l’Unità 6.6.12
La sfida di Bersani: mi candido
Il segretario del Pd in un’intervista al Tg1 apre alle primarie: «Spero di non essere il solo candidato»
Sul governo Monti è categorico: «Lo sosterremo senza se e senza ma. Abbiamo dato la nostra parola»
Oggi il Pdl presenterà i suoi emendamenti per l’elezione diretta del Capo dello Stato
di Maria Zegarelli
«Lei si candida?», chiede Natalia Augias a Pier Luigi Bersani in un’intervista al Tg1. «Penso di sì, spero non da solo», la risposta. Le primarie non vengono mai citate ma sono lì sul tavolo. Ed ecco sciolto almeno uno dei «misteri di Fatima», come lui stesso ha definito il discorso che terrà in direzione venerdì e per il quale c’è grande attesa. Si candiderà per chiedere la legittimazione alla premiership ed è pronto a sfidare altri concorrenti, anche se modi e forme sono ancora tutte da decidere. Matteo Renzi a bordo campo scalda i muscoli, l’altro giorno a Firenze ha praticamente ricevuto l’investitura di Confindustria per bocca del neopresidente Giorgio Squinzi, che intervenendo sul palco subito dopo lui ha detto: «Se fossi a Firenze voterei per lui».
LE PRIMARIE
Al Nazareno, c’è chi osserva che quella frase pronunciata durante l’assemblea di Confindustria non sia stata affatto casuale, «Squinzi non ha agito sotto l’impulso del momento», racconta un deputato vicino al segretario. Da qui il sospetto che il sindaco fiorentino stia preparando la scalata interna al Pd cercando appoggi esterni e una rete di supporto fatta da poteri consistenti.
Ma le primarie, che saranno al centro della direzione, c’è un ordine del giorno presentato da Pippo Civati, Paola Concia e Sandro Gozi (benedetto da Arturo Parisi e prodiani e ovviamente Renzi), non sono soltanto l’unica spina nel fianco per il segretario, anche se bisognerà capire come affronterà il tema il segretario e quale percorso indicherà, se lo indicherà venerdì. Anche perché se di primarie di coalizione si dovesse trattare bisognerebbe averci al coalizione, appunto, ma senza sapere quale sarà la legge elettorale sembra difficile. Potrebbero intanto svolgersi quelle interne, del Pd, già ad ottobre, ma questo vorrebbe dire un congresso.
IL SOSTEGNO A MONTI
L’altro tema caldo sono le elezioni anticipate. Bersani torna a garantire il sostegno del Pd «senza se e senza ma» fino a scadenza della legislatura, vale a dire il 2013. «Non tutto è nelle nostre mani, non siamo maggioranza in Parlamento, ma per quel che ci riguarda noi
ribadiamo la nostra assoluta lealtà e manteniamo il patto», ha assicurato senza rinunciare a sottolineare che «non tutto quello che questo governo fa ci piace». Ma il segretario ribadisce l’appoggio del suo partito all’esecutivo e l’obiettivo di arrivare al 2013 alle elezioni con la riforma elettorale e su questo punto in direzione ribadirà la corsia preferenziale che il Parlamento a ciò deve riservare lasciando al Pdl la responsabilità di un eventuale fallimento di cui da più parti si continua a parlare.
Ma quella del sostegno senza ombra di dubbio a Monti è anche un’affermazione volta a disinnescare un altro fronte di tensione in vista della direzione dopo le dichiarazioni di Stefano Fassina alla Reuters sulla necessità di andare al voto anticipato. Ieri il responsabile lavoro è tornato sul tema: «La mia intervista ha spiegato Fassina andava letta tutta intera. Ho espresso una preoccupazione politica che ribadisco». Ossia, dopo le politiche il quadro è quello di un Pdl «al collasso e un Parlamento ormai incapace di fare le riforme. Alla luce di questa premessa occorre verificare cosa sono in grado di fare le forze politiche sulla legge elettorale». Secondo il responsabile Lavoro se entro la fine dell’estate la riforma elettorale sarà ancora in alto mare, «bisognerà anticipare l’ultimo atto significativo del governo Monti e andare al voto». «Mi pare una sciocchezza, non credo che sia ragionevole puntare alle elezioni ad ottobre al contrario mi auguro che la direzione del Pd venerdì rilanci l’impegno per la riforma elettorale e quella costituzionale che è all’esame del Senato», replica Massimo D’Alema secondo il quale «Una cosa è stimolare il governo e chiedere un maggior impegno per la crescita, altra è farlo cadere che è uno stimolo, direi, eccessivo». E ci tiene a sottolineare: «Questa è la mia opinione, altre sono opinioni rispettabilissime di altre persone che hanno un nome e un cognome ma che non sono io».
Gelido Enrico Letta, da sempre agli opposti con Fassina: «Provocare elezioni anticipate mentre l’Italia riprende credibilità europea è farci cascare nella solita inaffidabilità. La pagheremmo cara». In difesa di Fassina sono scesi in pochi nel Pd: dopo Matteo Orfini ieri è stata Marianna Madia. «Mi auguro dice la deputata che si voti il più presto possibile. E spero che si riesca a cambiare anche la legge elettorale. Sono l’ultima vera veltroniana rimasta. dobbiamo andare a votare senza liste civiche da soli». L’ultimo (?) mistero: le alleanze. «Usciremo dal bricolage delle alleanze taglia corto il segretario rispondendo così anche ad Antonio Di Pietro che dà al suo partito del “sor tentenna”-. Faremo una proposta molto aperta».
il Fatto 6.6.12
La grande paura di Bersani: il papa straniero
Voto in autunno? D’Alema scomunica Fassina: “Una sciocchezza politica”
di Luca Telese
Sarà anche una ennesima leggenda metropolitana, ma un dirigente che ci ha parlato pochi giorni fa racconta una ennesima, sublime (e terrificante) battuta di Massimo D’Alema. Un’altra perla nel filone inaugurato fastosamente con l’aforisma disincantato: “La sinistra è un male. Solo l’esistenza della destra rende questo male tollerabile”. Un filone poi arricchito con quell’altra sentenza distillata a Gargonza (il direttore di Left, Giommaria Monti le chiama Massimae D’Alemae) che nel 1997 fece indignare Umberto Eco: “Vedo che discutete con molta passione della vittoria della sinistra. Ma forse non avete notato che nel 1996 la Destra ha vinto. Vi siete accorti che Casa delle libertà Ccd e Lega, anche se divisi, hanno la maggioranza dei voti”.
IERI ,fedele alla linea, ha definito “sciocchezza politica” l’idea di andare al voto a ottobre. Il pensiero meridiano e l’esprit de paradoxe dell’ex premier raccontano il grande caos dentro il Pd. E anche il problema delle alleanze, la sfiducia atavica nella foto di Vasto, il bisogno continuo di corteggiare Pierferdinando Casini e il tentativo di puntellarsi con delle protesi elettorali. Il primo problema si è aperto quando il Corriere della sera (ed stato un terremoto) ha bruciato a Pierluigi Bersani la mossa a sorpresa: annunciare solennemente l’intenzione di candidarsi alle primarie, e bilanciare il suo cipiglio di apparatnick emiliano con la proposta di una “lista Saviano”, in cui il Pd cede parte della sua sovranità e del suo peso elettorale per eleggere intellettuali ed esponenti della società civile. Un passo a lungo ponderato. Per un anno Bersani ha fuggito le primarie temendo che gli precludessero le possibilità di alleanza con Casini. Adesso Casini sposta la sua vela a destra, forse pensando di raccogliere le spoglie del Pdl, persino Luchino Cordero di Montezemolo cambia l’asse della sua fondazione Futura pensando di entrare in quell’area, e allora Bersani capisce che deve muoversi, per essere pronto a tutto se i tecnici dovessero collassare prima del tempo. Ieri il segretario del Pd ribadiva: “Il nostro impegno è sostenere il governo fino alla fine della legislatura”. Mentre si prepara ad annunciare le primarie e la sua candidatura, probabilmente per il 13 e 14 ottobre. Ma ciò che gonfia le vele dei giovani cyberlaburisti Fassina e Orfini è un malessere sempre più diffuso: sindaci, amministratori, presidenti di regione, dirigenti intermedi non ne possono più degli strafalcioni dei tecnici. Persino un deputato come Beppe Fioroni ieri alla Camera si sfogava con Agazio Loiero: “Questi sono pazzi . Profumo si inventa questa cazzata della riforma meritocratica, e poi fa sparire tutti i soldi per la formazione. Lo dicano che vogliono smantellare quello che ho fatto e costruire la scuola pubblica dei morti di fame”. Lo scoop della Meli, che rivela la disponibilità di Bersani all’apparentamento con una lista civica espone questa proposta al fuoco amico dei dirigenti imbufaliti, e a due giorni dalla direzione il primo (e più delicato annuncio) viene intaccato dalla dichiarazione di Ezio Mauro a Otto e mezzo: “Non faccio operazioni di lobby, ma se il Pd vuole diventare forte deve rendersi scalabile e contendibile”. Il che come minimo è una dichiarazione di sfiducia. Ma a qualcuno la cosa non va giù. E ieri Francesco Boccia sfoderava il suo sarcasmo: “Non vedo l’ora di vederla all’opera in mezzo alle masse questa lista così civile della De Gregorio e del professor Zagrebelsky, non vedo l’ora di vederli a raccattare voti nei mercati discettando sulle riforme costituzionali…”. Intorno a Boccia si fa subito capannello: “Io, al contrario di questi editorialisti, da 23 anni in poi ho presentato 18 dichiarazioni dei redditi, altro che Casta! Davvero – conclude il deputato lettiano – qualcuno crede che i radical chic e gli intellettuali del gruppo Espresso faranno sfracelli?”. Schizzi di umore nero, che molti condividono.
