giovedì 7 giugno 2012

l’Unità 7.6.12
Andrea Orlando: «La lapidazione di Fassina mi pare un po’ esagerata»
«Ricordo cosa si disse quando osò criticare la lettera della Bce che ora criticano tutti. Ma oggi non mi convince: in Parlamento ci sono provvedimenti importanti e credo si possa fare un buon lavoro»
di Maria Zegarelli


ROMA Stavolta «i giovani turchi» del Pd sembrano muoversi in ordine (semi) sparso. Se Matteo Orfini e Stefano Fassina fanno blocco sull’ipotesi per niente bizzarra secondo loro di andare al voto anticipato se il Parlamento si dovesse avvitare su se stesso a causa del disfacimento del Pdl e dello stato confusionale della Lega, Andrea Orlando usa toni e sfumature diverse sulla questione che ha fatto fibrillare il Pd tanto da spingere il segretario a ribadire l’appoggio «senza se e senza ma» al governo Monti.
Orlando, lei come la pensa? Come Orfini e Fassina o come la maggioranza del suo partito?
«Intanto quella di Fassina e Orfini è una posizione legittima e non mi sono pia-ciute le lapidazioni nei loro confronti fatte da parecchi di quelli che si esercitarono già quando Fassina osò criticare la lettera della Bce. Oggi sono in molti a criticarla ma allora lo lapidarono, quindi inviterei tutti alla calma. Detto questo la loro posizione non mi convince». Insomma sta con loro ma anche no?
«Le sto dicendo che non mi convince la loro posizione e le spiego perché: in Parlamento in questo momento ci sono passaggi importanti, dalla legge sulla corruzione alla riforma del mercato del lavoro e credo che sia possibile fare un buon lavoro. Poi, non credo che in un momento come questo si possa assumere una posizione unilaterale in un’intervista con la Reuters, dovrebbe essere oggetto di una discussione all’interno del gruppo dirigente. Capisco, però, che quella posizione raccoglie un clima di crescen-
te perplessità nei confronti di alcune scelte compiute dal governo Monti e di alcuni fatti che segnano il difficile rapporto tra le forze politiche che sostengono l’esecutivo».
Appunto, come il voto sull’arresto di De Gregorio. Pdl e Lega l’hanno bloccato. Senza contare il voto che ha mandato sotto il governo sui tagli alla spesa. Lei non vede il rischio di un avvitamento del Parlamento con maggioranze così mutevoli a seconda dei temi?
«Un conto è porre la questione del voto anticipato alla vigilia di un vertice internazionale nel quale Hollande ha bisogno di una sponda per determinare nuovi equilibri, un conto è negare le difficoltà che ci sono, il governo ha problemi seri e la maggioranza che lo sostiene ne ha di ancora più gravi. Ma sono convinto che non sia questo il momento di tirare le somme. Avendo fatto un’apertura di credito importante per una scelta di responsabilità adesso si tratta di portare a termine una serie di processi avviati».
Insomma, lei non l’avrebbe detto.
«Io continuo a tifare perché il governo ce la faccia e arrivi a fine legislatura, questo mi differenzia da loro: non ho ancora maturato un giudizio irreversibile, senza per questo negare gli errori commessi dall’esecutivo».
Bersani ha annunciato che si candiderà alle primarie. Secondo lei dovranno essere di coalizione o di partito?
«Le primarie noi le abbiamo fatte, abbiamo eletto Bersani, non credo sia salutare cambiare le regole in corsa, ma se il segretario ritiene che possano ridare slancio al partito e alla coalizione allora discutiamone».

l’Unità 7.6.12
Bersani pronto a primarie di coalizione
Alla direzione di domani il segretario del Pd punta a dare il messaggio
di un partito che si apre alla società civile
No ai ricatti del Pdl sulle riforme
di Maria Zegarelli


ROMA «Domani in direzione sentiremo cose parecchio interessanti», commenta un deputato piuttosto informato. Il segretario Pier Luigi Bersani non solo ribadirà la propria intenzione a candidarsi per la premiership ma aprirà a primarie di coalizione. È questa la notizia che filtra dal Nazareno. «Il messaggio che vogliamo dare al Paese è quello di un partito che si apre alla società civile sotto tutti i punti di vista».
Dunque l’idea su cui starebbe ragionando il segretario è quella di primarie aperte da fare in autunno, quando ormai sarà chiaro il destino della riforma elettorale. Ne ha parlato a lungo con i dirigenti del partito, da Dario Franceschini, a Walter Veltroni a Massimo D’Alema e Franco Marini, poi ha chiamato anche i segretari regionali per informarli del «cambio di passo» che la direzione di domani è destinata a segnare. Bersani è pronto a mettersi in gioco, convinto che a questo punto sia davvero necessaria una nuova legittimazione per arrivare alle elezioni del 2013 e dai colloqui avuti finora sarebbero in molti ad avergli assicurato l’appoggio anteponendo la necessità per il partito di restare compatto a tutto il resto. Non ne fa mistero il governatore della Toscana Enrico Rossi: «Io sono per Bersani, perché sono una persona disciplinata. È lui il nostro candidato. Io, come direbbe Bersani, appartengo a una bocciofila che si chiama Pd e come tutte le bocciofile ha uno statuto che prevede che il segretario regolarmente eletto sia anche il nostro candidato premier per le elezioni». Ma se dovesse cambiare la legge elettorale e quindi saltare la logica della coalizione che non è prevista né dalla bozza Violante né dal doppio turno francese che al primo round vede i partiti correre da soli la questione primarie si presenterà comunque: da Matteo Renzi a Pippo Civati la richiesta è di aprire le consultazioni interne e dunque il relativo congresso.
E proprio sulla legge elettorale il segretario tornerà alla carica: la priorità assoluta per il Pd in Parlamento è quella di incalzare tutte le forze politiche ad approvare la riforma e a non cedere al ricatto del Pdl che appoggerebbe la legge elettorale soltanto in cambio del semipresidenzialismo. «Non accettiamo ricatti, il Pd dice sì alla riforma elettorale e a quelle all’esame del Senato, a partire dalla riduzione del numero dei parlamentari avrebbe spiegato il segretario durante i confronti di questi ultimi giorni -. Non si può pensare di cambiare la Costituzione con un emendamento». Linea ribadita anche dalla capogruppo a Palazzo Madama, Anna Finocchiaro: «La riforma dello Stato in senso semipresidenzialista è una cosa seria che innanzitutto non può essere fatta se prima non si approva una legge sul conflitto di interessi seria, presente in tutti i paesi in cui vige un regime presidenziale o semi presidenziale. Poi una riforma che cambia la forma di governo, travolgendo il nostro impianto costituzionale di Repubblica parlamentare, richiede quantomeno una discussione pubblica e articolata, non è roba che si fa con un emendamento, per di più presentato per l'Aula». Nel Pdl è già partito l’attacco frontale, come ha anticipato ieri Angelino Alfano secondo il quale ci sarebbe tutto il tempo per approvare la riforma non fosse per il Pd che si mette di traverso.
D’altra parte il rischio di impantanare tutto è altissimo: mettere troppa carne sul fuoco può essere il tentativo estrema del centrodestra di far bruciare tutto e lasciare soltanto fumo. Per questo il Pd nella direzione di domani vuole giocare d’anticipo, ribadire la necessità di andare avanti con la legge elettorale, di avviare la fase del rinnovamento e dell’apertura alla società civile, tanto che il segretario lancerà l’appello «alle forze migliori del Paese», intellettuali, movimenti, associazioni, per dare il proprio contributo al programma dell’alternativa, annunciando sarebbe meglio dire ribadendo l’allargamento dei confini del proprio partito. La sfida della prossima legislatura che secondo il segretario dovrà essere “costituente” proprio a partire dalla riforma sul semipresidenzialismo sarà la sfida del futuro del Paese sia sul piano economico sia sul piano politico. E se l’appoggio a Monti non è in discussione è pur vero che secondo Bersani adesso è il momento di dare quei segnali che il Pd chiede al governo da tempo per la crescita. Segnali in Italia ma anche in Europa, dove l’asse Monti-Hollande potrebbe creare le condizioni per un cambio di rotta, come lo stesso Obama chiede dagli States. Se l’Europa non cambia la sua strategia nel giro nel prossimo mese secondo Bersani il rischio dell’effetto domino è altissimo: dalla Grecia alla Spagna al Portogallo lo scivolamento anche degli altri Paesi sarebbe difficile da evitare.

Corriere 7.6.12
Pd, verso la sfida a due alle primarie
Renzi unico avversario di Bersani. E D'Alema pronto a lasciare il Parlamento
di Maria Teresa Meli


ROMA — Qualcuno nel Pd l'ha definita «un'occhettata», ricordando le mosse a sorpresa che erano la caratteristica del fondatore del Pds. Ed effettivamente la decisione di Pier Luigi Bersani sulle primarie ha spiazzato tutti, o quasi. Non solo Walter Veltroni e i suoi. Anche chi con il segretario ha rapporti più stretti, come il capogruppo Dario Franceschini o la presidente Rosy Bindi, non era stato avvertito. Del resto, non è una novità per nessuno che il leader del Pd ami lavorare da solo, affiancato da un ristrettissimo gruppo di fedelissimi e consigliato dal governatore dell'Emilia Romagna Vasco Errani.
«A me non dice mai niente», osservava qualche giorno fa Veltroni. Mal comune mezzo gaudio, visto che anche Franceschini ammetteva: «È il suo modo di fare». Così Bersani in perfetta solitudine ha deciso di scendere nell'agone delle primarie, alla ricerca di quella «legittimazione» che rischiava di perdere di fronte all'assalto dei grillini e alle insistenze di Matteo Renzi. Anche il sindaco di Firenze, che nel frattempo ha fatto proseliti dentro il partito, si è stupito per la velocità con cui il segretario ha sparigliato. Una ventina di giorni fa, Renzi sosteneva questa tesi: «Se parte il tormentone delle primarie Bersani non avrà alibi per non farle». Quel tormentone è partito, ma il sindaco non si aspettava che in così poco tempo si arrivasse al dunque.
Già, Bersani ha maturato la sua decisione in fretta: «Non possiamo restare fermi: rimanere immobili sarebbe il più grosso errore politico che potremmo fare». Dunque, avanti con le primarie. Anche se, da quando la notizia ha fatto il giro del partito, sono in molti a spingere il segretario a non lanciare la sua candidatura nella Direzione di domani. C'è chi avanza ragioni di opportunità politica e chi invece ritiene che questo tipo di consultazione sia uno strumento inadatto per coinvolgere l'elettorato mal motivato e gli astensionisti spinti.
La strada, comunque, quale che sarà l'esito della Direzione, è già tracciata. Il 6 luglio l'Assemblea nazionale, convocata a Roma, stabilirà le regole delle primarie. Ma appare evidente già da ora che saranno «aperte», come ha sottolineato lo stesso segretario, perciò potranno votare non solo gli iscritti al Partito democratico, ma tutti gli elettori del Pd. Sfida in campo aperto, dunque. Che Bersani è convinto di vincere. Il leader è sicuro di battere Renzi. Quanto agli altri contendenti, nessuno finora si è proposto (a parte Nichi Vendola, ma solo nel caso di primarie di coalizione). E perciò, alla fine, quella delle primarie pd potrebbe anche essere una sfida a due.
La data? È pressoché decisa anche quella. Si dovrebbe votare nel secondo weekend di ottobre. Domenica 14, magari. Proprio lo stesso giorno in cui, cinque anni fa, Walter Veltroni fu eletto segretario del neonato Partito democratico. Una scelta significativa anche questa, per un segretario che vuole risvegliare il Pd e «rimotivarlo».
Per un Bersani che si candida, c'è un D'Alema che è invece intenzionato a fare un passo indietro. Il presidente del Copasir in questi ultimi tempi sta maturando la decisione di non presentarsi alle prossime politiche. Vuole dimostrare — come già fece, lasciando Palazzo Chigi — di non essere attaccato alla poltrona e, anzi, di essere il primo a volere il «rinnovamento» del Pd.

l’Unità 7.6.12
Vendola teme la trappola: «Non pensino di escludermi»
di A. C.


ROMA Nichi Vendola è molto irritato con il Pd. Anche con Bersani, nonostante il rapporto tra i due segretari sia solido. Il leader di Sel ha investito sul rapporto con questo Pd a trazione bersaniana, nella scommessa di costruire un nuovo centrosinistra e, in nome di questo obiettivo, si è più volte tenuto a freno nelle critiche all’alleato.
Non ieri, quando ha sparato a zero insieme a Di Pietro sulle nomine nelle authority, condivise dal Pd: «Una ferita che rende meno credibile l’alternativa e apre scenari problematici anche per eventuali coalizioni». Alla buvette di Montecitorio, è ancora più esplicito: «Se continuano così io non riesco a reggere un altro anno, la gente è imbufalita, ci chiede di essere diversi anche nei comportamenti e loro fanno queste figure...».
L’altro tema che appensantisce i rapporti è quello delle primarie. Da due anni il leader di Sel si candida per guidare il centrosinistra, «ma da mesi mi sono imposto di non parlare più di primarie per non passare da disturbatore...». Ora però che Bersani ha aperto a questa prospettiva, Vendola è sospettoso. Primarie del Pd o di coalizione? Il margine di ambiguità lasciato finora dal leader democratico non rassicura. E così il presidente della Puglia ribadisce: «Se ci saranno le primarie della coalizione mi candiderò». Toni ancora morbidi, in attesa della relazione di Bersani domani alla direzione Pd. Da cui Vendola si aspetta parole chiare. Pronto a far partire un «fuoco di sbarramento» nel caso in cui i democratici decidessero per una competizione interna al partito.
«Non si illudano che noi poi ci si adegui», spiega un fedelissimo del governatore. «Fare primarie di partito sarebbe un atto di guerra, questo è il momento di aprirci alla società, non di curare i rapporti tra le correnti del Pd». E ancora: «Se insistono sull’autosufficienza, non contino sul fatto che noi si possa accettare una “separazione consensuale”, come nel 2008 tra Bertinotti e Veltroni».
Vendola esclude è di entrare nel Pd per partecipare alle primarie: «Non voglio essere annesso...». Esclude anche un’eventuale rimozione dell’orecchino, nella corsa per le primarie o anche dopo, in caso di vittoria. «Toglierlo? Mai». E snocciola i punti chiave del suo programma da candidato: reddito di cittadinanza, smontaggio della riforma Gelmini sulla scuola e una «patrimoniale sulle grandi ricchezze».

il Fatto 7.6.12
Leader scalabile, gli sfidanti di Bersani
Ecco chi può “rubare” al segretario la candidatura a premier
di Wanda Marra


Sosteniamo il governo Monti fino al 2013”, ha detto (e ribadito) Pier Luigi Bersani smentendo seccamente il suo responsabile economico, Stefano Fassina, che aveva rotto il tabù del voto anticipato. Sostenuto da Massimo D’Alema che liquidava come una “sciocchezza” l’uscita di Fassina, ma anche di Matteo Orfini, nella fattispecie il figlioccio politico del Lìder Maximo. Eppure al segretario potrebbe personal-mente convenire il voto a ottobre. Sì, perché lui, con l’etica della responsabilità che tira fuori in ogni situazione è pronto a presentarsi di nuovo davanti al giudizio degli elettori e sottoporsi a primarie per scegliere il candidato premier. Una mossa a due facce: da una parte Bersani potrebbe ottenere una blindatura vera, certamente maggiore di quella di ora, dall’altra le primarie, se sono aperte (e così le ha presentate il leader Pd) possono sempre riservare qualche sorpresa. Quel che è certo è che gli incubi di Bersani sono molteplici: tra le fronde e le provocazioni interne, gli aspiranti leader in casa, i nomi “nuovi” pronti a venir fuori, siano essi tecnici o amici di Repubblica e il fattore Grillo che erode dall’esterno non c’è certo da dormire sogni tranquilli. E dunque, partendo dalle primarie. Pronto a sfidare Bersani è il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che sono mesi e mesi che (cerca) di porsi come leader alternativo. L’avvento di Monti l’ha un po’ rimandato nell’ombra, ma sono settimane che lui ha rimesso in piedi una campagna politica e di comunicazione in grande stile. Tra i candidati a sorpresa ci potrebbe essere Rosy Bindi: non sarebbe neanche la prima volta: nel 2007 sfidò Veltroni. Espressione di un’area più cattolica dei Democratici, è la presidente del partito, ma è anche un volto (e una politica) che ha da sempre un seguito e degli estimatori. E che non esita neanche a porsi criticamente rispetto alla linea della segreteria. Poi, tra minoranze, giovani scalpitanti, montiani convinti, vuoi che non esca qualche altro nome dal cilindro?
SE LE PRIMARIE dovessero essere di coalizione, poi, la candidatura di Nichi Vendola è già annunciata. Ma la leadership di Bersani non se la deve vedere “solo” con questi contendenti più o meno scontati. L’altroieri Ezio Mauro ha detto che il Pd de-v’essere “un partito scalabile”. Cosa diversa dalla lista civica, targata Repubblica e Saviano, che Bersani sarebbe stato pronto anche ad appoggiare, a patto, però, che non venisse messa in discussione la sua leadership. E dunque, scalabile da chi? Savia-no (per ora) ha escluso di candidarsi, ma ha assicurato il suo patrocinio. Netto diniego da Stefano Rodotà, il giurista tirato in ballo da Eugenio Scalfari. Tra i “papabili” rimangono il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e Concita De Gregorio. Ma i possibili aspiranti non finiscono qui: tra i tecnici ritorna il nome di Fabrizio Barca, economista e ministro molto vicino a Napolitano, che ha mangiato a casa pane e politica per una vita (il padre Luciano è stato, deputato e poi senatore del Partito comunista italiano, e direttore dell’Unità). Il 23 maggio scorso Barca ha confessato a “Un giorno da pecora” che alle ultime elezioni ha votato " a sinistra del Pd". E a Silvio Berlusconi dichiarò che “essere comunisti è una malattia di famiglia, una malattia incurabile”. La voce è arrivata anche in tv allo stesso Bersani, che a Porta a Porta a una domanda su un’eventuale premiership di Barca aveva risposto: “Lo stimo tantissimo, gli voglio molto bene”.

Repubblica 7.6.12
E D’Alema stoppa le primarie di Bersani "Pierluigi, stai facendo un grave errore"
Tra i democratici battaglia contro la proposta del segretario
Il cuore della corsa alla premiership sta nella risposta alla domanda sulle alleanze del 2013
I sondaggi di Largo del Nazareno danno vincente il numero uno sul competitor Renzi
di Goffredo De Marchis


ROMA - Nel Pd è in corso un braccio di ferro che può rendere più significativa e più "vera" la direzione di domani. Ci sono solo 24 ore per correre ai ripari. Sono scesi in campo i pesi massimi. Da una parte D´Alema, lo sponsor principale del leader, dall´altra Pier Luigi Bersani. Il segretario, che ieri ha scritto la relazione inchiodato al banco della Camera durante le votazioni sul ddl anticorruzione, teme l´avvitamento del partito e vuole aprirlo all´esterno attraverso le primarie. Primarie del Pd per non compromettere il discorso delle alleanze. In parole povere, domani partirebbe la campagna elettorale della sfida tra lui e Matteo Renzi. Ma il presidente del Copasir, informato dallo stesso Bersani che non vuole precipitare il Pd in una riunione senza rete, gli ha comunicato il suo totale dissenso. «Attento Pier Luigi, stai facendo uno sbaglio esiziale».
Uno scontro tenuto al riparo delle luci pubbliche e che tutti vogliono evitare di far deflagare nel "parlamentino" democratico. I fedelissimi del segretario però escludono marce indietro: «Sente tutti, Bersani. Ma stavolta deciderà da solo». Il ragionamento di D´Alema è geometrico, nello stile che conosciamo: «Se parli di primarie - ha spiegato al segretario - affossi qualsiasi tentativo di cambiare la legge elettorale. Da qui all´autunno tutta la discussione ruoterà intorno al duello tra te e Renzi. Non ci sarà spazio per la politica». Secondo l´ex premier la direzione dovrebbe invece rispondere con un sì o con un no al semipresidenzialismo del Pdl. E in caso di "no", offrire alla strana maggioranza una proposta alternativa. Che per lui è sempre la stessa: il modello tedesco. La strada maestra per un patto progressisti-moderati dopo il voto. In grado di tenere aperti i giochi su Palazzo Chigi e il Quirinale.
Con motivazioni diverse, la posizione di altri dirigenti democratici converge creando un fronte trasversale a favore della posizione di D´Alema. Il vicesegretario Enrico Letta è terrorizzato dall´idea che la mossa di Bersani lasci spazio a un solo tipo di alleanza: la foto di Vasto, cioè l´intesa con Di Pietro e Vendola. Perché è ovvio che il cuore della corsa alla premiership sarà soprattutto la risposta alla domanda-chiave: con quali alleati il Pd si presenterà al voto del 2013? È lo stesso terrore che unisce Paolo Gentiloni, Beppe Fioroni, Marco Follini. Il lancio delle primarie infatti avrebbe un primo effetto immediato: la conferma del Porcellum e la cristalizzazione del quadro attuale. Che tiene dentro Idv e Sel e lascia fuori, per ora, l´Udc.
Dario Franceschini ha una posizione più in linea con il segretario. È convinto che «entro ottobre un´idea di come andremo al voto va sviluppata». Non c´è più molto tempo. Walter Veltroni ha una posizione mediana: non sarà certo lui a negare il valore delle primarie. Come confida ai suoi interlocutori, Bersani, confermando il sostegno a Monti fino al 2013, ha paura che il Pd finisca nella palude come il governo. Impegnato vanamente nella discussione sulle riforme, avvitato su stesso e sempre di più indicato come la Casta al pari degli altri. «Siamo gli unici sopravvissuti, siamo il bersaglio più esposto». Le primarie aperte sono una boccata di ossigeno, possono coinvolgere società civile e associazioni, smuovere il partito, allontanarlo dal politichese, mandare un segnale anche ai tanti che condividono la posizione di Fassina e Orfini sulle elezioni anticipate giustificate dallo stallo politico. I sondaggi di Largo del Nazareno danno vincente il segretario. «Non è un azzardo, è la ragione sociale del Pd», diceva ieri Bersani riferendosi alla sfida interna. In queste 24 ore si gioca perciò una partita importante. Si cercherà una composizione. Ma il braccio di ferro è destinato a vivere nuove puntate, se la pace tra D´Alema e Bersani sarà solo di facciata.

