettori vengano ben informati. Senza la pretesa della verità in tasca, alcuni punti fermi vanno ribaditi, anche per sgombrare il campo da equivoci lessicali. Può definirsi «riforma» quella che l’anno scorso Berlusconi e Alfano presentarono enfaticamente come la «riforma epocale della giustizia»? Proprio per nulla. Perché era l’esatto contrario di una riforma. Era l’apoteosi di un disegno che non esito a definire «reazionario» perché costituiva la reazione all’azione positiva che il potere giudiziario nelle sue varie articolazioni, dalle procure alla magistratura di merito su su fino alla Cassazione e alla Corte Costituzionale, aveva portato avanti negli ultimi anni, consacrando il principio di obbligatorietà dell’azione penale, e l’autonomia e indipendenza della magistratura non come beni fini a se stessi e status di una casta, ma come strumenti per la piena realizzazione del principio costituzionale d’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Ed è accaduto che si sia cercato di ammantare di vesti apparentemente riformiste interventi normativi di contenuto reazionario. Vere e proprie controriforme, come quella, ancora di matrice berlusconiana, che intendeva riportare indietro le lancette della storia, verso forme di nuovi assolutismi incentrati sul predominio del potere esecutivo sul potere giudiziario.
Funzionali a questo riassetto di poteri sono tutte quelle cosiddette riforme che, ispirate da analogo spirito controriformistico, hanno cercato, cercano e cercheranno di sottrarre strumenti e poteri all’autorità giudiziaria, per limarne le unghie e agevolarne la subordinazione al potere politico. Ne è un clamoroso esempio la minacciata stretta sulle intercettazioni che a ogni piè sospinto ritorna, strumentalizzando pretestuosamente polemiche e polveroni a volte artatamente sollevati intorno a procedimenti penali che dell’ascolto di conversazioni di potenti intercettati si avvale. Ed altri esempi sono certamente costituiti da tutti i progetti che mirano a insidiare la dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dal pubblico ministero e il potere di iniziativa di quest’ultimo, al fine di sottoporre al controllo politico l’iniziativa dell’indagine, e quindi lo stesso esercizio dell’azione penale, che finirebbe per non essere più obbligatoria ma affidata a pericolosi criteri di opportunità e discrezionalità politica.
E dentro analoghe logiche di restaurazione ricadono quelle proposte di revisione del modulo organizzatorio della magistratura che, puntando a ulteriori inasprimenti della già avvenuta separazione delle funzioni fra pm e giudici, spingono verso una deriva anch’essa di sapore reazionario.
Che si discosta dal modello di Stato di diritto democratico descritto nella carta costituzionale che tiene come sua qualificata e irrinunciabile caratteristica un pm del tutto autonomo e indipendente dalla politica, e interno alla cultura della giurisdizione della carriera dei giudici. E sarebbe davvero un paradosso della storia se in Italia si invertisse la tendenza nello stesso momento in cui il modello italiano viene considerato in varie parti del mondo, vicine e lontane, punto di riferimento cui ispirarsi per la sua provata efficienza nell’individuazione delle magagne di ogni potere, compreso quello giudiziario, di ieri e di oggi.
Ma perché tutto questo? Perché, ammettiamolo, c’è un mondo politico, a destra come a sinistra, che guarda all’assetto costituzionale di poteri attuale con sospetto e diffidenza, quasi con ostilità. E che vede, spesso anche in buona fede e non solo per finalità di rivalsa verso la magistratura, come riformistico ogni progetto di ridimensionamento dell’autonomia e indipendenza della magistratura. Progetti, invece, di evidente impronta restauratrice dell’ancien regime, laddove finiscono per riprodurre modelli di magistrati ancora fermi all’immagine del magistrato «bocca della legge», esecutore degli «ordini superiori», provenienti dal potere politico.
È forse per queste ragioni che stiamo assistendo a quello che non esito a definire un miracolo, a rischio di apparire enfatico. Il miracolo costituito dagli ultimi progetti di riforma del governo Monti in materia di giustizia. Mi riferisco, innanzitutto, al piano di riorganizzazione delle circoscrizioni giudiziarie che può davvero, e questa a ragione, definirsi riforma epocale come il ministro Severino l’ha presentata. Perché è da decenni che una radicale revisione di questo tipo si attendeva. Indaffarata nell’elaborare progetti di riscrittura dello statuto della magistratura, improntati all’intento di subordinarla al potere esecutivo, molta politica, a destra come a sinistra, ha perso di vista le questioni nodali che andavano affrontate per restituire efficienza alla giustizia e credibilità alle istituzioni agli occhi dei cittadini. La politica ha dimenticato i suoi veri compiti riformatori, che sono, in primo luogo, di adeguare e ammodernare il sistema per renderlo funzionale ed efficiente. Sicché, ancora una volta, di fronte all’afasia della politica, è toccato farlo a un governo di tecnici, costretti all’ennesima supplenza nei confronti della politica. Così come spesso altri tecnici, i magistrati, hanno dovuto fare sul terreno della questione morale e della questione criminale.
Quella della revisione delle circoscrizioni giudiziarie è infatti una riforma attesa da decenni, più volte inutilmente sollecitata alla politica dalla magistratura associata per superare la geografia giudiziaria che ancora oggi risale ai tempi dell’Unità d’Italia. Certo, si potrà discutere se è giusto mantenere qualche tribunale in più nelle terre di frontiera nella lotta alle mafie. Ma, sia detto per inciso, si tratterebbe solo di gesti simbolici, perché la soppressione di qualche sede giudiziaria non possa essere interpretata come ritirata dello Stato in terra infidelium. Ma non è certo la presenza di un piccolo tribunale in più che realizza la maggiore efficienza dell’azione antimafia, peraltro concentrata nelle procure distrettuali delle grandi città.
Quel che conta è che lo Stato italiano dimostri finalmente che la prima riforma base in tema di giustizia è quella di rendere efficiente il sistema, anche con un’accorta politica delle risorse, finanziarie e umane. Tutto questo andrà a vantaggio dei tempi della giustizia, e quindi dei cittadini. Resta da augurarsi che i “tecnici supplenti” riescano ad avere ragione della politica e, superando resistenze campanilistiche e corporative, riescano a far approvare questa importante, se non epocale, riforma. Per passare poi, magari, ad altre due riforme epocali che si muovono nella stessa direzione: la revisione delle impugnazioni e una drastica depenalizzazione.
Se questo governo dei tecnici ci riuscisse sarebbe l’esempio della migliore Politica (con la P maiuscola) della giustizia degli ultimi anni. E, insieme, la débâcle della politica. Con la p minuscola...
l’Unità 8.7.12
Bosone di Higgs. Dopo le lodi, la scure sull’istituto di Fisica
Il presidente dell’Infn Ferroni lancia l’allarme sul taglio di 58 milioni in tre anni
«Per decreto si distrugge l’eccellenza»
Si levano le prime voci di protesta: «Altro che valorizzare il merito»
Senza quei soldi l’Italia non potrà avere in futuro un ruolo in esperimenti importanti
Il taglio del 10 per cento all’organico colpirà indiscriminatamente anche gli enti di ricerca
di Mariagrazia Gerina
Ci si poteva aspettare tutto, tranne che per risparmiare il governo dei professori tagliasse via «la particella di dio». E invece tra le vittime della spending review, c’è finito anche, indirettamente, il «bosone di Higgs». Troppo caro per la fisica italiana. Al mattino osannata dal presidente della Repubblica per la parte avuta nella scoperta, alla sera raggiunta dalle «disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica» messe a punto a Palazzo Chigi. A dispetto dei discorsi sulla necessità di investire in ricerca, un capitolo intero nelle tabelle su tagli a beni e servizi è riservato alla «riduzione dei trasferimenti agli enti di ricerca». Tra tutti l’Istituto nazionale di fisica nucleare, che ha dato un contributo determinante agli esperimenti effettuati presso il Cern di Ginevra e alla scoperta della «particella di dio», è quello che subirà il taglio maggiore.
Circa 58 milioni in tre anni: 9 milioni nel 2012, più di 24 milioni nel 2013 e altrettanti nel 2014. Il decreto governativo li definisce «trasferimenti per i beni intermedi». «Sono i soldi con cui costruisco gli esperimenti, li mantengo e mando i miei ricercatori a farli», spiega molto più concretamente il presidente dell’Infn, Fernando Ferroni. Senza, è difficile immaginare che l’Italia in futuro potrà avere un ruolo in progetti importanti come quelli che hanno portato alla scoperta del bosone.
RISPARMI ALL’ITALIANA
Per questo, il presidente dell’Infn non vuole credere alle cifre che legge nelle tabelle elaborate dal governo in cerca di sprechi da tagliare. «Se fossero vere, perderei un terzo della mia capacità di fare ricerca e mi avvierei a diventare un ente inutile». Tanto per dare una misura, i trasferimenti all’Infn per l’ultimo anno ammontano a circa 241 milioni di euro: 24 milioni sono il 10% del totale, ma tenendo conto che circa 135 milioni servono a pagare gli stipendi e un’altra parte di spese, come la corrente elettrica, sono difficilmente eliminabili, 24 milioni sono un terzo di ciò che resta per finanziare esperimenti e missioni all’estero. E più o meno la cifra che l’Istituto ottenne lo scorso anno per i «progetti bandiera».
In tutto, i trasferimenti tagliati agli enti di ricerca ammontano a 200 milioni in tre anni, più di 33 solo nel 2012, altri 88 per il 2013 e per il 2014. Il Cnr perde 6 milioni per il 2012, 16 per il 2013 e altrettanti nel 2014, ovvero il 3,28% dei trasferimenti attuali. L’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia perde subito 600mila euro e 1,6 milioni a partire dal prossimo anno. L’Agenzie spaziale italiana, 1 milione subito, quasi 3 dal prossimo anno. Resta ancora una speranza, triste, a cui aggrapparsi: «Siamo in Italia e da noi, qualche volta le tragedie finiscono in commedia», osserva Ferroni. Tanto per dirne una, i finanziamenti per il 2013 e il 2014 non sono ancora fissati: «che significa dunque sottrarre dei soldi a una cifra che ancora non c’è?».
Ma c’è un altro dato che preoccupa: il taglio del 10 per cento all’organico di tutti i settori della pubblica amministrazione che colpirà indiscriminatamente anche gli enti di ricerca. «Avrei capito se ci avessero dato degli indicatori di efficienza e ci avessero detto: a quelli dovete attenervi, ma qui i tecnici hanno deciso di fare all’italiana, tagliando un tanto a tutti indiscriminatamente», li critica il presidente dell’Infn, ancora incredulo che l’ente da lui diretto sia stato individuato dal governo come uno spreco da ridurre. «Mi sento in un film dell’orrore: la mattina il presidente Napolitano ci fa i complimenti, la sera ci tagliano anche i tecnici di cui abbiamo bisogno». Altro che «premio al merito», si sfoga Ferroni. «Come minimo dice mi sarei aspettato che il via libera alle 70 assunzioni programmate per il 2009». Le ultime prima dello stop al turn over. E invece il governo Monti continua a tenere bloccate anche quelle. «E poi ci lamentiamo se i nostri cervelli migliori fuggono all’estero». La fisica italiana ne perde «almeno quaranta» l’anno. «E certo non è così che si arresta la fuga».
il Fatto 8.7.12
Immigrati “Una sanatoria con rischio ricatto”
Permesso di soggiorno al clandestino che denuncia il datore di lavoro
Laura Boldrini: “Aspettiamo il testo, ma sicuramente si afferma un principio giusto nel senso della legalità”
di Wanda Marra
Il percorso che si è intrapreso è molto importante e molto difficile: perché implica il riconoscimento di un’illegalità diffusa. C’è tutto un settore, l’agricoltura, che funziona con il lavoro nero”. È Loris De Filippi, responsabile di Medici senza Frontiere Italia a sottolineare l’aspetto simbolico oltre che “fattuale” del decreto legislativo sull’immigrazione approvato venerdì dal Consiglio dei ministri. Provvedimento che potrebbe segnare la fine del caporalato. Punto cardine la regolarizzazione del lavoro nero, che si porta dietro principalmente due conseguenze: l’emersione del fenomeno, con relativa sanatoria e l’inasprimento delle pene per chi dà lavoro in nero. Il decreto legislativo varato dal Cdm recepisce la direttiva europea 2009/52/CE sulle “norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”. Come spiegano gli esperti del settore, il governo era obbligato a recepire tale direttiva. “Noi come Commissioni di Camera e Senato, approfittando anche della distrazione del Pdl, abbiamo dato parere favorevole a condizione che fosse concessa al datore di lavoro la possibilità di regolarizzare il proprio lavoratore”, spiega la parlamentare democratica Livia Turco.
E IL MINISTRO Andrea Riccardi su questo punto ha battuto dall’inizio. Dunque, ci si avvia ad una sanatoria in piena regola. Il testo non è ancora definitivo (ora deve andare alla Corte dei Conti, poi sarà pubblicato, dopodiché verrà pubblicato il testo attuativo), ma dovrebbe essere molto estesa, riguardando non solo l’agricoltura, ma anche il lavoro domestico, di colf e badanti. “Per l’Europa questo non sarebbe possibile. E dunque in realtà tecnicamente si tratta di una regolarizzazione ad personam”, spiega Filippo Mira-glia, responsabile Immigrazione dell’Arci. Le cifre si annunciano esorbitanti: in occasione del decreto flussi del 2010 per 98mila posti regolari disponibili le domande furono 430mila (il governo poi ne concesse solo 12mila). E se a questi lavoratori in nero si aggiungono i circa 600mila che hanno perso il lavoro recentemente, la cifra sale. “Il governo concede la possibilità di ravvedersi al datore di lavoro - spiega Miraglia - versando 1000 euro e 3 mesi di contributi arretrati. Questo significa che se ad essere regolarizzati saranno almeno in 500mila tra Inps e denaro sottratto all’evasione nelle casse dello Stato arriveranno annualmente tra i 3 e i 5 miliardi”. Il decreto contiene - per gli esperti del settore - anche una serie di punti interrogativi e di potenziali problemi. Spiega Miraglia: “1000 euro per la regolarizzazione sono effettivamente tanti, anche perché sappiamo perfettamente che alla fine a doverli pagare sono gli stessi immigrati. Con consequenziale rischio di finire vittime di truffe”.
Ma la questione forse più controversa è quella che riguarda la possibilità per chi denuncia il proprio datore di lavoro di avere un permesso di soggiorno. “Potenzialmente è una norma pericolosissima”, spiega Sergio Briguglio, fisico nella vita, ma tra i principali esperti di politica dell’immigrazione in Italia (il suo archivio, www. stranierii nitalia.com/briguglio raccoglie gran parte della documentazione prodotta sull'argomento dal 1992).
IL RISCHIO è il ricatto: “Alla fine, il decreto del governo dovrebbe essere un permesso per motivi umanitari e dunque riguardare solo i casi di grave sfruttamento”, spiega Briguglio. E c’è un altro punto non ancora definito: sarà di certo un permesso di soggiorno per giustizia, e dunque una volta che il procedimento nei confronti del datore di lavoro finisce, scade. “Ma dovrebbe esserci la possibilità che se l’immigrato trova un posto di lavoro nel frattempo, il suo permesso si trasforma”. Cosa, quest’ultima, che si augura l’Arci. Sottolinea Miraglia: “La norma che riguarda la denuncia del datore di lavoro dovrebbe essere applicata pochissimo. Quello del lavoro nero, è un tema delicato, in cui il confine tra abuso e connivenza è molto difficile: anche se si tratta di una situazione di illegalità, tranne in casi, appunto, di estremo sfruttamento, dal lavoro nero hanno da guadagnare sia il datore di lavoro che il lavoratore”.
Repubblica 8.7.12
Tornano i figli della ruota abbandoni in aumento “Così la legge tutela i neonati”
Pioggia di richieste per adottare il piccolo Mario
di Vera Schiavazzi
ROMA — Un gesto d’amore estremo, preparato con cura, con le tutine piegate e il latte della mamma nel biberon. Chi ha abbandonato il piccolo trovato venerdì sera nella “culla per la vita” della Mangiagalli non è un criminale, né una madre degenere, ma, probabilmente, una donna che dopo aver dato alla luce il suo bambino e averlo allattato e curato per almeno 6 giorni ha scelto quel che riteneva meglio per lui. Una clinica dove verrà curato (il piccolo Mario è sottopeso, forse perché nato prematuro) e accompagnato verso la sua nuova vita. Presto, prestissimo, per lui arriverà anche una famiglia: già ieri il centralino della Mangiagalli è stato preso d’assalto da aspiranti genitori adottivi, una reazione emotiva a una storia commovente, che contiene però una grande verità. Mario, e la coppia che lo adotterà, sono un caso fortunato, uno dei pochi che consentono a dei giovani genitori giudicati idonei all’adozione di accogliere un neonato di poche settimane. Come il piccolo milanese, altri 400 bambini vengono dichiarati adottabili ogni anno in Italia poco dopo la nascita. Sono i bambini nati da donne che, pur senza far ricorso alle “ruote” sistemate in vari ospedali, partoriscono e scelgono di non essere nominate, come prevede una legge tra le più avanzate del mondo. «Nelle grandi metropoli l’abbandono è ormai una routine — spiega Melita Cavallo, presidente del Tribunale dei minori di Roma — Ma quando abbiamo a che fare con casi di grande precarietà sociale e morale, la scelta dell’abbandono va vista come una scelta responsabile. È il modo per evitare che il figlio finisca nel baratro, concedendogli la possibilità di trovare una nuova famiglia che gli dia amore». Le statistiche dicono che le donne che non riconoscono il proprio figlio alla nascita sono spesso straniere (70 per cento), giovani alla prima gravidanza, prive di un compagno e di un lavoro stabile, o timorose di perderlo se dovessero tenere il bambino. «Soprattutto nelle grandi città dove l’immigrazione raggiunge livelli altissimi, i casi di abbandono raggiungono anche le cinquanta unità in un anno — conferma Cavallo — Non condivido la condanna morale verso queste donne. Quando mi capitano casi di abbandono dovuti a storie di alcolismo, tossicodipendenza o di maltrattamenti invito la persona a riflettere sul gesto responsabile legato all’abbandono. E poi, non siamo ipocriti: una mamma senza casa e lavoro come potrebbe garantire un futuro sereno al proprio figlio? Il gesto di abbandono dunque è dettato dalla responsabilità, dalla volontà di non trascinare nel baratro il bambino. Piuttosto, sarebbe giusto offrire anche a queste persone la possibilità di lasciare i propri dati in un fascicolo accessibile al figlio una volta maggiorenne». Il dibattito è aperto. Chi lascia un bimbo in ospedale subito dopo il parto ha tempo tre mesi per ripensarci. Una possibilità che la mamma del piccolo Mario quasi certamente non avrà, anche se, come prevede la legge, la questura di Milano è al lavoro per ricostruire la vicenda. «Non credo che la rivedremo, dice Basilio Tiso, direttore sanitario alla Mangiagalli. «Quella madre, chiunque sia, ha fatto la sua scelta, ora tocca a noi prenderci cura del bambino in attesa delle decisioni del Tribunale. Come facciamo ogni anno in 7 o 8 casi». Che, con ogni probabilità, troverà per il piccolo una prima famiglia “di emergenza”, scelta tra coppie già sperimentate che hanno dato la loro disponibilità ad accogliere bambini anche piccolissimi, e poi dichiarerà il piccolo adottabile: a 90 giorni, Mario Mangiagalli potrebbe cambiare nome e cominciare la sua nuova vita lontano dai riflettori. Non ci sono reati dietro il suo abbandono, dato che non è stato esposto ad alcun pericolo, non ci sono delinquenti da assicurare alla giustizia, solo una storia disperata che forse non si potrà mai ricostruire del tutto. «Quello di Mario è il primo caso dal 2007, ma speriamo che serva a far conoscere meglio questa possibilità e dunque a prevenire abbandoni ben più crudeli, che mettono a rischio la vita del neonato», dice Giulio Boscagli, l’assessore alla famiglia della Regione Lombardia. Non è d’accordo il presidente dei Radicali italiani, il ginecologo Silvio Viale: «A dover essere conosciuta meglio è la legge che consente alle donne di partorire con sicurezza in ospedale pur mantenendo l’anonimato. E una proposta di legge che prevede “ruote degli innocenti” in tutti gli ospedali è già stata depositata dalla Lega Nord a Palazzo Madama. Per essere efficaci, le “culle della vita” devono essere monitorate 24 ore su 24, proprio come è successo alla Mangiagalli, dove la chiusura dello sportello fa scattare l’allarme, e come avviene in altri Paesi, primo fra tutti la Germania, seguita, in Europa, da Romania e Polonia, mentre in Ungheria esistono 26 “baby box”. Non tutti sono d’accordo, però: secondo una risoluzione delle Nazioni Unite del 2010, le “ruote” possono trasmettere un messaggio negativo, incoraggiando le donne agli abbandoni.