A QUESTO quadro va aggiunto tutto quello che si mormora in queste ore nel Palazzo. Ad esempio che Giorgio Napolitano vedrebbe con molto piacere un ruolo di primo piano per Fabrizio Barca, ministro con il cuore a sinistra (e anche l’araldo familiare). Solo chiacchiere? L’idea di un papa straniero aleggia da molto tempo nell’aria. E quindi, alla luce di quello che si muove, la sortita di Mauro fa preoccupare alcuni dirigenti del Pd molto più di quella di Scalfari. Perché se ciò che scrive Scalfari è un discorso che rafforza la leadership di Bersani, o almeno la sua proposta, quello che dice Mauro alla Gruber, mette in dubbio la conduzione del partito. Venerdì Bersani dovrà combattere con le sue correnti. E con tutti i fantasmi che popolano le sue (possibili) liste.
il Fatto 6.6.12
Intervista a Matteo Orfini
“Pd scalabile? Allora anche Repubblica”
di Luca Telese
Il Pd deve essere scalabile? Ma il Pd è scalabile, a patto di avere consensi e voti. La direzione de La Repubblica lo è?”. Mentre sono nella stanza di Matteo Orfini, uno dei due ex enfant terribles (l’altro è Stefano Fassina) che si sono tramutati in cyborg guerrieri post-dalemiani, arriva l’agenzia di scomunica del pontefice Massimo. Dice D’Alema che l’idea di andare a votare ad ottobre: “È una sciocchezza politica”. Con la stessa freddezza politica che deve aver imparato dal suo (ex?) maestro risponde in diretta colpo su colpo: “Definire una posizione politica una sciocchezza, altro non è che una palese sciocchezza”.
Non sembra un gioco delle parti questo fra lei e D’Alema.
Affatto. Non lo sento da diverso tempo.
Sta sparando su lei e Fassina?
Guardi, noi non siamo una corrente organizzata: siamo due dirigenti che fanno una comune battaglia di idee.
Con chi è polemico adesso?
Dico semplicemente che, al contrario della presidente del partito, del capogruppo alla Camera, del vicepresidente del partito e dell’ex segretario…
Traduco: al contrario della Bindi, di Franceschini, di Letta, e di Veltroni…
…al contrario di quelli che ho citato non animiamo cordate politiche.
Sono legittime.
Legittimo è tutto. Ma non è opportuno che la presidente del partito gioisca per la vittoria di Palermo contro il candidato del suo partito.
Partiamo dalla vostra proposta. Licenziare Monti a ottobre… Serve?
La domanda è: serve Monti a questo paese fino al 2013? Se non ci sono più effetti positivi che senso ha protrarre l’agonia?
Lei sa che metà del gruppo dirigente del Pd mette mano alla pistola, se sente questo?
Strano. Perché si tratta di costituire un governo con ministri migliori. Il Pd ha dieci ministri molto, molto, molto migliori di questi.
Secondo me le tolgono anche l’ufficio.
Se un partito che aspira a fare le riforme non parte dall’idea di poter fare molto meglio di Monti, vuol dire che chi pensa questo deve smettere subito di far politica e trovarsi un altro mestiere.
Le diranno che è arrogante.
Sempre meglio che sembrare imbelle. Ma le faccio un esempio: qui a fianco c’è Francesca Puglisi che sta combattendo eroicamente contro la riforma di Profumo. Dovevamo cambiare la Rai e ci dicono: c’è il veto di Gasparri! Ma quando hanno fatto pagare ai pensionati non hanno guardato in faccia a nessuno! Poi ti stupisci che i nostri si astengono o votano Grillo?
Siete nemici di Bersani?
Io mi ritengo in maggioranza.
Bersani si è smarcato da voi.
Noi lo difendiamo da tutti.
A chi si riferisce?
Ho letto che Ezio Mauro dice che il Pd deve essere scalabile...Io credo che sia giusto aprire le porte alle società civile. Ma che la società civile debba trovare posto in questo partito. Se la scalabilità vuol dire che il Pd deve decapitare la sua classe dirigente perché agli editorialisti non piace, allora anche Repubblica deve diventare scalabile, visto che è diretta da 16 anni dallo stesso uomo.
Ma Mauro, che non vuole fare politica, non ha diritto a criticare il gruppo dirigente del Pd?
Sì. Ma se la sua idea è che noi dobbiamo consegnarci ad un giornale, allora gli regalo anche il mio gatto. Bersani è stato eletto, e si candida di nuovo alle primarie. La forza di Bersani e di questo gruppo dirigente è una: siamo credibili.
Quindi nessuna ristrutturazione nel gruppo dirigente del Pd?
L’unica ristrutturazione che vedo è quella degli editorialisti del gruppo l’Espresso.
Voterà l’ordine del giorno Civati sul limite di mandati?
Voterò convintamente. Siamo pieni di deputati, anche al primo mandato, che vanno mandati subito via. Molti sono lì perché erano segretari, portavoce, capogabinetto dei capicorrente. Erano negli staff e sono stati paracadutati.
Ma lei nel 2008 non era il segretario di D’Alema?
Ecco, bravo. E infatti non mi sono candidato. Non lo ritenevo giusto. Ed ero il braccio destro del D’Alema vicepremier, crede che se puntavo i piedi un posto non lo trovavo?
Quindi meglio andare a votare?
Possiamo salvare questo paese. Ma dobbiamo poter dire alla gente che facciamo pagare quelli che hanno ricchezze spaventose.
lu.tel.
La Stampa 6.6.12
Fassina e Orfini, la prima sfida alla “linea” dei giovani d’apparato
I due dirigenti “strappano” rispetto alla tradizione post-comunista
di Fabio Martini
Corriere 6.6.12
D'Alema: «Voto anticipato? Sono soltanto sciocchezze»
Bersani: «Leale ai patti. E mi candido a premier»
di M.Gu.
ROMA — Per chiudere il «caso Fassina», Bersani è dovuto andare in tv a giurare lealtà a Monti in prima serata. «Non tutto quel che fa il governo ci piace — ha detto al Tg1 —. Ma ribadiamo la nostra assoluta lealtà e manteniamo il patto». Il segretario ha anche annunciato che è in campo per la conquista di Palazzo Chigi, sempre che gli elettori lo voteranno. Sì, perché per disinnescare la miccia Renzi, Bersani è pronto a indire primarie di partito e ha già in mente una data: 14 ottobre, quinto compleanno del Pd. «Penso di candidarmi — conferma l'ex ministro — Spero non da solo, però».
E Stefano Fassina? Il segretario non lo ha nemmeno nominato. Segno che l'uscita del suo responsabile economico, uno dei dirigenti che più stima, lo ha sorpreso e rattristato. «Il segretario è molto arrabbiato — confermano i fedelissimi — Ci è rimasto male». Eppure, come dicevano ieri in molti a Montecitorio, «Fassina ha parlato alla pancia del partito». Il che significa che il disagio è forte e che se Monti non manda qualche segnale Bersani dovrà fare i conti con uno, dieci, cento Fassina. La sortita del responsabile economico, che ha riscosso dal Pdl il plauso di Sandro Bondi, brucia ancora. Bersani ha dovuto vedersela con Napolitano e con Monti, il quale ha chiesto al segretario di non mettere a rischio l'esecutivo. «Per noi si arriva al 2013», ha ribadito Bersani. Non c'è dunque alcuna manovra per interrompere la legislatura. D'Alema ha scacciato come «una sciocchezza» le ombre del voto anticipato e ha sgombrato il sospetto di una trama ordita dai dalemiani: «Non credo sia ragionevole pensare a elezioni a ottobre». E altrettanto netto è il monito di Enrico Letta quando dice che «provocare elezioni anticipate mentre l'Italia riprende credibilità europea è farci cascare nella solita inaffidabilità», il Pd la pagherebbe cara nelle urne.
Ma la fronda degli scontenti arriverà in direzione agguerrita. «Non cambiamo idea, anche se la nostra non è la linea del Pd — conferma Matteo Orfini —. È vero che abbiamo un patto con Monti, ma abbiamo anche un patto con gli italiani. Voglio sentirmi dire che il governo va bene così, anche se non riforma la Rai». Ma Bersani non sembra avere intenzione di affrontare il dibattito «elezioni sì, elezioni no». Si dice che venerdì inizierà la campagna elettorale e il segretario ha voglia di parlare del merito delle questioni. E di come il Pd affronterà il voto nel 2013: «Usciremo dal bricolage delle alleanze. Ci si aspetti una proposta molto aperta».
Corriere 6.6.12
Intervista
Ma Fassina: sì a Monti solo se riduce le tasse e cambia sull'austerity
di Monica Guerzoni
ROMA — Stefano Fassina non arretra di un millimetro. Anzi, per quanto possibile rilancia.
«Il mio stato d'animo? Sono un po' sorpreso».
Non si aspettava le reazioni? Ha detto che bisognerebbe andare a votare a ottobre...
«Non ho indicato un obiettivo, né un auspicio. Ho espresso una preoccupazione e proposto di valutare uno scenario B».
Qual è lo scenario A?
«Rimane il voto nel 2013».
Le sue condizioni per sostenere Monti?
«Ridurre le tasse, risolvere il problema degli esodati e cambiare la legge elettorale, che è priorità assoluta. Il problema è che la crisi economica e sociale si aggrava, la recessione si allunga, la disoccupazione aumenta...».
Non è una follia andare a votare in queste condizioni?
«Lo scenario per cui lavoriamo è che il premier vada avanti e, assieme a Hollande, riesca a correggere la rotta dell'austerità autodistruttiva che mette a rischio l'euro».
Lei ci crede poco, vero?
«La situazione è sempre più grave e il Parlamento non può tirare a campare. Se non dà presto risposte, la democrazia andrà alla deriva».
Non sarà che lei e Bersani state giocando di sponda?
«No, non c'è nulla di concordato. Io ho l'impressione che, dopo le amministrative, l'implosione del Pdl renda molto complicato il lavoro parlamentare».
Teme che non si farà nulla?
«La situazione rischia di logorare le istituzioni democratiche. Se il Parlamento non riesce a lavorare, lo scollamento tra politica e Paese diventa insostenibile. Non si può andare avanti senza una verifica del consenso sulla direzione di marcia».