Autorità per le comunicazioni

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è un’autorità indipendente, istituita dalla legge 249 del 31 luglio 1997. Ha il duplice compito di assicurare la corretta competizione degli operatori sul mercato (tra cui la tutela del diritto d’autore e l’applicazione della normativa antitrust) e di tutelare il pluralismo e le libertà fondamentali dei cittadini nel settore delle comunicazioni e radiotelevisivo. Risponde del proprio operato al Parlamento, che ne stabilisce i poteri e ne elegge i componenti.

Garante per la privacy

Il Garante per la protezione dei dati personali è un’autorità istituita nel 1996 e regolata dal codice della privacy approvato nel 2003. Il Garante interviene in tutti i settori, pubblici e privati, per assicurare il trattamento dei dati e il rispetto dei diritti fondamentali: in particolare, banche e assicurazioni, giornalismo, giustizia e polizia, Internet, imprese, lavoro, marketing, nuove tecnologie, ordini professionali, partiti, pubblica amministrazione, sanità, società, scuola, telecomunicazioni.

l’Unità 7.6.12
Authority, nomine tra le contestazioni
All’Agcom Decina, Martusciello, Posteraro, Preto. lla Privacy Soro, Bianchi Clerici, Iannini, Califano
Vendola «Una pagina nera che peserà», Di Pietro «Ora a rischio il patto di Vasto»
di Natalia Lombardo


ROMA Sono stati eletti ieri tra proteste in aula e polemiche in Rete, i componenti delle Authority per le Comunicazioni e per la Privacy. Al voto segreto, avvenuto sia alla Camera che al Senato, non hanno partecipato l’Idv e i Radicali, ma anche alcuni parlamentari del Pd e di Fli. Subito dopo a Montecitorio si è svolta un’infuriata conferenza stampa di Antonio Di Pietro che, con Nichi Vendola, ha messo in discussione la “foto di Vasto”. Questo perché i nomi prescelti sono risultati da un accordo tra Pdl, Pd e Udc, che ha reso vano il pur avviato tentativo di cambiare metodo, dalle nomine partitiche alla scelta trasparente di persone indipendenti e competenti nel settore, metodo invocato anche dal presidente della Camera Fini. E a mantenere il controllo nelle comunicazioni è sempre Berlusconi.
I quattro membri dell’Agcom sono Maurizio Decina, docente ordinario del Politecnico di Milano, indicato dal Pd, eletto con 166 voti; Antonio Martusciello, riconfermato, ex manager Fininvest, ex sottosegretario del governo Berlusconi, 148 voti), Francesco Posteraro, voluto dall’Udc, vicesegretario generale della Camera, 94 voti dal Senato, Antonio Preto, secondo nome del Pdl, già capo di gabinetto di Tajani nella Commissione europea, 91 voti.
Per i garanti della Privacy è stato eletto Antonello Soro, ex capogruppo Pd alla Camera, con 167 voti (dovrebbe essere il presidente scelto dai componenti stessi, si è già dimesso da deputato), il Pdl ha accontentato la Lega con Giovanna Bianchi Clerici, già nel Cda Rai ormai scaduto (e candidata anche per l’Agcom, 179 voti), Augusta Iannini per il Pdl, capo Ufficio legislativo del ministero della Giustizia, moglie di Bruno Vespa, 107 voti e Licia Califano, docente di diritto costituzionale a Urbino, 97 voti, scelta nelle “primarie” fatte dal Pd nella accesa riunione dei gruppi di martedì.
Di Pietro non ha usato mezzi termini: «Si era data la possibilità di presentare dei curricula, ma sono stati usati come carta da cesso, nessuno li ha letti» e minaccia: «È una ferita su scenari politici con conseguenze anche sulla coalizione». Anche Vendola parla di «ferita» su eventuali coalizioni: «Lo dico al Pd con lo sgomento più sincero: non può essere un incidente».
Sui social network e su Twitter è piovuta una valanga di proteste, colte da Beppe Grillo che sul blog incita Monti a «chiudere l’Agcom» perché «è uno spreco e una presa di fondelli». Deluso anche il tweet di Saviano: «I partiti scelgono i quattro di Agcom e Privacy senza trasparenza ora che la priorità sarebbe la fiducia degli elettori».
Forte il malcontento anche nel Pd: dall’ulivista Arturo Parisi che non ha partecipato al voto (ma è andato alla conferenza stampa di Di Pietro e grida all’«attacco alle istituzioni») a Vincenzo Vita, dagli Ecodem a Ignazio Marino, che non ha votato. Molto duro anche Gentiloni: «Abbiamo fatto un grave errore, temo che lo pagheremo sia sul piano del discredito verso i partiti, sia nel merito, perché potremmo trovare delle difficoltà all’Agcom». Open Media Coalition chiede a Napolitano di non firmare il decreto delle nomine.
Nell’Authority per le Tlc Berlusconi ha il suo luogotenente Martusciello (che sostituì Innocenzi dopo il caso delle intercettazioni di Trani), Decina è l’unico esperto, mentre Posteraro potrebbe seguire le alternanti scelte di Casini e fare maggioranza col Pdl. C’è anche un problema di competenze: Antonello Soro, alla Privacy, è considerato una bravissima persona ma pur sempre un dermatologo, osservano nel Pd. Certo, nelle autorità di controllo si è visto un po’ di tutto: il mastelliano Roberto Napoli era un anatomopatologo, il casiniano Magri un chirurgo (ora è sottosegretario), Savarese, per l’ex An, veniva dall’Alitalia...

La Stampa 7.6.12
Intervista a Ignazio Marino
Marino: “È ora di finirla, anche il Pd lo deve capire”
“Provo un disagio profondo nel vedere che il mio partito va nella direzione sbagliata”
“Questa logica spartitoria ucciderà chi la sostiene”
di Flavia Amabile


Ignazio Marino non ha partecipato al voto. Ignazio Marino, senatore del Pd, ha scelto una linea diversa rispetto al suo partito. Non ha partecipato al voto sui componenti delle Authority. «Non intendo farlo fino a che i partiti, e quindi anche il Pd, non riusciranno a lasciarsi alle spalle l’epoca delle spartizioni per entrare nel mondo in cui non si sceglie il candidato più gradito a Casini, Berlusconi o Bersani ma vince chi è più competente e capace di assolvere con professionalità ed indipendenza al compito a cui è stato chiamato».
Questa volta, a differenza di altre, avevate i curricula dei candidati.
«Infatti. Anni di battaglie per ottenere che per una nomina importante venissero presentati i curricula dei candidati. Quanti anni ancora bisognerà aspettare perché vengano anche esaminati? ».
Perché non li avete esaminati?
«La riunione del gruppo era alle 10,30. I curricula erano sul banco della presidenza di Dario Franceschini. Copia unica e cartacea. La decisione andava presa nel giro di un’ora. Siamo stati invitati a prendere visione dei fogli ma onestamente non sono in grado di partecipare a un dibattito, prendere la parola, esaminare 33 curricula da dividere con 200 compagni di partito e prendere una decisione in un’ora».
E quindi?
«Ho proposto un rinvio. Anche altri l’hanno fatto. Io di 48 ore, altri di una settimana. Ci è stato risposto che non era possibile rinviare anche se in altri casi si è aspettato mesi, che differenza avrebbero fatto due giorni in più? ».
Che cosa pensa dei prescelti?
«Dall’urna sono usciti i nomi annunciati dalla stampa giorni prima. O i giornalisti sono il mago Otelma o ci sono stati accordi in stanze chiuse».
Lei che ne dice?
«Dico che bisogna farla finita con questo sistema di spartizioni che porterà solo alla fine di chi li sostiene. Dei 4 componenti dell’Agcom due sono stati scelti da Berlusconi e uno dall’Udc per gentile concessione del Pd che ha quindi abdicato alla possibilità di intervenire sulle modalità di assegnazione dei nuovi canali digitali su cui esistono interessi enormi. E per quel che riguarda l’Authority sulla Privacy non sono certo che tutti i candidati eletti abbiano una riconosciuta competenza in diritto e informatica come richiesto dalla legge. Questo espone l’Authority al rischio molto grave che chiunque possa invalidarne le decisioni. Sarà un’Authority azzoppata».
Lei è molto critico nei confronti del Pd, che però resta il suo partito.
«Provo un profondo disagio e un senso di frustrazione nel vedere chiaramente che quella seguita dal Pd è la direzione sbagliata. Questo tipo di politica, che i cittadini non tollerano più, dovrebbe essere estranea in particolare al Pd che invece si adegua senza troppi problemi».

La Stampa 7.6.12
La dissolvenza della casta
Lavorano tutti per Grillo
di Massimo Gramellini


Lavorano tutti per Grillo, ormai. Per Grillo o per qualcosa di molto peggio, perché dopo giornate come quella di ieri risulta ancora più difficile (anche se indispensabile) separare la politica da «questa» politica e la democrazia da «questi» partiti. Cominciamo dalla Regione Lombardia, dove non è passata la mozione di sfiducia contro il presidente Formigoni. L’esito era abbastanza prevedibile, avendo il centrodestra la maggioranza in Consiglio. Quel che non era prevedibile neanche in una gag di Crozza o in un incubo di Bersani era che al momento del voto il primo firmatario della mozione contro gli yacht di Formigoni fosse assente perché impegnato a prendere il sole su una spiaggia greca. Si chiama Luca Gaffuri, un cognome che è già un indizio. Hanno fatto apposta a mettere la mozione ai voti mentre ero in vacanza, si è difeso maldestramente il gaffeur, capogruppo del Partito democratico. E sì che ne avrebbe avuto di tempo per esplorare la Grecia: in yacht, in motoscafo e persino in gommone. Ad aprile il Consiglio regionale lombardo, stremato dagli straordinari della Minetti e del Trota, si era infatti autoelargito un ponte di tre settimane.
Al Senato di Roma, intanto, andava in scena il salvataggio del molto onorevole senatore Sergio De Gregorio, già fondatore dell’associazione Italiani nel Mondo (poveri italiani, ma soprattutto povero mondo), imputato di bazzecole quali associazione a delinquere, truffa e false fatturazioni per 23 milioni di euro (tutti soldi nostri, tranquilli) nell’inchiesta sui fondi pubblici versati al cosiddetto giornale «Avanti! » di Valter Lavitola. I giudici avevano chiesto l’arresto di De Gregorio e la giunta per le immunità, schiacciata dall’evidenza dei fatti, si era dichiarata per una volta d’accordo. Ma nel segreto dell’urna centosessantanove senatori hanno votato contro il trasferimento in carcere del sant’uomo. I berluscones sodali suoi, certamente. Ma anche altri che a parole lo avevano criticato. Chi? Si sospetta di qualche leghista, di qualche terzopolista e persino di qualche democratico smanioso di ricambiare certi favori fatti in passato (ricordate il salvataggio di Tedesco?) o fattibili in futuro: incombe il verdetto del Parlamento sul transito alle patrie galere di un altro specchiato galantuomo, il tesoriere Lusi.
Sulla torta quotidiana della Casta mancava soltanto la ciliegiona e a metterla sono stati i pasticcieri dei tre partiti maggiori, che hanno colto l’occasione delle nomine delle Autorità (Comunicazioni e Privacy) per dare vita a una famelica e scientifica spartizione di posti. L’aspetto insopportabilmente ipocrita della faccenda è che per darsi un tono i partiti avevano sollecitato l’invio dei «curricula» di alcuni fra i giuristi più prestigiosi, Zagrebelsky su tutti. Naturalmente nessuno li ha presi in considerazione. Ne hanno fatto carta da cesso, ha sintetizzato Di Pietro con la consueta brutalità, supponendo ottimisticamente che li avessero almeno srotolati. Più probabile invece che giacciano intonsi in qualche cassetto. I nomi giusti erano già stati scelti dai capibastone nelle segrete stanze. Alle Comunicazioni vanno amici fidati e benissimo pagati, che entro sessanta giorni dovranno decidere se assegnare gratuitamente o meno le frequenze televisive a chi li ha nominati. Mentre a occuparsi di privacy arrivano la moglie di Bruno Vespa e il democratico Antonello Soro, politico serio e perbene, ma la cui competenza in materia di informazione e informatica risulta assai opinabile, trattandosi di un medico specializzato in dermatologia.
Chissà perché fanno così. Forse pensano che i cittadini siano stupidi e che a tenerli buoni basti il taglio ipotetico di qualche auto blu, mentre loro vanno avanti ad autoassolversi e lottizzare. Ma è più probabile che non possano fare altrimenti e che, con l’avvicinarsi del giudizio elettorale, la paura si associ al menefreghismo nell’ispirare comportamenti suicidi. Quello a cui stiamo assistendo impotenti è il «cupio dissolvi» di una generazione politica.

La Stampa 7.6.12
Un’occasione sprecata
di Juan Carlos De Martin


Oltre al vaglio dei curriculum da parte delle commissioni competenti e pubbliche audizioni per saggiare il valore e l’indipendenza - anche dalla politica, non solo dagli interessi economici - dei candidati. Se così avessero fatto, oggi potremmo celebrare nuovi consigli Agcom e Garante privacy scelti in maniera trasparente e composti da persone in pieno possesso dei requisiti previsti dalla legge, ovvero competenze specifiche e indipendenza.
Sarebbe stato un successo per la democrazia nonché un’importante iniezione di legittimità per i partiti.
Niente di tutto questo, purtroppo. O meglio, a qualche timida apertura prodotta dalla pressione della società civile (la raccolta di curriculum decisa dal presidente della Camera Fini a maggio), è seguito il solito copione, ovvero la ratifica parlamentare di spartizioni decise dai capi dei principali partiti. L’italico «due a me, uno a te e uno a lui» applicato però ad Autorità teoricamente indipendenti e col potere di regolare aspetti cruciali della vita del Paese come la televisione, la telefonia, Internet e la gestione dei dati personali.
Se il metodo non poteva essere più deludente, come sono le specifiche persone selezionate dai partiti?
L’on. Antonello Soro del Pd è persona nota per la sua serietà, ma oltre ad essere un politico di lungo corso, non ha quella «riconosciuta competenza delle materie del diritto o dell’informatica» prevista dalla legge (Soro è un medico). Competenze che parrebbero mancare anche a Giovanna Bianchi Clerici, in quota Pdl/ Lega, laureata in lingue e civiltà orientali. Il Senato ha poi eletto Augusta Iannini, capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia e moglie di Bruno Vespa, e Licia Califano, docente di diritto costituzionale a Urbino, rispettivamente in quota Pdl e Pd. A parte la questione indipendenza, nel complesso nemmeno l’ombra di competenze informatiche, che pure sarebbero obbligatorie per legge.
Lato Agcom la spartizione ha assegnato due posti al Pdl, confermando l’interesse strategico di Berlusconi per i media e le comunicazioni. Se Antonio Preto vanta una lunga esperienza a Bruxelles, anche se con ruoli chiaramente politici (è stato capo di gabinetto di Antonio Tajani), Antonio Martusciello, riconfermato nel ruolo di commissario Agcom, è ex-dirigente Publitalia e tra i fondatori, nel 1994, di Forza Italia, una contiguità tra controllore e controllato che non dovrebbe essere possibile all’interno di un’Autorità indipendente. In quota Pd (è considerato molto vicino a Massimo D’Alema) è stato eletto Maurizio Décina, noto esperto di telecomunicazioni, mentre l’Udc ha ottenuto che venisse eletto Antonio Posteraro, attuale vice-segretario della Camera, di cui è difficile capire le specifiche competenze in ambito media e telecomunicazioni.
In conclusione è plausibile ritenere che la pressione della società civile e di alcuni media abbia prodotto un livello medio delle nomine superiore a quello che altrimenti si sarebbe avuto. Ma sul metodo i partiti hanno perso un’occasione molto importante per dimostrare di essere in sintonia con gli italiani. Riusciranno a fare di meglio a breve con la Rai? Ieri con l’elezione dei nuovi membri dell’Agcom e del Garante per la privacy i partiti hanno perso un’occasione perfetta per dimostrare agli italiani di aver capito.
Sarebbe in teoria stato facile per loro, infatti, dare un segnale forte in merito all’insofferenza ormai bruciante che molti cittadini provano verso partiti, come quelli italiani, che lottizzano tutto il lottizzabile. Sarebbe bastato che avessero rinunciato alla solita spartizione concordata tra i capi di partito per dare invece piena autonomia al Parlamento. Muovendosi con qualche mese di anticipo (l’appuntamento era in calendario dal lontano 2005), avrebbero potuto istituire una procedura che prevedesse tempi certi per la raccolta di candidature.

il Fatto 7.6.12
Poltrone. Agcom e Privacy occupate dai partiti: c’è pure lady Vespa
Il Parlamento si inchina al diktat di ABC
Tutte le Autorità alla casta e poi dicono che vince Grillo
Di Pietro e Vendola: “Ora con il Pd è rottura”
di Carlo Tecce


Questo è un racconto di poltrone, trattative, strategie e fame di potere. Questo è un racconto di tre giorni che annienta la credibilità di Agcom e Privacy. Questo è un racconto di tre partiti, quelli che sostengono il governo di Mario Monti, che escludono la concorrenza per papparsi le Autorità di garanzia e controllo. Il finale è fresco di stampa. E va diviso in parti uguali attraverso un paio di fotogrammi: Italia dei Valori e Radicali che lasciano le aule parlamentari e protestano assieme a Nichi Vendola; i senatori e i deputati di Pdl-Pd-Udc che votano mestamente i commissari indicati dai segretari in sigla Abc, Alfano-Bersani-Casini. Vendola e Di Pietro vanno oltre e assaltano i potenziali alleati del Pd: “Quello che è accaduto sull’Agcom è una ferita che apre scenari problematici anche per eventuali coalizioni – scrive il fondatore di Sel in sintonia con il presidente Idv – Lo dico al Pd con lo sgomento più sincero: non può essere un incidente. É una rottura quella che si è voluta introdurre rispetto ai propri codici di cultura democratica”.
L'ULTIMA scena è talmente scontata che nemmeno un romanzo di Federico Moccia. Le previsioni vanno in buca. Tutte. E qui s’incrociano nomi e patti. I berlusconiani eleggono a fatica Antonio Martusciello (confermato, ex sottosegretario di B. ex agente Publitalia), Antonio Preto (funzionario Ue, amico di Tajani e Brunetta) all'Agcom e poi sistemano Augusta Iannini (magistrato, moglie di Bruno Vespa, ex capo dipartimento al ministero della Giustizia) e Giovanna Bianchi Clerici (Cda Rai, un obolo ai leghisti) alla Privacy. S'abbracciano, felici. Anche se Angelino Alfano s'infuria perché i conti non tornano e qualcuno ha disobbedito. Il Partito democratico s'è fatto un mucchio di pezzettini, ma i capigruppo a Montecitorio e Madama l'hanno messo insieme richiamandosi a una disciplina di partito imparata in tempi andati: Arturo Parisi ha disertato, tanti suoi colleghi hanno votato, però minacciano di lasciare Bersani e compagni. Già, Bersani. Il segretario è riuscito a fondere le aspettative e le richieste di Dario Franceschini e Massimo D'Alema senza scontentare Pier Ferdinando Casini che chiedeva un posticino all'Agcom. Il Pd ha nominato per le telecomunicazioni soltanto il quotatissimo Maurizio Decina, docente al Politecnico di Milano, ex consigliere d'amministrazione di Italtel, Tiscali e Telecom (di cui è stato consulente). I democratici hanno regolato le ambizioni interne con Antonello Soro (ex capogruppo a Montecitorio) e Licia Califano (allieva di Augusto Barbera) ai Dati personali. Completa lo squadrone di otto commissari, quattro per Autorità a 260 mila euro (mandato di sette anni) più ufficio con segreteria e autista durante l'orario di lavoro, lo sconosciuto Francesco Posteraro (Agcom), che nove anni fa ebbe la fortuna di farsi promuovere vicesegretario generale di Montecitorio dal presidente Casini. La folgorazione s'è trasformata in amicizia, e dunque l'Udc s'è spesa per lui. Quelli che conoscono le Autorità si chiedono se i commissari per l'Agcom sapranno dimostrare “notoria indipendenza e prestigiosa professionalità” (dice la legge) e se i colleghi per la Privacy hanno “conoscenze giuridiche e informatiche” (dice sempre la legge). Beppe Grillo risponde di no: “L'Agcom è una presa per i fondelli, va chiusa”. Per terminare il giochetto, manca il presidente Agcom che il governo potrebbe scegliere nel pomeriggio: le quotazioni danno in vantaggio Angelo Marcello Cardani (Università Bocconi, collaboratore di Monti a Bruxelles) su Enzo Portarollo (Cattolica). Questo è il giro di chiusura. Qualcuno pensava che la corsa potesse svolgersi con regolamenti trasparenti. Novanta candidati fra associazioni e movimenti avevano inviato il curriculum ai presidenti di Camera e Senato. Di Pietro ha suggerito dove pescare quei curricula: “Sono stati usati come carta da cesso”.