La Stampa 8.7.12
Gravidanza senza amniocentesi .Basterà l’esame del sangue
I ricercatori su Nature: il semplice test individuerà eventuali mutazioni del feto
di Fabio Di Todaro
ROMA Nei prossimi anni le donne potranno evitare l’invasiva amniocentesi per verificare la salute del feto
In attesa di conferme, richieste anche dagli studiosi, la notizia ha comunque aperto una breccia nel campo della diagnosi prenatale, oltre a essere rimbalzata sui social network. Tra qualche anno l’amniocentesi, il prelievo di liquido amniotico dalla cavità uterina della donna in gravidanza, potrebbe non essere più necessaria per riscontrare eventuali difetti del corredo cromosomico del feto. «Ma per escluderla definitivamente occorreranno altre verifiche», hanno sottolineato i ricercatori dell’università statunitense di Stanford che, guidati dai professori Christina Fan e Wei Gu, hanno mappato per la prima volta il genoma di un nascituro usando un solo campione di sangue materno senza ricorrere a rischiose tecniche invasive. Gli studiosi hanno mostrato che n semplice test ematico può individuare le mutazioni del feto che sono alla base di circa 3mila disordini ereditari: sindrome di Down e fibrosi cistica, i più frequenti. «Siamo interessati a individuare le condizioni che possono essere trattate prima della nascita o subito dopo», ha osservato Stephan Quake, coordinatore del team di ricerca. «Senza tali diagnosi, i neonati con problemi metabolici o disturbi del sistema immunitario non possono essere trattati fino a quando non manifestano i loro disturbi».
Lo studio è stato pubblicato sul numero di luglio di Nature e, oltre a esporre i vantaggi di un esame meno invasivo per la donna, ha reso noto come non sia più necessario il contributo del dna paterno: un vantaggio, quando la paternità di un bimbo non può essere conosciuta. Se riuscirà, con il tempo, a selezionare un sottogruppo di pazienti candidate necessariamente all’amniocentesi, calerà il numero di aborti correlati alla metodica invasiva: a oggi calcolabile in uno su 400 esami sostenuti. «Questo lavoro dà sostanza alla letteratura in materia», spiega Fulvio Zullo, direttore della clinica ostetrica del policlinico Magna Grecia di Catanzaro. «La sfida, ora, è superare la soglia di affidabilità che permetta di utilizzare questi esami in ambito clinico. Ma non è il caso di criminalizzare l’amniocentesi che si continua a consigliare alle donne preoccupate per una possibile anomalia cromosomica».
Il nuovo metodo messo a punto dal gruppo di ricerca americano apre le porte a una nuova diagnosi prenatale di malattie genetiche.
«Attendiamo ulteriori conferme», ha commentato una mamma su Facebook, mentre tra le altre donne imperversava il botta e risposta a un quesito etico: il prelievo di sangue va bene, ma una volta note eventuali patologie come comportarsi? Per il momento non resta che augurarsi che il riscontro emerso negli Stati Uniti - esaminando la sequenza di un intero genoma, i ricercatori hanno potuto scoprire che un feto aveva ereditato la sindrome di Di George: dovuta a una microdelezione sul braccio lungo del cromosoma 22 - sia corroborato da ulteriori ricerche. «Di sicuro, un’anomalia riscontrata precocemente permette di ridurre gli aborti a vantaggio delle interruzioni volontarie di gravidanza», spiega Simona Freddio, ostetrica all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia.
Con il test genetico prenatale, i genitori potranno sapere dalla fine del primo trimestre (12 o 13 settimane di gestazione) se il feto ha dei difetti cromosomici o genetici e quindi, ad esempio, se necessita di particolari accortezze dietetiche.
Conseguenze potrebbero esserci anche per la villocentesi, effettuata nelle donne con età superiore ai 35 anni o che hanno già avuto un figlio con disordini cromosomici. Determinato il cariotipo, chissà che quella puntura addominale non rimanga soltanto sui libri di storia della medicina.
l’Unità 8.7.12
Jacques Attali
«Senza federalismo europeo la moneta unica sarà travolta»
di Umberto De Giovannangeli
È uno dei guru dell’economia francese, ex consigliere di Mitterrand e primo presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo
Le misure tampone possono tenere a bada i mercati ma così non si garantirà il futuro Ue
Cedere quote di sovranità nazionale a organismi sovranazionali
Occorre rilanciare la produttività e creare Project bonds, cioè del debito buono
Bisogna finanziare solo progetti generatori di futuri redditi
«Le misure tampone possono forse “calmierare” per un po’ i mercati e cercare di tenere a bada la speculazione finanziaria. Ma non è così che si garantirà un futuro all’Europa: il salto di qualità sta nel cedere sempre più quote di sovranità nazionale a organismi sovranazionali. Si tratta di una scelta politica: oggi più che mai, l’obiettivo a cui tendere, quello su cui convogliare tutte le energie migliori, è il federalismo europeo. Attorno a questo discrimine occorre verificare le alleanze. Il vero “scudo” per l’Europa si chiama federalismo» Governo europeo o la fine stessa dell’euro sarà solo una questione di tempo! A sostenerlo è uno dei guru dell’economia francese: Jacques Attali, 69 anni, ex consigliere di François Mitterrand all’Eliseo, primo presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, ideatore di Planet France, organizzazione non governativa che sostiene progetti di microcredito. «Bisogna pensare più in grande: – rimarca Attali avere non solo una moneta unica, ma anche un bilancio comune, un’unica politica fiscale e uno stesso sistema di monitoraggio del deficit. Non è possibile avere una valuta credibile, se questa valuta non ha dietro una politica di bilancio sostenibile, così come va realizzato, e al più presto, quel percorso, approvato a Bruxelles, verso un’unione bancaria e fiscale. Poi deve ripartire la ripresa, quella vera, fatta di investimenti privati. E deve ripartire in fretta perché l’economia peggiora sempre più».
Il Consiglio Europeo di fine giugno è ancora al centro del dibattito nei singoli Paesi dell’Unione e a livello internazionale. C’è chi si è sbizzarrito a indicare vincitori e vinti.
«È un esercizio che non mi affascina neanche un po’, convinto come sono che una Europa divisa favorisce la speculazione e che compromessi al ribasso finiscono per aggravare la crisi. Una crisi che non è solo finanziaria, economica ma è anche, e soprattutto, crisi politica».
Il che ci porta ad un tema a lei molto caro: quello del federalismo europeo.
«Per fortuna non sono il solo a ritenere che l'Unione europea non potrà uscire da questa crisi senza un cambio di paradigma. Ma ciò che più conta è che un'altra via di uscita è possibile. Essa consiste nel correggere gli squilibri dell'Unione economica e monetaria superando le insufficienze del trattato di Lisbona per andare al di là del coordinamento fra Stati membri. Essa consiste nel denunciare, ridurre e progressivamente annullare i costi della non-Europa. Per giungere a questi risultati occorre rilanciare la produttività attraverso riforme strutturali in particolare nel settore dei servizi ed investimenti in progetti generatori di crescita. Essi esistono già: nella trasmissione di energia e nell'efficienza energetica, nei trasporti puliti e nelle politiche urbane, nell'aeronautica e nella ricerca... gli industriali dispongono di progetti su scala europea per i quali è necessario il concorso finanziario di tutti i Paesi».
Si muove in questa direzione il fondo di 130miliardi di euro per la crescita voluto da Francois Hollande e rilanciato dal vertice di Bruxelles?
«Diciamo che è un primo passo, ma molta altra strada andrà fatta perché si possa parlare di una vera svolta nell’aggredire le ragioni della crisi. Il fattore-tempo è importante tanto quanto la direttrice di marcia a cui tendere. In questa ottica, resta di fondamentale importanza creare dei Project bonds, cioè del debito buono, finanziando esclusivamente progetti generatori di futuri redditi. La Bei potrà senza difficoltà assumere a proprio carico questi progetti sulla base di proposte della Commissione europea. Occorre circoscrivere poi i debiti del passato mutualizzandone una parte, Ripeto: il Consiglio di fine giugno ha rappresentato l’inizio di un percorso, guai se ritenessimo di essere in uscita dal tunnel della crisi». Professor Attali, l’Europa che lei agogna può nascere solo dall’alto?
«Direi decisamente di no. Quanto più impegnative, e per certi versi impopolari, sono le misure da adottare per uscire dalla crisi e dar corpo a una prospettiva di crescita, tanto più è necessario una forte legittimazione democratica. Le faccio un esempio: soltanto un'imposta europea nel quadro di un bilancio federale potrà dare credibilità adeguata a questo strumento di crescita. Per finanziare il bilancio federale si può pensare a un punto in percentuale dell'Iva, a una carbon tax e a una tassa sulle transazioni finanziarie. Sarà allora possibile generare con i project bonds più di 1000 miliardi di euro per investire in progetti di avvenire, rilanciare una vera crescita, proporre una visione convincente dell'Europa e creare i meccanismi per la soluzione degli squilibri che sono all'origine dell' Unione economica e monetaria. Ma nessuna imposta potrà essere tuttavia decisa senza legittimità democratica e senza risolvere la crisi di fiducia fra la Ue e i suoi cittadini, offrendo agli Europei una nuova prospettiva. L'euro non potrà sopravvivere senza un progresso politico democratico decisivo. Se non facciamo un passo verso un maggiore federalismo l’euro sparirà, non si tratta di essere federalisti o anti-federalisti, è un dato di fatto. L’Europa non sopravviverà senza un budget federale un po’ più consistente, perché esiste un budget europeo».
I riflettori restano puntati sul più forte: la Germania di Merkel. L’opinione dominante, al di là del giudizio di valore sulle politiche adottate da Berlino in chiave europea, è che la Germania ha l’egemonia economica dell’Europa.
«È qui che si sbaglia. Non mi interessa l’opinione dominante. Io dico che la Germania sarà il malato dell’Europa da qui a vent’anni, perché la debolezza di una nazione si misura essenzialmente con la sua demografia e la sua capacità di concepire una strategia di lungo periodo. Si tratta di progredire verso un maggiore federalismo europeo, ma allo stesso tempo senza spingere i tedeschi ad opporsi, ma al contrario provando a far capire loro che hanno interesse nel progredire verso un federalismo europeo. Questo perché se l’Eurozona continuasse a indebolirsi, o addirittura dovesse ristringersi, estendendo l’area di crisi dalla Grecia a Paesi cruciali come Italia e Spagna, l’euro salirebbe moltissimo, è già troppo forte, e la Germania che ha fondato il suo modello di sviluppo interamente sulle esportazioni e non sul mercato interno, si ritroverebbe in una situazione tragica».
l’Unità 8.7.12
Libia al voto tra festa e disordini
«È un buon inizio ma il nuovo Stato deve essere laico»
Intervista a Mahmoud Jibril ex premier del Consiglio nazionale di transizione
oggi candidato alla guida di un’alleanza laica, la Coalizione delle forze nazionali
di U.D.G.
«Sino a un anno fa, quello che è accaduto oggi (ieri,ndr), era semplicemente impensabile. Per oltre quarant’anni le elezioni sono state un rito, una sceneggiata ad uso e consumo del regime. Certo, siamo solo agli inizi di un processo democratico. Ma direi che è un buon inizio». A parlare è una delle figure più rappresentative della Libia del post-Gheddafi: Mahmoud Jibril, ex premier del Consiglio nazionale di transizione, oggi alla guida d’un’alleanza laica, la Coalizione delle forze nazionali. «Siamo convinti di ottenere un buon risultato» – dice Jibril a l’Unità a poche ore dalla chiusura dei seggi. Quanto al rischio che la «nuova Libia» possa nascere nel segno dell’islamismo radicale, Jibril è netto nella sua risposta: «Non abbiamo combattuto una dittatura per veder nascere uno Stato teocratico. La nuova Libia non sarà il “regno della sharia” (la legge islamica,ndr)».
Mentre parliamo i seggi sono ancora aperti. La Libia è andata al voto tra lunghe file ai seggi e disordini. «Nessuno poteva illudersi che dalle macerie di un regime durato quarant’anni potesse nascere, d’incanto, uno Stato di diritto. Tuttavia, questo voto rappresenta un passaggio importante di un processo democratico che dovrà superare altri esami prima di potersi considerare concluso. Si è trattato di un inizio, di un buon inizio». Alle elezioni si sono presentati una miriade di partiti, dando l’idea di una frantumazione politica che sarà difficile ricomporre.
«È un rischio che andava corso. Dopo quarant’anni di regime, la volontà di partecipazione non poteva essere coartata. La posta in gioco di queste elezioni è essenzialmente nazionale prim’ancora che politica. Ciò spiega la volontà di tutte le forze nazionali di essere rappresentate, anche simbolicamente, in Parlamento».
Tripoli in festa, disordini ai seggi a Bengasi: la Libia è ancora un Paese spaccato in due?
«La Libia è un Paese frutto della sua storia, e nella sua storia c’è anche la divisione tra la Cirenaica e la Tripolitania. Il passato non si cancella con un colpo di spugna, così come non si cancella il peso che le tribù hanno nel Paese. Tuttavia, è importante che le maggiori formazioni politiche, siano esse laiche sia islamiste, si siano presentate come forze nazionali, condividendo un punto fondamentale: la nuova Libia sarà uno Stato unitario, con Tripoli capitale, anche se ciò non significa disconoscere le specificità regionali». Uno Stato unitario, ma c’è chi teme che sia uno Stato dominato dall’islamismo radicale.
«Da laico rilevo che è importante una evoluzione istituzionale dell’Islam politico, come è avvenuto in Turchia e ora in Egitto. Al tempo stesso, però, affermo con nettezza che non abbiamo combattuto un regime dittatoriale per veder nascere uno Stato teocratico. Avremo la forza e i consensi per fare della nuova Libia uno Stato di diritto».
Repubblica 8.7.12
Faisal al Krekshi, dell’Alleanza delle forze nazionali: “Non andrà come in Tunisia ed Egitto”
“Qui i partiti laici si sono uniti gli islamici non prevarranno”
TRIPOLI — Faisal al Krekshi, segretario generale dell’Alleanza delle Forze nazionali, ex rettore dell’Università di Tripoli, indossa pantaloni leggeri grigi e camicia bianca di lino (“ho studiato medicina a Padova all’inizio degli anni 80, e ancora oggi continuo a vestirmi all’italiana). Krekshi non è candidato a queste elezioni, come non lo è Mahmoud Jibril (“siamo entrambi supra partes perché guidiamo un’alleanza di tanti partiti”) ma i loro nomi circolano per importanti cariche istituzionali se l’Alleanza vincerà. Anche in Libia, dopo Tunisia e Egitto, vinceranno gli islamisti? «Diversamente dalla Tunisia, dove i partiti laici hanno avuto un gran numero di voti ma Ennada ha vinto, noi abbiamo capito che le forze liberali non potevano restare frammentate. Dovevamo unirci. Per questo abbiamo creato quest’alleanza di centro: 60 partiti hanno sottoscritto un programma che si propone la separazione dei poteri, la creazione di un sistema giudiziario credibile, e trasparenza per sconfiggere la corruzione. Gli islamisti hanno enormi risorse finanziarie — di origine oscura, mentre noi possiamo rendere conto di ogni contributo ricevuto — ma noi abbiamo risorse umane. Il ruolo di Mahmoud Jibril nella liberazione è riconosciuto da tutti e io, come rettore dell’Università di Tripoli sono noto ad almeno centomila studenti. I Fratelli musulmani invece non hanno in Libia una tradizione, non avevano come in Egitto scuole o ospedali, e le donne, qui, sono state sempre più emancipate che altrove». Quali sono i primi passi che farete se vincete le elezioni? «Formare un governo di unità nazionale; togliere le armi ai ribelli che non le depongono finché non riacquistano fiducia in chi governa, e inserendoli nella società civile — nella polizia, nel-l’esercito, oppure dando loro lavoro, o la possibilità di studiare, non come questo governo che li tratta da mercenari, dà loro soldi e basta». Va reintegrato anche chi apparteneva al regime di Gheddafi? «Sì, ad eccezione dei veri criminali. Solo così si ristabilisce la sicurezza. E poi dobbiamo allentare il centralismo e soprattutto fare un buon programma economico, che guardi al futuro: non c’è solo il petrolio e il gas, la Libia può sviluppare energie rinnovabili, l’agricoltura ad est, la pesca. In tutti questi settori vorremmo una stretta collaborazione con l’Italia, le cose che ci uniscono sono tante. Le risorse ci sono, basta amministrarle bene, e noi abbiamo professionisti di alto livello».
(v.v.)
Corriere 8.7.12
Brigate ribelli, milizie verdi e tribù del deserto
Gli 80 mila che non hanno deposto le armi
di L. Cr.
TRIPOLI — Per comprendere come funzionano in pratica le milizie in Libia raccontiamo un episodio avvenuto pochi giorni fa al posto di blocco occidentale di Misurata, sulla provinciale che porta alla capitale. Uomini armati di mitra, alcuni in civile, ma la maggioranza con le mimetiche rubate dagli arsenali dell'ex regime, controllano i documenti al riparo di giganteschi container disposti in mezzo alla strada.