Vi siete chiariti con Bersani?
«Ci siamo sentiti. E spero che venerdì in direzione ci sia la possibilità di chiarire. Ma ribadisco che ho espresso una preoccupazione e non un cambiamento di linea del Pd».
Le hanno chiesto di dimettersi da responsabile economia?
«No. Probabilmente neanche in Corea del Nord si chiedono le dimissioni per una valutazione».
Debora Serracchiani e altri le hanno chieste.
«Se ne assumono la responsabilità. È singolare che una valutazione metta a rischio la tenuta del governo. La risonanza che le mie parole hanno avuto conferma che il contesto manifesta elementi di fragilità. La reazione roboante indica che lo spread democratico è elevato».
Lei si è trovato in sintonia con «giovani» dalemiani come Orfini e Cuperlo. E con D'Alema, ha parlato?
«No, non ci siamo sentiti. Ma abbiamo posizioni autonome, non siamo interpreti in sedicesimo di altri. Un pezzo di classe dirigente, non accomunata solo dal dato anagrafico, ritiene che sia necessario segnare una rotta molto chiara per le prospettive del Paese. La Ue si trova a un bivio storico. È in gioco la civiltà del lavoro. E la democrazia non può essere un lusso che non ci possiamo più permettere».
Repubblica 6.6.12
Pier Luigi apre a società e moderati "Mi serve una nuova legittimazione" Ma sul Professore il Pd resta diviso
Il segretario vuole le primarie anche sul programma, ma rinvia le scelte sulle alleanze
di Goffredo De Marchis
ROMA - Muoversi come se dovesse andare da solo alle elezioni. Proporre 5 punti di un programma per quella che Pier Luigi Bersani chiama «la riscossa». E nella sede di Largo del Nazareno non si esclude l´ipotesi di "primarie" sul programma, cioè di un referendum su alcuni punti specifici. Una risposta all´antipolitica, una mossa fuori dalle logiche di apparato. Poi verranno anche le alleanze e le primarie che il segretario considera necessarie, non per rincorrere chi le invoca ma per sé, per dare forza alla sua candidatura: «Sono il primo a sapere che la mia elezione del 2009 non basta per la corsa a Palazzo Chigi. Occorre una nuova legittimazione». Ma stavolta toccherà a lui rispolverare la "vocazione maggioritaria", lo slogan che fu di Walter Veltroni e che diventò un modello negativo per tutta l´area bersaniana. Alleati, premiership, ipotesi di liste civiche da affiancare al simbolo democratico: verranno tutti dopo
Walter Veltroni, Enrico Letta, Paolo Gentiloni, Dario Franceschini chiedono al segretario di mettere in secondo piano la candidatura. Tanto si è capito benissimo che Bersani sarà in campo e il grosso del Pd è disposto ad appoggiarlo. Ma il punto è su quali basi, su quale progetto? «Proposta politica aperta alla società civile, alle associazioni, ai moderati, ai riformisti». L´idea del rassemblement libero, eterogeneo piace ai veltroniani. E al segretario va benissimo l´idea di non avviare subito la discussione per la candidatura. Servirà anche a rendere «una piccineria» l´insistenza di Matteo Renzi per risolvere il rebus del leader. «Non dobbiamo discutere né di primarie né di alleanze. Per un motivo semplice: ci sono ormai pochi giorni per vedere se sarà cambiata la legge elettorale. Anticipare le mosse può mandare all´aria tutto», dice Gentiloni. Bisogna invece indicare una rotta del Partito democratico per il futuro. «Da troppo tempo non parliamo al Paese», dicono i veltroniani.
Su questo il partito rischia di dividersi, ma è un passaggio che non si può eludere. Enrico Letta, dopo l´invito del gruppo Bilderberg il club in cui si incontrano informalmente i potenti del mondo, considera Mario Monti l´unica carta italiana da spendere nella crisi. Oggi e forse anche domani. «Tutti chiedevano dell´Italia. Solo grazie all´autorevolezza del premier», racconta. Dall´altra parte Stefano Fassina, Matteo Orfini considerano fallimentare l´azione del governo tecnico e non avendo sponde per le elezioni anticipate chiedono al Pd di smontare il programma di Monti. Ma a questo punto Bersani vuole proiettare il Pd verso la primavera del 2013, al dopo-Monti. Non a caso, dopo tanto tempo, i democratici pensano di aprire le porte della direzione di venerdì. Dibattito pubblico, primo segnale di un´apertura all´esterno. Ci sarà anche Matteo Renzi alla riunione, ma lo scontro verrà rimandato. Primarie e alleanze infatti rimarranno sullo sfondo. «Quello che conta oggi è il progetto - diceva Bersani parlando ieri alla Camera con i suoi collaboratori -. Se il progetto è credibile, convinceremo altri a seguirci». Ma arriverà il momento della sfida per la leadership. E i sondaggi che arrivano a Largo del Nazareno danno Bersani vincente.
l’Unità 6.6.12
«Invece delle liste civiche, un Pd più aperto alla società»
Sergio Blasi: Il segretario regionale dei democratici pugliesi: «Un grande forum per iniziare un confronto elaborare progetti e costruire un New Deal»
di Ivan Cimmarusti
BARI Una nuova visione del Pd pugliese, in cui le logiche di «leaderismo» siano accantonate per far spazio ad «una partecipazione allargata di partiti del centrosinistra, intellettuali e associazioni». Cita Antonio Gramsci e don Tonino Bello, il segretario regionale del Pd Puglia, Sergio Blasi, nell’illustrare il progetto di rilancio del primo partito politico pugliese, nei giorni degli Stati generali del centrosinistra. «Bisogna aprire le porte al mondo dell’arte e della cultura, dell’economia e delle associazioni, e a tutti coloro i quali possano contribuire alla crescita».
Segretario Blasi, la Puglia, come il resto dell’Italia, si trova in un momento difficile e i cittadini chiedono risposte che la politica sembra non riuscire a dare...
«Io sono interessato alla Puglia del futuro, mi piace parlare di Stati generali del centrosinistra e di un grande Forum per costruire questo progetto. Parlo di una partecipazione allargata, in cui di fianco ai partiti ci siano intellettuali di vari settori e associazioni, che possano collaborare a trovare le risposte che i cittadini chiedono su temi rilevanti, come la crisi economica, ma anche etica, morale, nella scuola e nello sviluppo in generale. Solo una grande forza riformista può fare questo. Il riformismo è il più efficace e moderno strumento per affrontare in maniera radicale quei problemi radicali nella loro gravità, così da immaginare un nuovo patto sociale e modello di sviluppo diverso rispetto al passato, che ci ha portato a questa crisi».
Faccia un esempio specifico.
«Quando ero sindaco, ho preso il comune di Melpignano (paese in provincia di Lecce, ndr) e l’ho lanciato nel mondo. Può sembrare retorica, ma sono cose concrete. Ho preso un pezzo di patrimonio di quella terra: la pizzica (musica tipica, ndr) e ho creato la Notte della Taranta. L’abbiamo immaginata guardando al mondo che cambiava, miscelando un pezzo di storia col moderno. Il risultato è una manifestazione famosa in tutto il mondo. La Bocconi ha fatto uno studio, affermando che condiziona fortemente i flussi turistici di quella parte della Puglia, contribuisce al Pil e porta ricchezza. Quel progetto è stato frutto di una partecipazione allargata di idee. È necessario, dunque, trovare risorse da investire in piccoli progetti, che non sono le grandi opere, ma che comunque possono risultare grandi».
Deve essere questa la sfida della politica pugliese? «Sto preparando un partito solido per questo progetto, ma è uno sforzo ciclopico. Siamo nella striscia di nessuno, quando il vecchio non può più ma che vuole rimanere, e il nuovo, che non c’è ancora, vuole arrivare. Io sto lavorando perché il nuovo arrivi. Ora è necessario creare un manifesto, per capire cosa intendiamo avere da questo processo di coinvolgimento. Ci sono molte cose da migliorare, per esempio il ciclo dei rifiuti differenziati e il risparmio idrico».
Ci vuole un po’ di fantasia anche per migliorare le cose. «Don Tonino Bello diceva che “la politica è un’arte nobile, il che significa che colui che la pratica è un uomo di genio, una persona di fantasia”. Credo fortemente in questo progetto e nel Pd, e credo che i giovani pugliesi siano vicini a questa voglia di rinnovamento. Questi sono disinteressati alla pratica politica quando è dedicata alla piccola ambizione. Resto in tema di citazioni, c’è una nota bellissima dei Quaderni di Antonio Gramsci, che parla della piccola ambizione e della grande ambizione. La piccola è quella individuale, la grande è dentro un disegno più generale, indirizzata alla collettività».
Cosa si sente di dire al Pd nazionale?
«Che abbiamo un po’ di mesi prima delle elezioni politiche e che dovremmo costruire un grande Forum per l’Italia del futuro. Chiamare intellettuali della cultura, dell’arte, economisti, per discutere delle domande che il Paese ci porta. Il Pd deve chiamare a raccolta tutte le esperienze, per costruire il Paese che deve venire. Dobbiamo innervarlo, altrimenti il Pd sarà una copia mal riuscita di quello che eravamo prima. Ci serve? Io credo di no. Questo Forum, però, potrebbe essere per l’Italia un New Deal. Insomma, il Pd se vuole essere nuovo deve aprire una discussione col Paese».
l’Unità 6.6.12
Anche la pazienza del Pd ha un limite
risponde Luigi Cancrini
Fassina ha ragione. Poiché la legge elettorale non verrà modificata e la situazione economica è sempre più triste, è necessario andare a elezioni anticipate. In caso contrario potremmo pensare che Bersani preferisca Monti perché non saprebbe cosa fare una volta al governo, per raddrizzare l’economia italiana.