il Fatto 7.6.12
L’inchino della Concordia
di Furio Colombo


Prima di tutto i pezzi del gioco. Avete le due più importanti Autorità del Paese, quella per le Comunicazioni e quella per la Privacy. E il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa. Avete i tre partiti uniti che formano la “maggioranza” (Pdl, Pd, Udc) e avete la Lega, che fa opposizione a tutto, ma attenti, la Lega è sempre, nella cultura vigente, “partito di governo”. Accade che ciascuna delle due Autorità abbia due membri da rinnovare (uno o una di essi potrebbe diventarne il presidente) e che tocchi al Parlamento anche di eleggere un membro del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa. Chi saranno gli eletti? Voi direte: fuori i documenti, vediamo i curricula. Per un momento c’è stato chi, dentro il Pd, ci ha creduto. Arrivavano i curricula. Ma subito si è sentito dire, “si sono già messi d'accordo”. Tra chi? Tra loro. Loro chi? Loro sono l’Italia del momento, che sta inviando un triste addio. L’accordo è infatti scattato fra Pdl, Pd, Udc e Lega Nord, ovvero il cuore del Paese in uscita. Sono stati eletti un ingegnere elettronico indicato come “vicino a D’Alema, “un bravo dermatologo che è stato capogruppo Pd alla Camera, il numero uno del Pdl campano (ma è un esperto perché viene da Publitalia), la moglie di Bruno Vespa (come ci sarà capitata? Forse era in visita), una signora della Lega Nord che credo rappresenti la “fase due” di Maroni, un funzionario della Camera garantito dall’Udc, il capo di gabinetto di Tajani, una brava giurista e un professore associato (ma anche figlio di ex ministro) di cui sappiamo che è di Palermo. Il pacco dei curricula è rimasto nella sala in cui avrebbe dovuto avere luogo il dibattito del Pd (chiesto da Zaccaria, da Vincenzo Vita, da Arturo Parisi, da Salvatore Vassallo), che non c’è stato. Tra i 150 di 200 deputati, alla Camera hanno deposto scheda bianca in ciascuna votazione. L’apparenza era di concordia, ma impossibile non pensare alla nave dell’Isola del Giglio. Si erano già messi d’accordo tra loro, hanno detto. Al momento del voto i cittadini domanderanno: loro chi? La risposta sarà: gente molto vicina al comandante Schettino.

Corriere 7.6.12
Il mercatino delle Autorità
di Sergio Rizzo


È davvero bizzarro un Paese nel quale si pensa di risolvere ogni problema creando una nuova authority. L'ultima in ordine di apparizione è l'organismo indipendente che Camera e Senato dovranno costituire per sorvegliare le pubbliche finanze, previsto dalla legge costituzionale con cui è stato introdotto il pareggio di bilancio. Non bastava la Corte dei Conti, cui la nostra Carta fondamentale assegna quel compito? Per non parlare della Ragioneria generale, considerato il gendarme dell'Erario. E senza considerare che ciascuno dei due rami del Parlamento ha già una propria struttura dedicata all'esame dei bilanci.
Il tutto mentre lo Stato ha una vaga idea del perimetro della spesa pubblica, conosce a malapena il numero di stipendi pagati dai contribuenti e ignora perfino quanto guadagnano i suoi alti burocrati: al punto da dover chiedere a loro stessi, per poter applicare il tetto alle buste paga, di dichiarare la reale retribuzione percepita.
In compenso, sappiamo con certezza come saranno individuati i membri di questa ennesima authority. Dopo aver visto che cosa è successo con il Garante delle comunicazioni non ci facciamo illusioni. Sia chiaro: nessuno ce l'ha con i singoli. Non con Antonio Martusciello, ex dipendente di Silvio Berlusconi ed ex onorevole azzurro sbalzato fuori ancora giovane dai ranghi più elevati del partito, che non poteva certo ritrovarsi, a soli 50 anni, nella penosa condizione di baby pensionato del Parlamento. Né con Antonio Preto, ex capo di gabinetto del commissario europeo Antonio Tajani e autore di saggi insieme all'ex ministro Renato Brunetta. Ma neanche con Francesco Posteraro, vice segretario generale di Montecitorio sponsorizzato da Pier Ferdinando Casini, che potrà sommare alla lautissima pensione della Camera anche i 260 mila euro dello stipendio da commissario Agcom. E neppure con Maurizio Dècina, considerato superesperto del settore, indicato dal Partito democratico. Ce l'abbiamo con chi li ha scelti, per il modo in cui l'ha fatto. Attendersi che questi partiti rinunciassero alle loro prerogative, magari designando i componenti dell'authority con bandi pubblici europei, era forse troppo.
Ma è pacifico che quei 90 curriculum arrivati in Parlamento per la selezione delle candidature nessuno di chi ha avuto voce in capitolo li ha mai aperti. Nemmeno nel Pd. Tutto era stato già deciso nelle trattative interne e con gli altri leader di partito: sfogliando non le note caratteristiche dei candidati, ma il caro vecchio manuale Cencelli in base al quale nella prima Repubblica i partiti si dividevano le nomine nelle aziende pubbliche. Con l'obiettivo non secondario, concedendo a Casini la seconda poltrona dell'Agcom teoricamente di spettanza democratica, di spianare la strada per un posto all'Autorità della privacy al primario dermatologo Antonello Soro, l'ex capogruppo democratico che aveva dovuto liberare quella poltrona per Dario Franceschini.
E gli altri, ovvio, non sono stati a guardare. La Lega ha piazzato alla Privacy Giovanna Bianchi Clerici, consigliere Rai. Mentre il partito di Silvio Berlusconi è stato soddisfatto con Augusta Iannini, capo dell'ufficio legislativo della Giustizia prima con Angelino Alfano e poi con Paola Severino, incidentalmente consorte del conduttore di «Porta a Porta», Bruno Vespa.
La sceneggiata penosa dei curriculum, quella almeno ce la potevano risparmiare.

Repubblica 7.6.12
Le nomine lottizzate ultimo favore a Grillo
di Curzio Maltese


Quasi tutti conoscono l´apologo dello scorpione e della rana. Lo scorpione chiede alla rana di portarlo dall´altra parte del fiume, giurando che non la pungerà.
Ma a metà del guado, la rana sente l´aculeo velenoso. «Perché? Annegheremo tutti e due». E lo scorpione: «È la mia natura». I partiti italiani sono oggi lo scorpione della favola. Commissariati dall´Europa e dai tecnici, sfiduciati dai cittadini, minacciati a morte dall´antipolitica, i partiti tutto avrebbero dovuto fare, tranne abbandonarsi al vecchio e odioso vizio della lottizzazione. E invece alla prima ghiotta occasione, le nomine delle Autorità delle Comunicazione e della Privacy, si sono lanciati come un´orda famelica sulla torta. Da bravi compari, detto con tristezza e non col giubilo dell´antipolitica, Pdl, Pd e Udc si sono divisi le fette. Fra i nomi, tutti con il trattino di appartenenza e tutti piuttosto deprimenti, spicca per involontaria ironia quello di Augusta Iannini, la moglie di Bruno Vespa, l´uomo del plastico di Cogne, inopinatamente piazzata a tutelare la privacy dei cittadini. Nelle nomine non sono stati presi in considerazione i novanta curricula di personalità competenti e indipendenti che pure i presidenti di Camera e Senato avevano sollecitato, forse per farsi qualche risata alle spalle dei cittadini onesti. Si è preferito concentrarsi sull´unico curriculum che conti in Italia, la raccomandazione del partito, il solito cortocircuito politico-professionale. Nell´impeto suicida, il Senato nel pomeriggio ha concluso la gloriosa giornata votando in massa contro l´arresto del pluri indagato Sergio Di Gregorio, accusato dai magistrati di truffa ai danni dello Stato per i fondi pubblici all´Avanti!» di Valter Lavitola. In teoria soltanto il Pdl era contrario alla richiesta dei magistrati, ma nel segreto dell´urna il ceto politico ha dato prova di straordinaria coesione intorno al nobile principio dell´impunità.
Ma ci sono o ci fanno? È in atto un complotto alla rovescia dei partiti per consegnare il 51 per cento al movimento di Beppe Grillo? Sono molti gli interrogativi, anche di natura psichiatrica, che circondano il misterioso comportamento. Sembra quasi una sfida agli elettori, a metà fra il folle e il volgare. Un po´ come il tizio che imbocca un senso unico contromano e fa pure le corna. Bisognerebbe ricordare che le autorità di garanzia, tanto più in settori cruciali come le telecomunicazioni e la privacy, dovrebbero per definizione essere composte da personalità super partes. Ma che senso ha mettersi a discutere di regole con chi dimostra di disprezzarle o di applicarle soltanto agli altri, ai comuni mortali?
Non resta che cercare di capire il possibile movente dei suicidi. Nel caso del Pdl è abbastanza chiaro. Il partito è allo sbando, dimezzato dal voto e nei sondaggi, sull´orlo del naufragio totale. Mentre Berlusconi intrattiene il pubblico con altre barzellette sull´euro e il presidenzialismo alla francese, il partito azienda sfrutta gli ultimi colpi per piazzare uomini negli organismi di controllo delle telecomunicazioni per i prossimi anni. L´obiettivo, vent´anni dopo la discesa in campo, è sempre lo stesso: evitare il fallimento dell´azienda televisiva.
Assai meno comprensibile è la complicità del Pd. I dirigenti del partito, a cominciare da Bersani, vanno in giro per l´Europa per incontrare i nuovi leader socialisti, da Francois Hollande a Sigmar Gabriel, si riempiono la bocca di slogan sulla rinascita del centrosinistra, e poi tornano a casa e si mettono a lottizzare come bolsi dorotei democristiani. Se c´era un´occasione felice per dare un segnale di novità agli elettori del Pd, prendere le distanze dalla moribonda partitocrazia e dimostrare ai «grillini» che destra e sinistra non sono uguali, ebbene Bersani l´ha buttata via nel peggiore dei modi. In questo caso sarebbe salutare il vecchio «contrordine, compagni» di una volta. Presto il Pd avrà un´altra possibilità di marcare la propria distanza dal sistema di casta della Seconda Repubblica, con le nomine Rai. Dove il centrodestra, Pdl in testa, spinge per l´ennesima grande abbuffata di poltrone. Ma a giudicare dalla giornata di oggi, è puerile farsi illusioni.
Nonostante il montare dell´antipolitica, anche alle ultime elezioni milioni d´italiani hanno continuato a votare i partiti presenti in Parlamento. Nel timore di veder precipitare il Paese in un´altra avventura tragicomica, come quella appena vissuta nel ventennio berlusconiano. Nella speranza che la politica trovasse il coraggio, la forza, l´onestà per riformarsi e rispondere alle domande di trasparenza dei cittadini. Oggi quei milioni d´italiani si sentono come la rana dell´apologo e si chiedono perché. È davvero questa la natura degli attuali partiti, quella dello scorpione destinato a trascinarci tutti a fondo?

Repubblica 7.6.12
Gianluigi Pellegrino, esperto di diritto amministrativo: vizi sostanziali
"Queste nomine non sono valide, vanno annullate"


ROMA - «In queste nomine ci sono vizi sostanziali e di procedimento». L´avvocato Gianlugi Pellegrino, esperto di diritto amministrativo, ritiene illegittime le nomine di Agcom e Privacy.
Quali sono le irregolarità?
«Per l´Agcom, la norma dice che devono essere persone dotate di alta e riconosciuta professionalità e competenza nel settore. Di recente il Consiglio di Stato se n´è occupato e ha sostenuto che è vero che c´è discrezionalità nella scelta, ma questa non può risolversi in un arbitrio che prescinde dai requisiti richiesti. Le nomine sono state annullate».
È ammissibile il ricorso al Tar?
«Bisogna superare il problema dell´atto parlamentare e capire chi può fare ricorso. L´ideale è che lo facciano i candidati che non sono stati scelti».
Quali sono secondo lei le scelte illegittime?
«Il caso più clamoroso è quello di Posteraro. Ho qui davanti il curriculum. Nella sostanza dice che si è occupato nella sua vita di questioni che riguardano la pena e di regolamenti parlamentari. Non c´è una sola riga sulle telecomunicazioni».
E sulla privacy?
«La vicenda è ancora più clamorosa perché c´è la legge speciale che dice che i componenti "sono esperti di riconosciuta competenza delle materie del diritto o dell´informatica, garantendo la presenza di entrambe le qualificazioni". E invece, hanno nominato due giuristi, una giornalista e un dermatologo. Manca la componente esperta in informatica, l´intero collegio è illegittimo».
(a.cuz.)

l’Unità 7.6.12
Spaccatura al Fatto. Telese se ne va e fa un suo giornale
All’origine della crisi interna il dissenso per la linea «appiattita sui grillini». Le tensioni duravano da un anno
di Vincenzo Ricciarelli


ROMA La notizia, in redazione, l’hanno scoperta ieri mattina leggendo i giornali anche se la tensione interna era alle stelle da tempo. «Scissione al Fatto riportava il titolo de Il Messaggero Telese fonda un nuovo quotidiano». Luca Telese, notista politico del Fatto Quotidiano, lascia il giornale fondato da Antonio Padellaro e Marco Travaglio per tentare una nuova avventura editoriale che si chiamerà “Pubblico” e dovrebbe essere nelle edicole dopo l’estate. La conferma è arrivata dallo stesso Telese nel corso di una telefonata con Antonio Padellaro durante la quale Telese ha rimandato ogni decisione definitiva ad un incontro fissato per l’inizio della prossima settimana. Nessuna smentita nemmeno via Twitter. «Una indiscrezione su Il Messaggero dice che sto fondando un nuovo quotidiano», il primo “cinguettio” del cronista ai suoi follower. «Domani le risposte a tutte le curiosità sul Corriere della sera», l’aggiunta seguente, per concludere poi con l’articolo del quotidiano romano e la domanda «Lascio il Fatto? Nasce “Pubblico”?».
Nonostante la separazione fosse nell’aria da tempo la notizia ha creato scompiglio nella redazione de Il Fatto Quotidiano, dove Luca Telese è una delle firme più note anche grazie alle sue apparizioni in tv come conduttore del programma “In onda”. «Certo non ce lo aspettavamo spiega uno dei cronisti il direttore ha parlato con la redazione e ha spiegato la situazione: con sorpresa, ma senza astio. E comunque non c’è alcuna scissione in corso. Da qua, insieme a Luca, non andrà via nessuno: diciamo due persone al massimo». Ma qualcun altro aggiunge che questo epilogo «era prevedibile» e che c’è il rischio che «ci porti via qualche copia».
In edicola dal settembre del 2009, il Fatto vive così la prima “questione interna”. Sui motivi della decisione di Telese, in attesa delle sue spiegazioni, molte letture. Una di queste, accreditata da fonti interne alla redazione, parla di un dissidio insanabile con il vicedirettore Marco Travaglio, proprio colui che portò il cronista al Fatto nell’agosto del 2009. Un dissidio nato con lo scambio di accuse, pubbliche, al momento della decisione di estromettere dalla fattura de Il Misfatto (l’inserto satirico) il gruppo di Telese per far posto a Stefano Disegni. Secondo altri sulla decisione peserebbe anche l’insofferenza per una linea editoriale che ultimamente ha strizzato più di un occhiolino al movimento di Beppe Grillo. “Pubblico”, infatti, vorrebbe invece rivolgersi all’area di Sinistra e Libertà. Ma dall’entourage di Nichi Vendola si smentisce qualsiasi sponda e anche la voce che il nuovo quotidiano possa accedere al finanziamento pubblico qualora Sel rientrasse in Parlamento. Per quanto riguarda il capitale di partenza, “Pubblico” dovrebbe contare su cinque o sei investitori oltre allo stesso Telese. Fra questi anche il produttore tv Lorenzo Mieli (figlio dell’ex direttore del “Corriere della Sera”, Paolo) che con Telese ha lavorato al programma “Tetris”. Al progetto del nuovo giornale, stando alle indiscrezioni, dovrebbe partecipare come consulente anche Giorgio Poidomani, ex amministratore delegato de Il Fatto da poco uscito dalla società, che aveva contribuito a fondare con Antonio Padellaro e Marco Travaglio, in polemica con le decisioni di alcuni azionisti.

La Stampa 7.6.12
Ior, il memoriale di Gotti fa tremare il Vaticano
Sequestrato durante la perquisizione dai pm che indagano su Finmeccanica
Tra documenti, mail e lettere anche i nomi dei porporati protagonisti della guerra
In alcune conversazioni il banchiere esprime paura: «Temo di essere ucciso»
di Guido Ruotolo


Ettore Gotti Tedeschi ieri è stato sentito a lungo dai pm di Roma e Napoli

Un imprevisto, un colpo di acceleratore, una perquisizione che produce risultati inaspettati. L’inchiesta sulle mazzette internazionali di Finmeccanica si ritrova a una svolta mentre si apre uno scenario inedito nella storia della Banca Vaticana, lo Ior. Il suo ex presidente, Ettore Gotti Tedeschi, per il secondo giorno consecutivo viene sentito a Milano dai pm napoletani Vincenzo Piscitelli e Henry John Woodcock - ma da ieri anche dal procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e dall’aggiunto Nello Rossi (che indagano su una ipotesi di riciclaggio dello Ior) - per spiegare quel suo memoriale sequestrato dal Noe dei carabinieri, che ricostruisce gli ultimi tre anni di vita dello Ior e i contrasti interni alle Sacre Stanze.
E naturalmente per precisare i suoi rapporti con l’amministratore delegato di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, e quei contratti di finanaziamento del Banco di Santander - di cui lui è rappresentante in Italia con diverse aziende del gruppo Finmeccanica.
La scoperta del memoriale sullo Ior rappresenta sicuramente una clamorosa novità. E ieri sera, la Procura di Napoli ha trasmesso ai colleghi di Roma che indagano dal 2010 sullo Ior per riciclaggio, tutta la documentazione trovata a casa e negli uffici di Gotti Tedeschi che ha a che fare con la Banca Vaticana. Il banchiere avrebbe così deciso di collaborare con l’autorità giudiziaria italiana, temendo addirittura per la sua vita, come sarebbe emerso anche dalle diverse sue conversazioni telefoniche intercettate.
Il memoriale, dunque, è una cronistoria ragionata degli avvenimenti che il banchiere ha vissuto a partire dal 2009, da quando è diventato il Presidente dello Ior, fino agli ultimi giorni di maggio, quelli della sua defenestrazione.
Nei passaggi più controversi, tornanti di quel tormentato rapporto che lo ha visto al centro di contestazioni interne, Gotti Tedeschi ha allegato al memoriale documenti, mail, lettere a sostegno della sua ricostruzione dei fatti.
Una voluminosa documentazione, arricchita da un capitolo che riguarda personalità politiche della storia recente italiana. E tra gli atti sequestrati dalla Procura di Napoli e trasferiti a quella di Roma vi sarebbe anche un carteggio tra il banchiere e Sua Santità, Papa Ratinzger.
Non fa mistero, Gotti Tedeschi della guerra intestina e fratricida tra i diversi schieramenti interni al Vaticano. Una lotta per la «trasparenza» che lo avrebbe visto contrapposto al Segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Nelle sue memorie, Gotti Tedeschi avrebbe indicato anche i nomi dei diversi porporati che si sono schierati in questa guerra interna. Ma soprattuto si sarebbe soffermato sul conflitto con il direttore generale dello Ior, Paolo Cipriani, uomo di fiducia del cardinale Bertone.
Non sono solo spunti di ricostruzione storica di un clima, quelli indicati nel suo memoriale: l’ex numero uno dello Ior potrebbe aver fatto riferimento a episodi che si prestano a essere approfonditi come indizi di reato. Del resto Roma sta indagando l’ex presidente dello Ior Gotti Tedeschi per riciclaggio, perché sarebbero state segnalate dalle autorità finanziarie, almeno quindici operazioni sospette che vedrebbero coinvolta la Banca Vaticana.
Proprio nel 2010, il procuratore aggiunto di Roma, Nello Rossi, ha sequestrato 23 milioni di euro provenienti da un’operazione «sospetta» partita da un conto del Credito Artigiano. Soldi poi restituiti quando lo Ior si è impegnato a rispettare l’obbligo della tracciabilità dei conti (che si è pero rimangiato nel gennaio scorso). L’interrogatorio di ieri a Milano è stato «congiunto», fanno sapere gli inquirenti. Insomma, tra le procure di Roma e Napoli non c’è stato e non c’è alcun contrasto. E il fatto che Napoli abbia ritenuto di dover trasmettere a Roma gli atti che riguardavano lo Ior ne è una dimostrazione.
E, dunque, da quello che trapela, nelle perquisizioni dell’altro giorno gli investigatori del Noe dei carabinieri hanno trovato nella disponibilità di Gotti Tedeschi contratti bancari per centinaia di migliaia di euro di finanziamenti da parte del Banco di Santander - di cui l’ex presidente dello Ior è il rappresentante in Italia - nei confronti di società del gruppo Finmeccanica, come Ansaldo-Breda di Napoli o Agusta Westland.
Contratti con commissioni corrisposte che potrebbero nascondere pagamenti illeciti che la Procura di Napoli vuole verificare. Va precisato che Gotti Tedeschi ha solo svolto il compito di mettere in contatto i vertici del Banco di Santander con i rappresentanti delle diverse società di Finmeccanica. "La somma sequestrata nel 2010 23 allo Ior dalla Procura di Roma. Nel provvedimento, il procuratore aggiunto di Roma, Nello Rossi, motivava la decisione spiegando che si trattava di fondi provenienti milioni da un’operazione poco trasparente partita da un conto Credito Artigiano. di euro La somma è poi stata restituita, ma nel frattempo l’inchiesta è andata avanti"