Il collaboratore libico del Corriere si chiama Kahiri Abdusalam, ha 32 anni e risiede a Tripoli. A lui si rivolgono in modo brusco i miliziani della qatiba (la brigata) locale, dopo aver controllato la sua carta d'identità. «Il tuo nome corrisponde a quello di un militante pro Gheddafi che stiamo cercando. Sei agli arresti per accertamenti», gli dicono senza mezze parole. Siamo nel centro del Paese, ma questi uomini si comportano come se fossero di guardia a un confine internazionale.
Kahiri sarebbe subito rinchiuso in una piccola cella in prossimità del posto di blocco se non si accorgessero della presenza di uno straniero. «Non si sta male. Tempo una settimana e sei fuori», aggiungono con un mezzo sorriso. Non serve dire loro che sarebbe meglio chiarire con le autorità di Tripoli. «Noi siamo indipendenti. I nostri comandi sono a Misurata», replicano. Ci vorranno un paio d'ore e l'intervento di un colonnello del posto particolarmente sensibile ai media stranieri per convincerli a farci ripartire.
Ma la vicenda è indicativa. Il Paese resta diviso tra centinaia di milizie autonome che in maggioranza ancora rifiutano di disarmare. È l'anarchia della forza. Si parla di circa 80 mila armati divisi soprattutto tra Zintan (sino a 20.000 miliziani), Misurata (15.000), Bengasi (30.000), oltre a diverse migliaia attivi nelle zone pro Gheddafi di Sirte e le tribù del deserto, specie attorno alla cittadina di Kufra. Nel solo carcere di Misurata pare siano chiuse oltre 3 mila persone accusate di avere collaborato in vario modo con l'ex dittatura. In tutto il Paese potrebbero essere quasi 20 mila, molte rinchiusi in celle improvvisate. La loro sorte è incerta.
In molti casi non è stato ancora formulato un ordine di cattura con imputazioni precise, sono segnalati episodi di tortura. A Zintan tengono ben stretto Saif Al Islam, il figlio più politico di Gheddafi, nonostante il governo transitorio ne abbia chiesto il processo a Tripoli. A Bengasi e in generale nella Cirenaica «verde» sono acquartierate le milizie più legate al fronte del fondamentalismo islamico. Tra loro si contano decine di ex militanti della «guerra santa» in Afghanistan e Iraq. Solo poche settimane fa una trentina di pick-up con le bandiere nere e verdi di Al Qaeda provenienti da Darna e Bayda hanno fatto irruzione a Bengasi minacciando di morte chiunque intendesse andare alle urne. Gli abitanti di Sirte hanno denunciato ieri la presenza di tre milizie in guerra tra loro. Più attivi i «comitati islamici» di Misurata decisi ad eliminare gli Abu-Helgha ancora pro-Gheddafi.
La Stampa 8.7.12
La resa di Kofi Annan “Sulla Siria abbiamo fallito”
L’inviato Onu: “Le potenze con interessi nella regione facciano cessare le violenze”
di Natalie Nougayrède
GINEVRA Kofi Annan, ex segretario generale dell’Onu, è da tre mesi inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria Le violenze in Siria durano da 16 mesi, e sembrano aggravarsi. I bilanci parlano di almeno 16 mila morti, di un milione e mezzo di persone hanno bisogno degli aiuti umanitari, di centomila rifugiate nei Paesi vicini. E lei, Kofi Annan, inviato internazionale dell’Onu e della Lega araba per la Siria, che bilancio fa della sua missione? Lei pensa che la missione stia fallendo?
«Questa crisi dura da 16 mesi, ma io sono stato coinvolto solo tre mesi fa. Sforzi importanti sono stati fatti per cercare di risolvere la situazione in modo pacifico e politico. A quanto si vede, non ci siamo riusciti. E forse non c’è nessuna garanzia che ci riusciremo. Ma abbiamo studiato delle alternative? Abbiamo messo altre opzioni sul tavolo? Ho detto queste cose al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, aggiungendo che questa missione non era illimitata nel tempo, come anche il mio ruolo».
L’accordo per una «transizione politica» in Siria adottato il 30 giugno a Ginevra dalle grandi potenze non comporta una data finale. Non è una nuova occasione per Assad di guadagnare tempo?
«Non abbiamo incluso nel piano un calendario perché volevamo sottolineare che il processo deve essere condotto dagli stessi siriani. Non vogliamo imporre nulla di irrealistico. Un calendario non può che essere il risultato di consultazioni. Uno degli obiettivi dell’incontro di Ginevra era che i partecipanti (Paesi occidentali e arabi, Turchia, Russia, Cina, ndr) si mobilitassero di nuovo per una soluzione politica. E che i governi della regione utilizzassero la loro influenza sui partiti in Siria per spingerli a un risultato».
Sembra che lei punti sull’influenza russa.
«C’è forse un’alternativa? La Russia, come molti altri Paesi, ha interessi in Siria e nella regione. Una volta che si parte dal principio che esistono anche interessi comuni, a medio e a lungo termine, la questione diventa: come proteggere questi interessi? Non è forse desiderabile che questi Paesi trovino il modo di lavorare insieme, per essere certi che la Siria non esploda in mille pezzi e non diffonda i problemi tra i vicini, creando una situazione incontrollabile per tutti? Oppure questi Paesi continueranno sulla strada intrapresa, portando a una competizione distruttiva, nella quale ciascuno finisce per perdere? Più che tutto, occorre pensare ai poveri siriani e agli abitanti della regione. Spero che la ragione avrà la meglio, almeno quando si tratta della difesa degli interessi degli Stati. In questo caso, è nell’interesse della Russia, come degli altri Paesi, trovare il modo di lavorare insieme».
Lo scenario più realistico non potrebbe essere quello in cui i russi contribuiscono a cambiare la direzione politica in Siria, ma facendo in modo che l’apparato della sicurezza resti strettamente legato a loro?
«Non sono sicuro di poter rispondere. Sono in gioco più fattori e gli eventi sono forgiati da più attori. La Russia ha dell’influenza ma non sono certo che gli eventi saranno determinati dalla sola Russia».
Allude all’Iran?
«L’Iran è uno degli attori. Dovrebbe fare parte della soluzione. Ha dell’influenza e noi non possiamo ignorarla. Invece si parla molto della Russia e poco sia dell’Iran sia di altri Paesi che inviano armi e denaro e pesano sulla situazione in campo. Questi Paesi sostengono di volere una soluzione pacifica, ma poi prendono iniziative individuali e collettive che minano il senso stesso delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Il fatto che ci si focalizzi solo sulla Russia irrita molto i russi.
Per l’opposizione siriana l’accordo di Ginevra comporta troppe concessioni, soprattutto alla Russia...
«Mi spiace che gli oppositori abbiano reagito in questo modo. Il comunicato
INTERFERENZE «Ci sono Paesi che dicono di volere una soluzione politica e pacifica poi però inviano armi e denaro»
di Ginevra è stato elaborato da un gruppo di Stati che all’80 per cento sono membri del “Gruppo di Amici della Siria”. Per questo è piuttosto curioso sostenere che l’opposizione è stata “tradita” o “venduta”».
In assenza di una tregua, la presenza in Siria di 300 osservatori ha senso?
«A volte si sente dire che gli osservatori, che peraltro non sono armati, non sono riusciti a far cessare le violenze. Ma quello non era il loro compito! Sono entrati in Siria per verificare se le parti rispettavano l’impegno a cessare le ostilità. E per un attimo, il 12 aprile, così è stato. Non riuscivo a crederci. Se è stato possibile per un giorno, perché non per un mese? Invece c’è stata una escalation della violenza. Ma se la situazione migliorerà, gli osservatori sono pronti a riprendere il loro lavoro».
Le defezioni militari siriane, in particolare quella del generale Tlass, possono essere il risultato di un’azione diplomatica? Di pressioni esercitate sottobanco dalla Russia? Dall’accordo di Ginevra sembrano essersi moltiplicate...
«Noi leggiamo i rapporti sulle diserzioni, e quest’ultimo caso riguarda una figura importane del regime, ma è difficile determinare che cosa abbia portato a queste decisioni».
Corriere 8.7.12
Museo italiano nella Capitale cinese, il dialogo comincia dalla cultura
di Paolo Conti
Non è una novità, ma una conferma: l'Italia è davvero il Paese leader nella capacità di rappresentare se stesso attraverso il proprio retaggio culturale. A Pechino, la direzione generale per la Valorizzazione guidata da Mario Resca ha appena concluso un progetto iniziato, con un serrato e costante lavoro, nell'ottobre 2010: per la prima volta al mondo uno Stato (l'Italia) apre, nella sede del museo più prestigioso di un'altra nazione (il Museo Nazionale cinese di Pechino) un proprio spazio museale con 67 opere provenienti da una trentina di gallerie e istituzioni espositive nazionali. Un piano di lavoro quinquennale, rinnovabile alla sua scadenza, che dimostra come l'Italia (quando riesce a vincere burocrazia, perplessità, vecchi modi di gestire il patrimonio) riesca a concludere operazioni impensabili in altri Paesi.
L'inaugurazione di Pechino è solo la prima tappa dell'accordo concluso a suo tempo da Resca quando era ministro Sandro Bondi. Il secondo capitolo avrà come sfondo palazzo Venezia a Roma: entro la fine del 2012 sarà la Cina ad avere a disposizione le sale quattrocentesche dello stabile per proporre agli italiani il proprio «museo nel museo», e anche qui si annuncia un successo sicuro.
Resca ha ricevuto un caloroso telegramma di congratulazioni dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha seguito dal 2010 l'intero progetto. Anche il ministro Lorenzo Ornaghi è apparso orgoglioso e soddisfatto. Ma naturalmente tutto questo non basta. Manca uno snodo fondamentale: un governo che, come organo unitario di guida del Paese, veda nel patrimonio culturale uno strumento primario di identità nazionale e di sviluppo economico. Tutto questo è mancato, sotto il governo Monti, come sotto gli altri governi. Non c'è consapevolezza di come e quanto l'Italia sia una Patria sostanzialmente «culturale». L'operazione di Pechino ce lo ha ricordato. Speriamo che anche a Palazzo Chigi arrivi un messaggio tanto chiaro, eloquente e inequivocabile.
Corriere 8.7.12
«Adultera» uccisa in piazza
KABUL — Cinque proiettili sparati da un'arma automatica a distanza ravvicinata. Così è stata messa a morte dai talebani, in un villaggio della provincia di Parwan, una donna afghana accusata di adulterio. L'esecuzione, filmata in un video di tre minuti ottenuto dalla Reuters, è avvenuta in piazza di fronte a un centinaio di uomini che hanno applaudito. La donna è stata fatta inginocchiare e poi un uomo con il turbante le ha sparato i colpi alla testa. «Allah ci dice di non praticare l'adulterio», ha detto un uomo presente in piazza. Il governatore provinciale ha riferito che il fatto risale a una settimana fa: «Quando ho visto il video ho chiuso gli occhi».
Repubblica 8.7.12
A chi piace l’atomica
di Lucio Caracciolo
Qualcuno s'era illuso che la bomba atomica fosse il terrificante ma ormai desueto marchio della guerra fredda. Gli arsenali sarebbero stati gradualmente smantellati, fino alla “opzione zero”. Stati Uniti e Russia non avevano più bisogno di minacciarsi di morte — peraltro simultanea — trascinando nell'olocausto il resto del pianeta. Così nei primi anni Novanta, nell'entusiasmo del dopo-Muro.
Oggi lo scenario è assai meno confortante. Washington e Mosca hanno sfoltito i depositi di testate nucleari e i missili — assicurano — non sono più puntati sulle città ex nemiche (come se per ripuntarli occorresse più di qualche minuto). Eppure Putin siede su un arsenale di circa diecimila bombe atomiche, Obama quasi altrettante, lanciabili da vettori sempre più avanzati. E alle potenze nucleari classiche (con Usa e Russia, anche Francia, Gran Bretagna e Cina) si sono aggiunti allo scadere del secolo scorso i due arcinemici India e Pakistan, oltre all'imperscrutabile Corea del Nord.
Ad essi va aggiunto Israele, che conta fra le 80 e le 200 testate atomiche, alcune montate su sommergibili di fabbricazione tedesca che pattugliano le coste mediterranee e l'imboccatura del Golfo Persico. Ma lo Stato ebraico non recede dalla dottrina ufficiale, per cui il suo status atomico non è ammesso né smentito. Infine, l'incognita Iran: i servizi segreti di Gerusalemme assicurano da qualche anno che Teheran è a pochi mesi dall'atomica. Pur di impedire che l'incubo diventi realtà, Israele è pronto alla guerra preventiva.
Ma non sono solo questi gli attori atomici. Nella storia recente, altri Paesi come il Sudafrica o il Brasile, l'Italia o la Germania (d'intesa con la Francia), più recentemente la Libia, la Siria e l'Iraq hanno studiato e in alcuni casi sviluppato ambizioni nucleari poi abortite o stroncate dall'intervento persuasivo dei cinque membri del Consiglio di Sicurezza (guarda caso tutti soci del club atomico), Stati Uniti in testa, o di Israele. Perché in fondo l'arma atomica resta la garanzia estrema, fino a prova contraria, contro eventuali aggressioni esterne. Possiamo immaginare, ad esempio, che se Gheddafi non avesse rinunciato a dotarsi di un arsenale nucleare, ben difficilmente francesi e inglesi, e dietro di loro mezza Nato, avrebbero accettato il rischio di attaccarlo.
Repubblica 8.7.12
Katrin e gli orfani della Stasi
di Andrea Tarquini
Avevo quattro anni
Quel mattino sulle prime tentai di scaldarmi sotto le coperte, poi capii
Loro ci stavano portando via la mamma
Così gli agenti della Ddr venivano a prendere i genitori “poco fedeli” al regime e affidavano i figli a un’altra famiglia.
Arrivavano con Lada scure e cappottoni neri
Ora, quarant’anni dopo, una di quelle bambine ha fondato un’associazione che aiuta quelli come lei a ritrovare il proprio passato
BERLINO «Era un gelido mattino d’inverno, quel grigio, buio sette febbraio del 1972, quando “Loro”, poco prima dell’alba, bussarono gridando rabbiosi alla porta nel nostro appartamento. Io sulle prime tentai di scaldarmi sotto le coperte, solo dopo capii quel che stava accadendo. “Loro”, lo Stato, ci stavano portando via la mamma. Avevo quattro anni. Mi chieda quel che vuole, vorrei solo raccontarle la mia storia. Una storia tra decine di migliaia, allora nello Stato chiamato Ddr». Katrin Behr sorride energica e gentile, mi offre un caffè, gioca col suo simpatico cane bassotto, mentre la ascolto là a un piano alto dell’ex palazzo-città della Stasi. Là dove per decenni la “Gestapo rossa” sorvegliò un popolo, oggi al pianterreno c’è un museo della repressione. E al sesto lavora lei, con la sua Ong di soccorso: aiuta gli orfani di Stato, gli adottati per forza, un popolo nascosto allora a Est del muro della vergogna, un popolo che ancora oggi non si conosce a vicenda e non sa riscoprire l’identità strappata. Solo da lunedì scorso il potere federale e i cinque Stati dell’Est hanno varato un network di aiuti per tutti i reduci dai famigerati orfanotrofi della Ddr, con quaranta milioni di euro a disposizione per soccorsi e risarcimenti.
«Era una direttiva dall’alto», mi spiega Katrin Behr, «i bambini nati nel socialismo reale dovevano stare con la famiglia solo se la famiglia era fidata. Se mamma e papà erano sospettati di contatti col dissenso, o peggio ancora di voglia di fuga in occidente, allora la potestà parentale veniva abrogata d’un colpo, senza diritto d’appello. I bimbi venivano strappati alle famiglie, parcheggiati in brefotrofi e orfanotrofi, poi affidati in adozione a famiglie di provata, devota, incondizionata fede al regime». I ricordi di Katrin corrono indietro veloci. «Bussavano rabbiosi, urlavano di aprire, altrimenti avrebbero buttato giù la porta. Io gridai, mamma ci disse di vestirsi in fretta, poi urlò verso la porta presa a spallate da quelli: “Subito, un momento, il tempo di vestirsi!”. Non volevo infilare la pesante calzamaglia in lana rozza, pungeva. Mamma mi dette uno schiaffone pesante, la guancia mi fece male a lungo. Mirko, mio fratello maggiore, mi consolò. Capimmo d’un tratto che non avremmo festeggiato il suo compleanno imminente».
Katrin è fredda e precisa quando ricorda e racconta, trattiene ogni emozione. «Mamma aprì, entrarono in sei o sette, tutti con quel macabro, famoso cappottone nero, e dietro di loro una donna esile che prendeva appunti. Ci portarono via, pochi minuti appena per raccogliere il minimo in pochi bagagli. Scendemmo spinti di corsa dalle scale del vecchio palazzo del centro di Gera dove abitavamo. Ci sospinsero circondandoci anche in strada, a passo di corsa verso l’antica piazza del mercato». Era prestissimo, quasi nessuno in strada, un passante vide tutto e protestò, «non potete maltrattare così una famiglia. Lo minacciarono, mostrandogli il temuto distintivo con la spada e lo scudo sormontati dalla stella rossa, dal martello e dal compasso emblemi nazionali della Ddr: la Stasi, spada e scudo del Partito-Stato. «Sparisca, una parola di più e portiamo via anche lei».
Le Lada nere con targa speciale e vetri bruniti li attendevano con i motori accesi. «Forza, bambini, congedatevi da vostra madre», dissero gli agenti. Senza dire altro, senza spiegare perché. “Mamma, che cosa hai fatto, non voglio perderti”, gridai io mentre la guancia mi doleva ancora per lo schiaffo. Mi aggrappai disperata alle sue braccia, poi alle caviglie, mentre la spingevano nella prima delle Lada. Lei mi carezzò, tentò di abbracciarmi un’ultima volta, e dal suo abbraccio sentii che l’avevano ammanettata. Da quel momento, non la vidi più per decenni».
Il primo Stato socialista in terra tedesca, leggiamo oggi su dossier, atti pubblici derubricati e manuali di storia, si prendeva dannatamente sul serio. Doveva crescere una generazione nuova, sradicata dal passato borghese. Non era proprio il progetto Lebensborn nazista dei perfetti bimbi ariani, ma il ricordo sinistro è quello. «Solo dopo il 1989, dopo la caduta del Muro, fu possibile per me e per tanti altri ricercare, chiedere, trovare indizi delle nostre origini e famiglie negate», narra Katrin. «Nel 1991 potei leggere i dossier della Stasi su di me. All’inizio ero in collera, poi capii che ira e rabbia non mi avrebbero aiutato. Mi portarono solo disturbi cardiaci. Sapevo di essere stata una bambina adottata, ma solo allora scoprii il perché. Trovai appunti e lettere della mamma adottiva, in cui lei scriveva chiaramente: “Non ebbi mai contatti con la mamma naturale di Katrin, sapevo che era un caso di sicurezza, che si parlava di un caso di pericolo di fuga illegale dalla Repubblica».