Angelo Innamorati
La situazione è obiettivamente assai difficile. Ad aver paura delle elezioni ad ottobre, ad aver tutto da guadagnare da un anno di melina sono soprattutto il Pdl e i grillini. Il loro tentativo di logorare il Pd che continua a sostenere lealmente Monti passa, tuttavia, attraverso la capacità di bloccare il Parlamento intorno a discussioni fumose. Niente riforma elettorale, niente legge sulla corruzione, niente riduzione del numero dei parlamentari né blocco
psichiatra e psicoterapeuta
dei finanziamenti ai partiti: se questi obiettivi negativi dovessero essere realizzati, a perdere voti sarà soprattutto il Pd ed è logico, in una situazione come questa, che qualcuno, del Pd, cominci a muovere le acque riproponendo l’idea per cui le elezioni ad ottobre sono possibili. Se le forze politiche presenti oggi in Parlamento non riescono a trovare accordi ragionevoli sui temi che i tecnici non possono (non debbono) risolvere da soli, quello che va rinnovato è proprio il Parlamento dove nuove maggioranze potranno assumere le decisioni di cui abbiamo bisogno e che non piacciono a chi, sconfitto nel Paese, è forte ancora solo lì. Il modo in cui Berlusconi ed i suoi stanno bloccando tutte le strade possibili per una trattativa seria è troppo sfacciato perché non se ne tenga conto. Dicendo chiaro che anche la pazienza del Pd ha un limite.
l’Unità 6.6.12
Vatileaks, Gabriele «parla» ma rischia 8 anni
Il maggiordomo del Papa resta l’unico indagato per furto aggravato. Ieri sono iniziati gli interrogatori
La solidarietà del premier Monti a Benedetto XVI: «Sono stupito e addolorato»
di Roberto Monteforte
Parla Paolo Gabriele. Ieri in Vaticano sono iniziati gli interrogatori «formali» per l’ex maggiordomo del Papa, da quattordici giorni recluso nelle camere di sicurezza della Gendarmeria vaticana. Cominciati la mattina, sono proseguiti nel pomeriggio. A condurli è stato il giudice istruttore Piero Antonio Bonnet, alla presenza del promotore di giustizia Nicola Picardi e degli avvocati difensori Carlo Fusco e Cristiana Arrù. Al momento Gabriele è l’unico indagato con l’accusa «di furto aggravato» per il trafugamento di documenti riservati dall’appartamento del pontefice. A confermarlo, il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi. «Nessuna imputazione è stata formulata a carico di altri» ha assicurato, confermando però l’esistenza di altre indagini «non formali» da parte della Gendarmeria che, però non avrebbero dato luogo ad ulteriori incriminazioni. Almeno per ora. Quindi ha precisato: «Ovviamente non daremo informazioni in merito agli interrogatori, cioè alla durata e ai contenuti». «Come notizia, su questo ha precisato Lombardi -, siamo fermi alla volontà di collaborazione ampia che aveva espresso Gabriele agli avvocati».
Che questa fase processuale non sia pubblica lo ha confermato ieri il giudice vaticano Paolo Papanti Pelletier nel corso di un briefing «tecnico» tenuto ai giornalisti. Quella che sarà, invece, pubblica è l’eventuale «fase dibattimentale». Vi è comunque attesa per quanto emergerà dall’interrogatorio di «Paoletto». Potrebbe segnare una svolta nelle indagini. Agli inquirenti dovrà rispondere non solo dei documenti illegalmente trovati nella sua abitazione. Dovrà anche chiarire a chi sono stati eventualmente consegnati, attraverso quali canali ed eventualmente se ha agito su indicazione o sollecitazione di altri. L’obiettivo delle autorità vaticane è sgominare la rete che ha alimentato il «Vatileaks». Quello che da Oltretevere si assicura, smentendo alcune ricostruzioni giornalistiche, è che Paolo Gabriele possa aver iniziato la sua collaborazione con la giustizia vaticana prima dell'arresto. Non sarebbe stato un «agente doppio», una sorta di «richiamo» per i «corvi» o per coloro che erano a caccia di informazioni riservate, che avrebbe consentito alla Gendarmeria di individuarli. Questa rappresenta «una ipotesi non solo infondata, ma che non ha la minima plausibilità» ha affermato Lombardi.
Ma quale condanna rischia Paolo Gabriele? Anche a questo ha risposto il professor Papanti Pelletier. Da 1 a 8 anni di carcere per furto aggravato: la pena è infatti da1a 6 anni con una sola aggravante. Salgono da 2 a 8 se le aggravanti constatate saranno due. La pena potrà essere leggermente aumentata se saranno contestati altri reati, ma ad esempio non più di un anno per il reato di rivelazione di «segreto politico». Il giurista ha spiegato che nel diritto vaticano «non esiste il concorso», ma è un’aggravante il fatto che un reato sia commesso «ai danni di chi ti dà fiducia». Vi sono differenze sulla carcerazione preventiva. Quello Vaticano prevede «50 giorni che possono essere raddoppiati se il caso è complesso, e dopo il rinvio può durare tre anni, ma non ci si arriverà mai, perché i giudici vaticani non hanno l’aggravio di lavoro che affligge i tribunali italiani» puntualizza Papanti che ha anche ricordato come il rinvio a giudizio non sia ancora una condanna. Visto che in Vaticano non esistono carceri, se Paolo Gabriele dovesse essere condannato, pagherà pochissimo. Ma in un carcere italiano.
Sulla vicenda del Corvo in Vaticano è intervenuto anche il premier Mario Monti. A una domanda di Famiglia Cristiana risponde che è «stupito e profondamente addolorato» perché, in sé, sono vicende dolorose. Ma anche perché penso al moltissimo dolore che questo getta, almeno temporaneamente, su molte persone». E in particolare pensa «al dolore che questo ha provocato alla persona e nel cuore del Santo Padre».
l’Unità 6.6.12
Perquisiti casa e uffici di Gotti Tedeschi in cerca di documenti
Perquisizioni da parte dei carabinieri, ieri, nell’abitazione romana dell’ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, ma anche nei suoi uffici, tra Piacenza e Milano. A disporle è stata la Procura di Napoli nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti Finmeccanica, anche se fonti della Procura sottolineano che Gotti Tedeschi non è indagato, né nella vicenda risulta coinvolta la banca vaticana. Gli investigatori, sulla scorta di nuovi elementi investigativi e di alcune dichiarazioni di persone ascoltate nell’ambito dell’inchiesta fra le quali il faccendiere Valter Lavitola sono alla ricerca di riscontri su alcune operazioni di Finmeccanica e sulla possibilità di contatti fra l’ex ad del colosso, Giuseppe Orsi, e Gotti Tedeschi. Nel pomeriggio l’ex numero uno dello Ior è stato inoltre sentito dai magistrati napoletani, interessati a chiarire i rapporti tra i due e ad acquisire ulteriori informazioni utili alle indagini sulla commessa di Agusta Westland (società del gruppo Finmeccanica) per la vendita in India di 12 elicotteri.
l’Unità 6.6.12
I corvi del Vaticano e le pulizie di primavera
di Filippo Di Giacomo
POI, ALLA FINE, PIÙ CHE I CORVI SONO SOPRATTUTTO LE CHIACCHIERE AD AVER PRESO IL VOLO. Salvo qualche rara eccezione, le notizie e le analisi attribuite addirittura a non meglio precisate «fonti» della Segreteria di stato vaticana, oppure ad anonime «menti raffinatissime» dei «migliori analisti dei servizi segreti italiani» sono, in realtà, rimasticature di articoli (altrui) pubblicati qualche mese fa. Ne consegue, in fondo, che fare il punto sui Vatileaks è abbastanza facile: basta attenersi ai fatti. E quelli di questi giorni confermano quanto i più attenti alle cose vaticane avevano anticipato sin dai primi passi del pontificato di Benedetto XVI: il ratzingerismo, al contrario del wojtylismo, non ammette contraddizioni tra quello che succede sul palco e quello che avviene dietro le quinte. È stato per questo che, al momento della sua elezione nell’aprile del 2005, nella Chiesa in tanti hanno sperato che la ricaduta positiva, a livello ecclesiologico dell’elezione di Benedetto XVI avrebbe causato negli episcopati locali un positivo sparigliamento delle carte e dei sistemi di cooptazione e di scelta dei futuri vescovi. Avrebbe cioè rimesso in discussione la bulimia di potere (spesso, al limite della simonia) del wojtylismo di destra e di sinistra. Per così restituire alla Sede apostolica la possibilità di riprendere in mano anche quei meccanismi di nomina che, durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, erano stati impropriamente usucapiti, e monopolizzati, dai wojtylani più intraprendenti. Questo è subito avvenuto in molti episcopati importanti, come quello irlandese, statunitense, belga, olandese, austriaco, polacco, dove vescovi incapaci e indegni sono stati svergognati e messi in condizione di non scandalizzare più a nessuno. Invece, ci sono voluti sette anni perché questa promessa iniziasse a realizzarsi anche dentro i sacri palazzi. E ora sappiamo che non era solo un sospetto quello che, nel frattempo, faceva pensare a tantissimi cattolici che l’azione del Papa venisse sistematicamente frenata da quei cinici di curia che sin dagli inizi lo hanno dato per “scaduto” a causa dell’età, negandogli collaborazione e lealtà anche se inseriti in organi importanti del sistema pontificio. Come ha riassunto magistralmente Alberto Melloni, ormai anche la Santa Sede può liberamente far sapere ai cattolici del mondo che «troppi dei peggiori hanno fatto carriera in Curia». I Vatileaks sembrano una formidabile occasione offerta al Papa e ai suoi collaboratori per azionare, finalmente, quel “colpo di scopa”, con il quale il Papa attuale, e i suoi successori, potranno di nuovo aprire per tutta la Chiesa una stagione di rinnovamento e di nuove presenze.