Corriere 7.6.12
«Ecco i miei nemici in Vaticano» Dossier di Gotti Tedeschi ai pm
Memoriale sugli anni allo Ior: prove di illeciti e nomi di politici e prelati
di Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini


NAPOLI — Adesso il banchiere Ettore Gotti Tedeschi collabora con i magistrati. E consegna un memoriale sui due anni e mezzo trascorsi al vertice dello Ior, l'Istituto Opere Religiose del Vaticano che è stato costretto ad abbandonare dieci giorni fa. Lettere e documenti che possono portare l'indagine verso clamorosi sviluppi e avere effetti devastanti proprio sugli equilibri della Santa Sede. Anche perché un intero capitolo è dedicato ai «nemici interni», coloro che tra settembre 2009 e maggio 2012 avrebbero fatto di tutto per convincerlo a lasciare la poltrona. Alti prelati e personaggi esterni al Vaticano di fronte ai quali Gotti Tedeschi avrebbe rivendicato il rapporto privilegiato con il Pontefice con il quale aveva uno scambio epistolare di cui sono state trovate ampie tracce. Non solo. Le verifiche riguardano anche il suo ruolo di vertice presso il banco Santander e i rapporti dell'Istituto di credito spagnolo con le aziende del gruppo Finmeccanica. Sono state infatti trovate copie dei contratti e dei finanziamenti ottenuti, ma soprattutto la lista delle «commissioni» che — questo è il sospetto — potrebbero nascondere il pagamento di tangenti.
Lettere e mail
con politici e prelati
Per comprendere la portata di quanto sta accadendo bisogna tornare a due giorni fa, quando i carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico perquisiscono la casa di Piacenza e lo studio di Milano del banchiere, su delega della procura di Napoli. Cercano documenti che Gotti Tedeschi custodirebbe per conto dell'amministratore delegato di Finmeccanica Giuseppe Orsi. In realtà le carte «interessanti» sono centinaia, interi faldoni che riguardano gli affari conclusi nelle segrete stanze vaticane. «Gotti Tedeschi non è indagato — precisano il procuratore Sandro Pennasilico e l'aggiunto Francesco Greco — e non c'è alcun interesse che riguardi operazioni di riciclaggio effettuate su conti dello Ior». La documentazione trovata mostra però con evidenza come il banchiere abbia conservato atti che provano numerose operazioni illecite e come si sia cercato di occultare gli elementi compromettenti. Ci sono annotazioni sugli interventi diretti di alti prelati, faccendieri e influenti politici italiani; le mail che il banchiere ha inviato e ricevuto quando si poneva il problema di collaborare con la magistratura di Roma; le lettere che riguardano la gestione di numerosi conti correnti sui quali è transitato denaro di dubbia provenienza.
«Temo per la mia vita», conferma il banchiere ai magistrati. Poi accetta di rispondere alle loro domande. La procura di Napoli non ha però competenza su questa parte d'indagine. L'interrogatorio viene interrotto. A Milano volano il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l'aggiunto Nello Rossi. Ieri pomeriggio riprende la verbalizzazione. E il banchiere mostra di voler collaborare, iniziando a ricostruire questi ultimi due anni e mezzo e allegando a ogni pagina del memoriale le missive che spiegano con chi avesse gestito e discusso ogni questione. Spiega che può soffermarsi sulle «pressioni» ricevute, ma anche sugli attacchi respinti. È soltanto il primo appuntamento con i magistrati, altri ne seguiranno anche tenendo conto che con i pubblici ministeri romani una collaborazione — sia pur non in maniera così formale — sarebbe già stata avviata nei mesi scorsi.
I contratti
di Ansaldo e Agusta
Il banchiere avrebbe mostrato disponibilità a chiarire anche i contenuti della documentazione che riguarda Finmeccanica. Orsi definisce «farneticante l'ipotesi che possa aver dato documenti a Gotti e quindi che abbia utilizzato la sua amicizia per motivi impropri», ma i magistrati sono convinti che un «passaggio» ci sia stato e che sia documentato da alcune conversazioni e scambio di mail ed sms tra i due. In ogni caso l'attenzione si è concentrata sui documenti relativi ai rapporti con Santander e soprattutto a quelle «commissioni» che potrebbero celare ben altri interessi. Potrebbe infatti trattarsi di provvigioni mascherate, proprio come sarebbe accaduto in occasione della vendita dei 12 elicotteri da parte di Agusta Westland al governo indiano, almeno secondo quanto racconta l'ex responsabile dei rapporti istituzionali della holding Lorenzo Borgogni. Nuovi atti sugli affari esteri del gruppo e sul ruolo di intermediario del faccendiere Walter Lavitola — tuttora detenuto nel carcere di Poggioreale — con le autorità di Panama sono stati consegnati ai pubblici ministeri di Napoli dai colleghi milanesi che hanno chiesto e ottenuto l'arresto dell'ex presidente della Banca Popolare di Milano Massimo Ponzellini. In particolare si tratterebbe dell'appalto vinto nel 2009 da Impregilo per la realizzazione di un sistema di chiuse del piano di ampliamento del canale.

Corriere 7.6.12
Le carte di Gotti Tedeschi con politici e alti prelati
«Fughe di notizie, la Santa Sede è sotto ricatto» Padre Lombardi: «Minacce di altre pubblicazioni»
Nuovo interrogatorio per il maggiordomo del Papa
di M.Antonietta Calabrò


Il banchiere Ettore Gotti Tedeschi ha consegnato ai magistrati un memoriale sui due anni e mezzo trascorsi al vertice dello Ior: documenti che possono portare l'indagine verso clamorosi sviluppi e avere effetti sugli equilibri della Santa Sede. Un capitolo è dedicato ai «nemici interni»: alti prelati e personaggi esterni al Vaticano.

ROMA — Un secondo lungo interrogatorio formale per Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa agli arresti perché accusato di essere il Corvo all'origine di Vatileaks, si è svolto ieri davanti al giudice istruttore Piero Bonnet e al promotore di giustizia Nicola Picardi, assistito dai suoi difensori, Carlo Fusco e Cristiana Arrù. Mentre il Vaticano — sono parole del portavoce della Sala stampa Vaticana, padre Federico Lombardi — si sente «sotto ricatto», soprattutto dopo gli ultimi documenti pubblicati domenica scorsa. Facendo il punto sulla fuga di notizie e riferendosi alle ultime lettere consegnate sbianchettate e firmate dal segretario personale del Papa, monsignor Georg Gänswein, di cui un corvo minaccia la pubblicazione integrale, se non venisse fatta piena pulizia, padre Lombardi ha sottolineato che «non costituivano dei dolci consigli». «È una minaccia grave», ha continuato, anche se il «Papa e la curia non sono in affanno e disorientamento». «Usare la parola ricatto per definirla mi sembra comprensibile. Siamo praticamente arrivati ad una situazione di minaccia, del tipo di un ricatto. Se uno ti dice "se non procedete a dimettere queste persone noi pubblicheremo altre cose molto gravi", credo che la parola ricatto sia comprensibile e plausibilmente utilizzata da una persona che fa commenti». Ma ha aggiunto: «Non vorrei fosse "ufficializzata" come posizione della Santa Sede».
Le affermazioni di padre Lombardi hanno ripreso in sostanza un editoriale firmato l'altro ieri dal gesuita Bernd Hagenkord, capo della redazione tedesca di Radio vaticana. Questo «non è più giornalismo, questo è un ricatto, che fa parte di un gioco di potere che imperversa attorno al Vaticano». Nell'editoriale si afferma inoltre che «al più tardi questo fine settimana è divenuto chiaro che la mediatizzazione appartiene alla storia di Vatileaks. I burattinai probabilmente neppure siedono in Vaticano». Proprio nel giorno in cui importanti cardinali (dal decano Angelo Sodano a Leonardo Sandri) hanno negato qualsiasi divisione tra i porporati.
Oggi non sarà svolta istruttoria perché in Vaticano è giorno festivo per la solennità del Corpus Domini. Semmai, se lo vorrà, Gabriele potrà essere accompagnato (senza manette) ad assistere alla Messa in una delle chiese che ci sono all'interno del piccolo Stato, come è già avvenuto domenica. E potrà, se lo vorrà, vedere di nuovo la moglie. Nella sua cella inoltre può leggere i giornali (niente tv). In base alle norme vaticane, Gabriele può restare in custodia preventiva fino a un massimo di cento giorni.
I magistrati vogliono la verità da lui, che è l'unico indagato. Le domande sono state molte. Ci si chiede, ad esempio, se è stato lui ad apparire in tv (camuffato) durante la trasmissione Gli Intoccabili di Gianluigi Nuzzi (autore del libro Sua Santità), o se conosce la persona che si è autoaccusata in tv di essere il Corvo. Se conosce direttamente o indirettamente un altro presunto corvo da cui sembrano essere state consegnate le due lettere più recenti. La fuoriuscita di notizie è iniziata a gennaio e la vicenda ha avuto un'improvvisa accelerazione la settimana scorsa quando, nello spazio di pochi giorni, il presidente della banca vaticana Ettore Gotti Tedeschi è stato destituito, Gabriele arrestato, e pubblicato il libro di Nuzzi (con documenti su casi di corruzione in Vaticano, rivalità tra i cardinali e scontri sul management dello Ior).

il Fatto 7.6.12
Il memoriale Gotti Tedeschi “Vogliono uccidermi”
In casa dell’ex presidente dello Ior, carabinieri e pm trovano un dossier-bomba riservato agli amici: “Se mi ammazzano, qui ho scritto il perché. In Vaticano ho visto cose da aver paura”
di Marco Lillo


Ettore Gotti Tedeschi temeva di essere ucciso e aveva preparato - come polizza sulla vita - un memoriale sui i segreti dello IOR. L’ex presidente della cosiddetta banca vaticana, dal settembre 2009 al maggio 2012, aveva consegnato un paio di esemplari del dossier agli amici più fidati, con una postilla a voce: “Se mi ammazzano, qui dentro c’è la ragione della mia morte”. Martedì scorso, una copia del dossier sullo IOR è stata trovata dagli uomini del capitano Pietro Raiola Pescarini, il comandante del Nucleo Operativo del NOE, quando i Carabinieri dell’ambiente hanno perquisito l’abitazione di Gotti su delega della Procura di Napoli. Proprio per approfondire il contenuto del dossier sullo IOR ieri sono decollati alla volta di Milano i vertici della Procura di Roma. I quattro pm, Giuseppe Pignatone e Nello Rossi di Roma, Henry J. Woodcock e Vincenzo Piscitelli di Napoli, hanno interrogato per tre ore e mezza l’ex presidente dello IOR, visibilmente impressionato dalle informazioni raccolte dagli investigatori, anche grazie alle intercettazioni.  Padre Georg e Bertone  I pm sono in possesso persino di conversazioni che riguardano il segretario del Papa, Georg Ganswein e il Segretario di Stato Tarcisio Bertone, su argomenti delicatissimi. Inoltre a casa di Gotti Tedeschi sono stati trovati una serie di dossier su personaggi importanti che potrebbero avere avuto rapporti con il banchiere e con lo IOR. Centinaia di pagine che sono state fotocopiate, nome per nome, dossier per dossier, e consegnate ai pm romani. Al termine di questo primo interrogatorio, che si è tenuto nella caserma del NOE immersa nel verde di via Pasuvio, alla periferia di Milano, concluso alle 18 anche per la stanchezza di Gotti Tedeschi, i magistrati si sono aggiornati a nuovi separati appuntamenti con il banchiere nella veste di indagato a Roma e di testimone a Napoli. I pm di Roma hanno preso le carte attinenti alla loro indagine sulla violazione formale delle norme antiriciclaggio da parte dello IOR che sonnecchiava da un anno e mezzo, dopo il dissequestro di 23 milioni dello IOR, e che sembrava destinata all’archiviazione, per Ettore Gotti Tedeschi.  La svolta è arrivata dopo le perquisizioni ordinate all’insaputa della Procura di Roma che indagava sullo IOR dal 2010. Dopo l’interrogatorio di martedì condotto dai pm di Napoli (che dovrebbero indagare su Finmeccanica) era montata una certa “sorpresa” dei titolari dell’inchiesta romana, il procuratore aggiunto Nello Rossi e il sostituto Stefano Rocco Fava. Una serie di telefonate tra due magistrati di grande esperienza come il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il reggente della Procura di Napoli, Alessandro Pennasilico, avevano stemperato gli animi. Martedì sera è stato organizzato un interrogatorio congiunto di Gotti Tedeschi nella veste di indagato alla presenza del suo avvocato. Le carte trovate a casa di Gotti sono considerate di grande rilievo investigativo. Non capita tutti i giorni che un procuratore capo di Roma, per di più protetto con il massimo grado di allerta per le sue inchieste a Palermo e Reggio, si sposti in aereo dalla sera alla mattina. E non capita tutti i giorni che si faccia accompagnare dal comandante del Noe dei Carabinieri, il colonnello Sergio De Caprio, alias Ultimo.  Così (insieme con Nello Rossi) il procuratore che ha arrestato Provenzano e il carabiniere che ha messo i ceppi a Riina, sono volati a Milano per interrogare, non Matteo Messina Denaro, ma l’ex banchiere del Papa.  L’odore dei soldi  Un risultato inatteso dell’azione dei pm partenopei Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock e Francesco Curcio che ex ante cercavano le prove del riciclaggio della presunta mazzetta da 10 milioni di euro, in ipotesi girata dal presidente di Finmeccanica Giuseppe Orsi alla Lega Nord e a Cl in occasione della vendita da 560 milioni di 12 elicotteri della controllata Agusta-Westland, al Governo Indiano. Le carte sullo IOR sono emerse a sorpresa inseguendo questa mega-tangente, negata dai protagonisti, che per ora esiste solo nei racconti dell’ex direttore centrale Finmeccanica Lorenzo Borgogni. Indagando su Orsi, i pm napoletani si sono imbattuti nei primi mesi dell’anno nel suo amico Gotti Tedeschi che proprio in quel momento era al centro di uno scontro di potere epocale all’ìnterno del Vaticano. Se Orsi confidava a Gotti Tedeschi i suoi problemi con le inchieste giudiziarie, l’amico banchiere aveva problemi ben maggiori all’interno del Vaticano. Nelle sue lunghe conversazioni di questi giorni con gli amici Gotti Tedeschi aveva confidato di avere scoperto in Vaticano cose di cui aver paura. Stimava sempre il Papa ma si fidava ormai di pochissime persone Oltretevere, come il presidente dell’AIF, l’Autorità Antiriciclaggio con la quale aveva cercato di fare sponda per aprire gli archivi segreti dello IOR, il Cardinale Attilio Nicora. E poi il segretario del Papa George Ganswein, al quale cercava di spiegare perché la linea del segretario di stato Tarcisio Bertone, contraria ad aprire all’autorità giudiziaria italiana i segreti dei conti IOR, fosse miope e sbagliata. “Se seguiamo la linea di Bertone, non usciremo mai dalla black list”, spiegava ai suoi interlocutori Gotti Tedeschi, aggiungendo che forse era proprio quello che volevano i cardinali. Perché così potevano continuare a nascondere la verità alle autorità italiane. La sensazione è che Gotti Tedeschi nella contesa dello IOR, almeno da quanto emerso dagli atti di indagine dei magistrati napoletani, abbia svolto un ruolo positivo, opponendosi alle lobby contrarie alla trasparenza. E forse anche per questo temeva per la sua vita.  La scorta  Si potrebbe pensare a un eccesso di preoccupazione dettata dallo stress se non fosse per i precedenti sinistri. Gotti Tedeschi era soprannominato “il banchiere del Papa” e temeva di fare la fine del “banchiere di Dio”: Roberto Calvi, ucciso e impiccato con una messinscena al ponte dei Frati neri di Londra. Negli ultimi mesi Gotti Tedeschi aveva assoldato una scorta privata e si era rivolto a un’agenzia di investigazione per avere protezione. Sapeva bene però che i vigilantes non rappresentavano per lui una garanzia di sopravvivenza. La sua polizza sulla vita erano le carte che aveva maneggiato, i segreti che custodiva.  Per questa ragione aveva stilato il memoriale. Non immaginava però che sarebbe finito nelle mani della giustizia italiana.

il Fatto 7.6.12
La guerra fredda tra Opus Dei e lobby Usa
Dalla legge antiriciclaggio al dominio sulle finanze
Il ruolo dei Cavalieri di Colombo
di  M. L.