Le leggi ispirate da Margot Honecker erano durissime. Margot, moglie del capo, la bella malvagia regina della notte, come Elena Ceausescu. Ministro della Famiglia, temuta dai bimbi come “il drago viola” (dal colore con cui amava tingersi i capelli). Per lei c’erano sulle piste di Berlino Est i Tupolev di Stato sempre pronti a voli di shopping a Parigi, per i nemici presunti del suo socialismo l’esproprio della prole. C’era anche il paragrafo 249 del diritto penale: chi è definibile come asociale non abbia alcun aiuto dello Stato sociale, gli vengano tolti i figli. Bastava poco, nel clima tardostaliniano dietro il Muro, per venire classificati come asociali: ragazze madri, che non trovavano lavoro perché avevano bisogno di tempo per i bimbi. «Ragazze come mia mamma, che una volta pare si lasciò sfuggire una frase di sfogo, “vorrei andarmene da questa realtà che odio”. Aveva sottovalutato la forza della delazione, fu la sua condanna. Mi lasciarono pochi giorni da nonna, poi mi assegnarono a un brefotrofio. Poi fui adottata da una famiglia fedele al regime». Infanzia conforme per forza: il giuramento dei
giovani pionieri, punto primo, l’amore per la Ddr e solo dopo l’affetto per i genitori.
L’associazione di aiuto agli orfani per forza Katrin l’ha fondata nel 2009, ma soltanto in quest’ultimo anno la rete di volontari sta ottenendo i primi incoraggianti risultati. Aiuta i suoi compagni di sventura a ritrovarsi, ad aiutarsi a vicenda, li assiste nella difficile ricerca negli archivi della disciolta Ddr. Li aiuta a incontrarsi e confortarsi scambiandosi i racconti delle loro tragiche vite con quei momenti d’infanzia spezzata dalle irruzioni all’alba della Stasi a casa. Quanti furono, gli orfani per forza? Migliaia, probabilmente decine di mi-
gliaia. In un paese che su sedici milioni di abitanti ebbe tra trecentomila e cinquecentomila prigionieri politici, i calcoli prudenti di Frau Behr parlano di almeno 75mila bambini strappati alle loro famiglie. Ti tolgo i figli, era la vendetta di Stato contro chi veniva sospettato di idee critiche o di voglia di fuga o di voglia di democrazia, niente differenziazioni contro il
Klassenfeind, il nemico di classe registrato allora come il Rassenfeind (nemico razziale) decenni prima dall’altra dittatura. I genitori adottivi sapevano o intuivano, ma col bimbo affidato loro dovevano tacere, per non rischiare loro stessi. Alcuni erano gentili, altri corrotti o alcolizzati.
«Cercando negli archivi, ritrovai la mia vera mamma», narra Katrin cercando di non commuoversi. Era ridotta al relitto di se stessa, legata a una sedia a rotelle, appena capace di esprimersi.
«Katrin, mein Kind» (Katrin, bimba mia), disse la madre alla figlia, riconoscendola subito. Si ritrovarono, Katrin si godette gli ultimi anni di vita della mamma ritrovata. Quanti bimbi di allora abbiano sofferto come lei, lo sanno solo le ceneri dei dossier bruciati mentre il regime cadeva o i fogli tagliati in strisce da un millimetro dalle macchine distruggi-documenti che la Stasi usò fino all’ultimo minuto. Quel popolo disperso degli orfani per forza comincia adesso a scoprirsi, a trovare la sua identità: Katrin Behr e il suo gruppo li conducono per mano, indietro nel tempo alla ricerca di quel passato di vite strappate e famiglie distrutte. Margot Honecker vive tranquilla in Cile, in una villa offertagli per onesta gentilezza vecchio stile dal Partito comunista cileno. In una recente intervista alla tv tedesca, ha definito «poveri stronzi quelli che rischiavano la morte per passare il confine» e si è lamentata della pensione (1.500 euro mensili netti, una fortuna in Cile) che riceve ancora oggi da Berlino.
Corriere La Lettura 8.7.12
La maggioranza silenziosa degli islamici integrati
di Marco Ventura
È convinzione diffusa nell'opinione pubblica europea che l'elemento
religioso connoti l'identità del musulmano in senso irriducibilmente
antitetico rispetto all'identità degli europei. Se è vero che i problemi
sono profondi e concreti, l'integrazione in Europa di tanti musulmani è
una realtà. La relazione tra le comunità immigrate di religione
islamica e la popolazione maggioritaria è viva, dinamica, ricca di
incognite e tensioni, ma anche di frutti. Gli scienziati sociali che da
anni studiano l'Islam europeo nel programma Eurislam finanziato
dall'Unione europea schiudono periodicamente nuove finestre sull'ignoto.
Quando si va in profondità, quando si presta attenzione alla
combinazione dei fattori, pregiudizi e stereotipi mostrano la loro
inconsistenza.
Il più recente segmento di ricerca Eurislam, curato dall'Université
libre di Bruxelles, ha riguardato un campione di settemila soggetti
intervistati in Germania, Svizzera, Belgio, Paesi Bassi, Francia e Regno
Unito. Agli esponenti della maggioranza nazionale e ai membri delle
comunità immigrate pakistane, marocchine, ex jugoslave e turche è stato
chiesto di misurare il tasso di reciproca accettazione e integrazione. È
emersa una percentuale notevole di musulmani che si ritengono integrati
e che percepiscono una distanza non abissale tra il proprio sistema
educativo e valoriale e quello della maggioranza nazionale. Si tratta di
una testimonianza di integrazione significativa, ancorché variegata e
limitata. Gli immigrati, infatti, si ritengono più integrati di quanto
non pensino le maggioranze nazionali, che vedono una gran differenza tra
i propri valori e quelli degli islamici. Il 77 per cento della
maggioranza britannica, ad esempio, ritiene che l'educazione dei
musulmani differisca profondamente da quella tradizionale nel Regno
Unito, ma solo il 44 per cento dei pakistani britannici ha la stessa
impressione. Analogamente in Germania, se il 70 per cento della
maggioranza vede forti differenze educative, ben il 53 per cento dei
marocchini tedeschi non si ritiene particolarmente diverso dalla
maggioranza. Circa il ruolo della religione nella società, solo il 22
per cento della maggioranza elvetica si percepisce in sintonia con la
comunità islamica; viceversa quasi la metà degli svizzeri d'origine
marocchina si sente simile alla maggioranza.
La percezione dell'integrazione varia sensibilmente tra gruppi e Paesi: è
mediamente più ottimista la comunità ex jugoslava, mentre la comunità
turca rivendica con forza la propria differenza. Solo il 7 per cento
della maggioranza britannica ritiene che vi sia una sostanziale
convergenza con l'Islam sul ruolo della religione nella società, contro
il 30 per cento di francesi e olandesi. Assai diversa la percezione tra
marocchini svizzeri e britannici: il 40 per cento dei primi ritiene la
propria visione del ruolo sociale della religione analoga a quella della
maggioranza, contro il solo 24 per cento dei secondi; lo stesso accade
per i pakistani: il 36 per cento dei pakistani francesi si sente in
sintonia con la maggioranza contro il 15 per cento dei pakistani
britannici. In generale, l'immigrazione turca si sente più integrata in
Belgio e nei Paesi Bassi che non in Germania e Svizzera; la comunità
marocchina si sente più accolta in Svizzera che non in Francia.
Accettazione dell'altro e integrazione, tanto nella maggioranza che
nelle minoranze, dipendono dal livello di istruzione e dalla posizione
lavorativa.
I più ottimisti sull'integrazione musulmana sono gli esponenti della
maggioranza nazionale più istruiti e meglio occupati. Tra gli immigrati,
donne e giovani sono più aperti ad aborto, omosessualità e sesso
prematrimoniale; anche tra i musulmani, in generale, è più favorevole al
cambiamento chi ha un livello di istruzione più alto e un lavoro
migliore. Eurislam attesta dunque differenze marcate, ma anche dinamiche
di convergenza e spazi di coabitazione in cui la religione non sempre è
decisiva. Ha molte sorprese in grembo l'Islam europeo.
Corriere La Lettura 8.7.12
La mistica senza dio di Fritz Mauthner che ispirò Joyce, Borges e Wittgenstein
di Guido Vitiello
Da Nessun dogma esce «L'ateismo e la sua storia in Occidente» Dizionario
in 4 volumi che spoglia le parole della loro aurea divina
Dio benedica le imprese editoriali generose e arrischiate, anche quando
sono puntate come missili terra-cielo contro il suo Regno. Nessun Dogma,
la casa editrice dell'Unione degli atei e degli agnostici, pubblica
un'opera titanica: L'ateismo e la sua storia in Occidente di Fritz
Mauthner, apparsa tra il 1920 e il 1923 in quattro volumi. I primi tre —
quasi duemila pagine fitte, fitte — sono fin d'ora disponibili nella
traduzione di Luciano Franceschetti, il quarto seguirà a breve. Ma prima
d'ogni altra parola: chi era Fritz Mauthner? Era un signore vulcanico e
gioviale venuto a Berlino dalla Boemia, che ammaliava ed esasperava i
suoi interlocutori con la sua sfavillante erudizione e la sua
propensione a saltare di palo in frasca. La lunga barba e gli occhi
accesi gli conferivano un aspetto a metà tra un profeta biblico e un
principe indiano delle favole. Giornalista, romanziere, autore satirico,
critico teatrale, Mauthner era prima di tutto un filosofo. Quando
scrisse L'ateismo e la sua storia in Occidente, l'ultima opera che portò
a compimento prima della morte, viveva in una casa di vetro a
Meersburg. Gli abitanti del luogo potevano incontrarlo, la barba sempre
più lunga e sempre più bianca, a spasso con il suo cane. Lo chiamavano
il «Buddha del lago di Costanza».
Nessuno sembra oggi ricordarne il nome, eppure questo spirito
eccentrico, dilettante nel senso più nobile, esercitò sul suo tempo una
vasta influenza sotterranea. A Parigi, alla fine degli anni Venti, James
Joyce pregò Samuel Beckett di leggergli ad alta voce un'opera di
Mauthner, i Contributi a una critica del linguaggio, mentre era a caccia
di idee per il Finnegans Wake; Jorge Luis Borges annoverava il
Dizionario di filosofia di Mauthner tra i cinque libri che più lo
avevano influenzato, e il racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius è tutto
ispirato alle sue teorie; Hofmannsthal echeggiò la filosofia di Mauthner
nella Lettera di Lord Chandos, e Ludwig Wittgenstein gli fu debitore
per molte intuizioni.
L'ateismo e la sua storia in Occidente era, per Mauthner, il complemento
naturale dell'altra sua opera maggiore, i tre volumi dei Contributi a
una critica del linguaggio. L'accostamento non è dei più intuitivi: che
cosa ha a che fare l'ateismo con il linguaggio? Nomina sunt numina,
dicevano i latini, i nomi sono numi. Di questo principio Mauthner fece,
per così dire, un palindromo filosofico: se le parole sono divinità, gli
dèi non sono che nomi, numina sunt nomina. Entrambi ci truffano: le
parole non sono che «immagini di immagini di immagini» a cui ci
illudiamo che corrisponda qualcosa nel mondo reale; gli dèi sono idoli
verbali che ci precludono la comunione mistica con quel che, faute de
mieux, Mauthner chiamava l'Uno-Tutto. Ne consegue che il Linguaggio e
Dio sono le due facciate di un unico edificio, e la Sprachkritik o
«critica del linguaggio» la ruspa ideale per demolirlo.
La storia dell'ateismo è anzitutto la storia dei tentativi di tirar giù
questo Nome torreggiante che ricapitola tutte le forme dell'idolatria
verbale. Non per caso, Mauthner accomunò in un solo capitolo le «vite
parallele» di Meister Eckhart e Guglielmo di Occam, «l'abissale mistico»
e «l'eroico nominalista», che senza saperlo lavoravano da fronti
opposti alla medesima impresa di demolizione: il religioso domenicano
sprofondò in una divinità senza nome in odore di ateismo o di panteismo,
volle liberare lo spirito dalla lettera dei teologi ma rimase «un Faust
ancora al guinzaglio, che addenta la catena i cui anelli sono le
illacerabili parole della Scolastica»; il filosofo francescano, con il
suo nominalismo, cominciò a spogliare le parole della loro aura divina.
La storia di Mauthner, che alla fine del terzo volume approda alla
Rivoluzione francese, è storia scritta da un filosofo, e le sue tappe
preparano la proclamazione della grande idea che ci attende in coda: la
professione di una «mistica senza Dio», liberata dalla millenaria
tirannia del Nome supremo. Come si vede, Mauthner era un «ateo» di tipo
piuttosto particolare, che preferiva annoverarsi tra i mistici più che
tra i razionalisti. Le sue stelle polari erano Schopenhauer, Eckhart e
Buddha. E se forse non era il più rigoroso dei filosofi, certo è stato
un prosatore adorabile, con il piglio satirico del Lutero libellista e
la ricchezza d'immagini di un allegorista medievale. Borges, che
considerava la filosofia «un ramo della letteratura fantastica» — e lo
scrisse proprio nel suo racconto mauthneriano —, si lamentava che nelle
storie della letteratura tedesca mancassero sempre all'appello due nomi:
il primo era Arthur Schopenhauer, il secondo era Fritz Mauthner. Che,
grazie al cielo, non riuscì mai a liberarsi del linguaggio.
Corriere La Lettura 8.7.12
Otto Schily
Il sogno dello sceriffo rosso «Un'altra Germania»
di Paolo Valentino
Avvocato e politico tedesco, ha vissuto le svolte e i passaggi cruciali
del continente. Ministro dell'Interno di Schröder, fece proprio lo
slogan di Tony Blair «Legge e ordine» Difese i terroristi, inventò i
«verdi», introdusse lo ius soli Otto Schily compie 80 anni: siamo niente
senza l'Europa
ASCIANO (Siena) — Che Berlino sarebbe stata circondata da un Muro, lo
seppe mesi prima dal sarto. Otto Schily era arrivato nella metropoli
tedesca da Bochum, alla fine degli anni Cinquanta. Si era appena
laureato, faceva pratica prima degli esami da avvocato. «La città mi
affascinava, era grande, piena di verde. La presenza degli Alleati le
dava una dimensione cosmopolita e unica. Ci si poteva ancora muovere Est
e Ovest. A Est andavo a comprare libri e soprattutto a farmi fare i
vestiti. Avevo già allora alcune pretese di eleganza. Avevo trovato un
sartino molto bravo, compravo le stoffe inglesi al mercato nero qui a
Ovest e gliele portavo per farne giacche e pantaloni. Un giorno della
primavera del 1961 andai a trovarlo per una prova: "Dottor Schily — mi
disse — le devo dare una brutta notizia. Presto non potrò più farle i
vestiti. Costruiranno un muro intorno a Berlino Ovest". Non gli
credetti, risposi dicendogli che era una chiacchiera metropolitana. Non
si poteva murare una città intera. Invece aveva ragione, in agosto
chiusero i varchi e cominciarono a costruire il Muro. Col senno di poi,
mi sono sempre detto che se un piccolo sarto di Berlino Est lo sapeva,
dovevano saperlo anche i servizi segreti occidentali. Evidentemente
americani e inglesi avevano accettato la prospettiva della città divisa,
forse anche a causa dei rifugiati che passavano in massa e che erano
una vergogna per l'Est e un problema per l'Ovest. Per noi berlinesi, fu
una tragedia. Ricordo che mentre lo costruivano, guidavamo con l'auto
suonando il clacson fino agli sbarramenti, al limite della terra di
nessuno. Era un'azione di protesta, figlia dell'esasperazione e della
rabbia, del tutto inutile».
Tempus Fugit, è scritto sotto una meridiana nel muro della casa di
Schily, sulle colline senesi. È qui, nell'amato buen retiro toscano, che
l'ex ministro dell'Interno tedesco venerdì 20 luglio festeggerà
ottant'anni. Schily cede volentieri alla piccola vanità di notare che è
lo stesso giorno nel quale la Germania moderna ricorda e celebra il
fallito attentato a Hitler del 1944, quando un drappello di ufficiali
guidati dal conte von Stauffenberg cercò di salvare l'onore perduto
della nazione. E forse nascere in quella data è stato proprio un
auspicio. Poiché negli ultimi cinquant'anni di storia tedesca, pochi
personaggi più di Otto Schily ne hanno accompagnato e incarnato i
momenti fatali, le svolte brusche, i passaggi cruciali e i cambi di
stagione. Il trauma del Muro incise profondamente nella psiche dei
berlinesi occidentali, provocando anche strane reazioni. «Ci sentivamo
un po' abbandonati, le grandi industrie erano andate via, le famiglie
emigravano». Ma nella primavera del 1963, Otto Schily attaccò le sue
speranze a un lampione: «Arrivò John Kennedy. Lo accogliemmo con
l'entusiasmo di chi sentiva finalmente di avere un amico in grado di
proteggerlo. Il presidente americano parlò dalla Rathaus Schöneberg,
dove allora era l'ufficio del borgomastro. Fu una cosa straordinaria. La
piazza era stracolma, più di 500 mila persone. In effetti per vederlo
mi arrampicai su un palo per l'illuminazione e rimasi lassù tutto il
tempo. Quando disse "Ich bin ein Berliner" la gente era in delirio».
Fu in quel bellissimo '63 che Schily ottenne la licenza di avvocato.
Aveva trovato lavoro presso un grande studio, guidato da un principe del
foro di orientamento conservatore. «Mi occupavo di diritto
dell'economia, eredità, un po' di lavoro. Un filone importante dello
studio erano le richieste di indennizzi delle famiglie ebraiche, ma non
era un compito mio». Poi il rapporto con lo studio aveva cominciato a
guastarsi. Nel 1967 Schily aveva sposato in prime nozze Christine, molto
attiva nel movimento studentesco allora appena sbocciato: per lui,
giovane liberale, si era aperto un mondo. Un altro incontro importante,
all'inizio solo professionale, fu quello con Horst Mahler, avvocato già
famoso, futuro co-fondatore della Rote Armee Fraktion, prima di
approdare ai lidi del neonazismo e dell'antisemitismo. «Era stato mio
avversario in un processo civile per un'eredità. Lui già molto celebre,
io alle prime armi. Pensava di fare di me un boccone. Ma perse la causa e
— diciamo così — mi ha notato. Mi invitò a impegnarmi nei gruppi
repubblicani, che allora erano centri di dibattito liberali». Il 1
giugno 1967 a Berlino ci fu un convegno alla Frei Universitaet. Uno
studente iraniano, Baaman Niruman, tenne un discorso molto infuocato
contro lo scià di Persia. Il giorno dopo una dimostrazione contro il
regime di Rezha Palevi finì in tragedia. Un poliziotto sparò, uccidendo
lo studente Benno Ohnesorg. La storia tedesca di quegli anni forse
cambiò in quel momento. Sicuramente cominciò un Sessantotto dal quale si
sarebbero poi aperte pagine buie e mortifere. Al processo, Schily fu
avvocato di parte civile: «Rappresentavo il padre del ragazzo. Fu un
mandato che ricevetti attraverso Mahler. Il poliziotto fu assolto, ma
chiesi e ottenni la revisione del processo. Fu assolto di nuovo, ma il
processo mi diede una certa popolarità. Dopo il 1989, si è scoperto che
il poliziotto lavorava per la Stasi. Seguirono altri processi, nei quali
difesi studenti fermati durante manifestazioni». Poi, sul banco degli
accusati si ritrovò lo stesso Horst Mahler, arrestato e denunciato dopo
una violenta protesta contro la casa editrice Springer, considerata
responsabile della campagna di odio che aveva portato al tentato
omicidio e poi alla morte di Rudi Dutschke, leader del movimento
studentesco. Mahler fu condannato. Ma il suo difensore, un certo Otto
Schily, catturò l'attenzione di tutto il Paese, costringendo l'editore
Axel Springer in persona a testimoniare. «Ero diventato l'avvocato dei
Sessantottini, per quanto non fossi uno di loro, né anagraficamente, né
ideologicamente». Fu in questi ambienti socialisti, marxisti, libertari
che Schily conobbe Gudrun Ensslin, fin lì sostenitrice di Willy Brandt.