La seconda annotazione riguarda la ferma, ed efficace, freddezza che sta animando coloro ai quali Papa Benedetto XVI ha messo in mano la scopa. Fino alla settimana scorsa giornaloni e giornalini davano per scontato una Segreteria di Stato vaticana debole, incapace e dedita ad innocui passatempi. E invece, come ha ricostruito la bravissima Fiorenza Sarzanini, l’impressione che sta emergendo in coloro che di cronaca giudiziaria se ne intendono per davvero è di trovarsi di fronte a una Segreteria di Stato che ha saputo approfittare delle trasmissioni di Gianluigi Nuzzi, quelle d’inizio anno su La 7, per avviare una repulisti generale e decidersi a mettere fine (sono le parole di Alberto Melloni) alla «mediocre sceneggiatura delle indiscrezioni... agitatori, agenti, organizzazioni, con libri paga, cordate di carriera e... calendario del campionato del wrestling fra movimenti» in auge ormai da troppo
tempo dentro la città leonina. In fondo, la smentita di Padre Federico Lombardi riguarda solo il ruolo “cosciente” di Paolo Gabriele delle investigazioni, e delle azioni, che lo riguardavano.
La terza annotazione è che la “rete eversiva” dentro le mura vaticane è stata scoperta in concomitanza dell’arrivo nel governatorato di un ex nunzio in Italia e di un ex uditore della Rota Romana, due “grands commis” della Chiesa ancora cooptati con i criteri di formazione e cultura del cattolicesimo pre-wojtyliano. La dimensione della «rete eversiva», composta da cinque-sei persone, è apparsa evidente subito dopo il trasferimento di monsignor Carlo Maria Viganò dal governatorato alla nunziatura di Washington. Tutto sommato, se non avesse avuto il rinforzo (grande) della stampa sarebbe stata smantellata senza particolari problemi.
L’ultima annotazione, la traiamo da un sospetto di Alberto Melloni, che vede nella violenza di certi diktat finto puritani «metodi e brutalità che solo noi italiani sappiamo leggere sulla filigrana dell’elezione del sindaco di Roma o degli equilibri di qualche holding». Come dire al futuro conclave: se pensate a un cardinale dello stivale come Papa, meglio cambiare idea.
Corriere 6.6.12
Quegli incontri sospetti del maggiordomo Nella lista due cardinali
di M. Antonietta Calabrò
Interrogato per ore dai magistrati vaticani Paolo Gabriele, l'aiutante di camera di Benedetto XVI, in cella da due settimane per il possesso illecito di documenti riservati.
La rete. Gabriele ha rivelato ai magistrati inquirenti la rete dei suoi contatti dentro e fuori le Mura Leonine: monsignori, amici e giornalisti.
Due porporati. L'aiutante di camera aveva rapporti di amicizia con membri della Segreteria di Stato e intratteneva conversazioni, facendo confidenze, anche con almeno un paio di cardinali di primissimo piano nella Curia romana.
Svelati dal maggiordomo i contatti in Italia e Vaticano Incontri nei bar di Roma. Parla anche di due cardinali ROMA — Ha parlato per ore e ore, collaborando ampiamente con la giustizia vaticana. Ha spiegato la rete dei suoi contatti dentro e fuori le Mura Leonine. Perché Paolo Gabriele per quanto possa sembrare incredibile, visto l'arco d'impegno del suo lavoro, passava spesso porta Sant'Anna. Soprattutto, era un tipo loquace e con la singolare abitudine (per un maggiordomo) di fare fotocopie su fotocopie. Incontrava monsignori e amici fuori dal Vaticano, e direttamente giornalisti.
Per l'aiutante di camera del Papa — in cella da due settimane per il possesso illecito di documenti riservati — la fase dell'istruttoria «formale» è entrata nel vivo. L'uomo sospettato di essere il «corvo» nella fuga delle carte segrete, accusato finora di furto aggravato (rischia da uno a sei anni), è stato infatti interrogato dal giudice istruttore Piero Antonio Bonnet, alla presenza del promotore di giustizia (il pubblico ministero vaticano) Nicola Picardi e degli avvocati difensori Carlo Fusco e Cristiana Arrù.
Sui suoi contatti ora si concentra l'attenzione sia degli inquirenti impegnati nell'indagine penale, sia della Commissione incaricata dal Papa e presieduta dal cardinale giurista Julian Herranz, non a caso composta da porporati, gli unici autorizzati a indagare sui pari grado. Tra i documenti trafugati (trovati in gran quantità in casa di Gabriele) molte carte gestite proprio dal segretario personale del Papa monsignor Georg Gänswein.
Gabriele si incontrava con i suoi contatti anche nei bar all'esterno del Vaticano. Vengono riferiti rapporti di amicizia con ufficiali della Segreteria di Stato. Ma anche con almeno un paio di cardinali di primissimo piano nella Curia romana, con cui intratteneva molte conversazioni. Insomma, Gabriele a più persone faceva confidenze, magari anche su cosa accadeva nell'Appartamento di Benedetto XVI. Il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha ripetuto ieri che Gabriele resta «per ora» l'unico accusato e, quanto ad atti istruttori su altri, «ci sono state indagini ma non erano formali. Nessuna imputazione è stata formulata a carico di altri». Resta il fatto che la persona che si è autoaccusata, sia pure sotto il vincolo dell'anonimato, di essere il Corvo, il 22 febbraio scorso nella trasmissione di Gianluigi Nuzzi (autore tre mesi più tardi del libro «Sua Santità), ha fornito un'indicazione ben precisa sulla data d'inizio della sua attività. Ha detto di aver cominciato a mettere via fotocopie «dopo la morte di Giovanni Paolo II» e questo, secondo il Blog degli Amici di Papa Ratzinger, svelerebbe anche l'ambito di amicizie e protezioni del «volatile».
Lombardi ha nuovamente smentito che siano state anche solo avviate delle rogatorie in Italia. Lo stesso Nuzzi contesta l'eventuale accusa di ricettazione nei suoi confronti poiché «tutti i documenti li ho ricevuti in fotocopia». Quanto a una possibile grazia per Gabriele, il giudice vaticano Paolo Papanti Pelletier ha precisato che il Papa è sovrano (quindi può concederla in ogni momento del procedimento). Dopo il processo penale Gabriele in ogni caso non potrà più tornare a lavorare Oltretevere, sarà licenziato (secondo il Regolamento generale della Curia Romana) e, secondo alcune voci, potrebbe attendere il processo in Italia, in una sorta di confino.
Sulla vicenda della fuga dei documenti è intervenuto anche il premier Mario Monti, che, in un'intervista a Famiglia Cristiana, ha detto: «Sono addolorato perché, in sé, sono vicende dolorose. Ma anche perché penso al dolore che questo ha provocato alla persona e nel cuore del Santo Padre».
Corriere 6.6.12
L'avversario americano e i suoi Cavalieri
di Ennio Caretto
Per essere una istituzione cattolica benefica, l'Ordine dei cavalieri di Colombo ha un potere politico e finanziario senza pari, che si estende ben oltre i confini dell'America, la sua terra d'origine. Tra i suoi membri vi furono il primo candidato cattolico alla presidenza degli Stati uniti, il democratico Al Smith, battuto nel 1928 dal repubblicano Herbert Hoover, futuro «padre» della Grande depressione degli Anni trenta, e il primo presidente cattolico, John Kennedy, eletto nel 1960 e assassinato nel 1963. Oggi vi sono leader della destra americana come Jeb Bush, ex governatore della Florida, figlio di George Bush senior e fratello di George Bush jr; come lo speaker della Camera John Boehner; come l'ex senatore integralista Rick Santorum, sconfitto di recente alle primarie repubblicane da Mitt Romney. L'Ordine, che ama definirsi «il braccio destro forte della Chiesa», è un impero finanziario che conta nelle sue file banchieri e industriali: le sue polizze assicurative, le sue fondamenta, sono valutate 85 miliardi di dollari, e il suo patrimonio è valutato 15 miliardi e mezzo. Nel primo decennio del 2000, da quando Carl Anderson, 61 anni, sposato, con cinque figli, fu nominato Supremo cavaliere, esso versò in beneficenza, non di rado al Vaticano, più di 1 miliardo e mezzo di dollari. Non a caso, i Cavalieri di Colombo godono da 19 anni consecutivi del massimo rating di Standard and Poor's. Non sorprende perciò che Anderson sia tra i candidati alla presidenza dello Ior, la banca vaticana, dove figura nel Consiglio d'amministrazione, e dove ha votato per la rimozione di Ettore Gotti Tedeschi. Il suo carnet è impeccabile. Acceso credente, sostenitore di Benedetto XVI, fermamente contrario all'aborto e ai matrimoni gay, come vogliono i valori americani, Anderson è un rigido custode della ortodossia cattolica, autore di bestseller edificanti, da «Una civiltà di amore» a «Al di là della casa divisa». Ed è un superbo manager: avvocato, abilitato alle cause davanti alla Corte suprema degli Stati uniti, investitore attento (sotto di lui, in media l'Ordine ha guadagnato il 7 per cento annuo) fa parte integrante dell'establishment di Washington fino dagli Anni Ottanta, quando il presidente repubblicano Ronald Reagan lo volle prima alla Casa bianca poi alla Commissione dei diritti civili. Anderson porterebbe al Vaticano la visione conservatrice e combattiva della Chiesa dei vescovi statunitensi. Conosce bene Roma: ha insegnato all'Università e all'Istituto pontifici, ed è Ambasciatore di Roma 2020. Alla sua nomina a capo dello Ior si frappongono due ostacoli: il suo stipendio di Supremo cavaliere è degno di Wall street, si aggira su 1 milione 200 mila dollari annui; né depone a favore di un americano il precedente dell'arcivescovo Marcinkus, suo connazionale, che coinvolse lo Ior nello scandalo Calvi del Banco Ambrosiano degli Anni ottanta. Ma è probabile che, con l'aiuto dell'Ordine, a differenza di Marcinkus, Anderson americanizzerebbe il Vaticano e ne risanerebbe le finanze.