L’interrogazione parlamentare porta la firma di due deputati del Pdl vicini all’Opus Dei, proprio come l’ex presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi. Alfredo Mantovano e Alessandro Pagano ieri hanno interpellato il ministro della Giustizia Paola Severino sull'attività svolta nelle ultime ore dai pm di Napoli nei confronti dell’ex banchiere del Papa. L’ex sottosegretario agli Interni e il suo collega siciliano, recentemente condannato in appello a 5 mesi per abuso di ufficio, hanno chiesto chiarimenti “se Gotti Tedeschi sia stato sottoposto a perquisizione nella propria abitazione a Piacenza e nel proprio studio a Milano senza essere formalmente indagato”. I parlamentari si chiedono se “uno strumento così invasivo non poteva essere evitato, o quanto meno preceduto, da un invito a mettere a disposizione i documenti”. Insomma i deputati del Pdl avrebbero preferito una telefonata dei pm per avvertire il banchiere di cosa stavano cercando e magari permettergli di nascondere i documenti. Mantovano e Pagano poi vagheggiano di un “tentativo di una articolazione della magistratura italiana di intromettersi in attività di un organismo di uno Stato estero”. A proposito di intromissioni forse è il caso di notare che il ministro interrogato, Paola Severino, era fino a pochi mesi fa l’avvocato di Ettore Gotti Tedeschi. L’interrogazione di Mantovano-Pagano fa riflettere sul ruolo degli amici dell’Opus Dei in questa storia a cavallo tra Italia e Vaticano.
DAGLI ATTI dell’indagine è possibile intravedere uno scontro titanico tra l’Opus Dei e i Cavalieri di Malta per contendersi l’influenza sulle finanze vaticane. Gotti Tedeschi è un uomo chiave del sistema Opus Dei, consigliere dell’Alerion dell’O-pus Dei Pippo Garofano, socio del fondo F2I di Vito Gamberale, del quale Gotti è consigliere. Ma soprattutto Gotti, a partire dagli anni Novanta, è il rappresentante in Italia del Banco Santander di Emilio Botin. Banchiere spagnolo potentissimo legato, anche per via di una sorella, all’onnipresente Opus Dei. E non è un mistero che il nemico numero uno di Gotti, l’uomo che ne ha chiesto e ottenuto la testa al cospetto del Segretario di Stato e del Papa, è Carl Anderson, Consigliere Supremo, cioé capo, dell’Ordine dei Cavalieri di Colombo. Anche Anderson, il segretario americano del board dello IOR che ha firmato la cacciata del banchiere piacentino, ha alle spalle un colosso. L’Ordine da lui guidato è stato fondato nel 1882, ha base nel Connecticut e vanta un patrimonio di 17 miliardi di dollari e 1,8 milioni di iscritti. Dietro la contesa sulla governance dello IOR e sulle scelte da fare di fronte alle richieste di cooperazione giudiziaria da parte italiana, se ne staglia una seconda ben più importante. I Cavalieri di Colombo, secondo la lettura offerta da parte degli amici di Ettore Gotti Tedeschi e registrata agli atti dagli investigatori, farebbero parte di una sorta di associazione di fratellanza simile alla massoneria che avrebbe però proprio il compito di fronteggiare l’incremento del peso dei massoni nella Chiesa. Secondo questa lettura, Gotti Tedeschi sarebbe rimasto vittima del potere crescente dei Cavalieri e degli Stati Uniti nella Segreteria di Stato. È americano anche l’uomo chiave della partita che il Vaticano sta giocando sullo scacchiere europeo per uscire dalla lista nera dei paesi poco affidabili sotto il profilo dell’antiriciclaggio, quell’avvocato Jeffrey Lena che – dopo aver gestito oltreoceano le cause per i casi di pedofilia – grazie al suo legame con lo Studio legale Grande Stevens di Torino, è diventato il punto di riferimento della Segreteria di Stato anche per le questioni legali che affliggono lo IOR.
IL 4 LUGLIO prossimo nella sezione plenaria dell’organismo europeo Moneyval che si terrà a Strasburgo si deciderà il destino dello Stato Vaticano, la delegazione vaticana sarà guidata formalmente dal cardinale Ettore Balestrero ma sostanzialmente è Lena l’uomo che menerà le danze. E, se l’avvocato della Fiat, Franzo Grande Stevens, era il legale al quale si rivolgeva lo Ior per eludere le richieste del pool di Mani Pulite sul destino della mazzetta Enimont nel 1993, il duo formato da Lena e da Michele Briamonte, sempre dello Studio Grande Stevens, oggi consiglia il Vaticano sulle strategie da adottare per rispondere alle richieste della magistratura italiana.

il Fatto 7.6.12
Corvi, l’ex maggiordomo Gabriele resta l’unico indagato


Continua a percepire lo stipendio, non è stato licenziato, ma solo “sospeso” dal suo incarico e, soprattutto, è fermo nella volontà di collaborare, così come annunciato dai suoi legali. Secondo interrogatorio davanti al giudice istruttore Piero Bonnet e al promotore di giustizia Nicola Picardi, per l’ex maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, accusato di furto di documenti riservati. L’aiutante di camera resta l’unico indagato, almeno per ora. Padre Federico Lombardi ha ribadito che non ci sono attualmente cardinali sotto inchiesta e spiegato che Gabriele, “sospeso” ma non licenziato, ha avuto tutti i colloqui con la moglie che ha chiesto. “Cerco di illustrare piste attendibili” ha detto Lombardi, interpellato anche sul fatto che il programma tedesco della Radio Vaticana ha parlato di “ricatto”, dopo la pubblicazione di una lettera firmata dal segretario del Papa, ma con il testo cancellato. “Non è un consiglio dolce, ma una minaccia grave – ha replicato Lombardi –. Se uno ti dice ‘se non procedete a dimettere queste persone noi pubblicheremo altre cose molto gravi’, credo che la parola ricatto sia comprensibile e plausibilmente utilizzata da una persona che fa dei commenti”.

il Fatto 7.6.12
Quei documenti riservati che hanno fatto infuriare la Santa Sede


Il 10 febbraio il Fatto pubblica per la prima volta la nota in tedesco sulle presunte rivelazioni dell’arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, consegnata dal cardinale colombiano Dario Castrillón Hoyos al segretario del Papa, nella quale veniva ipotizzato un complotto omicidiario ai danni di Ratzinger. Qualche giorno prima, il 27 gennaio era uscita la lettera in cui l’ex segretario del Governatorato, monsignor Carlo Maria Viganò, denunciava furti nelle ville pontificie coperti dal direttore dei Musei Vaticani, monsignor Paolo Nicolini. È del 20 febbraio il memo concordato dall’ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi con il ministro di allora, Giulio Tremonti, per attutire gli effetti sulle casse vaticane dell’offensiva europea per abolire le agevolazioni Ici. È stata pubblicata anche la lettera in cui l’ex direttore dell’Avvenire Dino Boffo minacciava il presidente della Cei Angelo Bagnasco di rivelare il ruolo svolto dal direttore dell’Osservatore Romano Gian Maria Vian nella pubblicazione degli articoli diffamatori sulla presunta omosessualità di Boffo da parte del Giornale di Feltri. Questi documenti sono riproposti, con l’aggiunta di altre carte riservate, nel libro di Gianluigi Nuzzi, di Chiarelettere.

La Stampa 7.6.12
In Francia si cambia l’età della pensione torna a sessant’anni
Hollande mantiene la promessa fatta per la corsa all’Eliseo
di Alberto Mattioli


A tre giorni dal primo turno delle legislative, François Hollande rispetta una promessa fatta in campagna elettorale. Dopo aver detto cose di sinistra, ieri è passato all’azione e ne ha fatta una: riabbassare l’età dell’età della pensione a 60 anni, dopo che Nicolas Sarkozy l’aveva alzata. Però quella di Sarkò fu una riforma, questa di Hollande è una controriformetta: la novità riguarda solo i lavoratori che hanno cominciato a lavorare molto giovani, per il 2013 non più di 110 mila persone.
Tant’è: Hollande l’aveva promesso e ieri l’ha fatto. Dal Consiglio dei ministri sono uscite confermate le indiscrezioni che già circolavano. Il decreto entrerà in vigore il 1° novembre. Tecnicamente, si tratta di estendere il dispositivo detto «carriere lunghe», finora applicato a chi aveva iniziato a lavorare a 17 anni o meno, anche a chi ha cominciato a 18 e a 19. Per loro sarà possibile andare in pensione a 60 anni, fermo restando l’obbligo di avere 41 anni di contributi. E il governo ha deciso di abbuonare due trimestri ad altrettante categorie: i disoccupati e le madri.
Secondo Marisol Touraine, ministra degli Affari sociali, il costo del provvedimento è relativamente basso: 1,1 miliardi di euro nel 2013, che saliranno progressivamente a tre nel ‘17. «La riforma giura Touraine - è interamente finanziata». Si provvederà con un aumento dei contributi dello 0,2%, metà a carico del lavoratore e metà del datore di lavoro.
Il significato della mossa è però politico. La riforma delle pensioni è il fiore all’occhiello di Sarkozy, che per realizzarla pagò un prezzo alto in termini di consenso, proteste e tensioni sociali. La controriforma che tocca centomila persone è più che simbolica, ma di certo non è radicale. Però, spiega la portavoce del governo, Najat Vallaud-Belkacem, «era indispensabile per correggere un’ingiustizia».

La Stampa 7.6.12
La Russia mette fuori legge la protesta
Varata la nuova norma: multe e lavori socialmente utili a chi organizza cortei. Manca solo il sì di Putin
di Lucia Sgueglia


Ora tutto è nelle mani di Putin. Sarà lui a dover apporre la firma finale, entro 15 giorni, alla draconiana legge «anti-proteste» che aumenta di 10 volte le multe per infrazioni commesse da partecipanti e organizzatori di manifestazioni, specie quelle non autorizzate: 300-600 mila rubli 7-14 mila euro) per i partecipanti, fino a un milione di rubli per chi gli organizzatori. Multe che possono essere sostituite con 200 ore di «lavoro obbligatorio». È il temuto giro di vite dopo l’inverno dello scontento russo.
«Legge scandalo» per l’opposizione, «tirannia» per Mikhail Gorbaciov, che invita il capo del Cremlino a porvi il veto. Human Rights Watch nota che il testo è contrario alla Costituzione russa, per Liudmila Alexeieva ai «principi più’ basilari del diritto». Dmitri Peskov, portavoce di Putin, apre uno spiraglio: «Il presidente non firmerà la legge in un solo caso», se contraria ai principi democratici europei.
Ma la vera novità è il risveglio della Duma da anni di torpore e conformismo. «Non è un posto per la discussione», l’aveva seppellita l’ex speaker Boris Gryzlov. Invece martedì il dibattito è stato animato come non mai. Undici ore di maratona prima del sì poco prima della mezzanotte, interrotte solo da una breve pausa per il tè, applaudita all’unanimità. Un record, dall’indipendenza della Russia.
L’opposizione sapeva di non avere i numeri per bloccare il disegno di legge, proposto dai deputati della maggioranza putiniana di Russia Unita, ma ha deciso di dare comunque battaglia, facendone una questione di principio. Avanguardia il partito Russia Giusta nato come creatura del Cremlino poi sempre più emancipato - che con alcuni deputati attivi in piazza ha promosso, con i comunisti, lo «sciopero italiano»: 400 emendamenti, molti volutamente assurdi come la richiesta di fissare la temperatura nei luoghi di pena ad almeno 30°. Anche l’ostruzionismo è un’arte. Tutto per ritardare l’approvazione della norma a dopo il 12 giugno, giorno della prossima protesta.
Così la seduta si trasforma in spettacolo, seguito in diretta sul nuovo sito web OpenDuma.ru da 30mila. Ogni minuto lo speaker Naryshkin decreta impassibile: «La modifica è respinta». Un non-dibattito che a un blogger ricorda «la lettura del Corano a Grozny» O un esercizio di «legislazione tantrica», ironizza Alexei su Facebook. Esasperati, i corrispondenti delle agenzie di stampa statali scrivono: «In aula, dopo 8 ore di discussione, risuona una risata nervosa dopo ogni votazione. Momenti di tensione con scambio di dure osservazioni tra deputati, poi l’atmosfera si rilassa, risate e fischi. Verso le 23 in sala si stabilisce un compiacente stato d’animo». Prima di votare Sergei Mironov, capo di Russia Giusta, dice che la legge riflette «la paura della gente» che ha il Cremlino: «Russia Unita si è scritta il requiem da sola». Il blogger Navalny paragona i membri della maggioranza a «scarafaggi che correvano per l’aula, una scena ridicola». Fuori dall’edificio un picchetto di protesta contro la legge finisce con 70 fermi. Tutti d’accordo: la lotta politica è tornata nel parlamento russo, grazie anche ai nuovi equilibri sanciti dal voto legislativo di dicembre che ha tolto a Russia Unita la maggioranza qualificata.
Al Consiglio della Federazione, la camera alta, il giorno dopo va più liscia. Sì in tempo record in mattinata dai senatori. La fronda è donna: Liudmila Narusova, vedova di Anatoly Sobciak, l’ex sindaco di Pietroburgo mentore di Putin negli Anni 90, e mamma di Ksenia, vedette tv dissidente, avverte: «Non abbiamo nemmeno in mano il testo della legge. Perché tanta fretta? Votammo così rapidamente solo quando decidemmo l’invio di truppe» in Sud Ossezia, nel 2008. Ma al momento di pigiare i bottoni Liudmila esce dall’aula. L’unico voto contrario è della senatrice Larisa Ponomareva.
L’opposizione dice di non temere le supermulte, convinta che spingeranno più gente in piazza. Ma si rischia la radicalizzazione. Anche perché la legge lascia troppo spazio all’interpretazione: «Ogni riunione di persone in strada potrà essere dichiarata una manifestazione, dunque attenti se andate a un matrimonio o un funerale». E annuncia il ricorso alla Corte Costituzionale.

La Stampa 7.6.12
Quando l’Urss garantiva il «diritto a manifestare»


In epoca sovietica non esisteva una legge sul diritto di assembramento, anche se il diritto dei cittadini a riunirsi in cortei o raduni o manifestazioni era sancito dalla Costituzione dell’Urss. Nell’ultima versione del 1977 questa garantiva «il diritto dei cittadini sovietici a tenere assembramenti pacifici e manifestazioni pubbliche». Proprio pochi giorni fa ricorreva il cinquantesimo anniversario, 2 giugno 1962, della più nota e clamorosa protesta non autorizzata e spontanea dell’epoca sovietica. Avvenne a Novocherkassk, nella regione di Rostov sul Don, dove alcune migliaia di operai locali scesero in piazza contro l’aumento dei prezzi dei principali prodotti alimentari, decretato da Nikita Krusciov, primo segretario del Pcus. Contro di loro le autorità inviarono in città carri armati e militari: i manifestanti furono dispersi con un bilancio tragico - 26 uccisi, circa 90 feriti e 240 arrestati. Fu rapidamente celebrato un processo: 7 presunti organizzatori furono condannati alla fucilazione e 105 finirono in carcere con condanne da 10 a 15 anni. [L. SGU.]

il Fatto 7.6.12
Regimi
Russia, Putin pronto a vietare le manifestazioni
di Micol Sarfatti


La brezza della primavera russa ha smesso di soffiare. Da ieri il movimento anti-Putin, che da dicembre colora le strade di Mosca per cercare di rinnovare la classe politica del Paese, rischia di non poter più scendere in piazza. Il dissenso di migliaia di persone, molte delle quali giovani e colte, ora potrebbe costare molto caro. Nella tarda serata di martedì la Duma, la camera bassa del parlamento russo, ha presentato una proposta di legge che impone sanzioni stratosferiche a organizzatori e partecipanti di manifestazioni non autorizzate. Subito l’opposizione parlamentare, silente da molti anni e formata perlopiù da comunisti e membri di Russia Giusta, ha provato a rallentare l’iter della norma con una pioggia di emendamenti, per la precisione 359.
UNA SERIE infinita di cavilli studiati per prendere tempo, sapendo di non avere i numeri per bloccare il provvedimento firmato dalla maggioranza dei putiniani di Russia Unita. Il tentativo di ostruzionismo è stato ribattezzato dagli stessi oppositori, “sciopero italiano”, ma è servito a poco. La legge è passata con 241 voti favorevoli, solo 15 più del minimo necessario, e 147 contrari. Mercoledì, con un dibattito meno acceso del precedente, è stata approvata anche dal senato russo. Il nuovo pacchetto di regole prevede multe fino a 3 mila rubli – circa 7 mila euro – per chi partecipa a comizi e cortei, cifra che sale fino a un milione di rubli – 24 mila euro – per gli organizzatori delle proteste. Viene inoltre introdotto il servizio civile obbligatorio per i trasgressori e si vieta ai partecipanti di indossare maschere.
Le norme potrebbero entrare in vigore già il 10 giugno, due giorni prima dell’ ennesima manifestazione anti- Putin. Per farle diventare realtà manca proprio la firma dello zar, dal 7 maggio ufficialmente presidente di Russia per la terza volta. La proposta ha subito suscitato le reazioni della rete, vero motore e vivaio dell’opposizione. In poche ore i social network, su tutti Vkontakte, il Facebook russo, sono stati sommersi da commenti sdegnati. Qualcuno ha parlato di Stato fascista. Altri hanno omaggiato, nell’anniversario della sua nascita, il poeta Pushkin, rattristandosi per un Paese “dove schiavi e adulatori sono sempre più vicini al potere”.
Su Twitter, invece, spopolava l’hashtag #perivibori, ovvero nuove elezioni. Le ultime, a Marzo, sono state quelle della vittoria di Putin, delle accuse di brogli, delle proteste e degli scontri. Contro la nuova legge sono scesi in campo il Consiglio presidenziale per i diritti umani, il Gruppo Helsinki di Mosca e Human Rights Watch. Tutte le organizzazioni hanno fatto notare come il nuovo pacchetto di norme sia in contrasto con l’articolo 31 della Costituzione russa che garantisce la libertà di assemblea. Anche l’ex presidente sovietico Mikhail Gorbaciov spera “che Putin non firmerà questa legge: una vera tirannia o una specie di regola arbitraria”. Il premio nobel si è detto anche “sicuro che la società la rifiuterà”. Purtroppo però riesce difficile immaginare un veto di Putin a una norma che lo metterebbe “al sicuro” da un dissenso sempre più forte e anche dalle più tranquille passeggiate di protesta dilagate a maggio.
Ieri però il suo portavoce Dimitri Peskov ha fatto sapere che “il Presidente non firmerà, se riterrà questa legge contraria agli standard democratici accettati da altri Paesi”, in particolare quelli europei. A Vladmir Vladimirovich sembra stare più a cuore l’opinione di possibili alleati che quella dei propri connazionali. E così, dopo una breve, ma intensa, primavera di libertà, la repressione targata Russia torna a farsi sentire.

Repubblica 7.6.12
Russia, via alla legge anti-proteste previste multe fino a 25mila euro
Appelli a Putin a non firmare. Gorbaciov: "Svolta tirannica"
Il presidente in viaggio in Cina: "La boccerò solo se non conforme agli standard Ue"
di Nicola Lombardozzi


Mosca - Non bastano più i manganelli, i lacrimogeni, le cariche della polizia. La Russia si prepara a vietare ogni forma di dissenso come non ha mai fatto pubblicamente nella sua Storia recente. Una legge approvata, nonostante un´inedita rivolta di alcuni esponenti dello stesso partito di governo Russia Unita, chiuderà ogni spazio alla crescente contestazione cominciata nel dicembre scorso. Entrerà in vigore tra due giorni, il tempo di essere firmata da Vladimir Putin impegnato nella sua missione politico economica in Cina. E giusto alla vigilia della grande manifestazione del 12 giugno che faceva prevedere almeno sessantamila persone in piazza nella sola Mosca.
La ribellione dilaga, come è ovvio, su Internet. Un po´ meno nelle strade dove tra blocchi degli agenti speciali e tentativi di cortei improvvisati davanti alla Duma, il bilancio è di oltre cento fermati e di decine di denunce di pestaggi da parte della polizia. Alle voci abituali dei blogger di opposizione come Aleksej Navalnyj che parlano di «dittatura a volto scoperto» e di «morte ufficiale della Costituzione russa». Si aggiungono personaggi più moderati come Mikhail Gorbaciov, che ancora poco prima dell´approvazione, tentava un ultimo appello ai deputati perché non dessero il via «a una svolta tirannica, trasferendo la Russia nella schiera dei paesi che non rispettano i diritti civili».
La legge in effetti sembra annullare di fatto l´articolo 31 della Costituzione russa che stabilisce il diritto dei cittadini a manifestare pubblicamente la propria opinione. Articolo non sempre rispettato alla lettera ma che adesso rischia di diventare privo di senso. Da quando Putin apporrà la sua firma, tutte le manifestazioni politiche non autorizzate saranno infatti sanzionate con multe pesantissime, soprattutto se paragonate al basso reddito medio russo: 7mila euro per i singoli, 14mila euro per i funzionari pubblici e i politici, 25mila euro per le associazioni e i partiti. Chi non potrà permettersi di pagare finirà in carcere. Ma non è tutto qui. Lo staff di esperti dell´ufficio di Putin ha modellato ad arte ogni comma sulle tecniche e le trovate creative del movimento di opposizione. Per esempio le cosiddette feste spontanee. Quei raduni che gli oppositori fanno continuamente nei parchi del centro, evitando di parlare di politica e limitandosi a farsi vedere uniti in piazza. Con la nuova legge i poliziotti potranno infliggere le stesse multe equiparando i raduni a comizi illegali. «Non è necessario - spiegano entusiasti i relatori - scandire slogan o portare insegne politiche, basterà riunirsi in massa». Pericolosissima e ambigua definizione: chi stabilirà il numero necessario per essere definiti "massa"? Non è chiaro. Teoricamente anche un gruppetto di amici che va al bar o a guardare una partita di calcio può essere fermato e incriminato a discrezione totale della polizia. E non è finita. Anche le manifestazioni autorizzate potranno prevedere le stesse sanzioni sulla base del giudizio personale degli agenti. La legge prevede infatti le salatissime multe anche per «tentativi di danneggiamento all´arredo urbano» o per «intralcio del flusso del traffico».
Quanto basta perché i toni su Internet diventino durissimi e preoccupati. «Nella notte ci hanno trasferito in massa nella dittatura bielorussa», scrive un giovanissimo sostenitore degli ecologisti. Ancora più chiaro Sergej Mitrokhin, presidente del partito democratico Jabloko spesso considerato tiepido davanti alle contestazioni di piazza: «Adesso Putin ha varcato il Rubicone. Da dittatore latente è un dittatore a pieno titolo». L´ondata di sconcerto coinvolge anche le organizzazioni internazionali e scuote l´ufficio del Presidente. Il consigliere portavoce di Putin, Dmitrj Peskhov cerca di calmare le acque assicurando che «prima di firmare Putin valuterà se la legge rimane nel novero degli standard europei». Ma Peskhov è lo stesso che due settimane fa sentenziò che «il fegato di certi manifestanti andrebbe spalmato sul marciapiede». Non è un bel precedente per sperare. Con amara ironia un anonimo scrive: «Putin e i diritti umani? Speriamo non si consulti con gli amici cinesi».