Gli avvenimenti politici incalzavano. Dal 1966 al 1969 la Germania era
stata governata dalla prima Grosse Koalition, Kurt Kiesinger
cancelliere, Willy Brandt ministro degli Esteri. Contro questo sviluppo
politico era nata e aveva preso piede l'Apo, l'opposizione
extraparlamentare. Non c'era più spazio nel perimetro delle forze
parlamentari tradizionali. La svolta fu il processo per l'incendio alla
Kaufhaus a Francoforte. Accusati e rinviati a giudizio, per averlo
appiccato con una molotov, furono Gudrun Ensslin, Andreas Baader e
altri. Fu la prima difesa di Ensslin accettata da Schily. Ebbero tre
anni di reclusione. Ma poco tempo dopo vennero rilasciati grazie a
un'amnistia. La clandestinità di Baader cominciò nel 1970, con
l'evasione dal carcere resa possibile dall'aiuto di Ulrike Meinhof,
giornalista molto celebre che si era progressivamente avvicinata
all'Apo. Fu l'atto di nascita della Raf, la Rote Armee Fraktion, che
iniziò la sua attività terroristica con le rapine alle banche. Li
arrestarono nel 1972, prima la Ensslin, poi in un conflitto a fuoco
Baader, Meinhof e Jan Carl Raspe. Il processo cominciò a Stammheim nel
1975 e fu il più lungo della storia tedesca. Racconta Schily: «Difesi
ancora Ensslin, nel collegio c'era anche Hans Christian Ströbele, futuro
deputato dei Verdi. All'inizio fu una difesa collettiva. Poi ognuno
andò per conto suo. Nel frattempo, accanto agli avvocati di fiducia
erano stati nominati dei difensori d'ufficio. Quindi nella difesa si
sovrapposero due strategie, una tecnica, una politica». Anche col senno
di poi, Schily è convinto che la sua fosse la scelta giusta: «Il punto
era, e lo è ancora oggi, la presenza di una componente politica
incontestabile. Ci sono crimini politici e c'è una politica criminale.
Dire che ci fosse una dimensione politica nelle azioni della Raf non
significa darne un giudizio positivo. L'ho detto anche all'Accademia
Cattolica: trattare questo tipo di azioni come criminalità comune ci
conduce a un vicolo cieco. C'era un retroterra politico e questo è
indiscutibile. Se la società si vuole confrontare e se processo e
condanna devono avere una funzione catartica, allora ha senso discuterne
nel dibattimento. La Corte fece uno sforzo sistematico per tener fuori
questa dimensione. La difficoltà per noi difensori fu naturalmente che i
clienti non volessero avere nulla a che fare con lo Stato, mentre noi
avvocati volevamo e dovevamo rimanere sul terreno dello Stato di
diritto». Il processo durò fino al 1977. Ci fu lo scandalo delle
intercettazioni delle conversazioni telefoniche degli avvocati della
difesa, motivo più che sufficiente per annullare tutto. «La nostra
istanza fu respinta. Furono momenti di grande tensione. Poi venne la
condanna, che di fatto non entrò mai in vigore: nel frattempo gli
imputati morirono in carcere. Ufficialmente suicidi».
Fu un'esperienza pesante. Mentre le colonne dei terroristi in libertà
rapivano e assassinavano imprenditori e banchieri, Schily venne
sottoposto a attacchi, umiliazioni, fatto oggetto di sospetti e calunnie
da parte dei media conservatori. «Ma fu pesante anche sul piano
economico — aggiunge con un sorriso —. Così, parallelamente, per
guadagnare qualcosa, accettai anche mandati in cause civili di diritto
proprietario. Fu durante un'udienza a Berlino, che mi arrivò la notizia:
gli imputati sono morti a Stammheim. Andai subito a Stoccarda. Una
storia terribile. Mai veramente chiarita. Nel frattempo si è appurato
che un'arma era arrivata all'interno, grazie a un poliziotto. E che la
Stasi fosse legata a doppio filo alla Raf».
Il tragico autunno tedesco non finì a Stammheim. Ma finì l'esperienza di
Schily come legale dei terroristi. Gli anni ottanta si aprivano con un
nuovo rigurgito di Guerra fredda, innescato dal delirio senile e
bellicista della Russia di Breznev. La società tedesca registrava nuovi
sussulti e nuovi bisogni, cresceva il movimento anti-nucleare e
pacifista, maturavano le prime rivendicazioni ambientaliste. Per Schily
era giunto il tempo di un più diretto impegno in politica. «A Berlino
nel 1979 nacque una Lista Alternativa per la difesa dell'Ambiente. Il
nome lo inventai insieme a Linda, la mia seconda e attuale moglie: c'era
di tutto, ecologisti, ex maoisti, fuoriusciti della Spd, neutralisti».
L'anno dopo fu tra i fondatori dei Grünen. Un ciclone che in soli tre
anni spazzò il paesaggio politico tedesco, cambiandolo per sempre. Sotto
il 5% alle elezioni federali del 1980, i Verdi arrivarono al Bundestag
nel 1983. Otto Schily fu parte di quel drappello. Fu una rivoluzione:
per la prima volta nel Dopoguerra un quarto partito entrava nella
geografia federale, aprendo nuove prospettive. L'esordio fu pieno di
ingenuità e massimalismi. Ma anche di semina per il futuro. Schily
ricorda con orgoglio il suo contributo personale al lancio di una vera
stella della politica renana. «Ricevetti la telefonata da un amico
ecologista: "Viene un giovane deputato da Francoforte, un certo Joschka
Fischer. È bravo, seguilo", mi disse. Secondo la logica egualitaria dei
Verdi, Joschka diventò capogruppo, un posto importante. Ma mostrò subito
di avere qualità di leadership e un senso innato della politica. Fu lui
a decidere dove dovevamo sederci al Bundestag: a sinistra della Spd
sembrava la soluzione più logica. No, disse Joschka, noi staremo al
centro, a destra della Spd e a sinistra della Cdu. Geniale. Joschka
diventò molto amico di Wolfgang Schäuble, allora suo omologo nella Cdu.
Divenne subito espertissimo di procedure parlamentari. All'inizio
abbiamo avuto un rapporto difficile, lui arrivava spesso in ritardo come
gran parte dei Verdi e questo mi faceva molto arrabbiare. Ma poi ci
siamo piaciuti e abbiamo avuto un rapporto fortissimo. Aveva, ha un
temperamento ribelle e spesso dovevo riportarlo alla ragione. Però nella
corrente dei cosiddetti realò, abbiamo lavorato molto bene insieme».
Amico di intellettuali e artisti, primo fra tutti Joseph Beuys; seguace
della filosofia antroposofica di Rudolf Steiner; raffinato nel vestire;
prussiano nelle abitudini; difficile e a tratti autoritario nel
carattere, Schily visse sin dall'inizio un rapporto travagliato con i
Verdi, scapigliati, sciattoni, protestatari, insofferenti a ogni
disciplina. Un tema di dissidio fondamentale fu quello del monopolio
della violenza da parte dello Stato: «Per me era ed è uno dei pilastri
di ogni democrazia, la conditio sine qua non di una società
organizzata». Ma l'avvicinamento alla Spd «fu un percorso lungo e anche
doloroso». Furono soprattutto le lunghe discussioni con Peter Glotz, una
delle menti più lucide della socialdemocrazia, a convincerlo. «Ho
aderito alla Spd nel 1989. Ma non mi sono trasferito da un gruppo
parlamentare all'altro: mi sono dimesso dal Bundestag, restituendo il
mandato ai Verdi». Nel Parlamento di Bonn sarebbe tornato da
socialdemocratico nel 1990, nelle prime elezioni della Germania
riunificata. Amicizie e conoscenze di quel periodo erano soprattutto
quelle della Provinz, luogo topico della Bonner Republik. «Era una
kneipe dove andavamo la sera, deputati e giornalisti, a bere e mangiare
qualcosa, intavolando lunghe discussioni. Lì cominciai anche a
frequentare un deputato della Bassa Sassonia, Gerhard Schröder. Ma non
eravamo in grande confidenza». Fu durante una di quelle serate, dopo
abbondanti bevute, che qualcuno scrisse su un tovagliolo di carta
l'organigramma di un futuro governo rosso-verde, poi rivelatosi
profetico: Schröder cancelliere, Fischer agli Esteri, Schily
all'Interno. Almeno così dice la leggenda che, giusta la lezione di John
Ford, è quella che è stata stampata. Schily si schermisce: «Raccontata
così è proprio una leggenda. È vero che discutevamo molto. Si facevano
piani. Forse si fantasticava. Proprio così, non me la ricordo. Però se
non è vera, è ben trovata».
La riunificazione e i primi anni Novanta segnarono l'apogeo di Helmut
Kohl. Eppure, a differenza di Joschka Fischer, che attaccava il grande
cancelliere con tale feroce ironia, da farlo esplodere ogni volta in
roboanti risate, Otto Schily ha avuto con Kohl un rapporto sempre
difficile e conflittuale. «È vero. Non ci siamo mai piaciuti. Il mio
giudizio è ambivalente. Helmut Kohl ha l'incontestabile merito di aver
ottenuto la riunificazione tedesca dentro un quadro europeo. Allora ebbi
la sincera paura che rischiavamo di ripiombare nel nazionalismo. Ma
Kohl ha capito che la riunificazione poteva darsi solo se allo stesso
tempo la Germania fosse stata ancorata ancora più saldamente
all'integrazione europea. Un'impresa storica. Dall'altra parte, sono
stato in conflitto con lui per il suo lato oscuro sul tema del
finanziamento dei partiti. Già al tempo del primo scandalo, quello dei
fondi neri di Flick, fu indagato per falsa testimonianza. Lo interrogai
personalmente in commissione d'inchiesta, dov'ero il rappresentante dei
Verdi, rivolgendogli una domanda diventata famosa: Chi era il donatore? E
lui rimase zitto. In televisione il suo compagno di partito Heiner
Geissler parlò di "black out" di Helmut Kohl. Lo stesso silenzio che
avrebbe opposto dopo, nel 2000, rifiutandosi di rivelare i nomi dei suoi
finanziatori illegali. Ma poiché sono un conciliatore, dico anche che i
suoi servizi storici alla nazione e all'Europa, di gran lunga
sopravanzano questi aspetti meno nobili». I sedici anni del regno di
Kohl finirono nel settembre 1998. I tedeschi dissero «Grazie Helmut,
adesso basta» e come nella profezia della Provinz mandarono alla
cancelleria Gerhard Schröder alla guida di un governo rosso-verde.
Fischer agli Esteri, Schily agli Interni. Cominciava la Berliner
Republik. Nei sette anni al potere Schily è stato definito lo «sceriffo
rosso», per la fermezza (durezza, dicono i suoi critici da sinistra) con
cui ha affrontato sfide difficili: dal terrorismo islamico
all'immigrazione clandestina, dal neonazismo alla sicurezza interna. Di
due cose va soprattutto fiero: «Credo che una socialdemocrazia debba far
sua una politica interna che ponga al primo posto la sicurezza dei
cittadini. Tony Blair ha detto che "law and order" è un tema laburista.
Lo sottoscrivo pienamente. Ha naturalmente anche una dimensione sociale:
duri contro la criminalità, duri contro le cause del crimine. Questo
per la Spd era stato fino ad allora un tema complicato, non suo. Con me è
cambiato». Ma il merito storico del ministro Schily è probabilmente un
altro: la nuova legge sulla cittadinanza che ha eliminato lo ius
sanguinis, anacronistica eredità del Reich guglielmino, introducendo lo
ius soli. Dopo Schily, chiunque sia nato in Germania può diventare
cittadino tedesco. «Una moderna democrazia deve darsi regole moderne per
l'immigrazione e la cittadinanza: noi lo abbiamo fatto, eliminando il
diritto di sangue e regolando in modo realistico ma aperto le regole
sull'immigrazione». Poi c'è un terzo punto del quale va fiero: «L'aver
contribuito all'organizzazione e al successo dei Mondiali di calcio nel
2006. Quella manifestazione ha cambiato l'immagine della Germania,
milioni di visitatori hanno trovato una nazione accogliente e gentile.
Fu un evento sportivo e culturale. Per voi italiani, poi, i Mondiali si
sono anche chiusi in grande gaudio». La nostra cavalcata si conclude con
un pensiero all'Europa. Schily, che si compiace nel definirsi un
piccolo contadino toscano, mi indica la scritta sotto la meridiana:
Tempus Fugit. «Non ci è rimasto molto tempo e sono preoccupato, poiché
temo che proprio qui in Germania non stiamo capendo come la nostra
economia e la nostra società possano prosperare solo nel pieno
ancoraggio all'Europa. Non abbiamo altre chance. È un'incomprensione
purtroppo riscontrabile non solo a livello dell'opinione pubblica, ma
anche dei responsabili politici. Anche nelle discussioni che sento la
sera in cene o occasioni sociali, dove partecipano manager, esponenti
dell'economia, studiosi, mi pare che una visione molto miope si stia
facendo strada. Questo governo è stato troppo titubante, ha esitato, ha
agito per piccoli passi e sempre in ritardo, mai con una visione. Per la
mia generazione che da ragazzi ha visto la Germania distrutta
fisicamente e psichicamente, il più grande successo è stata
l'integrazione europea. È un'idiozia, oggi, pensare di tornare al marco.
Sarebbe un suicidio soprattutto per il Mittelstand, le piccole e medie
imprese che sono l'ossatura della nostra economia. Ci sono vari modelli,
ma dobbiamo agire insieme e la Germania dev'essere in testa. La
direzione è quella, solidarietà finanziaria, governo comune
dell'economia, integrazione, unione politica». Buon Compleanno, Otto
Schily!
Corriere La Lettura 8.7.12
Nella dispensa delle idee
Soltanto due regioni del cervello producono nuovi neuroni
Una di queste è l'ippocampo: qui si fissano pensieri e memoria
di Edoardo Boncinelli
Il pensiero procede spesso per associazione d'idee. Questa è un'opinione piuttosto diffusa che risale almeno al Settecento. Una volta formate, le idee si possono comporre e scomporre e comunque correlare tra di loro sulla base di una più o meno marcata somiglianza o dissimiglianza, e si può chiamare associazione il meccanismo che si trova al centro di tali processi. È tramite il meccanismo dell'associazione che si consolidano, si memorizzano, si allacciano e si slacciano le idee elementari e quindi è attraverso l'operato delle più diverse associazioni che si formano le idee complesse, cioè le idee vere e proprie.
Ma che cos'è l'associazione d'idee? E perché certe idee procedono associate? La riflessione su questi temi ha portato a suo tempo a interessanti formulazioni teoriche sulla strada dell'identificazione dei princìpi seguiti dal processo associativo. Thomas Hobbes assegnò grande importanza a concetti quali quelli di successione, sequenza, serie, conseguenza, coerenza, svolgimento ordinato d'immagini o di pensieri, nel procedere della vita mentale. John Locke introdusse poi esplicitamente il termine di associazione d'idee, ma toccò a David Hume il compito di porsi espressamente la questione della natura dei princìpi dell'associazione di pensieri e di idee, che ridusse essenzialmente a tre: somiglianza, continuità nel tempo e nello spazio e rapporto di causa ed effetto. Una posizione rigorosa fu sostenuta da James Mill, padre di John Stuart Mill, che affermò fra l'altro: «Le nostre idee nascono nell'ordine in cui si sono succedute le sensazioni di cui esse costituiscono le copie. Questa è l'associazione delle idee, espressione con la quale, ricordiamolo, non s'intende indicare altro se non l'ordine in cui si presentano».
Delle tante ipotesi proposte, una delle più vivide è quindi quella secondo la quale idee apprese o concepite più o meno nello stesso tempo rimangano in qualche modo preferenzialmente associate tra di loro. Ebbene, le moderne neuroscienze sembrano fornire un forte appiglio a tale convinzione e forniscono un modello per pensare a idee associate nel tempo, perché acquisite nella stessa ondata di neurogenesi nell'ippocampo.
Vediamo di che si tratta.
Fino a una trentina di anni fa si riteneva che le cellule nervose del cervello non potessero rigenerarsi e rinnovarsi. Ci tenevamo per tutta la vita quelle che possedevamo alla nascita, a parte possibili perdite accidentali dovute a morte cellulare; di nuove non ne nascevano e quelle morte non potevano venire rimpiazzate. Il quadro è oggi un po' cambiato. Anche se la stragrande maggioranza dei neuroni del cervello restano gli stessi per tutta la vita e se muoiono non vengono sostituiti, esistono due specifiche regioni cerebrali dove si osserva un certo tasso di neurogenesi, cioè di nascita di neuroni nuovi, anche nell'adulto. A cosa servono questi neuroni freschi? Quale ruolo giocano nella dinamica del cervello? Da queste domande è partita una ricerca ora pubblicata su «Nature».
Due sono le regioni del cervello adulto dove si possono osservare discreti livelli di neurogenesi, chiamiamola neurogenesi adulta: tutt'intorno alla superficie dei ventricoli cerebrali e nell'ippocampo. Il ruolo dei neuroni neonati nella prima regione è abbastanza ben compreso: dopo un lungo viaggio vanno a rimpiazzare le cellule nervose che sono morte nel frattempo nel bulbo olfattivo, la regione cerebrale che sovrintende all'odorato e all'elaborazione degli stimoli olfattivi. Meno chiaro, anche se potenzialmente molto più interessante, è ciò che possono fare i neuroni che nascono in continuazione nell'ippocampo, l'organo primariamente deputato alla fissazione dei ricordi.