Corriere 6.6.12
Il banchiere bianco «aspetta» il Papa tra veleni e timori sull'incolumità
In passato dimissioni respinte in tre occasioni. E poi la resa dei conti
di Massimo Franco
Raccontano che da settimane Ettore Gotti Tedeschi tema per la propria incolumità. E che da quando, il 24 maggio scorso, è stato «licenziato» dalla presidenza dello Ior, l'Istituto per le opere di religione, la «banca del Vaticano», la sua apprensione sia cresciuta. Le perquisizioni eseguite ieri per conto della Procura di Napoli «per cercare documenti» nella sua casa di Piacenza e nello studio di Milano, ipotizzando un collegamento con le inchieste su Finmeccanica, certamente non lo rasserenano: sebbene non risulti indagato e non si parli di collegamenti fra i due fatti. Ma il banchiere che per tre anni ha guidato lo Ior cercando di modificarne un profilo in passato non proprio trasparente, avrebbe messo in fila i segnali che hanno preceduto una rimozione senza precedenti.
Chi lo conosce riferisce di persone che negli ultimi tempi, in Vaticano, gli chiedevano quasi distrattamente se avesse la scorta. Altre che incontrandosi si confidavano di avere avuto disposizioni, non si sa bene da chi, di isolarlo. E mentre Oltretevere impazzava la caccia al «corvo» che distribuisce documenti top secret e fango sulla nomenklatura della Curia e perfino sulla cerchia dei collaboratori di Benedetto XVI, i suoi avversari hanno messo in giro un'altra voce: che fosse una delle «manine» traditrici. Un modo per delegittimarlo e per fargli capire che l'aria, per lui, si era fatta irrespirabile. Da quanto risulta, l'aveva capito così bene da avere offerto in almeno tre occasioni le dimissioni: sempre respinte, pare. Il rapporto di fiducia con l'«Appartamento» del pontefice sembrava proteggerlo da qualunque attacco.
D'altronde, si temeva che il suo siluramento spedisse all'esterno un messaggio negativo sul futuro dello Ior e in generale sul clima di intrigo che sta segnando l'immagine della Santa Sede. Gotti Tedeschi non è soltanto un economista cattolico stimato, legato all'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, docente universitario e amico personale di Emilio Botín, numero uno del gruppo spagnolo Banco Santander. È stato anche una delle persone chiamate da Benedetto XVI a collaborare alla stesura dell'enciclica Caritas in veritate. Per questo, quando nel Consiglio di Sovrintendenza dello Ior si è capito che Carl Anderson, numero uno dei Cavalieri di Colombo statunitensi, e il tedesco Ronaldo Hermann Schmitz, ex della Deutsche Bank, volevano sfiduciarlo, ci sono state consultazioni febbrili. Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, per quanto irritato con Gotti Tedeschi, è stato uno dei primi a intuire l'impatto negativo di quell'atto.
Per questo avrebbe cercato un compromesso. Indiscrezioni vaticane sostengono che, fra le varie opzioni, è stata esaminata la possibilità di uno spostamento di Gotti Tedeschi alla Pontificia Accademia delle scienze sociali presieduta da Mary Ann Glendon, giurista di Harvard apprezzatissima dal pontefice, ex ambasciatore Usa presso la Santa Sede. Ma alla fine le alternative si sono rivelate impraticabili, anche perché Anderson e Schmitz volevano sfiduciare a ogni costo il presidente dello Ior. Il comunicato liquidatorio fino allo sgarbo col quale hanno motivato la decisione induce a pensare che in caso contrario si sarebbero dimessi loro. Ma perfino chi sostiene che Gotti Tedeschi non era la persona giusta per guidare lo Ior, è costretto ad ammettere che la sua defenestrazione è stata un errore madornale: nei modi e nei tempi.
Ha dilatato ed esagerato la sensazione di un Vaticano nel quale anche le rese dei conti più brutali hanno perso quei connotati felpati, connaturati in questa istituzione. E hanno lasciato aperte molte domande, dopo mesi nei quali al presidente dello Ior erano stati affidati i dossier finanziari più delicati: sia le leggi antiriciclaggio che debbono convincere gli ispettori di Moneyval, mandati a Roma dal Consiglio d'Europa, ad ammettere lo Ior nella lista mondiale delle banche virtuose; sia il salvataggio dell'ospedale San Raffaele, voluto fortemente dal cardinale Bertone: con Gotti Tedeschi delegato a trattare col sistema bancario; e Giovanni Maria Flick, ex Guardasigilli ed ex presidente della Corte costituzionale, incaricato di raccordarsi con la Procura di Milano, titolare dell'inchiesta sul crac finanziario della creatura di don Luigi Verzè. Nell'autunno del 2011 l'allora presidente dello Ior aveva anche tentato di offrire una soluzione tecnica per la questione dell'Imu, la nuova Ici, sui beni ecclesiastici, prima che la risolvesse il governo di Mario Monti. Ma era stato bloccato.
Sono stati i fatti successivi, tuttavia, a inspessire le incomprensioni con gli uomini di Bertone: fino a farle degenerare in uno scontro a somma zero. E lentamente, nelle settimane precedenti alla sfiducia si sono cominciati a diradare anche i contatti fra il banchiere e l'«Appartamento». L'asse fra Gotti Tedeschi e il cardinale Attilio Nicora, numero uno dell'Aif (l'Autorità di informazione finanziaria contro il riciclaggio), ha trovato negli uomini di Bertone, in Anderson e nell'avvocato che difende il Vaticano nelle cause contro i preti pedofili in Usa, Jeffrey Lena, contraltari determinati e, alla fine, vincenti: almeno per il momento. E adesso c'è la perquisizione per l'inchiesta a Napoli, a conferma che piove sempre sul bagnato. La cosa sorprendente è che Gotti Tedeschi sembra quasi aver deciso di non difendersi, mentre dall'interno del Vaticano gli scaricano addosso di tutto. Eppure conosce ogni documento, e i suoi avversari sanno che sa.
Forse, la spiegazione più plausibile è che aspetta un cenno del Papa. Ha sempre detto che ritiene Benedetto XVI l'unica persona alla quale pensa di dover rispondere del proprio operato. E alla quale ubbidire.
il Fatto 6.6.12
Il braccio di ferro tra magistratura italiana e Istituto Opere Religiose
La guerra sulla trasparenza e la vendetta di Bertone
di M. L.
L’uomo dell'antiriciclaggio che finisce intercettato in un'indagine per riciclaggio. È questo il paradosso dell'ex presidente IOR Ettore Gotti Tedeschi, tuttora presidente del Banco Santander Consumer e procuratore in Italia della holding spagnola Banco Santander S.A. I pubblici ministeri di Napoli sono arrivati a perquisire la casa e l'ufficio del banchiere in un momento molto particolare della vita di questo 67enne che vanta un rapporto personale con il Papa e ottime entrature nell'Opus Dei. Gotti Tedeschi ha cercato di promuoversi in questi mesi con i suoi amici che controllano l'informazione italiana, e in parte è stato realmente l'alfiere della trasparenza bancaria nella battaglia che si è svolta nelle segrete stanze vaticane e che ha visto contrapposte due anime. La prima favorevole a una maggiore trasparenza e collaborazione con l'autorità giudiziaria italiana, rappresentata da Gotti Tedeschi stesso nello IOR e dal duo composto dal presidente dell'autorità antiriciclaggio vaticana, il cardinale Attilio Nicora, e dal direttore dell'AIF, l'avvocato Francesco De Pasquale. L'altra, che invece era contraria a fornire informazioni alla Banca d'Italia e ai pm italiani sui movimenti dei conti IOR precedenti al 2011, guidata invece dal Segretario di Stato Tarcisio Bertone, dal direttore generale dello IOR Paolo Cipriani e dai due potenti avvocati del Vaticano, l'americano Jeffrey Lena e l'italiano dello studio Grande Stevens, Michele Briamonte. Al di là delle dotte motivazioni giuridiche e dei carteggi pubblicati dal Fatto in esclusiva (un memo di Gotti Tedeschi, una lettera del cardinale Attilio Nicora e un parere del presidente del Tribunale del Vaticano) al centro della contesa c'era una questione concreta: la trasparenza sui reali intestatari dei miliardi di euro passati dall'Istituto Opere di Religione, in passato usato da dittatori, faccendieri e mafiosi per schermare i loro fondi.
Gli archivi “schermati”
Gotti Tedeschi, soprattutto dopo essere stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Roma per violazione della normativa antiriciclaggio, aveva spinto sugli uomini vicini al Papa perché prevalesse la linea dell'apertura degli archivi dello IOR, che opera schermando i reali beneficiari dei fondi trasferiti sotto il suo nome. Una prassi gradita ai 40 mila correntisti che però è finita nel mirino della Banca d'Italia e della Procura di Roma. Nel settembre 2010 lo IOR si è visto sequestrare 23 milioni di euro in partenza verso la Jp Morgan Franco-forte (20 milioni) e la Banca del Fucino (3 milioni di euro) sui quali non voleva fornire informazioni alle autorità italiane .
Il presidente Gotti Tedeschi e il direttore generale, Paolo Cipriani, sono stati indagati dal pm Stefano Rocco Fava e dal procuratore aggiunto Nello Rossi per violazione della normativa antiriciclaggio e da allora è partita una lunga partita a scacchi tra Stato Vaticano e l'Italia. La prima mossa è stata fatta a sorpresa dal Papa: il 30 dicembre 2010 è stata approvata la normativa “per la prevenzione e il contrasto delle attività illegali in campo finanziario”. Quella legge istituiva in Vaticano l’Autorità di informazione finanziaria (AIF), per il contrasto del riciclaggio e prevedeva per questa autorità modellata sull'UIF italiana la possibilità di effettuare ispezioni sui conti IOR e di comunicare i risultato all'UIF stessa, che poi li avrebbe girati ai magistrati. Si trattava di una vera e propria rivoluzione: la Procura di Roma avrebbe potuto conoscere il reale intestatario, peresempio, dei fondi girati da un mafioso mediante un conto IOR (usato per schermarne la proprietà reale) su un conto di un insospettabile, semplicemente mediante una richiesta di informazioni dall'UIF all'AIF. Inizialmente le cose avevano funzionato bene. Dopo la prima risposta positiva dall'AIF all'UIF, la Procura di Roma aveva dissequestrato i 23 milioni che avevano dato origine alla vertenza nel maggio 2011 perché: “L’AIF ha già iniziato una collaborazione con l’UIF fornendo informazioni adeguate su di un’operazione intercorsa tra IOR e istituti italiani e oggetto di attenzione”.