Corriere 7.6.12
Tra colonie e posti di blocco chiusa la via della pace
L'espansione israeliana nelle terre arabe
di Sergio Romano


La mia guida attraverso gli insediamenti ebraici costruiti intorno a Gerusalemme est è un ebreo americano. Si chiama Daniel Seidemann ed è giunto in Israele verso la fine degli anni Cinquanta, all'età di 22 anni. Era un entusiasta sionista quando mise piede nello Stato da poco creato e non ha smesso di esserlo. Ma qui è divenuto avvocato e si è specializzato in questioni di contenzioso immobiliare, vale a dire in una materia dietro la quale vi è il più controverso ed esplosivo dei problemi israelo-palestinesi: la proprietà della terra. Grazie a una lunga pratica giuridica Seidemann conosce perfettamente la geografia degli insediamenti e l'ha ricostruita nel suo principale strumento di lavoro: una mappa dell'area che si estende al di là dei confini urbani di Gerusalemme est ma rientra nella zona teoricamente destinata allo Stato palestinese. Nella carta di Seidemann le terre abitate dai palestinesi sono dipinte in verde e quelle israeliane, edificate oltre la frontiera del 1967, in azzurro. L'effetto visivo è più efficace di una qualsiasi arringa giudiziaria. Le macchie azzurre s'insinuano tra le zone verdi e hanno già frantumato la continuità del territorio palestinese. Gli insediamenti sono spesso relativamente piccoli, ma bastano a giustificare la presenza delle forze di sicurezza israeliane, le barriere di protezione e i posti di blocco.
I coloni ebrei, intanto, si rafforzano, consolidano la loro presenza e hanno ottenuto, tra l'altro, una sorta di monopolio archeologico per gli scavi della zona in cui si sono installati. Se ne servono per valorizzare le tracce della presenza giudaica e stanno trasformando la terra (sono parole di Seidemann) in una sorta di «parco biblico». Da un grande belvedere che si affaccia su un fianco del monte Scopus la mia guida mi indica un antico cimitero giudaico costruito alla base della collina. Ma quando alziamo lo sguardo verso Gerusalemme, al di là della valle e delle mura, i nostri occhi vedono la cupola dorata della grande moschea, il quartiere del Santo Sepolcro, la cattedrale luterana voluta dall'imperatore Guglielmo di Germania durante il suo viaggio in Palestina nel 1898 e, sotto di noi, un piccolo convento francescano oscurato da un pilone dell'energia elettrica che sarebbe stato meglio costruire altrove. Il sionismo di Seidemann non gli impedisce di constatare che Gerusalemme è una società per azioni di cui sono comproprietari con quote diverse, insieme agli ebrei, i musulmani, i cattolici, gli ortodossi, gli armeni, i copti, i luterani, gli anglicani. La soluzione migliore, per l'amministrazione del condominio, sarebbe quella del «corpo separato» fra due entità statali, previsto dalla risoluzione dell'Onu del 1947. Ma «i fatti sul terreno», come vengono qui definiti gli insediamenti, rende tale prospettiva sempre più improbabile.
È almeno possibile sperare che su questa terra sorgano domani due Stati? Seidemann non ha ancora perso interamente il suo ottimismo e crede che in un clima di buona volontà sarebbe possibile correggere lo stato delle cose nella terra al di là e al di qua della linea verde. Ma apre la sua mappa e punta il dito su una grande rettangolo irregolare, tratteggiato in grigio e chiamato E1, che rappresenta un progetto non ancora definitivamente approvato. Con una metafora efficace dice che i piccoli insediamenti hanno fatto aumentare la pressione sanguigna del malato, la realizzazione di E1 equivarrebbe a un infarto. Può esistere uno Stato palestinese in cui la capitale sarebbe separata dal resto del suo territorio? È lecito immaginare un presidente che può muoversi attraverso il suo Paese soltanto attraverso un percorso costellato da posti di blocco, muri e barriere?
I posti di blocco non servono soltanto a controllare il movimento dei palestinesi. Servono anche a impedire che gli israeliani entrino nelle zone amministrate dall'Autorità palestinese. Per molti anni gli uni e gli altri si sono mossi con una certa libertà da un'area all'altra, e i secondi, in particolare, sono stati una parte considerevole della forza-lavoro dell'economia israeliana. Oggi, dopo la seconda Intifada, si vuole che ciascuno dei due gruppi viva a casa propria e frequenti soltanto la propria gente. Se un israeliano ha conservato, insieme alla cittadinanza d'Israele, quella del Paese da cui proveniva e ha buoni motivi per andare a Ramallah, sede dell'Autorità palestinese, si servirà del suo vecchio passaporto. Se ne ha soltanto uno dovrà probabilmente rinunciare. Questa separatezza ha avuto effetti economici e sociali. Nel suo ufficio di Tel Aviv, Aluf Benn, direttore di Haaretz (un quotidiano liberale), mi dice che i palestinesi, ormai usciti in gran parte dal mercato del lavoro israeliano, sono stati sostituiti con immigrati provenienti dall'Europa e dall'Asia: romeni o bulgari per l'edilizia, filippini per i lavori domestici e l'assistenza alle persone, lavoratori del sub-continente indiano e del sud-est asiatico per gli altri mestieri di una economia che si è prodigiosamente sviluppata soprattutto nell'informatica e nelle nuove tecnologie. È accaduto anche negli Stati Uniti e in Europa, ma con una importante differenza. Israele non può assorbire e integrare questi immigrati senza rinunciare alla sua identità nazional–religiosa e li tratta quindi con maggiore rigore di quanto non accadesse in Germania quando il miracolo tedesco richiese l'arrivo di un numero importante di Gastarbeiter (lavoratori ospiti). Mentre la Repubblica federale rinnovava i contratti di lavoro e i permessi di soggiorno, Israele ha fissato un limite, cinque anni, al di là del quale non intende andare. Niente preoccupa il governo israeliano quanto la prospettiva di un bambino filippino che impara l'ebraico e si sente, dopo il completamento degli studi, a casa propria. Tutto diventerebbe molto più semplice se l'economia israeliana potesse contare sui giovani cittadini di uno Stato palestinese che attribuisce grande importanza alla educazione e alla formazione. Ma i palestinesi sono inutilizzabili per ragioni politiche e i Gastarbeiter non possono restare più di cinque anni. I secondi sapevano, prima di partire, quale sarebbe stata la politica del governo israeliano nei loro confronti e non hanno il diritto di lamentarsi. I primi, invece, non hanno rinunciato a un obiettivo che sembrava, qualche anno fa, a portata di mano: la costituzione di uno Stato palestinese. Ne esistono ancora le condizioni? Con quali argomenti e strumenti l'Autorità palestinese spera ancora di raggiungere questo obiettivo? L'ho chiesto ai miei interlocutori palestinesi durante un viaggio a Ramallah e ne parlerò in un prossimo articolo.
(1/continua)

Corriere 7.6.12
Via libera a nuovi insediamenti


GERUSALEMME — Il premier Benjamin Netanyahu ha ordinato ieri la costruzione di 300 nuove unità abitative nella colonia israeliana di Beit El e poche ore dopo di altre 551 unità in altre colonie in Cisgiordania. Una mossa intesa a placare la rabbia dei coloni per la rimozione, ordinata dall'Alta Corte di Giustizia, di 5 palazzine nell'insediamento di Ulpana perché costruite su un terreno di proprietà palestinese. Un deputato nazionalista ha presentato una legge per aggirare la sentenza, ma Netanyahu l'ha affondata col sostegno di 69 deputati, contro 22, dicendo che avrebbe provocato critiche internazionali. Ha presentato un piano alternativo, che prevede lo spostamento delle case di Ulpana a Beit El. I palestinesi hanno condannato il piano di ampliare l'insediamento.

Corriere 7.6.12
Nuova strage in Siria «Donne e bambini uccisi casa per casa»
L'opposizione denuncia: cento morti


A meno di due settimane dalla strage di Hula, un altro massacro viene alla luce in Siria, stavolta poco più a nord, nella provincia di Hama. Sarebbero almeno 86 i cadaveri ritrovati, 100 secondo altre fonti, tra cui 20 donne e 20 bambini. A dare la notizia ieri notte sono stati i Comitati di coordinamento locale, la rete di attivisti che organizza le proteste sul campo in Siria. Secondo la prima ricostruzione — per il momento impossibile da verificare alla stampa estera — la nuova strage ricorderebbe da vicino quella del 25 maggio a Hula, in provincia di Homs (108 morti tra cui 49 bambini). Prima i due villaggi di Qubeir e Maarzaf sarebbero stati martellati dall'artiglieria dell'esercito. Poi sarebbero intervenute milizie irregolari del regime note con il nome di shabiha (che significa «i fantasmi»): passando casa per casa, avrebbero finito i sopravvissuti a colpi di coltello e di pistola. La maggior parte delle vittime — almeno 78 — sarebbero state trovate nel villaggio di Qubeir, 20 chilometri a ovest di Hama: 35 di esse apparterrebbero alla stessa famiglia, e 12 cadaveri sarebbero stati dati alle fiamme. Qubeir conterebbe un totale di 150 abitanti, secondo il corrispondente della Cnn: se i numeri della strage fossero veri, sarebbe stata sterminata gran parte della popolazione del piccolo centro.
Il precedente è inquietante: Hama è la città dove trent'anni fa Hafez Assad, il padre dell'attuale presidente Bashar Assad, represse una rivolta lanciata dalla Fratellanza musulmana: non si sa tuttora quanti furono i morti, le stime vanno dai 7 mila ai 40 mila. Mohammed Sermini, portavoce del Consiglio nazionale siriano, il principale gruppo di opposizione con sede all'estero, ha chiesto agli osservatori Onu presenti nel Paese di recarsi immediatamente nella zona della strage. «Se la loro missione consiste nel guardare i siriani morire durante le violazioni del cessate il fuoco, anziché contribuire a impedire le violazioni, allora non vogliamo il loro aiuto», ha commentato l'Osservatorio siriano sui diritti umani. Il massacro avviene alla vigilia di un nuovo rapporto dell'inviato Onu Kofi Annan all'Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla tregua da lui negoziata con regime e ribelli ad aprile, ma mai rispettata. Secondo fonti diplomatiche citate dai quotidiani Le Monde e Washington Post, Annan dovrebbe presentare oggi al Consiglio di Sicurezza una nuova proposta per tentare di salvare il suo piano di pace: si punterebbe alla creazione di un «gruppo di contatto» che riunisca Usa, Francia, Gran Bretagna, Russia, Cina, insieme ai principali attori regionali che hanno influenza sul governo di Damasco o sull'opposizione, come Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Iran. Ad una iniziale proposta russa di includere l'Iran nei colloqui, ieri il segretario di Stato Usa Hillary Clinton aveva risposto freddamente («difficile immaginare di invitare un Paese che sta aiutando Assad ad attaccare il suo popolo»), precisando però di voler parlare con Annan prima di decidere. Anche i ministri degli Esteri di Italia, Francia e Gran Bretagna si sono detti scettici. L'obiettivo ribadito in serata da Washington è quello di convincere gli alleati di Damasco, prima fra tutti la Russia, ad appoggiare una «transizione politica» che conduca Assad a farsi da parte. Un diplomatico avrebbe detto all'editorialista del Washington Post David Ignatius che, se il gruppo di contatto proposto da Annan dovesse accettare la transizione, «Assad presumibilmente partirebbe per la Russia, che si dice gli abbia offerto asilo». Fino a ieri poco faceva immaginare che una soluzione fosse vicina: i ribelli da lunedì hanno ripreso a combattere, dicendosi non più vincolati dalla tregua; e il presidente Assad ha nominato un premier a lui fedele, Riad Farid Hijab, tra le critiche di America e Francia. Il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi lancia l'allarme: «In Siria si rischia il genocidio se non si interviene immediatamente».
Viviana Mazza

Repubblica 7.6.12
Pechino ammette per la prima volta di aver pronte misure per evitare ripercussioni sulla sua crescita economica
Il rischio crac della Grecia spaventa la Cina un piano di emergenza per reggere il colpo
La crisi europea potrebbe dissanguare i principali clienti del Dragone
di Giampaolo Visetti


PECHINO - La Grecia spaventa anche la Cina: ma dietro ad Atene, Pechino vede profilarsi l´ombra di Usa e Giappone. La seconda economia del mondo, dopo giorni di smentite, ha ammesso che sta preparando un piano d´emergenza per assorbire l´uscita dalla zona euro della Grecia. A spaventare il Dragone non è però solo la crisi della Ue e il possibile default greco: pesa prima di tutto «l´effetto a catena», il contagio, che dall´Europa comincia ad arrivare negli Stati Uniti, a Tokyo e in tutta l´Asia. Di questo hanno discusso ieri al telefono il responsabile dell´Economia cinese Wang Qishan e il segretario al Tesoro americano Timothy Geithner, decisi ad unire le forze delle prime due economie del pianeta per fare pressing su Bruxelles, Francoforte e Berlino. Colloquio tanto più importante, nonostante il momento nero delle relazioni politiche tra le due sponde del Pacifico, perché successivo all´incontro del presidente Hu Jintao e del premier Wen Jiabao con il leader russo Vladimir Putin, nella capitale cinese per il vertice tra i Paesi asiatici e per sancire l´asse energetico Mosca-Pechino. L´annuncio shock del «piano B» cinese, per resistere ad un euro senza Atene, è stato dato dalla Commissione nazionale per lo sviluppo. «Stiamo lavorando - ha detto il direttore Wang Haifeng - allo scenario peggiore di una Grecia fuori dall´euro entro fine anno». I media di Stato hanno definito le conseguenze «pesanti e imprevedibili». Nei mesi scorsi Pechino è corsa in aiuto di Atene, tentando di prevenire il disastro. Ha acquistato il porto del Pireo e prestato montagne di yuan per salvare banche e imprese. Le elezioni del 17 giugno sono considerate l´ultimo appello anche in Oriente: se il voto greco non contribuirà ad allontanare l´euro dal baratro, la Cina varerà «piani straordinari di salvataggio» ben più consistenti dell´annunciato «stimolo alla crescita». Per Pechino l´euro vale il 20% delle riserve in valuta straniera e la Ue è il primo partner commerciale.
Fino ad oggi la crisi dei debiti sovrani, con lo stop alla crescita, ha causato la frenata dell´export cinese e il raffreddamento del Pil, che nel 2012 non supererà il più 8%. Una zona euro amputata, prima la Grecia, poi magari non solo la Spagna, secondo Pechino potrebbe accelerare un´altra stretta del credito, il default dei fondi sovrani e la svalutazione della moneta unica. Wang Qishan e Geithner hanno così convenuto ieri che una Ue senza prospettive di crescita stopperebbe la fragile ripresa Usa e affonderebbe il Giappone, dissaguando i primi partner d´affari della Cina dopo l´Europa. Anche per Pechino però l´effetto sarebbe peggiore del crac Lehman Brothers del 2008: la banche cinesi dovrebbero aprire i rubinetti e riaccumulare debiti, il governo sarebbe costretto a rivedere il pacchetto salva-Stato e lo yuan subirebbe un pericoloso apprezzamento.
«La Grecia è un pesce piccolo - ha commentato il Quotidiano del Popolo - ma se manca può far morire di fame la balena». Pechino teme che uno yuan rafforzato su euro, dollaro e yen, indotto da una zona euro in asfissia, sia il virus più pericoloso per la sua economia fondata sull´export, capace di moltiplicare poi «l´effetto-rimbalzo della crisi in Occidente». L´esposizione cinese con la Grecia è limitata, ma veder fallire il tentativo di salvataggio induce scetticismo su operazioni in altri Paesi Ue, Italia compresa, ed espone il governo di Pechino a critiche interne senza precedenti. Mercati e grandi gruppi privati accusano il partito di aver buttato soldi all´estero, come in Portogallo e in Spagna, invece di concentrarsi sull´espansione dei consumi interni. Anche Hong Kong si prepara all´uscita greca dall´euro: e le Borse asiatiche, alla ricerca di capitali, già scommettono «su un rapido deterioramento del contesto macroeconomico scatenato da Atene».

l’Unità 7.6.12
Il Quaderno fantasma
Giallo Gramsci, sì all’inchiesta
L’equipe di esperti sarà guidata da Gianni Francioni
La sfida di Franco Lo Piparo: un gruppo di lavoro per accertare se manca un fascicolo
Oggi sarà resa pubblica la risposta positiva della Fondazione Gramsci
di Bruno Gravagnuolo


UNA COMMISSIONE PER FARE LUCE SU UN QUADERNO «SCOMPARSO». IPOTETICAMENTE VERGATO DA ANTONIO GRAMSCI. E il «giallo» continua. Riassunto delle puntate precedenti: davvero manca uno dei Quaderni del carcere? Talché quelli teorici erano 30 e non 29? È questa la tesi di Franco Lo Piparo, studioso di Gramsci e di linguistica, che l’aveva delineata, tra le altre cose, nel suo I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, 2012). Oggi Lo Piparo, che già aveva duellato su l’Unità con Gianni Francioni a riguardo replicando ai suoi rilievi (2/2 e 2/5/2012) riprende la questione e rilancia. Con un nuovo «indizio» sul quaderno «rubato» o scomparso, esibendolo sul Corriere della Sera. Di che si tratta? Di una discrasia calligrafica tra la mano di Tatiana Schucht e quella di una mano altra e misteriosa. Vale a dire: la dicitura in lettere romane, apposta in etichetta da Tania ai quaderni XXXI-XXIII, non collima grafologicamente con la scrittura delle altre etichette apposte da Tatiana, la quale, tra molte confusioni ed errori, si era occupata della classificazione dei singoli quaderni. E c’è tanto di esperto a confermarlo: il professor Pietro Pastena, consulente di vari uffici giudiziari.
Dunque grafia diversa come indizio, proprio su una delle piccole etichette ottagonali a numeri romani che la cognata di Gramsci appose ai fascicoli all’indomani della morte del prigioniero, verso la metà di giugno 1937, e prima di inoltrarli a Mosca. E grafia diversa proprio in corrispondenza di un presunto Quaderno XXXII (mancante) che nell’ipotesi di Lo Piparo potrebbe contenere le prove di una fuoriuscita di Gramsci dal comunismo al liberalismo (o alla socialdemocrazia?). Va da sé, per inciso, che sarebbe stato Togliatti a nascondere il Quaderno «eretico», visto che fu Ercoli a voler gestire in prima persona il lascito gramsciano. Malgrado come è noto il prigioniero volesse affidarlo non a lui ma a Piero Sraffa.
Lo Piparo chiede quindi ufficialmente a Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci e tra i massimi studiosi gramsciani, l’istituzione di un gruppo di lavoro. Presieduto dall’«antagonista» Gianni Francioni, storico della filosofia e artefice massimo della nuova edizione critica nazionale dei Quaderni, quella non più «cronologica» ma basata su criteri logici e neo-filologici. Vacca, a nome del «Gramsci» risponde positivamente. Ringrazia. E accoglie con piacere la sfida di Lo Piparo: la commissione si farà. Sarà autorizzata ad esaminare de visu e materialmente sui manoscritti originali la congruenza filologica dell’ipotesi di Lo Piparo, eventuali mancanze, anomalie grafologiche ed altro. Al fine di appurare una volta per tutte l’esistenza o meno di quel quaderno fantasma. Un’iniziativa senza precedenti, con al vertice Francioni, che ha subito accolto con piacere la «nomina» giratagli da Vacca in guisa di proposta. E al suo fianco agiranno inoltre Giuseppe Cospito e Fabio Frosini, studiosi e collaboratori di Francioni, nella nuova edizione nazionale. Nonché, dulcis in fundo, come giudici a latere Luciano Canfora e lo stesso Lo Piparo. Dunque, l’istruttoria sta per cominciare e la notizia verrà data ufficialmente nel pomeriggio di oggi. Alla Biblioteca del Senato Giovanni Spadolini in Roma, nel corso della presentazione dell’ultimo libro di Giuseppe Vacca (Vita e pensieri di Antonio Gramsci, Einaudi), libro che entra nel vivo delle questioni evocate da Lo Piparo. Alla quale parteciperanno Anna Finocchiaro, Roberto Gualtieri, Pierluigi Castagnetti e Massimo D’Alema. Sicché non resta che aspettare il dibattimento. Che prima di produrre risultati dovrà passare attraverso un confronto serrato, con le armi della filogia più agguerrita e della storia indiziaria.
Ma prima di allora, e per seguire, meglio il match, ecco ancora un paio di ragguagli. Ecco il primo. Attualmente i Quaderni di Gramsci, custoditi in banca ma passibili di consultazione fisica e non al monitor o in anastatica (come chiede Lo Piparo) sono 36. Ventinove sono quelli teorici, quattro quelli di traduzione, e due quelli non compilati (il 17 bis e 17 ter). Più l’indice avviato da Tatiana Schucht. Più volte s’è letto e detto che erano trenta, escludendo però l’indice, i due vuoti e i quattro di traduzione. Infine, per Lo Piparo nel dicembre 1932, tramite un «messaggio» alla moglie Julia via Tania, Gramsci avrebbe inteso chiedere a Stalin di farlo scarcerare dal fascismo. Perché tanto lui non era più comunista, bensì liberale. Francamente implausibile, e di là di ogni scoop filologico.
Oggi a Roma il libro di Beppe Vacca, spunti per una discussione
L’arresto, la reclusione. E la «famigerata» lettera di Grieco del 1928, dopo il dissenso con Togliatti del 1926. Poi: l’idea di Gramsci di aver subìto la condanna di un tribunale più vasto di quello fascista. Fino ai tentativi di liberazione, alla morte e al destino dei Quaderni. Sono i nodi dell’ultimo libro di Giuseppe Vacca: Vita e pensiero di Antonio Gramsci. 1926-1937 (Einaudi). Se ne discute oggi a Roma alle 16,30, alla Biblioteca del Senato con Anna Finocchiaro, Roberto Gualtieri, Pierluigi Castagnetti, Massimo D’Alema. Modera il direttore de l’Unità Claudio Sardo