Se c'è una cosa che sembra richiedere stabilità e continuità, questa è proprio la memoria, e a prima vista appare quasi paradossale che per quella occorra mettere in continuazione «nuova carne al fuoco», alterando così l'architettura complessiva dell'ippocampo adulto. D'altra parte la fissazione di nuovi ricordi è una cosa diversa dalla loro conservazione. Ed è proprio nel meccanismo di fissazione dei nuovi ricordi che sembrano giocare un ruolo i nuovi neuroni che nascono via via in una regione specifica dell'ippocampo adulto, il cosiddetto giro dentato, una regione chiaramente coinvolta nell'apprendimento di nuove nozioni. A tale proposito, si sa da tempo che ogni situazione che favorisce nuovi apprendimenti porta a un aumento della neurogenesi nell'ippocampo, mentre situazioni avverse all'apprendimento, e fra queste l'invecchiamento, conducono a una riduzione, anche se contenuta, dell'intensità di tale processo. I neuroni appena formati diverranno poi cellule mature inserite nella struttura definitiva del giro dentato, sotto forma di cellule granulari destinate a inviare i segnali nervosi fuori dal giro dentato e dall'ippocampo stesso.
Quella che è in gioco in ogni caso è la dimensione temporale dei ricordi. Il ricordo dei diversi eventi che si succedono nel tempo sembra interessare ondate diverse di neurogenesi. I neuroni nati in una determinata ondata appaiono funzionare come integratori del ricordo di eventi contemporanei o temporalmente adiacenti, mentre quelli formati in una differente ondata contribuiscono al ricordo, chiaramente distinto dal primo, di un altro gruppo di eventi fra di loro temporalmente adiacenti, dando così luogo ad associazioni temporali separate nella cosiddetta memoria episodica. Tale ruolo d'integratori di eventi vicini nel tempo e di separatori di gruppi di eventi appresi in tempi diversi sembra poi essere ereditato dalle cellule granulari che vanno poi via via maturando da questi neuroni neoformati, in un processo che richiede qualche tempo.
Sarebbe come se mettessimo in cassetti diversi i ricordi che si riferiscono a periodi di tempo diversi. Non è ovviamente così, ma la metafora rende l'idea e sembra dare un fondato motivo alla necessità di un'attiva produzione di nuovi neuroni nel corso dell'apprendimento di nuove nozioni. È poi ancora tutto da vedere se questo fenomeno si potrà estendere dalla memoria episodica, cioè la memoria degli eventi, anche a quella semantica, cioè la memoria delle nozioni. Vedremo. Ma non è ancora tutto qui.
Bibliografia
La ricerca illustrata è stata pubblicata su «Nature»
(vol. 486, pag. 41-42, 2012) a cura di Thomas Mrsic-Flogel e Tobias Bonhoeffer. Riferimenti si trovano in «Science» (vol. 14, pag. 325-337, 2010) nello studio di J. B. Aimone, W. Deng e F. H. Gage.
Da leggere: «A ognuno il suo cervello. Plasticità neuronale e inconscio» di F. Ansermet e P. Magistretti (Bollati Boringhieri, 2008); «Come nascono le idee» di
E. Boncinelli (Laterza, 2010)
I pensatori: John Locke (1632-1704) e David Hume (1711-1776) sono stati due importanti esponenti dell'empirismo britannico.
Il primo sostenne il valore dell'esperienza contro ogni forma di innatismo e introdusse il termine «associazione d'idee».
Il secondo ridusse l'associazione a tre princìpi: somiglianza, continuità nel tempo e nello spazio e vincolo causa-effetto
Corriere Salute 8.7.12
Lo psicoanalista che per primo volle ascoltare «i matti veri»
di Danilo Di Diodoro
Nuotava coraggiosamente al largo di Camogli, a ottantacinque anni,
quando ha avuto una crisi cardiaca che se l'è portato via. E di coraggio
e passione ne aveva avuta veramente tanta. Giovanni Carlo Zapparoli era
stato uno psicoanalista e uno psicologo anomalo, uno dei primi ad
applicare la psicoanalisi, quando ancora era ritenuta solo un
trattamento per «nevrotici», alla cura delle persone che soffrivano di
disturbi psicotici. Dai suoi sforzi era nato un nuovo modo di
approcciare questo tipo di pazienti, il modello cosiddetto
dell'integrazione funzionale. Un modello, diceva Zapparoli stesso nel
suo libro La psichiatria oggi (pubblicato nel 1988), che «non privilegia
inizialmente né il farmaco né la relazione psicoterapeuta-paziente, ma
intende invece basarsi sulla comprensione dei bisogni del paziente
psicotico, per affrontare i quali restano altresì valide le tre proposte
di aiuto — farmacoterapia, psicoterapia e assistenza — utilizzate dagli
operatori che lavorano sia nell'ambito del modello a impianto
psicoanalitico-psicoterapeutico che in quello a impianto
organicistico-farmacologico».
«Ma questo non sembra proprio uno psicoanalista…» era la reazione
frequente di chi lo incontrava per la prima volta e rimaneva colpito dal
suo atteggiamento estremamente naturale, avendo in mente l'immagine del
classico psicoanalista etereo e riflessivo, perennemente chiuso nel suo
studio ad ascoltare pazienti sul lettino.
Zapparoli aveva una profonda conoscenza del caotico universo della
psicosi, quella conoscenza sul campo che può avere chi si è sporcato le
mani fin dall'inizio della carriera con la frequentazione dei pazienti
più gravi. E l'inizio della sua carriera risaliva ai primi anni
Cinquanta, quando, dopo aver completato un'analisi personale con il
padre della psicoanalisi italiana, Cesare Musatti, Zapparoli entrò come
«universitario» tra le mura dell'ospedale psichiatrico Antonini di
Mombello, dove cominciò a parlare con i ricoverati, ascoltare le loro
storie personali. Un'attività che i medici di reparto, resi indifferenti
dalla gelida istituzione manicomiale, guardavano con sufficienza.
«Questo primo lavoro terapeutico diede qualche risultato — dice lo
stesso Zapparoli in uno scritto autobiografico pubblicato nel libro —. I
pazienti sono stati meglio, credo solo perché avevano potuto finalmente
parlare con qualcuno e avevano avuto qualcuno che si interessava ai
loro problemi. Incoraggiato da questa prima esperienza, ho voluto capire
di più».
Supportato da alcuni primari che cominciavano ad avere fiducia in questo
giovane medico interessato pioneristicamente alla psicologia, Zapparoli
iniziò una serie di sedute con i pazienti in assoluto più gravi, come i
deliranti e i catatonici, con i quali si intratteneva per ore e ore,
cercando di entrare nei meandri del loro inaccessibile universo
psicotico. Alla fine degli anni Cinquanta, Zapparoli ha già diversi
collaboratori e inizia a scrivere il suo primo libro, La psicoanalisi
del delirio, che sarà pubblicato nel 1967.
Ormai attorno a lui si lavora in équipe e si sta sviluppando un'intensa
collaborazione tra psicoterapeuti e psichiatri, mentre alle riunioni in
cui si discutono i casi clinici iniziano a partecipare anche gli
infermieri, un'iniziativa per l'epoca del tutto innovativa.
Le attività di questo iniziale Laboratorio di psicologia, che si
protrassero fino al 1975, erano, oltre che di consulenza clinica per i
pazienti ricoverati e per pazienti esterni, anche di formazione degli
operatori, di consulenza verso altre istituzioni socio-sanitarie, e di
ricerca. Si svilupparono la testistica psicologica e la
psicodiagnostica, facendo largo uso di test cosiddetti «proiettivi»,
come quelli di Rorschach e di appercezione tematica (Tat).
Nacque un interesse specifico nei confronti di due passaggi cruciali
dello sviluppo psicologico, l'infanzia e l'adolescenza, anche tramite
l'utilizzo di test come il Cat-test, il test di appercezione tematica
per bambini. «È questa un'epoca in cui si cerca di fornire agli
psicologi gli strumenti tipici di quella che più tardi verrà definita la
professione di psicologo, in modo che si potesse sviluppare una
identità professionale chiaramente individuabile per strumenti e
tecniche specifiche di lavoro» scrive ancora Zapparoli.
In quel periodo i molti operatori in formazione nel Laboratorio di
psicologia si ritrovarono a lavorare in una vera e propria «bottega
d'arte», dove i giovani imparavano dai più esperti direttamente sul
campo, in un ambiente culturale aperto al libero e generoso scambio di
informazioni e non condizionato dai confini tra le discipline:
psicologia, psicoanalisi e psichiatria erano utilizzate nel loro insieme
e integrate, con l'unico obiettivo di arrivare a poter essere di aiuto a
chi stava male. «Furono anni di sperimentazione e di dedizione al
lavoro — ricorda la dottoressa Maria Clotilde Gislon —; in particolare
si svolgeva un'attività ambulatoriale di psicoterapia, individuale e di
gruppo, pionieristica, in quanto una delle prime esperienze di
psicoterapia in ambito istituzionale e a favore anche delle fasce più
deboli della società. La risposta di Zapparoli a chi chiedeva quanto
pagare era «al suo buon cuore», per sottolineare che ognuno era libero
di decidere a seconda delle sue disponibilità e di quanto riteneva di
aver ricevuto».
Si applicavano le prime tecniche di integrazione sociale dei pazienti
psichiatrici, si realizzava un sistema di formazione continua e di
circolazione aperta di tutte le informazioni, si imparava a concentrarsi
sull'essenziale e a fare a meno del superfluo. L'intero gruppo che
ruotava attorno a Giovanni Carlo Zapparoli era ormai pronto per
un'esperienza organizzativa più completa e strutturata.
Nel 1975 dall'esperienza del Laboratorio di psicologia nasce il Centro
di psicologia clinica di Milano. I principi, l'assetto teorico e la
leadership sono gli stessi. Il nuovo centro svolge attività clinica e di
formazione degli operatori che lavoravano nei servizi socio-sanitari
dell'area della salute mentale, ma anche nei servizi per l'infanzia e
l'adolescenza. Nel 1978, in Italia entra in vigore la famosa legge 180,
detta anche «legge Basaglia», che sposta l'assistenza psichiatrica
dall'ospedale al territorio, e il Centro di psicologia clinica partecipa
alle attività di superamento degli ospedali psichiatrici e degli
istituti medico-psico-pedagogici, delle scuole speciali. «In una parola —
scrive ancora Zapparoli — delle forme istituzionali di segregazione dei
malati mentali, degli handicappati, dei tossicodipendenti».
Cercava «saggezza clinica»
«Sapeva coniugare l'umanità a una solida base teorica di conoscenze e
all'osservazione clinica», dice di Zapparoli la dottoressa Maria
Clotilde Gislon, una delle sue collaboratrici della prima ora, formatasi
in diversi istituti internazionali di alto livello, come il New York
Hospital Cornell Medical Center. «Mirava alla "saggezza clinica", e il
suo principio guida era differenziare l'essenziale dal superfluo»,
sviluppando il talento clinico, la capacità di trasformare le difficoltà
in vantaggi.
«È su queste basi, dopo la chiusura del Centro di psicologia clinica,
che è stato fondato l'Iserdip, l'Istituto per lo studio e la ricerca sui
disturbi psichici di Milano» dice la dottoressa Gislon. «Una onlus dove
lavorano, oltre che gli allievi della Scuola di specializzazione di
psicoterapia, professionisti che operano nei vari gruppi di formazione,
età evolutiva, genitorialità, patologia grave borderline, area
ospedaliera, e nell'attività ambulatoriale del Centro specialistico G.
C. Zapparoli».
Corriere La Lettura 8.7.12
Poe e Lenin: sulle tracce di «cadaveri eccellenti»
di Anna Meldolesi
Edgar Allan Poe e Lenin, Giovanna D'Arco e Mozart, Cristoforo Colombo e Pericle. Che cos'hanno in comune? Sono diventati tutti casi clinici all'Università del Maryland. Soffrivano di malattie misteriose e i camici bianchi si sono fatti avanti per trovare la chiave dei rebus. Nessun antico reperto sacrificato, niente test genetici, solo un elenco di manifestazioni e circostanze da analizzare alla vecchia maniera. I sintomi non mentono, diceva Dr. House.
L'idea è venuta nel 1995 a un epidemiologo, Philip Mackowiak, e l'iniziativa si ripete ogni anno da allora. Non tutti i casi sono stati brillantemente risolti, nota doverosamente «Science» nell'ultimo numero, e dagli studiosi di storia è arrivato più di un mugugno. Il fascino della sfida però è indiscutibile. La prima volta i medici invitati credevano di partecipare a una conferenza informale ma classica: si analizza un caso, ci si confronta, si fa una diagnosi. «E. P. è un uomo di 40 anni che è stato soccorso all'inizio di ottobre in stato confusionale. Stava viaggiando da Richmond a Philadelphia quando è stato trovato privo di conoscenza ai piedi del museo di Baltimora. All'apparenza stava bene quando ha lasciato Richmond alle 7 di mattina. Nessuna evidenza di traumi». Chi poteva sospettare che E. P. fossero le iniziali di un poeta maledetto morto da un secolo e mezzo? A partire dalla seconda edizione, ovviamente, l'effetto sorpresa è scomparso ma il cimento ora è doppio: bisogna indovinare l'identità dell'illustre paziente prima ancora dei suoi malanni. Nel 2012 è stata la volta di un uomo che era all'apice del potere politico e mostrava segni di paranoia quando ha avuto il primo di tre ictus a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro. Riusciva appena a pronunciare qualche monosillabo. «Vot, vot» (qui, qui). Aveva la parte destra del corpo virtualmente paralizzata e le convulsioni. È morto poco prima di compiere 54 anni con delle arterie cerebrali calcificate al punto da sembrare di pietra. Si chiamava Vladimir Lenin.
Nel corso dei decenni si sono susseguite le ipotesi: sifilide, patologia cardiaca, avvelenamento da piombo causato dai proiettili rimasti in corpo dopo un fallito attentato? Le convulsioni fanno pensare a un veleno, ma la morte per ischemia del tessuto cerebrale spiegherebbe quasi tutto. Neppure nel caso di Poe l'esercitazione di patologia clinica è stata risolutiva. Rabbia, sosteneva il medico curante a metà Ottocento.
Rabbia, ha confermato sulla base dei suoi resoconti uno dei relatori. Mackowiak però ha proseguito le ricerche e oggi esclude la zoonosi virale. Probabilmente a ucciderlo è stato l'alcolismo. Il più delle volte anche gli uomini straordinari escono di scena in modo ordinario.
Corriere La Lettura 8.7.12
Giovani in cerca di un altro futuro
La psicoanalisi affronta la crisi economica
Dopo aver cambiato la letteratura del '900
di Silvia Vegetti Finzi
In un contesto culturale straordinariamente favorevole, la psicoanalisi nasce all'inizio del secolo scorso nell'ambito della borghesia ebraica viennese combattuta tra il desiderio di riconoscimento e integrazione sociale e l'insofferenza per gli aspetti autoritari e repressivi del burocratico impero asburgico. Poteva sembrare un fenomeno locale e contingente ma la rapida diffusione in Europa, negli Stati Uniti e nell'America del Sud doveva dimostrare che il nuovo sapere aveva colto aspetti universali della mente umana e stava contaminando in modo straordinario la letteratura, che da La coscienza di Zeno (1923) in avanti fece proprie le istanze dell'inconscio modificando anche il linguaggio letterario.
In Italia la psicoanalisi, già esercitata come terapia, si diffonde con rapidità, a decorrere dalla seconda metà degli anni 70, soprattutto tra i giovani, come alternativa alla delusione provocata dalla incapacità della politica di accogliere ed elaborare le istanze di rinnovamento espresse dalla contestazione studentesca e dai movimenti civili. In una fase di sviluppo economico e di verticale mobilità sociale, la psicoanalisi offriva, nell'ultimo trentennio del '900, la possibilità di una intensa esperienza culturale, capace di ovviare al vuoto esistenziale provocato dalla secolarizzazione della società e dall'ideologia dei consumi.
Ma ora, in un'epoca di crisi economica, crescente disoccupazione, mancanza di fiducia nel presente e speranza nel futuro la psicoanalisi ha ancora qualcosa da dire? Ci può davvero aiutare oppure va relegata nel passato come altri beni di lusso? La persistente domanda di psicoterapie di ispirazione psicoanalitica testimonia che questa risorsa è tuttora valida, benché minacciata dalla facile somministrazione di cure farmacologiche e da improvvisati terapeuti dell'anima. È valida perché, nonostante progressive ristrettezze, non siamo ridotti alla necessità di soddisfare i bisogni primari, come poteva accadere nel '43, quando la sopravvivenza costituiva un'urgenza totalizzante. Permangono, nonostante tutto, i desideri che costituiscono, come sosteneva Spinoza, il fulcro della esistenza umana. Il giovane in cerca di prima occupazione, l'impiegata in cassa integrazione, il manager esodato, il coniuge abbandonato, la madre sola non necessitano sempre e soltanto di aiuti economici. Hanno piuttosto bisogno di conservare o recuperare fiducia in se stessi, autostima, voglia di resistere e ricominciare. E la psicoanalisi li può aiutare con la forza di un patrimonio secolare di conoscenza e di saggezza, con una pratica convalidata di ascolto partecipato nello scambio di pensieri e di affetti. Nel suo ambito si attivano processi perenni e universali come quelli che riguardano i rapporti parentali (complesso di Edipo) insieme ai conflitti sociali e individuali della tarda modernità. Gli psicoanalisti sanno di essere per certi versi inattuali perché il loro oggetto, l'inconscio, non conosce le categorie aristoteliche di tempo, spazio, causa e non contraddizione, ma anche attuali in quanto i sintomi «parlano» qui e ora e persino i sogni si avvalgono del materiale diurno per mettere in scena conflitti che spesso risalgono alla prima infanzia. La difficoltà dei pazienti è piuttosto quella di sottrarsi alla tentazione di mettere a tacere il sintomo con il pronto intervento di psicofarmaci, per darsi il tempo di percorrere un itinerario di conoscenza di sé e del mondo che li aiuti a recuperare le loro risorse e a prospettare un futuro possibile e desiderabile. Non si tratta certo di un esercizio di onnipotenza perché l'analisi comporta l'esaustione di tutte le impossibilità prima di giungere a riconoscere i pochi gradi di libertà che ci sono concessi.
L'onnipotenza, la pretesa di avere tutto e subito costituisce infatti, in questi anni, il denominatore comune di sintomatologie che possono sembrare addirittura opposte. Da una parte emerge la ricerca di un godimento che va al di là del piacere, che scavalca la soddisfazione, che supera il limite per ricercare l'eccesso, per concedersi una dismisura che, incurante del danno, sfiora la morte. In questo ambito si collocano le dipendenze, dove quelle da sostanze stupefacenti sono le più clamorose ma non le uniche. Tutto può indurre dipendenza: il cibo, il sesso, il gioco, il fumo, il viaggio, il sonno, persino lo studio.