Cancellati i poteri d’ispezione
Ottenuto il dissequestro, la Segreteria di Stato ha ingranato la retromarcia. Il 25 gennaio 2012 è stata approvata una nuova direttiva che cancella i poteri di ispezione dell'AIF e li subordina nell'ordine a un nulla osta della Segreteria di Stato ai regolamenti (mai emanati) della Commissione Pontificia e a un protocollo di intesa UIF-AIF che, anche per le diffidenze italiane, non è mai stato siglato. La retromarcia del Vaticano è stata prontamente segnalata dalla Procura di Roma alla quinta divisione sulla prevenzione antiriciclaggio del ministero dell'Economia italiano, guidata da Giuseppe Maresca.
In quel momento decisivo, Ettore Gotti Tedeschi si è schierato contro la linea della chiusura benedetta dal cardinale Tarcisio Bertone. Una scelta che potrebbe essergli costata la poltrona di presidente dello IOR.
il Fatto 6.6.12
IOR-Finmeccanica ecco le telefonate
Perquisita la casa di Gotti Tedeschi: i pm a caccia di documenti sugli affari. Intercettati gli sfoghi con Orsi
di Marco Lillo
Altro che corvo. Altro che Vatileaks. I documenti che hanno fatto infuriare il Vaticano, quelle lettere formali piene di ossequio cerimonioso pubblicate nei mesi scorsi dal Fatto e nel libro Sua santità, impallidiscono al confronto della nuova tempesta che si sta scatenando sul Vaticano stavolta sul versante giudiziario e non più giornalistico. Tutto lascia credere che nel caso “scritto” e finora “in bianco e nero” del Corvo vaticano possa irrompere il colore. Nel film a due dimensioni andato in onda sugli schermi dello IOR e basato sulle lettere e i documenti fuoriusciti dalle stanze della Santa Sede, arriverà nelle prossime settimane, se non il 3D, almeno il sonoro delle intercettazioni. Sono quelle registrate dalla Procura di Napoli nell’ambito dell’indagine Finmeccanica per le presunte mazzette pagate ai politici italiani vicini alla Lega e a Cl con la complicità (tutta da dimostrare) del numero uno del gruppo, Giuseppe Orsi.
L’INCHIESTA si basa sulle accuse dell’ex numero tre del gruppo, Lorenzo Borgogni, secondo il quale mediante una consulenza pagata allo svizzero Guido Ralph Haschke, in occasione della vendita di 12 elicotteri all’India, si sarebbe creata la provvista per una mazzetta da 10 milioni di euro per la Lega e Cl. Accuse finora non riscontrate e smentite dal gruppo con tanto di comunicati alla Consob. I pm però, in questi mesi, hanno continuato a indagare su Orsi, presidente e amministratore delegato del gruppo pubblico, e tramite lui si sono imbattuti in Ettore Gotti Tedeschi, un manager di formazione cattolica, come Orsi, nonché suo grande amico. Proprio con Orsi, Ettore Gotti Tedeschi si sfogava nei giorni che hanno preceduto e seguito la sua defenestrazione dallo IOR avvenuta il 24 maggio scorso. E proprio quelle conversazioni potrebbero essere all’origine dell’accelerazione di ieri nell’inchiesta.
Se – come appare scontato – Orsi era intercettato dai pm di Napoli e sono state ascoltate anche le conversazioni di Gotti Tedeschi con alti prelati (il codice prevede di intercettare persone non indagate), in questi dialoghi potrebbero essere stati svelati i retroscena sulla contesa interna al Vaticano, sul ruolo del cardinale Tarcisio Bertone e persino su quello del Papa. Quelle conversazioni, registrate per trovare riscontri alle accuse sulla corruzione in Finmeccanica, potrebbero essere depositate e diventare benzina sullo scontro che divampa Oltretevere tra la fazione vicina al cardinale Tarcisio Bertone e quella che gli si oppone. Uno scontro che somiglia più a una mattanza per l’esito a senso unico, con la soccombenza di quasi tutti i nemici di Bertone, come Ettore Gotti Tedeschi. L’ex presidente del-IOR in questi giorni stava preparando una sorta di memoriale difensivo da sottoporre alle massime autorità pontificie per discolparsi. Ma probabilmente i pm napoletani confidavano di trovare nell’abitazione e nell’ufficio del banchiere qualcosa di molto diverso: documenti relativi agli affari di Finmeccanica che Orsi potrebbe aver-consegnato.
GLI UOMINI del Nucleo tutela dell’ambiente guidato dal colonnello Sergio De Caprio,
Più famoso come Ultimo, hanno perquisito di prima mattina l’appartamento del-ex presidente dello IOR e il suo ufficio a Milano a due passi dalla Scala, presso il Banco Santander, nel quale Gotti Tedeschi riveste alcune cariche importanti, come quella di presidente di Santander Consumer e rappresentante della holding.
POI I PM Piscitelli e Woodcock che con il terzo sostituto Francesco Curcio e con l’aggiunto Francesco Greco, conducono l’indagine, hanno ascoltato Gotti Tedeschi come persona informata dei fatti negli uffici della caserma del NOE di via Pasuvio alla periferia di Milano. L’interrogatorio è stato secretato e Gotti Tedeschi uscendo è apparso molto provato psicologicamente. Non è un buon momento per il banchiere. Dopo il colpo inatteso della cacciata dallo IOR con una lettera di inusitata durezza del board nella quale era accusato di varie inadempienze, Gotti Tedeschi aveva cercato di veicolare in lunghi colloqui con i suoi potenti amici ai vertici della Chiesa, delle società pubbliche e delle redazioni dei giornali, l’immagine di un paladino della trasparenza sconfitto dall’ala conservatrice annidata nella Segreteria di Stato. L’uomo che si vantava di scrivere passi delle encicliche papali e che si permetteva di bacchettare gli alti prelati al cospetto di Benedetto XVI, dopo essere stato accusato dal board dello IOR di non avere combattuto la “disseminazione ” dei documenti, si è ritrovato a dover dare spiegazioni ai pm sui suoi rapporti con Orsi.
La Procura di Napoli ha precisato che l’indagine non ha nulla a che fare con lo IOR, anche per sedare l’irritazione della Procura di Roma che indaga dal 2010 sul banchiere e non aveva ricevuto alcuna informazione prima del blitz. In serata, i vertici delle due procure si sono sentiti telefonicamente per chiarire le incomprensioni e i pm partenopei hanno promesso di trasferire al più presto le carte relative allo IOR che sono state trovate nella perquisizione.
(ha collaborato Chantal Dumont)
il Fatto 6.6.12
Relazioni a 5 stelle
Dal Papa a Capezzone, banchiere non solo di Dio
di Giorgio Meletti
Enon fortunato, almeno negli ultimi giorni. Prima la tumultuosa cacciata dallo Ior, adesso il coinvolgimento (senza essere indagato) nelle disavventure dell’amico, coetaneo e concittadino Giuseppe Orsi, numero uno di Finmeccanica. Due incidenti che segnalano in modo plastico la doppia natura del banchiere piacentino: legatissimo alla Chiesa, fino a diventare il banchiere di Dio per eccellenza, assiso sulla poltrona che fu di Paul Marcinkus; ma anche banchiere degli uomini, da un quarto di secolo personaggio centrale della finanza italiana.
UNA CARRIERA sempre in bilico tra la dimensione religiosa e quella secolare. Negli anni ‘80, dopo l’apprendistato in McKinsey e Banca Imi, è al fianco di Gianmario Roveraro alla banca Akros, che passerà alla storia per aver portato in Borsa la Parmalat di Calisto Tanzi. Roveraro, legato all’Opus Dei, stava tornando da una riunione di preghiera la sera del 5 luglio 2006, quando fu rapito, ucciso e fatto a pezzi.
Ma Gotti Tedeschi era già lontano. Nei primi anni ‘90 aveva lasciato la Akros e aveva aperto la filiale italiana del Banco Santander, istituto spagnolo schiettamente targato Opus Dei come il suo boss Emilio Botin. E da quella poltrona il futuro banchiere di Dio ha svolto il suo articolato percorso di fede, studio, esternazione, insegnamento, relazioni e affari. Il colpo grosso lo fa nel 2007, quando compra dal colosso olandese Abn Amro la banca Antonveneta per meno di 6 miliardi di euro e la rivende poche settimane dopo al Monte dei Paschi di Siena per oltre 9 miliardi. Mentre il presidente Mps, il laico Giuseppe Mussari, si sbracciava a rivendicare di aver fatto un ottimo affare, Gotti Tedeschi, cristianamente, contava la plusvalenza: il Santander ha fatto un tale imprevisto profitto da poter cancellare il previsto aumento di capitale da 4 miliardi di euro.
Una bella rivincita sullo spietato mercato italiano che pochi mesi prima aveva castigato le pie ambizioni del Santander. Con l’8,4 per cento delle azioni Botin e Gotti Tedeschi erano diventati i primi azionisti del San Paolo Imi, che pensavano di scalare, quando i torinesi a sorpresa si sono fusi con Banca Intesa, il colosso guidato da due altri cattolicissimi come Giovanni Bazoli e Corrado Passera, di osservanza però più montiniana, quindi cattolici di una famiglia lontana dall’Opus Dei.