Repubblica 7.6.12
Le lettere di Martinetti che non prestò giuramento al fascismo
Vita da filosofo contro il regime
Mussolini chiese il suo esonero e lo definì un "filosofante"
di Adriano Prosperi


Documento di un´epoca e di un protagonista della cultura e della vita civile italiana, queste Lettere 1919-1942 di Piero Martinetti raccolte e curate da Pier Giorgio Zunino con la collaborazione di Giulia Beltrametti (Olschki) offrono un´occasione importante di accostarci a un personaggio straordinario, uno dei più rari e preziosi maestri italiani di vita e di pensiero che il ´900 ci abbia regalato.
Di Piero Martinetti pochi sanno qualcosa di più oltre al fatto dell´essere stato l´unico filosofo universitario italiano che si sia rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al fascismo. Quella scelta che lo fece decadere dalla cattedra dell´università di Milano fu l´esito naturale di un percorso di ferrea coerenza morale e intellettuale. Per Piero Martinetti l´insegnamento di filosofia teoretica e morale fu l´impegno di una vita. Le lettere permettono di ritrovarne la cifra umana più profonda, quella che si rivelava nei contatti personali: si pensi per esempio al senso doloroso dell´inadeguatezza della propria opera che ogni elogio e apprezzamento stimolava in lui.
Qui i curatori ricompongono quello che rimane delle sue lettere, pubblicandone molte tuttora inedite, integrando e correggendo sugli originali quelle già note, indicando le lacune per ora non colmate, precisandone e contestualizzandone le circostanze. Citiamo a titolo d´esempio la lettera del dicembre 1937 a Guido Cagnola, dove Piero Martinetti ragiona sul suo appartarsi dal mondo e prepararsi alla morte come ad un passaggio, una metamorfosi del "principio che vive in noi". Quanto ingiusta risulta così la polemica clericale sulle sue esequie laiche e sulla scelta di far cremare le sue spoglie, condannata allora come segno di ateismo. Ma quello fu l´epilogo postumo della guerra senza quartiere che oppose Martinetti alle autorità del regime clericofascista e che conobbe episodi clamorosi. Agli scontri pubblici il filosofo non si sottrasse: non per un protagonismo che gli fu del tutto estraneo, ma per la convinzione che difendendo la sua indipendenza intellettuale, come ebbe a scrivere a Bernardino Varisco, si difendeva in realtà «uno degli interessi più vitali e più gelosi dello Stato».
Lo dimostrò nella battaglia intellettuale che lo vide impegnato nella Milano degli anni Venti contro il protervo caposcuola della neoscolastica, il convertito Padre Agostino Gemelli. Nello scontro allora in atto che aveva per posta la religione degli italiani, Gemelli capeggiava la restaurazione di un cattolicesimo di Stato e si confrontava con la religione dello Spirito di Croce e di Gentile ma più ancora con quel solitario professore piemontese formatosi sullo studio di filosofie indiane e che andava pubblicando volumi e saggi su argomenti che il battagliero francescano riteneva monopolio cattolico: la metafisica, le dottrine cristiane, i rapporti fra morale e teologia. Il conflitto esplose in occasione del congresso di filosofia organizzato da Martinetti a Milano nel 1926: un congresso preceduto dalla denunzia di un sicario al rettore e seguito dall´intervento pubblico ostile di Giovanni Gentile e da un telegramma di Mussolini che chiese l´esonero immediato dall´insegnamento del "filosofante". L´esonero non ci fu. Ma il regime regolò poi i conti con l´imposizione del giuramento di fedeltà a cui Martinetti si rifiutò: la Chiesa mise all´indice le opere nel 1937. Martinetti reagì alla condanna con una lettera inviata alla Congregazione dell´Indice, un´istituzione che a quella data non esisteva più, poi con una seconda versione della stessa mandata alla direzione dell´Osservatore Romano: questa seconda versione, rintracciata nell´Archivio Vaticano della Congregazione per la dottrina della fede, compare qui per la prima volta e offre a Zunino l´occasione di una precisa messa a punto dei dati documentari e del contesto di tutta la questione. E si può così con migliore conoscenza di causa rileggere questa testimonianza dello stile e dei convincimenti profondi di Martinetti. L´uomo aveva presentato le sue credenziali filosofiche dichiarando fin dal 1909 che, se dopo Kant «nessun filosofo serio può non essere in Etica "kantiano", dopo il Cristianesimo non è possibile non essere in qualche modo cristiano» (un suggerimento che Croce non dimenticò). Ora, giunto all´appuntamento finale con un´autorità ecclesiastica vittoriosa e vendicativa, dichiarava di aver scritto contro la Chiesa con un «segreto senso di dolore». In quella Chiesa – così Martinetti – «vi sono tante cose che ammiro e che amo». E si dichiarava pronto a ritrattare le sue accuse se e quando avesse visto il capo di quella Chiesa non benedire più le bandiere di guerre fratricide e vietare «a tutti i fedeli di seguire i comandamenti del demonio». Questo non gli fu dato. Ma la sua testimonianza era destinata a restare. Essa si stacca dal grigiore del chiacchiericcio di religione allora diffuso come la cima solitaria di una grande pianta.

Corriere 7.6.12
L’enorme sommerso che ancora c’è
Donne che denunciano Ma che succede dopo?
Forze dell'ordine, medici, avvocati I racconti, le lotte, gli errori di chi sta in trincea


«La pazienza è la nostra fatica quotidiana. Ci sono donne che tornano continuamente sui loro passi, con scuse incredibili. Decidono mille volte di riprovarci e altrettante di ripresentarsi al centro. Dopo quasi vent'anni io faccio ancora fatica a capire. Io mi arrabbio. Ma le operatrici per fortuna sono meravigliosamente tolleranti e sagge. Ogni volta accolgono come fosse la prima. La nostra porta è sempre aperta»
Alessandra Kustermann conosce le parole per dirlo e le trappole dell'animo femminile. Le delusioni non hanno impedito a questo medico-istituzione per Milano di continuare a credere nelle donne. «Il grande allarme è nella coppia, lo leggiamo purtroppo ogni giorno», dice Kustermann, primario di ginecologia e ostetricia della Mangiagalli che nel 1996 ha fondato il Soccorso Violenza Sessuale, struttura diventata nel tempo piattaforma degli aiuti contro tutte le violenze: «È necessario far emergere l'enorme sommerso che ancora c'è, mettere in sicurezza le famiglie, per salvare la vita alle donne e proteggere quella dei bambini».
Far fronte all'emergenza silenziosa richiede investimenti, professionalità, grande organizzazione. Quanto sono preparati gli operatori a questo compito? Di sicuro molto più di un decennio fa, assicurano poliziotti, carabinieri, agenti municipali, avvocati, magistrati, medici e psicologi. Tutti, proprio tutti, concordano: la parola d'ordine è formazione, tema lasciato troppo a lungo all'iniziativa personale o alla buona volontà di singoli dirigenti.
Prendi Torino. La comandante vicaria per la sicurezza urbana Paola Loiacono ha colto al volo la possibilità di avere soldi da un bando pubblico e, a ottobre dell'anno scorso, si è inventata il progetto «Care and investigation». Un protocollo che aiuta, tra gli altri, carabinieri e polizia ad accogliere e trattare nel modo corretto la vittima di violenza. «Porti la divisa e si presenta davanti a te una donna che afferma di essere stata minacciata, picchiata, maltrattata, perseguitata? Il protocollo ti accompagna in quello che devi dire e non dire, quello che devi fare oppure no — racconta Loiacono — le fonti di prova vanno acquisite, come scrivere il verbale, come qualificare il reato. Magistrati e avvocati hanno dato una mano sul fronte giuridico e un criminologo ha tenuto lezioni sulla gestione e ricomposizione dei conflitti».
«Quando si richiede l'intervento del questore o di un magistrato è fondamentale presentare una richiesta il più possibile documentata» spiega l'avvocatessa Francesca Garisto, da una vita consulente della Casa delle donne maltrattate e dello sportello donne della Cgil di Milano. «Chi si occupa di queste vicende lo sa bene: l'aiuto è più efficace e accorci di molto i tempi se tu, avvocato, fai una parte del lavoro, cioè raccogli testimonianze, metti assieme eventuali sms, email, referti medici, vai a cercare se l'uomo in questione ha precedenti, sentenze di condanna specifiche… E comunque capita sempre più spesso di trovarsi davanti a persone preparate, soprattutto fra le forze dell'ordine anche se la materia della formazione è tutt'altro che strutturata e la violenza sulle donne è una piaga sempre più aperta». Nella caserma torinese della vigilanza urbana è stata allestita una saletta per le audizioni protette: «Era doveroso rendere più sereno il clima intorno a chi ha già dovuto patire abbastanza».
Capita, per esempio, di imbattersi in uno dei cinquemila carabinieri (quasi tutti sottufficiali, comandanti di piccole stazioni) che hanno seguito il corso di formazione sullo stalking e sull'approccio alla vittima vulnerabile. «Un'operazione a tappeto che l'Arma ha organizzato a partire dal 2009, che è servita a una formazione e a una sensibilizzazione di base e sulla quale stiamo facendo aggiornamenti continui» conferma il maggiore Anna Bonifazi, sezione di psicologia investigativa del reparto analisi criminologica di Roma, una delle insegnanti del corso assieme al tenente Francesca Lauria, sezione atti persecutori dello stesso Reparto.
La polizia ha in ognuna delle sue squadre mobili un team che si occupa della violenza contro le donne. A Milano il vicequestore aggiunto Alessandra Simone, dirigente della sezione reati contro la persona, ha imparato che preparazione e tempestività sono metà del lavoro. Dice che sono aumentale le denunce per la violenza in famiglia e che «le vittime vanno sempre comprese mai compatite» e che ha notato una differenza enorme fra le donne vittime di stalking, «determinate a chiudere la relazione» e quelle che subiscono maltrattamenti in famiglia, «che invece sono più tormentate e spesso ci ripensano, ritirano la querela».
Infine ci sono i presidi medici. Ma cosa succede a una donna quando arriva al pronto soccorso? Se il Codice rosa è già procedura avviata in Toscana, nei grandi ospedali del centro-nord l'attenzione è massima ormai da tempo. «Quando arriva una donna con strane botte e ferite affermando di essere caduta dalle scale scatta subito l'allerta — racconta ancora Kustermann —. Sul tema è stata fatta una formazione specifica ai colleghi del pronto soccorso. Spesso queste donne sono accompagnate da uomini appiccicosi, enfaticamente premurosi, che non mollano un attimo la paziente e pretendono di parlare loro con i medici. Gli accompagnatori in questione vengono allontanati con un escamotage e nella stanza viene fatta entrare una psicologa. Accertati i fatti, viene offerto il percorso, l'aiuto logistico e legale. La denuncia non è obbligatoria per accedere ai servizi, è importante saperlo. Ma ancora più importante è sapere che dal quel momento non si è più sole».

Corriere 7.6.12
Per Epitteto la morale si fonda su una scelta
La pace interiore è il segreto della felicità
di Stefano Gattei


«Libero è chi vive come vuole», scrive Epitteto. Sono parole che acquistano un significato ancora più forte se consideriamo la vicenda personale del loro autore: figlio di schiavi, Epitteto viene portato a Roma dalla Frigia, e qui comprato da Epafrodito, un liberto che, da schiavo dell'imperatore Claudio, era riuscito a diventare il ricco e potente segretario di Nerone. Al suo servizio, Epitteto ha modo di frequentare le lezioni di Gaio Musonio Rufo, il più celebre filosofo stoico del tempo, e una volta sciolto dal vincolo della schiavitù testimonia, con rigore e intransigenza, la sua profonda convinzione che solo la filosofia stoica può indicare la via da seguire per conquistare la libertà interiore.
La Stoà sostituisce all'ideale del cittadino l'idea dell'umanità: gli stoici non suddividono infatti gli uomini in elleni o barbari, in liberi o schiavi, ma adottano come unico criterio di valutazione il comportamento morale. Il motto di Epitteto non era che una definizione, ma egli la reinterpreta in senso squisitamente etico: non è la nascita a decidere la libertà di un uomo, ma la sua condotta, il suo sentire più profondo. «Io sono libero — prosegue — perché in ciò che penso e sento nessun padrone, nessun imperatore può in alcun modo interferire». Da nozione giuridica, col compito di fissare la posizione dell'uomo all'interno dell'ordinamento sociale, la libertà diventa un atteggiamento e una disposizione interiore — non più privilegio del cittadino, dunque, ma diritto primario di ogni uomo, bene che ciascuno può conquistare con le proprie forze, indipendentemente dalla propria condizione.
Se la base dell'etica stoica è la distinzione tra «beni» (morali), «mali» (i loro contrari) e «indifferenti» (tutto ciò che concerne il corpo e le cose esterne), in apertura del Manuale Epitteto distingue due grandi classi: le cose che sono in nostro potere e quelle che non lo sono. Il bene e il male appartengono esclusivamente alla prima classe, poiché solo le cose in nostro potere dipendono dalla nostra volontà. Non c'è più posto per compromessi con ciò che è «indifferente»: la scelta è più radicale, poiché le due classi di cose non possono essere perseguite insieme. L'esercizio della filosofia coincide con l'attività stessa dello scegliere: pratica della ragione e supremo valore morale, si allinea alla scelta socratica opponendosi diametralmente a quella epicurea (la felicità non consiste nel piacere individuale, ma nell'esigenza del bene, dettata dalla ragione) e a quella platonica (la felicità, ossia il bene morale, deve essere accessibile a tutti). Il nucleo della morale di Epitteto è una decisione di fondo, che precede tutte le altre e dalla quale esse dipendono — la decisione (prohairesis, ovvero «pre-scelta») con cui ogni uomo determina, una volta per tutte, la cifra del proprio essere morale: «Un coerente, immutabile atteggiamento dello spirito in ogni occasione della vita pratica» (Max Pohlenz).
L'uomo è condizionato dal proprio destino e dunque, apparentemente, non può essere libero. Una necessità inesorabile, indifferente alle nostre esigenze e ai nostri interessi, sembra lasciarci in balia degli eventi, soggetti senza difese ai rovesci della fortuna: «Il destino guida chi si piega a esso e trascina chi vi oppone resistenza», ammoniva Seneca, contemporaneo di Epitteto e seguace dello stoicismo nel mondo romano. Da qui l'infelicità dell'uomo, che si affanna nella ricerca di beni che non può ottenere, o nel tentativo di fuggire mali che non può evitare. Una cosa sola dipende esclusivamente da noi: la volontà di fare il bene, di agire conformemente alla ragione. Tale volontà costituisce, nelle parole di Pierre Hadot a proposito dei Pensieri di un altro grande stoico, l'imperatore-filosofo Marco Aurelio, l'inespugnabile «cittadella interiore» che ognuno di noi può edificare dentro di sé. Lì — come testimonia anche Giacomo Leopardi, che traduce il Manuale per diffonderne il più possibile i precetti, dopo averli intimamente condivisi — troverà la libertà, l'indipendenza e il valore che più di ogni altro caratterizza l'etica stoica, la coerenza con se stessi. «Anito e Meleto possono uccidermi — diceva Socrate — ma non possono farmi del male»: solo noi siamo padroni della nostra vita interiore e nessun colpo del destino può compromettere l'intimo equilibrio del saggio. Chi riesce a rifugiarsi nella propria interiorità vive come vuole e riesce così, lui solo, a essere veramente libero.

Corriere 7.6.12
Che guaio desiderare troppo


Il Manuale del filosofo Epitteto, ventinovesimo volume della collana in edicola con il «Corriere della Sera», è pubblicato con la prefazione inedita di Armando Torno, che illustra i contenuti di quest'opera dalla fortuna stabile nei secoli, amata anche da Giacomo Leopardi.
Filosofo di origine greca, poi schiavo a Roma e in seguito liberato, Epitteto compone nel suo testo un prontuario di comportamento per il saggio, in cui, come spiega Torno, «raccomanda di comportarsi nella vita come a un banchetto», e cioè di «allungare la mano e prendere educatamente una porzione» oppure di «attendere, senza scomporsi». È la filosofia stoica, non priva di venature del pensiero cinico, fa notare il prefatore: applicando la regola filosofica nella vita di tutti i giorni, tra affetti, cariche o ricchezza, «il segreto sta nel combinare azioni e bisogni, nella preferibile astensione, nel godimento di quel che capita con soddisfazione incommossa». La felicità infatti non consiste nell'avere molto, bensì nel non desiderare troppo, poiché risiede nella libertà. (i.b.)

Corriere 7.6.12
L'autoironia di Orazio epicureo indulgente
Nelle «Satire» confessa tutti i suoi difetti
di Mario Andrea Rigoni


I l maggior poeta lirico della latinità, Quinto Orazio Flacco, nato a Venosa nel 65 e morto a Roma nell'8 a.C., oltre alle sue celeberrime Odi ed Epistole, scrisse due libri di Satire (il I, dedicato a Mecenate, ne contiene dieci, il II otto), che si intitolano Sermones perché sono un genere in versi (nel suo caso esametri), ma vicino alla prosa, agli argomenti e al tono della comune conversazione. Esse rappresentano (insieme agli Epodi o Giambi) l'esordio poetico di Orazio e sono anche la sua opera più letta nel Medioevo, per la quale egli è ricordato da Dante nella Divina Commedia subito dopo Omero («Mira colui con quella spada in mano, / che vien dinanzi ai tre sì come sire:/ quelli è Omero poeta sovrano;/l'altro è Orazio satiro che vene»).
Assente nella tradizione greca, la satira era un genere tipicamente romano: Orazio (I, 4) riconosce a Lucilio il merito di averlo fondato, di essere arguto e di avere naso fino, benché gli rimproveri un'abbondanza fangosa dalla quale egli si vuole liberare nell'intento (quanto raccomandabile anche oggi, vista la massa di grafomani dai quali siamo circondati) di scrivere poco e bene.
Orazio (I, 10) confessa di essersi dedicato alla satira perché essa soltanto gli sembrava in grado di promettergli il successo, dato che era scarsamente praticata, ma è chiaro che le caratteristiche di questo genere (l'autobiografismo, la riflessione morale e sociale, la varietà tematica e aneddotica, la vivacità dialogica, lo stile sciolto e conciso) corrispondevano alle inclinazioni profonde del poeta: una di queste è l'ironia, che Orazio esercita meravigliosamente anche verso se stesso. Nella terza satira del II libro, dove sono elencati i vizi umani che i filosofi considerano pazzia senza rendersi conto quanto sono pazzi essi stessi, lo stoico Damasippo illustra e rimprovera a Orazio tutti i suoi difetti fisici e morali: scimmiotta i grandi, lui che è figlio di un liberto e anche basso di statura; vive al di sopra delle proprie possibilità; è terribilmente iracondo; perde la testa per ragazze e giovinetti. È in realtà un perfetto autoritratto, per il quale il poeta chiede indulgenza, in omaggio a quel principio del giusto mezzo che notoriamente costituisce il centro della sua morale epicurea.
Tale principio agisce in modo implicito o dichiarato in tante satire: nella prima del I libro, nella quale Orazio, parlando dell'eterna insoddisfazione degli uomini per la propria condizione, tratta con esempi e aneddoti dell'avarizia, concludendo con la proverbiale massima Est modus in rebus; nella seconda, dove mette in guardia dai guai dell'adulterio, consigliando di evitare le matrone non meno che le prostitute e di accontentarsi delle più agevoli liberte; nella terza, che predica l'indulgenza verso i vizi degli amici anche al fine di «non sancire una legge iniqua contro noi stessi» e ridicolizza la pretesa stoica che il saggio possieda al massimo grado non solo ogni virtù ma anche ogni capacità; nella seconda del II libro, che elogia i vantaggi della sobrietà a tavola.
L'autoritratto indiretto si completa nella settima satira del II libro, dove il poeta si fa impartire una lezione di morale dal suo schiavo Davo in occasione della festa dei Saturnali, la sola circostanza in cui i servi potevano trattare i padroni da pari e pari e godere di piena libertà di parola e di critica. Davo dimostra che Orazio non possiede nessuno dei requisiti di quella saggezza che pure egli professa, assimilando scherzosamente il dono delle Muse a una malattia mentale: «quest'uomo», dice lo schiavo, «o è pazzo o è poeta».
Non c'è forse poeta latino più classico e insieme più moderno di Orazio. Cultore e maestro dell'arte dello stile; modello di eleganza, insieme con Virgilio, «a tutti i secoli», come annotò Leopardi; osservatore sottile del costume, immerso nella vita quotidiana del suo tempo, che ritrae in immagini e massime immortali, ma assediato dal senso della caducità e volto alla ricerca della libertà interiore; incurante della folla e pago di pochi lettori, egli censura senza malignità i vizi degli altri, ma è sempre consapevole dei propri limiti e non osa neppure mettersi nel rango dei poeti (che lezione): «Anzitutto mi voglio togliere dal novero di quelli, cui concederei di chiamarsi poeti: né infatti fare un verso conchiuso diresti che sia sufficiente; né uno che scriva, come noi, più vicino alla prosa, tu lo riterresti poeta. Chi abbia del genio, chi un'ispirazione divina e una voce capace di suoni sublimi, a lui dà di questo nome l'onore» (I, 4).