Dall'altra troviamo una nuova, inquietante forma di malessere, soprattutto giovanile. Sono sempre più numerosi i ragazzi che di fronte a una società fredda, ostile e duramente competitiva, gettano la spugna e abbandonano il ring. Oppressi fin da piccoli dalle pretese familiari di successo in ogni campo — gli studi, lo sport, le amicizie, la seduzione — decidono di farsi da parte, di non chiedere niente a sé e agli altri, di vivere accettando una morte a piccole dosi. Se non possiamo ottenere tutto, sembrano dire, meglio non avere niente. In un primo tempo possono sembrare buoni, troppo buoni, a genitori spesso impegnati in conflitti coniugali o nella realizzazione di sé. Ma progressivamente emergono la disistima e persino la vergogna che provano per la propria inadeguatezza. Mentre nella famiglia patriarcale il motto inciso nella mente dei ragazzi era «non devo», ora si è trasformato in «non posso», nel senso di «non ce la faccio: lasciatemi stare che non ho nulla da chiedere e nulla da perdere». Il tentativo della psicoterapia sarà allora quello di riportare l'esule volontario tra noi e di riannodare il filo della sua storia in modo che i desideri del passato, una volta recuperati, si proiettino sul futuro. Ma non è facile in quanto, se manca la domanda di aiuto, non si instaurano le condizioni per un dialogo psicoanalitico.
Tra questi due poli si situa un ventaglio di malesseri che la psicoanalisi non generalizza ma tratta caso per caso, personalmente, secondo una modalità antica che si rifà per certi versi alla pratica della confessione. Gli psicoanalisti, dal canto loro, sono ben consapevoli di dover navigare tenendo un occhio sulle stelle fisse e l'altro sul mare in tempesta. Non a caso l'ultimo congresso della Società Psicoanalitica Italiana era dedicato a temi inconsueti alla sua riflessione quali «Denaro, potere e lavoro tra etica e narcisismo» su cui erano invitati al dialogo rappresentati della società come Susanna Camusso, segretario del sindacato Cgil.
Tornando al punto di partenza — se la psicoanalisi sia più richiesta in tempi di benessere o di malessere sociale — credo che essa accolga e gestisca il mandato socratico che sta alla base della nostra cultura — «Conosci te stesso» — e che lo svolga, fermi alcuni principi di teoria e di metodo, secondo i tempi e i modi del contesto storico in cui si trova a operare. L'importante è evitare il pericolo di ogni istituzione: la rigidità dogmatica, la difesa dei privilegi, la burocrazia dei rapporti. Quanto al mercato delle psicoterapie, vorrei ricordare l'osservazione che Freud dedica agli analisti del suo tempo, preoccupati per la durata e il costo del trattamento: «…se si contrappone l'incremento della capacità di fare e di guadagnare ottenuto al termine di una cura analitica portata a buon fine, si può dire che i malati hanno fatto un buon affare. Nella vita non c'è nulla di più dispendioso della malattia e della stupidità».
Bibliografia
L'ansia del futuro, la precarietà, l'incertezza sono temi molto affrontati dalla generazione
di giovani scrittori italiani, ma la psicoanalisi sembra sparita dall'orizzonte narrativo. Fa
una breve apparizione, sotto le spoglie della «seducente psicoanalista Limone» ne Le più strepitose cadute della mia vita (Mondadori) di Michele Dalai, dove lo smacco è risolto in commedia («siamo tutti al di sotto delle aspettative e quindi sono le aspettative a sbagliare» dice il protagonista), ma per lo più prevale un sentimento di rabbia. Come in Aut Aut (edito da Giulio Perrone) dell'esordiente Gabriele Santoni, dove il protagonista non esce di fatto dallo stallo («Era la vita, la cosa più spaventosa che avesse mai affrontato») o come nei versi liberi di Francesco Targhetta (Perché veniamo bene nelle fotografie, Isbn) che diventano la voce collettiva degli «sfuturati».
Corriere La Lettura 8.7.12
Ieri Svevo e Berto. Ma oggi nei romanzi vincono gli psicopatici, trascinati dal giallo
di Cristina Taglietti
La psicoanalisi è uscita dalla letteratura, la letteratura è entrata nella psicoanalisi. Il rapporto tra inconscio e narrazione è sempre stato fecondo e a doppio senso, anche se oggi la pratica freudiana basata sulla parola ha perso il peso che ha avuto per gran parte del Novecento.
Per molti anni l'individuo, sbriciolato nella sua monoliticità dal «maestro del sospetto» Freud, ha trovato proprio nella narrativa una rappresentazione paradigmatica, a partire dalla Coscienza di Zeno, il capolavoro di Italo Svevo basato sulle memorie (raccolte dal suo psicoanalista) del protagonista, Zeno Cosini, che intrecciano ricordi e desideri mettendo in luce le stratificazioni e le mascherature della psiche. Giuseppe Berto comincia a scrivere Il male oscuro (1964) non credendo affatto alla psicoanalisi, ma fidandosi completamente del suo analista, un «uomo straordinariamente buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso», che lo conduce gradatamente a guardare dentro se stesso senza paura o vergogna di ciò che vi avrebbe potuto trovare: «Era come se avessi scoperto il bandolo di un filo che mi usciva dall'ombelico - scrive — io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po' male si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male».
Con Saba, Gadda (è lui a usare l'espressione «male oscuro» ne La cognizione del dolore) e poi Moravia, Volponi, Bertolucci, Sanguineti la psicoanalisi entra in modo massiccio, a volte in forma esplicita, a volte sotterranea, nella nostra letteratura, mentre la critica ha fatto ricorso agli studi di Freud (ma anche di Jung e Lacan) per interpretare le opere degli scrittori, basti pensare allo «sperimentatore» Giacomo Debenedetti, al suo allievo Mario Lavagetto, a Francesco Orlando o a Elio Gioanola che ha pubblicato recentemente da Jaka Book una biografia di Eugenio Montale dal titolo significativo: Montale. L'arte è la forma di vita di chi propriamente non vive, dove la necessità dell'opera è fatta derivare direttamente dal «male di vivere», proprio come nel caso di Svevo. All'impostazione psicoanalitica aderisce in modo totale Julia Kristeva, critica e semiologa capace di una efficace sintesi di metodi con cui scannerizza temi e autori, dal misticismo al genio femminile di Colette, Melanie Klein, Hannah Arendt, dall'amore («essere psicoanalista significa sapere che tutte le storie finiscono per parlare d'amore» scrive nel saggio Storie d'amore, scritto nell'83 e ora pubblicato da Donzelli) all'arte.
Oggi, complice il trionfo mondiale del genere giallo-nero, i nevrotici hanno lasciato spesso il posto, nei romanzi, a veri e propri disturbati mentali quando non psicopatici. La categoria costituisce un bacino fecondo e ricchissimo di spunti narrativi per gli autori di un genere che nel corso degli ultimi tempi ha messo in scena una galleria di serial killer inseguiti da investigatori e poliziotti depressi e feriti dalla vita che nella maggior parte dei casi l'aiuto psicologico lo rifiutano a priori. L'investigatore razionale e positivista, risolto e fiducioso nel suo metodo deduttivo, si è un po' fatto da parte a favore di figure meno rassicuranti che inseguendo i fantasmi altrui trovano i propri. Come l'Harry Bosch di Michael Connelly, poliziotto traumatizzato dall'omicidio della madre e incapace di relazionarsi con il prossimo, o l'Harry Hole di Jo Nesbo, detective alcolista e solitario. Ma gli esempi potrebbero essere molti. Per questi investigatori, e per quelli come loro, la narrativa gialla e hard boiled offre una lunga serie di disagi psicologici, un'esplosione drammatica di passioni e ossessioni quasi sempre movente e spia della drammaticità della condizione umana. Insomma, la psiche e l'inconscio sono oggi per lo più roba da profiler del Fbi o di criminologi nostrani. Fanno eccezione rari casi, come quello di Patrick McGrath, lo scrittore inglese cresciuto in un ospedale psichiatrico criminale dove il padre era sovrintendente medico, autore di un romanzo, L'estranea (Bompiani) che, come i suoi precedenti, Follia, Martha Peake, Spider è in grado di penetrare nel lato oscuro degli individui aprendo, nello stesso tempo, squarci su rapporti familiari e sociali, stando ben lontano dai meccanismi del giallo.
È anche vero che la psicoanalisi ha trovato spesso nella letteratura un serbatoio di metafore e intuizioni evocative in grado di semplificare dal punto di vista linguistico meccanismi e rapporti complessi — dalle tragedie greche (il complesso di Edipo), al tema della doppia personalità (Dr. Jekyll e Mr. Hyde) — e non è un caso che un racconto giallo di Edgard Allan Poe di poco antecedente alla nascita della psicoanalisi, La lettera rubata, con protagonista l'investigatore-artista Auguste Dupin, sia stata lo spunto di riflessione per lo stesso Sigmund Freud, più tardi per Jacques Lacan e infine per filosofo francese Jacques Derrida.
Psicoanalisi e romanzo giallo nascono praticamente contemporaneamente e i meccanismi della detective story possono essere accostati a quelli di una indagine nella mente del paziente. Partendo da questo presupposto un gruppo di psichiatri e di analisti pavesi, membri della Società psicoanalitica italiana (Antonino Ferro, Giuseppe Civitarese, Maurizio Collovà, Giovanni Foresti, Fulvio Mazzacane, Elena Molinari, Pierluigi Politi) ha scritto un volume collettivo edito da Raffaello Cortina intitolato proprio Psicoanalisi in giallo dove, anche attraverso figure note agli amanti del poliziesco, dall'Adamsberg di Fred Vargas, capace di accostare storie apparentemente senza legame basandosi solo su quello che si può chiamare fiuto, al Montalbano di Camilleri con la sua «verità emotiva», dall'87° distretto di Ed McBain all'ispettore Tibbs di John Ball, si analizzano le evoluzioni di una pratica che risponde alla stessa domanda del giallo: di chi è la colpa? Per giungere alla conclusione che non sempre la colpa è, appunto, del colpevole.
Corriere La Lettura 8.7.12
Hildesheimer, lo psicologo di Mozart
Ha analizzato le più intime pieghe musicali e psicologiche di Mozart per presentarne la vita e l'opera in un racconto così fluido e completo da diventare un bestseller internazionale degli anni 70, e tuttora un testo base. Ma la complessità umana e culturale di Wolfgang Hildesheimer esonda dal semplice inquadramento di biografo: è stato scenografo, scrittore, drammaturgo, autore radiofonico, critico, librettista, pittore, grande studioso di musica e psicologia. Hildesheimer nasce ad Amburgo nel 1916 da famiglia ebraica; nel 1933, con l'avvento del nazismo, emigra in Inghilterra e, da lì, in Palestina. Nel 1946 è di nuovo in Germania come interprete ai processi di Norimberga; poi resta nel Paese natale, dipinge e comincia a scrivere. Avvicina circoli letterari e artistici, ma ne assaggia l'ipocrisia, la vacuità, un disagio che traduce negli sberleffi di libri come Leggende spietate e Falsi e falsari (entrambi per Marcos y Marcos). Si rende conto presto che il virus dell'antisemitismo non è debellato, che è come un ceppo tubercolotico dormiente ma pronto ad accendersi se il corpo-ospite si indebolisce, e non vuole poter essere utilizzato in alcun modo come «sbiancante» della recente storia tedesca: così nel 1957 lascia definitivamente la Germania. Si stabilisce in Svizzera, a Poschiavo. La sua anima è intossicata dagli orrori storici, non crede più nella capacità umana di creare civiltà, anche il ruolo della letteratura finisce in un vortice apocalittico. Nel 1977, come si diceva, il suo Mozart (Rizzoli) è un successo straordinario («un poema sinfonico in parole» lo definirà in seguito il «London Review of Books»): svela al grande pubblico anche la coprolalia del genio musicale, e quelle lettere sconce alla cugina Maria Anna Thekla prima riservate «a una ristretta cerchia di persone in edizione fuori commercio», come nel 1931 spiegava Stefan Zweig a Freud inviandogliene copia. Eppure nel 1982 Hildesheimer abbandona la scrittura. Si concentra sulla pittura, soprattutto sul collage. Le sue opere saranno ospitate in molte gallerie del mondo, e se ne può sempre vedere una collezione nel Vecchio Monastero di Poschiavo, il paesino dove Hildesheimer muore nel 1991.
La Stampa TuttoLibri 7.7.12
Sergio Givone
Neoassessore alla Cultura a Firenze, allievo di Pareyson una fresca investigazione sulla «Metafisica della peste»
“Non sono finito nella trappola di Nietzsche”
intervista di Giovanni Tesio
«Il libro dei libri? L’Astronomia di Flammarion, narra la storia del mondo in una luce metafisica» «Mi affascinavano da piccolo i viaggi verso il nulla degli esploratori, come Nansen e Amundsen»
Lo ha detto e lo ribadisce: «Le esperienze quotidiane non sono niente rispetto all'incontro con un libro». Così Sergio Givone racconta l'avventura della parola scritta nella sua vita di bambino, di ragazzo, di studente, di filosofo, di scrittore, di docente universitario (originario di Buronzo, nei pressi di Vercelli, vive e insegna a Firenze dopo essersi formato alla scuola torinese di Luigi Pareyson). Addirittura due le ragioni di attualità che invitano a incontrarlo nella bella casa a due passi da San Lorenzo: appena uscito Metafisica della peste; appena arrivata da Palazzo Vecchio la nomina di assessore alla Cultura. Da dove parte la sua storia di lettore? «Sono vissuto fino ai diciotto anni in una di quelle cascine della Bassa che sembrano navi pronte a salpare. Ho avuto zie maestre, una madre maestra e leggevo i libri della loro modesta biblioteca». Un po' come nel suo primo romanzo, «Favola delle cose ultime». «Sì, quella cascina si chiama La Nave e si protende verso l'altrove».
C'è un libro dei libri? «È l' Astronomia popolare di Flammarion. Racconta la sto-
ria del mondo in una luce metafisica anche se è l'opera di un positivista. Era come leggere in cielo le cifre di un destino». Sono venute prima le parole o prima le figure? «Proprio in Astronomia popolare ho memoria indelebile di una figura che rappresenta L'ultima famiglia. Accerchiata dai ghiacci - dice la didascalia - l'ultima famiglia è tocca dal dito della Morte». Grande tema quello dei ghiacci. «Ricordo i libri che descrivevano le esplorazioni polari. Album dove c'erano spazi vuoti in cui qualcuno, forse mio padre, aveva appiccicato delle figure. Essenziale era però l'idea del viaggio verso il nulla: sarà poi uno dei temi costanti della mia filosofia». L'esplorazione polare ha tentato anche alcuni scrittori d'oggi. «E’ un fatto che mi ha colpito: Del Giudice, Tuena, Mussapi. Per noi ragazzini rappresentava un varco, un pertugio verso l'esplorazione del mondo». Tornando ai libri delle sue maestre? «Soprattutto i libri della Biblioteca Universale Sonzogno: Riso rosso, La Rivoluzione, Il figlio dell'uomo di Andreev, il dramma L'intrusa di Maeterlinck. Di lì passava la sensazione di leggere il piccolo mondo attraverso lo specchio delle grandi idee».
Altri titoli? «Le mie maestre mi hanno messo pericolosamente in mano anche il Don Chisciotte eGuerra e pace.
Perché «pericolosamente»? «Prendere sul serio i libri mette di fronte a verità angoscianti. Penso in Guerra e pace al capitolo sulle fucilazioni dei soldati francesi, un vero e proprio esempio di burocratizzazione dello sterminio. Penso nel Don Chisciotte alla novella “dell' indagatore malaccorto”. Non è pericoloso che un ragazzo scopra nella cosa più desiderata, come l'amore, una metamorfosi micidiale? Il tarlo capace di trasformare la perfezione in distruzione?».
Niente Salgari? «Piuttosto Verne, in cui avventura e tecnica andavano di passo. In questo penso agissero anche certi manuali Hoepli sull'irreggimentazione delle acque che leggevano gli uomini di casa».
Fin qui, casa. E fuori? «Un incontro importante con Angelo Gilardino, grande musicologo e musicista. Ai tempi del Liceo Lagrangia di Vercelli, fu lui a farmi fare il salto nella grande letteratura europea: Musil, Kafka, Mann».
Dopodiché venne Pareyson. «Pareyson e Abbagnano, un cuneese e un napoletano, con quel loro accento inconfondibile. Ma anche, da una parte, Eco, Vattimo, Riconda, dall'altra Rossi e Viano. E poi Chiodi, a cui devo soprattutto la lettura di Kant, uno dei filosofi che ho studiato di più, con Plotino, Pascal, Kierkegaard. Era un'avventura andare a lezione dalle 11 alle 12, seguire il durissimo corso di Pareyson su Fichte, la filosofia della libertà, e poi sentire Eco parlare di mass media dicendo in modo chiaro ciò che Adorno scriveva in modo contorto o incomprensibile». Anche lei, come Cavell, ha il suo Fred Astaire? «Iannacci, ad esempio, che considero un grande poeta del Novecento e un grande raccontatore di storie. Ma anche Carosone, che considero l'ultimo grande episodio dell'opera buffa. E infine Buscaglione: in chiave torinese ci ha liberati dal mito dell'America». Parlando di poesia, mi pare che nella sua considerazione
agisca meno della prosa. «È vero. Tanto sono ben disposto su filosofia e romanzo quanto la poesia mi sembra un dono assolutamente raro. Amo molto Petrarca, amo Leopardi, ho letto Montale, Ungaretti, molto Luzi. Amo anche Celan, ma non leggo la sua poesia filosoficamente». Su ciò di cui non si può teorizzare si deve narrare? «Platone ha detto: ci sono delle cose che vogliono essere afferrate dal Logos e cose che vogliono essere afferrate dal Mythos. È già tutto qui». Un un lettore così avvertito quale lei è può recuperare una dimensione di «ingenuità»? «Lo so che è impossibile, però un fanciullino in me c'è e cerco di tenerlo caro, se no non leggerei più libri». Lei è un lettore che abbandona i libri? «Sì. Sono tentato di dire Voltaire, ma poi non è del tutto vero. Sarei tentato di dire Hegel, ma perché non riuscivo a impossessarmene. Un autore che ho abbandonato con tratti quasi rabbiosi è Nietzsche». Il libro che l'abbia sorpresa di più? «Alla terza o quarta lettura, Le memorie del sottosuolo di Dostoëvskij quando ho scoperto che è un libro comico, di una comicità radicale e sconcertante». Davvero darebbe l'intera «Recherche» per «Zeno». «È la mia passione per l'ironia. La coscienza di Zeno è un carnevale meraviglioso di deduzioni e controdeduzioni».
l’Unità 8.7.12
Ritratto di Nilde Iotti. Una vita compiuta ovverosia «perfetta»
Scelte consapevoli sia da giovanissima che da adulta. Sia nel privato che come politica. Un esempio importante
di Walter Veltroni
LA PERFEZIONE, È NOTO, NON FA PARTE DI QUESTO MONDO, SOPRATTUTTO NON È PREROGATIVA DEGLI ESSERE UMANI. È UN «LEGNO STORTO», DICEVA KANT, QUELLO DELL’UMANITÀ. Se prendessimo però il termine «perfezione» e ne facessimo l’etimologia, risalendo fino al latino perfectus e poi perficio, vale a dire «finire», «portare a termine», potremmo osservare che «perfezione» vuol dire letteralmente «compimento» e «perfetto» significa «compiuto». E allora potremmo anche riflettere sul fatto che se è vero che nessuna persona può incarnare o rappresentare la perfezione, è vero anche che la vita di un uomo o di una donna può essere «compiuta» quando è piena, quando consente di praticare coerentemente gli ideali in cui si crede, quando è raggiungimento dei propri piani di vita e insieme contributo alla collettività di cui si è parte.
Certo, riuscire a dispiegare in questo modo la propria esistenza non è da tutti ed è in qualche modo una fortuna, un privilegio. Se mi chiedessero di chiudere gli occhi e di fare, quasi senza pensare, alcuni esempi di persone così, d’istinto, tra coloro che ho avuto la fortuna di conoscere, direi Vittorio Foa e Carlo Azeglio Ciampi, direi Rita Levi-Montalcini e Umberto Veronesi. Penserei al Presidente Napolitano. E penserei anche a una donna che nella storia di questo nostro Paese ha avuto un posto di rilievo, penserei a Nilde Iotti.
Una vita «compiuta», la sua. Perché è così quando insieme ad altre ragazze e ragazzi della propria generazione si compie la scelta giusta, si prende parte ad una lotta di liberazione, si rischia in prima persona per la conquista della democrazia e per il raggiungimento di una libertà di cui un giorno potranno godere anche gli avversari di quel momento.
Una vita «compiuta», quando il proprio impegno politico non è legato alle ideologie, nemmeno nel tempo in cui esse creano gabbie e imprigionano menti, ma ai bisogni dei più deboli, ai diritti di chi lavora, all’emancipazione delle donne tutta da conquistare.
Una vita «compiuta». Quella di una donna che sa dimostrare forza e serenità interiore, nel non rinunciare alle proprie emozioni, nel volere coltivare i propri affetti, il proprio amore, sfidando le ipocrisie e il perbenismo di un tempo difficile, e in più il conservatorismo dei propri stessi compagni di partito.
Una vita «compiuta», quando per tredici anni si svolge il proprio ruolo istituzionale, prima donna Presidente della Camera dei Deputati, in modo tale da guadagnarsi la stima di tutte le parti politiche e soprattutto di tutti gli italiani, che hanno fiducia nelle qualità di una persona che dimostra di avere a cuore, più di ogni altra cosa, il bene comune, gli interessi del Paese.
Una vita «compiuta», quando fino alle ultime parole dell’ultimo discorso, mentre si propone in anticipo su tutti di ridurre il numero dei parlamentari e di superare il bicameralismo perfetto, la curiosità intellettuale e il desiderio di innovazione consentono di gettare uno sguardo lontano, dove si sa che personalmente non si arriverà e dove però si vuole che le generazioni future giungano nel migliore dei modi, con «istituzioni democratiche, efficienti e capaci di interpretare, per un ragionevole periodo, l’inevitabile evoluzione dei tempi».
E allora è vero: la perfezione non è, e molto probabilmente nemmeno deve essere, caratteristica di ciò che è umano. Si può perseguirla, se questo serve a dare e a fare il meglio. Ma non si deve pretendere di ottenerla, perché propri dell’uomo sono il limite e la finitezza. La compiutezza di un’esistenza, però, la si può raggiungere, quella sì. E ci sono persone, ci sono vite, che sembrano incaricate di dimostrarlo.
il Fatto 8.7.12
“Mio padre Leonardo Sciascia fu usato per colpire i magistrati”
Parla la figlia dello scrittore:
“Il suo pensiero sull’Antimafia fu distorto con un obiettivo preciso”
di Sandra Amurri
Ricordo con sofferenza il dolore di mio padre, il suo pensiero fu distorto, strumentalizzato, il suo articolo mal titolato e l’attenzione venne spostata sulla polemica dell’antimafia parolaia. Prevalse la banalità di una polemica superficiale, utile a qualcuno per delegittimare i magistrati”. Anna Maria, 66 anni, secondogenita di Leonardo Sciascia, moglie dell’ingegnere Antonino Catalano, madre di due figli, nonna di due bimbe, ripercorre quei primi mesi dell’87 che seguirono all’articolo sul Corriere della Sera “I professionisti dell’antimafia”.
SCIASCIA fu accusato di de-legittimare Paolo Borsellino, nominato Procuratore di Mar-sala, per “meriti di antimafia” e non, come volevano le regole del Csm, per automatismi di anzianità e di rimproverare a Leoluca Orlando, anche all’epoca sindaco di Palermo, di dedicarsi più alle interviste per acquisire “meriti di antimafioso” che ai problemi della città.
Il Coordinamento antimafia definì Sciascia, che molti anni prima aveva mostrato al Paese il volto di una mafia la cui esistenza veniva negata dai più, un ‘quaquaraquà’. “Svuotarono le sue parole, ne dispersero il messaggio etico e, aggiungerei, profetico”, spiega Anna Maria. Profetico lo fu, visto che quando si trattò di nominare il capo dell’Ufficio Istruzione, il Csm preferì Antonino Meli, magistrato più anziano ma digiuno di lotta alla mafia, a Giovanni Falcone, smantellando di fatto il pool di Caponnetto, trincerandosi dietro la ferrea applicazione di quella stessa regola che non aveva rispettato per la nomina di Borsellino. Come Scia-scia aveva denunciato: “Il Csm si era sottratto alla regola vigente senza però stabilirne un’altra” legittimando il caso Falcone. Poco prima di morire, Scia-scia “per squarciare quel velo di ipocrisia”, continua la signora Anna Maria “scrisse A Futura memoria. Papà non era una voce asservita al potere, ma pungolo critico del potere e Borsellino lo aveva compreso, tant’è che il magistrato non si sentì offeso dalla riflessione di papà, come mi ha confermato anche il figlio Manfredi, quando, qualche anno fa, è venuto a casa a conoscere mamma”.
NEI SUOI ULTIMI giorni, Borsellino faceva sue le parole che Sciascia, nel Giorno della Civetta, mette in bocca al miserabile Parrinieddu, bracciante della mafia e spia della polizia per necessità: “Chi ha paura muore tutti i giorni, chi non ha paura muore una volta sola”. Il giudice scrisse una lunga lettera a Sciascia da cui scaturì un intenso carteggio, conclusosi con l’incontro a Marsala, con le rispettive mogli, al pranzo organizzato dall’allora sindaco della città Enzo Genna. E nel ’91, al convegno a Racalmuto con Falcone disse: “Scontro fra me e Sciascia non ve ne fu. Sciascia ha avuto estrema importanza nella mia formazione e anche nella mia sensibilità antimafia. Ebbe la gradevolezza di darmi una interpretazione autentica del suo pensiero, che mi fece subito riflettere sul fatto che quella sua uscita mirava a ben altro”. Come, alla sua morte, ribadì la moglie Agnese: “Scia-scia aveva capito tutto in anticipo”.
ANNA MARIA ricorda quella domenica di 20 anni fa, quando fu sorpresa sul balcone da un boato che fece tremare i vetri e una nube nera si alzò in cielo. “Non sapevo che la mamma di Borsellino abitasse a pochi passi da casa mia. Un dolore immenso. È come se mio padre fosse morto di nuovo. Lo leggo e lo rileggo e vi trovo le risposte all’oggi. Guardo il ritratto che gli donò il suo amico Guttuso e mi sembra di toccarlo. Non era un pessimista, era uno che non si faceva illusioni. Mi piace pensare che mia nipote, Sofia, 5 anni, abbia ereditato un po’ dei suoi geni: giorni fa parlando ho usato il verbo sussurrare e lei dopo un po’ mi ha detto: nonna vieni che ti sussurro una cosa all’orecchio”. Lo scrittore di Racalmuto, poco prima di morire, riuscì a chiarirsi anche con Orlando “Era seduto con le spalle rivolte alla grande finestra a vetri, dietro cui ondeggiano gli alberi di Villa Sperlinga. Parlarono a lungo, Orlando gli era simpatico. Sarebbe contento di saperlo di nuovo sindaco”.
Orlando, salutò Sciascia così: “Professore, nella cronaca ci siamo trovati a volte su posizioni opposte ma lei è nella storia e io, per questo, le porto il mio affetto e la stima della città”. Cosa direbbe suo padre di quegli uomini delle istituzioni che hanno smarrito la memoria su quella tragica stagione? “Si vergognerebbe per loro. Certamente non starebbe zitto a costo di tirarsi addosso mille polemiche. Consiglierebbe loro di chiudersi in una stanza e uscire solo quando hanno ricordato. Lo Stato ha trattato con la mafia per salvare chi e perché? Come mai allora non trattò per la liberazione di Moro? Abbiamo il diritto di sapere. Papà auspicava uno Stato deciso, fermo, coeso contro la mafia. Quel che non c’è mai stato e che evidentemente non c’è; e che così continuando si fa meta sempre più lontana”. Anche Scalfari, oggi difensore del Presidente Napolitano, che per bocca del suo consigliere accoglie le richieste di Mancino, indagato a Palermo, lo accusò di “sortite nelle quali la vanità personale fa spesso premio sulla responsabilità civile”, papà gli rispose: “Capisco benissimo che non gli passi per la testa il sospetto che si possa scrivere per null’altro che per amore della verità. È vero che sono troppe le mie ‘sortite’. Come Shaw diceva che i negri prima li si costringe a fare i lustrascarpe poi si dice che sanno solo fare i lustrascarpe, prima mi si attacca poi mi si fa il rimprovero di essere attaccato”. E concluse: “Ho 67 anni, ho da rimproverarmi e rimpiangere tante cose, ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è”. Doni, invece, oggi molto diffusi.
Repubblica 8.7.12
Utopia
Alla Fondazione Prada di Venezia la mostra dedicata ai sogni estetici e sociali delle avanguardie del Novecento
Quando l’arte sognava di cambiare il mondo
di Lea Mattarella
VENEZIA C’era un tempo in cui gli artisti sognavano di cambiare il mondo. La mostra The Small Utopia. Ars Multiplicata, curata da Germano Celant alla Fondazione Prada di Venezia (fino al 25 novembre) racconta in maniera sorprendente, attraverso 600 opere tra oggetti, libri, dischi, film, registrazioni audio, in che modo questa entusiasmante aspirazione ha preso corpo, si è sviluppata e infine si è trasformata, dagli inizi del Novecento al 1975. Ci si immerge così dentro il secolo delle avanguardie e delle post-avanguardie, senza seguire un percorso cronologico, ma attraverso l’individuazione di alcune tappe fondamentali di questa piccola, ma gigantesca, utopia. Giacomo Balla e Fortunato Depero nel 1915 scrivono un manifesto che chiamano Ricostruzione futurista dell’universo, immaginando che il loro linguaggio potesse davvero invadere ogni momento della vita quotidiana. Ed eccoli lì a disegnare vestiti e panciotti, servizi da tè, giocattoli, mobili, persino fiori da realizzare in legno. I due non resteranno soli. Nella Russia sovietica Malevich pro- getta teiere e tazze dalle forme bizzarre, Nikolai Suetin inventa calamai e piatti decorati con elementi astratti, così come fanno Sergei Chekhonin e Wassily Kandinsky. Immaginare tutte queste ceramiche raccolte qui in una vetrina, nella Mosca degli anni Venti fa pensare a una vera e propria rivoluzione dello sguardo. Erano anni in cui si fantasticava su una forma di bellezza che potesse arrivare a tutti. Se la società industriale rischiava di creare un mondo senza qua-lità, agli artisti spettava il compito di progettare forme che potessero contenere nello stesso tempo un valore estetico e una funzione pratica. De Stijl e la Bauhaus offrono un esempio lampante di questa immaginazione applicata al design. Anni Albers disegna tessuti, Lyonel Feininger casette e trenini per divertire i bambini con stile, così come Ladislav Sutnar costruisce città giocattolo assemblando pezzi che sembrano Lego, rigorosamente rossi, gialli e blu, i colori primari cari a Piet Mondrian. Paul Klee realizza libri d’artista. L’interesse per l’editoria unisce i protagonisti di tutti i movimenti chiamati in causa da questa idea della moltiplicazione, dal Futurismo al Dadaismo e al Surrealismo, dalla Pop Art a Fluxus. Non a caso Marinetti affida a un quotidiano come Le Figaro il messaggio del suo manifesto futurista. Tra i movimenti che contribuiscono alla moltiplicazione dell’opera ci sono anche il e l’arte optical e programmata. Non poteva mancare il cinema: è affascinante la selezione dei film fatta da Antonio Somaini e Marie Rebecchi. E il montaggio sonoro del sovietico Dziga Vertov. Siamo nel 1930 e con una forte matrice ideologica lui esalta la radio che aiuterà i popoli a sconfiggere il capitalismo. Ma il risultato è più poetico che militante. Ci sono artisti, quelli del Bauhaus e di De Stijl, ma anche Joseph Beuys, che rivelano una forte vocazione educativa: l’arte serve a migliorare la società, deve mettersi al suo servizio per partecipare a una ricerca di giustizia e di eguaglianza. Si affida così al moltiplicarsi dell’opera un vaminimalismo lore di democratizzazione che è estetico quanto etico, come se le due cose non potessero fare altro che muoversi all’unisono. Nello stesso tempo però c’è chi utilizza l’idea del multiplo come via alla dissacrazione. Quando Marcel Duchamp trasforma lo scolabottiglie, l’orinatoio o la ruota di bicicletta in opera d’arte compie un’azione che scrive, almeno per un po’, la parola fine sul culto dell’unicum. Il ready made si può moltiplicare a dicome screzione del suo inventore. Così, al centro della grande sala che ospita gli oggetti dell’avanguardia storica troviamo tre edizioni della sua Boîte-en Valise, cuore pulsante di questa mostra. Dentro, in miniatura, ci sono tutte le sue opere più importanti: dal Nudo che scende le scale, al Grande vetro fino all’Aria di Parigi. Chiudi la valigia e te le porti via tutte insieme, altro che pezzo unico per il museo! L’idea della scatola che contiene creazioni differenti pensate insieme attraversa la mostra. Realizzano una valigia i componenti del Nouveau Réalisme. Fluxus ha il suo lavoro di gruppo racchiuso in più valigie. E i protagonisti della Pop Art inventano un contenitore che contiene i contributi di ciascuno, da Warhol a Oldenburg. La scatola ideata da Joseph Beuys nasce sotto il segno di una tiratura illimitata. L’artista la vendeva a 8 marchi, convinto che ogni individuo avesse il diritto di possedere il proprio oggetto d’arte. Qui ce ne sono diverse, come moltissime, sono le scatole Brillo di Andy Warhol, le Merde d’artista di Piero Manzoni. Quanto valgano oggi questi oggetti è un’altra storia. Il valore di una scatoletta dell’artista milanese, scomparso nel 1963, oggi supera di gran lunga i 100 mila euro. Sono le regole del mercato a intralciare i cammini delle utopie?
Corriere 8.7.12
Italia prima in Occidente per il consumo di cannabis
L'Italia è il Paese occidentale dove in media si consumano più hashish e marijuana. A sostenerlo è il rapporto sul consumo di droghe pubblicato lo scorso giugno dalle Nazioni Unite. L'anno scorso circa il 14,6% dei cittadini di età compresa tra i 15 e i 65 avrebbe fatto uso di cannabis. Il rapporto dimostra anche che l'Europa è il continente dove il consumo di droghe leggere è più ampio. Tra i paesi occidentali solo la Nuova Zelanda tiene il passo dell'Italia nell'uso della cannabis (ha la stessa media di 14,6% di consumatori), mentre un alto consumo di hashish e marijuana c'è in anche in Nigeria (14,3%) e negli Stati Uniti d'America (14,1% della popolazione). Più dell'1% della popolazione italiana fa uso di cocaina, mentre lo 0,5% dei nostri concittadini hanno acquistato nel 2011 anfetamine e oppiacei. A impressionare sono i dati di Palau, isola nel Pacifico, dove vivono circa 20.000 abitanti. Il 25% dei residenti, fra i 15 e i 65 anni, ha fatto uso nel 2011 di cannabis.
Repubblica 8.7.12
Marijuana, perché dico sì alla liberalizzazione
di Umberto Veronesi
CREDO che dovremmo essere grati a Roberto Saviano per aver riaperto il dibattito sulla liberalizzazione delle droghe, che da anni impegna i cittadini che, come me, hanno a cuore le sorti dei giovani e del Paese. Siamo tutti contro le droghe e siamo consapevoli del loro effetto devastante, ma molti condividono la mia convinzione che il proibizionismo non è l’arma per combatterle, per tre ragioni fondamentali. La prima è che la proibizione di qualsiasi sostanza crea il mercato nero, che è una delle principali fonti di guadagno delle mafie. Basta imparare dall’esperienza proibizionista più significativa che è quella degli Stati Uniti negli anni Venti. Con il national prohibition act il governo americano tentò di ridurre il consumo di alcol, e il risultato fu che la criminalità organizzò un mercato nero di proporzioni incontrollabili, spingendo i consumi, e il suo potere divenne così forte da mettere a rischio la sicurezza del Paese. Per questo la legge fu abrogata dopo pochi anni, dichiarando il fallimento del proibizionismo, che non aveva ridotto l’alcol e aveva aumentato i tassi di criminalità. In Italia i processi ai mafiosi sono inutili al di là della questione di principio. In un mercato stimato in almeno 15 miliardi all’anno è impensabile che, messo da parte uno spacciatore, non se ne crei immediatamente un altro. Se non si rimuovono le cause alla radice il problema non si sradicherà mai. Anzi misure inadeguate lo possono peggiorare. Il secondo motivo per cui il proibizionismo non funziona è che inevitabilmente fa aumentare il costo delle sostanze, per cui il giovane che cade nella rete della droga è costretto a rubare, a prostituirsi o a spacciare a sua volta, andando ad alimentare il circolo vizioso della malavita. Il terzo motivo è l’aumento della mortalità, legato al fatto che la droga clandestina non è controllata. Le tragiche morti per overdose non sono in genere dovute al fatto che i ragazzi si fanno una dose eccessiva, ma che spesso le dosi del mercato nero hanno quantità percentuali di sostanze letali che i ragazzi ignorano, e così muoiono inconsapevolmente. Certo questo discorso vale meno per le droghe leggere, per cui io credo vada fatto un distinguo. La mia proposta, che feci come ministro della Sanità nel 2000, è di liberalizzare le droghe leggere e depenalizzare le altre droghe. Del resto dobbiamo essere coerenti: lo Stato non dovrebbe proibire la droga e lasciare completamente libera la vendita di tabacco che produce almeno 40 mila morti all’anno e l’alcol che ne provoca altre diverse migliaia. Non dimentichiamo infine che la droga è la materializzazione del rifiuto dei ragazzi di una società violenta e ingiusta. Questa è la prima causa su cui agire se vogliamo combatterla