Corriere 7.6.12
L'infinita varietà del mondo


Non aveva nemmeno trent'anni, il poeta latino Orazio, quando iniziò a comporre le Satire, proposte nella collana con la prefazione inedita di Roberto Galaverni. La «varietà» (cioè la satura appunto) spiega il prefatore, «rappresenta sia dal punto di vista espressivo sia da quello tematico l'elemento caratterizzante della poesia satirica». E così, varie sono le riflessioni, i dialoghi, le descrizioni di vizi e virtù, gli ammaestramenti etici che si trovano in quest'opera, in cui l'autore mette a frutto tra l'altro gli insegnamenti di filosofia ricevuti (per lo più di scuola epicurea). È l'opera in cui si trovano frasi passate alla storia, come «est modus in rebus», oppure «quest'uomo è pazzo o è poeta», e così via, e i ritratti di personaggi e situazioni rispecchiano la varietà, «l'imprevedibile spettacolo del mondo coi suoi tanti personaggi, caratteri e vivacissimi dialoghi».
Non per farne un'ironica caricatura, ma per ottenerne «un ulteriore movimento conoscitivo» facendo «dell'inquietudine, dell'incertezza, delle oscillazioni, della curiosità, la sua forza più grande». (i.b.)

Repubblica 7.6.12
Il Dna già nella pancia così sapremo il destino del bimbo che nascerà
Un supertest per 3000 malattie genetiche
di Elena Dusi


"Siamo certi di riuscire, con poco materiale, a ricostruire il puzzle genetico del figlio"
La ricerca viene portata avanti dalla University of Washington di Seattle
L´esame viene fatto con un prelievo di sangue escludendo i rischi di quelli tradizionali

LA LETTURA TOTALE DEL DNA - croce e delizia della medicina del nuovo millennio - si è applicata finora agli adulti. Da oggi invece anche un bimbo nell´utero potrà conoscere dalla prima all´ultima lettera quel che è scritto nel suo genoma. Genitori e medici sperano di ottenere informazioni sulla salute del feto e di escludere la presenza di circa tremila malattie di origine genetica. Ma l´aspetto paradossale di questi studi è che il bambino, ancor prima di nascere, si troverà a conoscere quali malattie potrebbero rischiare di farlo morire.
Dalla lettura completa del Dna infatti è possibile ricavare (anche se in maniera poco nitida per ora) informazioni sulla predisposizione a malattie cardiovascolari, tumori, disturbi neurologici. La ricerca che oggi viene portata avanti dalla University of Washington di Seattle sui bimbi in gestazione permetterà quindi di individuare non solo problemi come trisomie, anemia mediterranea, fibrosi cistica, sordità (possibile già oggi grazie all´analisi del liquido amniotico o dei villi coriali). Ma consentirà anche, per la prima volta, di ottenere la mappa totale del genoma dell´individuo che verrà.
Per conoscere il Dna completo di un feto non serve nemmeno arrivare dentro l´utero. Nel sangue di una donna in gestazione infatti sono stati scoperti nel 1997 i frammenti del Dna del figlio. Questi piccoli filamenti di materiale genetico riescono a uscire dalla placenta ed entrano in circolazione nel corpo della madre. Sono piccole tessere incomplete, e anziché essere confinati nel nucleo delle cellule (dove di solito il Dna si trova) questi piccoli tranci di cromosoma vagano liberi nel sangue. «Si tratta di frammenti, è vero. Ma sono tanti. E noi siamo certi di ricavare con un singolo prelievo di sangue una quantità di Dna sufficiente a mettere insieme l´intero puzzle del genoma del figlio» spiega Mario Ventura, il biologo dell´università di Bari che ha collaborato allo studio di Science Translational Medicine.
Le analisi del Dna fetale prelevato dal sangue della madre sono state usate in passato anche per esami molto più semplici della lettura completa del genoma. «Da circa un decennio - spiega Mario Campogrande, uno dei padri della diagnosi prenatale ed ex primario al Sant´Anna di Torino - si studia questa tecnica per individuare le trisomie 13, 18 e 21 o altre malattie genetiche specifiche di cui si sa che i genitori sono portatori. Ma l´esame non è mai passato dalla fase sperimentale alla pratica corrente, perché la sua affidabilità è bassa. È ancora difficile infatti distinguere il Dna fetale da quello della madre».
I ricercatori di Seattle hanno risolto l´impasse guardando al contributo del padre. Metà del Dna del figlio infatti arriva dallo spermatozoo. Se dall´analisi del materiale genetico del sangue si ottiene un mix della madre e del bimbo, dal confronto con l´uomo - e attraverso calcoli assai complicati - la differenza è emersa in maniera chiara. Il profilo genetico che è stato ottenuto a Seattle appartiene a un bimbo testato alla 18esima settimana di gestazione. Dopo la sua nascita, un frammento di Dna è stato sequenziato con le tecniche tradizionali e confrontato con quello elaborato durante la gravidanza. I due combaciavano in maniera molto precisa: al 98,1%. Ed è possibile che quando i costi scenderanno - attualmente la lettura completa del genoma costa attorno ai 10mila dollari - il sequenziamento del Dna del neonato diventi uno dei regali più gettonati per il nascituro. «Ma non facciamoci illusioni - mette in guardia Bruno Dallapiccola, genetista e direttore scientifico del Bambin Gesù di Roma - leggere le informazioni del Dna non vuol dire saperle interpretare. Abbiamo macchine di potenza incredibile, cui la nostra capacità di comprensione non riesce a stare dietro». Per Campogrande il nuovo test ha un vantaggio importante: «Basta un prelievo di sangue. Questo esclude il sia pur minimo rischio di aborto che si accompagna agli esami tradizionali. Ma avere a disposizione il Dna completo pone problemi etici del tutto nuovi».
Per il momento sono tremila le malattie genetiche note causate da una sola mutazione del Dna e quindi diagnosticabili con questa tecnica (più difficile è identificare i problemi causati da mutazioni contemporanee). «Ma ci aspettiamo - aggiunge Ventura - di scoprire grazie ai nuovi dati malattie di cui prima non sospettavamo l´esistenza».

Repubblica 7.6.12
Così allenare il cervello è diventato un business
di David z. Hambrick


In realtà quel che succede è che si diventa più bravi I rapidi progressi nelle capacità cognitive sono una grande illusione
Questa mania nasce dopo il 2008: uscì un articolo di un gruppo di psicologi che sosteneva il "brain training" come metodo
Stati Uniti ed Europa investono milioni in videogiochi e test per migliorare l´intelligenza. Ma spesso sono solo scorciatoie

Una tendenza sorprendente della cultura contemporanea è la ricerca di un rapido potenziamento delle capacità cognitive. Il concetto che sta dietro a molti video popolari e a molti giochi di "addestramento intellettivo" online è che eseguendo attività che rafforzano la memoria, l´attenzione e altri processi mentali, si può diventare più intelligenti. La Nintendo commercializza il suo videogioco Brain Age presentandolo come una "palestra per la mente". La Lumosity, che vanta 20 milioni di utenti, dice che i suoi giochi offrono «benefici cognitivi reali per individui di tutte le età». Il Cogmed, che è stato adottato dalle scuole americane e svedesi, aiuta chi lo usa a «sbloccare le capacità cognitive allenando il cervello». La rivista Forbes recentemente ha scritto che il potenziamento cognitivo è il prossimo «settore da mille miliardi di dollari». Le forze armate Usa stanno addirittura studiando la possibilità di usare il brain training per migliorare le capacità dei soldati.
Da dove nasce questa mania? Fino a poco tempo fa, quasi tutti gli psicologi erano del parere che l´intelligenza fosse, sostanzialmente, una caratteristica fissa e definita. Ma nel 2008 l´articolo di un gruppo di ricercatori guidati da Susanne Jaeggi e Martin Buschkuehl ha messo in discussione questa teoria e ha rilanciato l´entusiasmo di molti psicologi sulla possibilità di allenare l´intelligenza, proprio con quel tipo di attività oggi diffusissime sotto forma di giochi.
Io, però, al pari di molti altri ricercatori in questo campo, guardo con scetticismo a questa ricerca. Prima che qualcuno spenda altro tempo e denaro per cercare un modo facile e veloce per potenziare l´intelligenza, è bene che spieghiamo perché questa idea non ci convince.
Nello studio Jaeggi i ricercatori hanno cominciato facendo compilare ai partecipanti un test di ragionamento per misurare la loro intelligenza "fluida", cioè la capacità di stabilire collegamenti fra le cose, risolvere problemi nuovi e adattarsi a nuove situazioni. Dopo di che, alcuni dei partecipanti sono stati sottoposti a un allenamento lungo fino a otto ore su una difficile attività cognitiva, che consisteva nel dedicare una forte attenzione a due flussi di informazioni (una versione di questo compito ora viene commercializzata da Lumosity); gli altri partecipanti sono stati assegnati a un gruppo di controllo e non sono stati sottoposti ad alcun tipo di allenamento cognitivo. Dopo di che, tutti hanno ricevuto una versione differente del test di ragionamento.
I risultati sono stati sorprendenti. Gli autori hanno riferito che i partecipanti sottoposti al brain training avevano evidenziato progressi maggiori nel test di ragionamento rispetto al gruppo di controllo, e nonostante l´addestramento fosse stato relativamente breve il progresso registrato era sufficiente per produrre un miglioramento sostanziale nella vita di tutti i giorni. Sembra davvero una scoperta straordinaria. Ci sono stati molti tentativi in passato per dimostrare che è possibile potenziare in modo significativo e duraturo la propria intelligenza attraverso interventi esterni, ma tutti con scarso esito: quando sono stati registrati progressi, si è trattato sempre progressi modesti e che hanno richiesto anni di sforzi. Per esempio, in uno studio dell´Università della Carolina del Nord, l´Abecederian Early Intervention Project, alcuni bambini sono stati sottoposti, dalla primissima infanzia fino all´età di 5 anni, a un intenso programma finalizzato ad accrescere l´intelligenza. Nei test realizzati successivamente, questi bambini hanno evidenziato un quoziente intellettivo (QI) superiore di 6 punti rispetto a un gruppo di controllo (e diventati adulti le loro probabilità di conseguire una laurea erano quattro volte maggiori). L´incremento dell´intelligenza che risulterebbe dallo studio Jaeggi invece sarebbe di sei punti di QI in più dopo appena sei ore (!) di formazione: un punto in più all´ora.
I risultati della Jaeggi e degli altri sono intriganti, ma molti ricercatori hanno provato inutilmente a dimostrare miglioramenti statisticamente significativi del quoziente intellettivo usando programmi di addestramento cognitivo analoghi, come quello di Cogmed. Il sito PsychFileDrawer.org, che è stato creato come archivio degli studi replicati e falliti nel campo della ricerca psicologica, ospita una lista dei primi 20 studi che gli utenti vorrebbero che venissero replicati. Lo studio di Jaeggi e compagnia in questo momento è al primo posto. Da un lato indica che gli psicologi sono molto interessati all´idea che l´addestramento cognitivo possa produrre miglioramenti intellettivi rilevanti, dall´altro rispecchia una diffusa cautela riguardo ai risultati di un singolo studio.
Un altro motivo per essere scettici sta in un difetto di progettazione dello studio: la Jaeggi e gli altri hanno utilizzato un unico test di ragionamento per misurare i progressi. Come osservano gli psicologi cognitivi Zachary Shipstead, Thomas Redick e Randall Engle in una recente analisi della letteratura in materia di addestramento cognitivo pubblicata sullo Psychological Bulletin, l´intelligenza non può essere misurata attraverso un singolo test: riflette gli elementi comuni dei test di molte capacità cognitive. Dimostrare che i soggetti di un esperimento diventano più bravi su un singolo test di ragionamento dopo un addestramento cognitivo non prova che sono più intelligenti: sancisce semplicemente che sono più bravi in un singolo test di ragionamento.
Non c´è da sorprendersi se straordinarie scoperte sulla possibilità di rapidi progressi dell´intelligenza si rivelano sbagliate. Le straordinarie scoperte sono quasi sempre sbagliate. Ma non c´è nemmeno motivo di scoraggiarsi del tutto. Risultati di studi come il progetto Abecederian suggeriscono che è possibile accrescere l´intelligenza delle persone migliorando il contesto in cui vivono, e che questo può servire a migliorare la vita delle persone. Ma suggeriscono anche che per ottenere miglioramenti significativi bisogna impegnare risorse importanti. E se lo perdiamo di vista, queste risorse non le impegneremo mai.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© 2012 The New York Times

Repubblica 7.6.12
Giovanna Mezzogiorno: “Il cinema non mi basta, ma torno sul set"
Ho avuto due gemelli e per due anni ho scelto di dedicarmi a loro, anche con molta fatica
Per ricominciare ho preferito una commedia che gireremo in Trentino, una storia d´amore e di vino
di Silvia Fumarola


ROMA Giovanna Mezzogiorno è un misto di passione e rigore. Si sorprende dello stupore suscitato dalla scelta di sparire per due anni e mezzo: «E´ morta mia madre, ho avuto due gemelli, la mia vita è stata sconvolta». Poi, quando la conversazione finisce inevitabilmente per concentrarsi sui figli Leone e Zeno s´interrompe: «Non parleremo solo dei bambini, vero?». L´ultimo film che ha girato è Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, due anni fa. «Ad agosto torno sul set» annuncia «e sono così felice, perché amo questo lavoro, lo faccio da vent´anni. Ci ho messo tutta me stessa». In Vinodentro di Ferdinando Vicentini Orgnani, viaggio nella provincia del nord tra vigneti e tradimenti, interpreta un´ex moglie capricciosa. «E´ una commedia senza cliché, diversa. Con Ferdinando ho girato Il più crudele dei giorni, la storia della giornalista Ilaria Alpi, un film a cui sono legatissima, perché Ilaria era una donna coraggiosa che metteva grande passione nel suo lavoro».
Giovanna, in due anni nella sua vita è cambiato tutto.
«La vita ti sorprende sempre, è la sua bellezza e il suo mistero. Pensi di pianificare ma non pianifichi niente. E´ morta mia madre e poco dopo ho scoperto di essere incinta. Due gemelli, chi se l´aspettava? Mi hanno spiegato che c´erano gemelli nella famiglia di papà. Ho scelto di dedicarmi a loro: credo che, potendolo fare, stare accanto ai bambini nel primo anno di vita faccia la differenza. Una fatica inimmaginabile essere mamma 24 ore su 24. Sono fortunata perché mio marito mi ha aiutato».
Nessun rimpianto o nostalgia del set?
«No, sono sincera: non ho rinunciato a occasioni imperdibili. Sono contenta che sia andata così, il ritmo dei bebè ti tiene fuori dai binari della società che è in corsa. Ti mette alla prova».
Se la immaginava così la maternità?
«Impari a fare la madre. Quando sono nati i miei figli avevo 37 anni. Non me non l´ha insegnato nessuno, non ho avuto la mia mamma vicina, il dolore più grande. Sono riuscita a non farmi sopraffare da due eventi emotivamente forti. Quello che si dice - non è retorica - "segui l´istinto", è vero. Stranamente con il tuo bambino sai cosa devi fare. Provi e alla fine impari per forza. Non decidiamo noi le cose, l´unica cosa che avevo deciso io era di sposarmi. Sono rimasta miracolosamente in piedi. Ho cresciuto due figli, fin qui tutto bene».
Ha capito qual è il segreto?
«Devi essere equilibrato e nessuno lo è mai, ma sono più matura, vedo le priorità. Se dieci anni fa mi avessero detto che avrei dovuto affrontare tutto questo avrei risposto: non sono capace. Invece sono riuscita a gestire l´ansia, le donne hanno una resistenza, la capacità di governare anche la fatica mentale. A un certo punto non sai dove, ma tiri fuori l´energia. La sa una cosa strana?».
Dica.
«Quando raccontavo che mi sarei dedicata ai figli mi guardavano perplessi: "Sicura? Quando ricominci a lavorare?". La gente ha paura delle scelte, è come se si rompesse uno schema a cui è abituata, entra in allarme. Forse è più rassicurante pensare che se fai una cosa nella vita, quella devi fare. E basta. Invece non esiste solo il lavoro, diventa ancora più bello se hai anche altro».
Però, forse non a caso, ha scelto una commedia per tornare.
«Sì, avevo voglia di leggerezza. E´ un bell´intreccio amoroso ed è una commedia non banale che non passa solo per la coppia e il sesso. Sono un´ex moglie antipatica che alla fine non è odiosa come sembra. Rientro in punta di piedi dopo questa lunga pausa. La storia m´incuriosiva anche perché riguarda una parte d´Italia, il Trentino, poco ispezionata dal punto di vista cinematografico. Ruota intorno al vino che unisce, è un simbolo di amore e qualità. E´ un bel ritratto della provincia».
Con "Vincere" la National society of film critics l´ha premiata come miglior attrice dell´anno in Usa. Ha più sentito Bellocchio?
«Con Marco si siamo sentiti al telefono, via e-mail. Un ruolo come quello non nasce da un legame superficiale, c´è un´intesa profonda tra regista e attrice anche se conflittuale in alcuni momenti. Un film così ti drena, ti toglie tutto. Un ruolo come quello di Vincere chissà quando mi ricapiterà. Mi dispiace solo che il film non sia stato considerato come meritava».
Girerebbe una fiction?
«Perché no? Ho interpretato Il segreto di Thomas, Virginia, la monaca di Monza, la riprova che si può fare qualità anche in tv. Non sono snob. Ma il mio sogno, lo ripeto come un disco rotto, è tornare a teatro. Non so dove né quando ma succederà».
Che pensa della situazione italiana?
«Sono in attesa, non voglio lamentarmi né condannare né essere assurdamente positiva. È una fase difficile ma penso che nessuna transizione sia indolore. Non so se dopo gli anni che abbiamo passato potesse essere diversa».

La Stampa TuttoScienze 7.6.12
Storie ai confini della scienza
“Rave party” nelle caverne
Alcol e sesso: due “vizietti” già popolari nel Paleolitico
di Luigi Grassia


Dalle grotte ai jet: quanto siamo cambiati?

Gli uomini e le donne della preistoria assomigliavano a quelli di oggi più di quanto avessimo immaginato finora. Erano goderecci: appena ne avevano la possibilità organizzavano dei «rave party» con centinaia di persone per mangiare e bere sostanze alcoliche. E poi avevano il chiodo fisso del sesso: pare che ai maschi non dispiacesse buttare l’occhio, ogni tanto, su qualche immagine femminile erotica e, anzi, graffiavano figure di vulve sulle pareti dei rifugi di caccia, quelli usati nella vita di tutti i giorni, al di fuori del contesto rituale delle caverne segrete che facevano da luogo di culto. Alcune ricerche e scoperte recenti aggiornano il quadro in modo sorprendente.
Sui «rave party» di quasi 6 mila anni fa in Inghilterra hanno raccolto informazioni sistematiche due archeologi, i professori Alasdair Whittle dell’università di Cardiff e Alex Bayliss di English Heritage. Un luogo che citano è Hambledon Hill, nel Dorset, un rilievo che per generazioni, attorno al 3700 avanti Cristo, ha ospitato le feste degli antichi britanni. «Qui si tenevano dei grandi raduni - dice Bayliss -. Intere mandrie di bestiame venivano macellate per sfamare i convenuti. Le feste erano organizzate ogni anno fra agosto e settembre». E si beveva alcol ottenuto da vari procedimenti di fermentazione. Ma come si fa a conoscere addirittura i mesi delle baldorie? «Lo si capisce dalle condizioni delle dentature del bestiame macellato», che sono quelle tipiche della fine dell’estate.
Le tracce non si limitano a un ritrovamento isolato: Whittle e Bayliss hanno condotto uno studio sistematico con datazione di reperti al radiocarbonio in tutta l’Inghilterra, studio che ha permesso di ricostruire una carta geografica dell’espansione dell’agricoltura a partire dal Kent verso il 4050 a. C.: vi si legge la diffusione dei villaggi rurali, e anche quella dei «rave party» preistorici.
Un’altra scoperta riguarda un sito in Francia, quello di Abri Castanet. Come luogo di scavi è noto da tempo, ma è nuovo il risultato dell’esame su alcuni pezzi di roccia che vi sono stati trovati. Si è scoperto che formavano il soffitto di un riparo ed erano ricoperti di graffiti di vulve. Randall White della New York University segnala che il sito è aperto, niente più che una fenditura nella roccia, e di sicuro non era usato né come «casa» né come tempio; pieno di denti e ossa di animali e frammenti di armi, era un punto d’appoggio, di uso quotidiano, per le battute di caccia di 37 mila anni fa.
Perché i cacciatori paleolitici graffiavano vulve in quel luogo? Lo scopo cerimoniale non si può escludere, però sembra poco plausibile. Certo, è un azzardo attribuire intenzioni a persone di 37 mila anni fa, le loro motivazioni resteranno per sempre un mistero. Ma non è da scartare l’ipotesi che disegnassero simboli femminili solo per il piacere di avere quelle raffigurazioni a portata d’occhio.