MA LA RETE dei rapporti di Gotti Tedeschi continua ad arricchirsi. Al di là del Tevere ha ottimi rapporti con una sacco di cardinali, tra cui Joseph Ratzinger, che diventerà Papa. Al di qua del Tevere costruisce una solida amicizia con il fiscalista Giulio Tremonti, che diventa ministro dell’Economia potentissimo. Il banchiere piacentino viene nominato consigliere per “i problemi economico-finanziari ed etici nei sistemi internazionali”, di cui è appassionato studioso. Ma già che c’è, il nostro consiglia Tre-monti anche su materie più terrene, per esempio fa il diavolo a quattro per convincerlo a mettere l’amico Orsi al vertice di Finmeccanica. E intanto incassa la nomina nel consiglio della Cassa Depositi e Prestiti e la presidenza del fondo statale (nel senso di Stato italiano) F2I.
NOTE , se non memorabili, alcune prese di posizione sulla grande crisi finanziaria mondiale. In primo luogo la proposta di mandare i grandi manager a fare “ritiri spirituali, come quelli pensati da sant’Ignazio di Loyola” (il fondatore dei gesuiti). Non male neanche l’idea di rispondere alle difficoltà del sistema previdenziale “riprendendo a fare figli nel mondo occidentale, ma in una famiglia vera, fatta di papà e mamma, fondata sul matrimonio”. Ma Gotti Tedeschi è anche pensatore estroso, che non ha mancato di firmare un mitico manifesto liberista di Daniele Capezzone mentre collaborava con Papa Ratzinger alla scrittura dell’enciclica “Caritas in veritate”. Soddisfatto del proprio lavoro, ha poi fatto sapere che per quell’enciclica Benedetto XVI meritava il Nobel. E il Papa non ha gradito.
Visti i risultati, gli devono essere rimasti più amici in Italia che in Vaticano. Quando l’hanno silurato dallo Ior, numerosi papaveri della finanza hanno firmato una lettera di protesta, giurando che l’amico Ettore è “persona integerrima”. C’era anche la firma del numero due di Finmeccanica, Alessandro Pansa. Mancava quella di Orsi. Prudente e ingrato.
l’Unità 6.6.12
L’iniziativa
«L’Italia sono anch’io» arriva oggi in Parlamento
di Filippo Miraglia
Responsabile nazionale immigrazione Arci
LA CAMPAGNA PER LA CITTADINANZA L’ITALIA SONO ANCH’IO ENTRA OGGI ALLA CAMERA DEI DEPUTATI. DOPO LA CONSEGNA DELLE FIRME nel marzo scorso c’è la necessità di rendere visibile, nella sede dove si esercita la responsabilità politica di chi rappresenta i cittadini e le cittadine italiane, una istanza che arriva dal basso e che propone un investimento sul futuro di questo Paese. Trasformare un problema in una opportunità dovrebbe essere compito della politica. Soprattutto in una fase in cui non gode di grande popolarità e avrebbe un grande bisogno di idee capaci di indicare una prospettiva, di suscitare entusiasmo, di rimettere al centro l’interesse comune.
Oggi centinaia di migliaia di famiglie di origine straniera vivono una condizione di inferiorità, che riguarda sia i genitori che i loro figli. Stiamo parlando di oltre cinque milioni di persone, che subiscono una sistematica discriminazione nel rapporto con la pubblica amministrazione.
È il risultato dell’uso strumentale del tema immigrazione che da più di vent’anni viene esercitato da una parte della nostra classe politica e da certa stampa sempre alla ricerca di facili capri espiatori.
Ma sul tema, purtroppo, si è registrato anche un atteggiamento “difensivo”, una certa debolezza del “fronte dei diritti”, accompagnato spesso da una qualche ambiguità nei messaggi e nelle proposte.
La campagna «L’Italia sono anch’io» si è posta l’obiettivo di contribuire al superamento degli ostacoli che hanno reso impossibile il pieno dispiegarsi del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della nostra Costituzione, in particolare nei confronti delle persone di origine straniera.
Come la rivoluzione borghese nel diciannovesimo secolo si costruiva sulla grande contraddizione tra le parole d’ordine libertà, solidarietà, uguaglianza e la tragedia della schiavitù, analogamente l’Europa di oggi è stata edificata sulla contraddizione fra l’abbattimento dei confini tra gli Stati con l’idea di uno spazio di libertà e promozione dei diritti e la creazione di barriere interne, di vere e proprie discriminazioni, sancite per legge e socialmente accettate, tra gruppi di cittadini, tra lavoratori autoctoni e di origine straniera.
Guardare al futuro del Paese prendendosi cura della democrazia e della sua qualità attraverso la promozione della partecipazione, l’impegno nei territori dove si costruiscono le relazioni sociali e scoppiano i conflitti: questo è un obiettivo di lungo periodo per il quale vale la pena impegnarsi.
Un obiettivo che può essere perseguito anche a partire dal tema della cittadinanza e dei diritti dei migranti, con una alleanza tra le organizzazioni sociali, le istituzioni della Repubblica che hanno mostrato sensibilità sull’argomento, la politica e il mondo della cultura.
il Fatto 6.6.12
Se un milione vi sembran pochi
risponde Furio Colombo
Caro Furio Colombo, i giornali e i tg mi hanno chiesto di prendere nota che un milione (un milione) di persone erano corse a Milano da tutto il mondo a fare festa al Papa. Il giorno dopo mi hanno comunicato (ma non tutti, e non in prima pagina) che un milione (un milione) di persone si erano radunate a Ostia da tutto il Lazio per vedere le acrobazie in cielo delle Frecce tricolori, quelle stesse Frecce tricolori tagliate dalla rivista del giorno prima (2 giugno) perché troppo costose. Come mettere insieme le tre notizie e trovare un senso?
Cristina
LA PRIMA è nello stesso tempo, di cronaca e di politica. È cronaca che un milione di fedeli si sono radunati a Milano intorno al Papa che proclamava ancora una volta l’esistenza di una sola famiglia, non fondata sull’amore ma sul genere. Ogni religione ha i suoi limiti invalicabili che cambiano nel tempo. In questa religione e in questo tempo nessun dorma sotto lo stesso tetto se non ha il certificato civile in ordine, e il certificato civile è in ordine solo se lo Stato fa quel che dice la Chiesa. Niente amori senza timbro e niente timbro senza dogma. Ma la notizia del milione intorno al Papa è anche politica, per restituire al Papa e ai credenti un po’ di conforto dopo le brutte notizie su corvi e spie e delazioni e furto di carte riservate dalla stanza del Papa. In questo senso è stata certo una buona azione. La notizia di Ostia ci parla della banalità della vita di massa (un milione si mette insieme in fretta, se si promette spettacolo) e delle banali ragioni per cui si spendono soldi anche in momenti di grave difficoltà. Per esempio, quel giorno, nessun sindaco avrebbe avuto la minima somma che a volte serve d’urgenza per consentire a un disabile di pagare la rata del mutuo della casa o per non perdere l’unico mezzo di trasporto. Lo dico per avere provato a intervenire in alcuni casi disperati. Ma tutti insieme, sindaci e presidenti di Provincia e la governatrice che chiude un ospedale al giorno, hanno potuto pagare ore di festa nel cielo di Ostia, comprese le costosissime Frecce tricolori che il capo dello Stato, il giorno prima, non si era potuto permettere. E a Ostia c’era, in bella vista, il sindaco di Roma che, a Roma, si era rifiutato di festeggiare il 2 giugno per ragioni di risparmio. Conclusione. C’è un senso solo nella prima notizia. Ma per dire che sono in tanti a ripetere, per fede, entusiasmo o prudenza, che è proibito amarsi senza regolare permesso della Chiesa (che provvede a bloccare lo Stato tramite Parlamento ossequioso).
Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano
il Fatto 6.6.12
“Via da Gerusalemme”
Israele, attentati razzisti contro gli eritrei
di Roberta Zunini
Non più solo a Tel Aviv, la città dove sopravvive la maggior parte degli immigrati clandestini. L’odio nei confronti dei sudanesi e degli eritrei entrati illegalmente in Israele, attraverso il poroso confine egiziano, si sta diffondendo in tutto il Paese. E ha contaminato anche le vie di Gerusalemme, la Città Santa: l’altra notte, in un quartiere abitato soprattutto da ebrei ortodossi, sono state lanciate alcune bottiglie molotov contro un appartamento stipato di eritrei. Non ci sono state vittime ma una decina di migranti è rimasta intossicata a causa del fumo inalato. Sulla facciata abbrustolita del palazzo si legge ancora la scritta: “Uscite dal nostro quartiere”. Un attentato fotocopia di quelli accaduti il mese scorso nella capitale amministrativa, dove nella zona sud, durante una manifestazione contro l’immigrazione, erano state lanciate bottiglie incendiarie contro abitazioni, negozi gestiti da immigrati e addirittura un asilo.
“QUESTI episodi di razzismo sconvolgono ancora di più perché compiuti da noi ebrei, che conosciamo bene le conseguenze della discriminazione”, spiega Iftach Cohen, un giovane ma già noto avvocato di Tel Aviv, che da anni difende gratuitamente gli immigrati e i richiedenti asilo, assieme a Itamar Mann, figlio del docente e politologo Kenneth Mann. “Questo livore nei confronti degli immigrati è cresciuto anche per i discorsi del primo ministro Netanyahu”. Il ministro dell’Interno, Eli Yishai, si è spinto oltre: ha fomentato la rabbia degli israeliani agitando addirittura lo spauracchio dell’Aids. Secondo Yishai molti clandestini sono affetti da Hiv e contribuirebbero alla diffusione della malattia. Anche altri politici di destra e alcuni media hanno dato il loro contributo a far crescere la paura nei confronti degli immigrati, definendoli “peste”, “spazzatura”, “cancro”. L’insofferenza nei confronti degli immigrati africani, subsahariani, è aumentata negli ultimi due anni, quando in Israele sono entrati migliaia di disperati alla ricerca di un futuro. A Tel Aviv sono concentrati nella zona attorno alla stazione degli autobus, ormai considerata dalla maggior parte dei cittadini una cashba infrequentabile. Ma molti di loro sono coloro che spazzano giorno e notte i bagni dei loro ristoranti e locali preferiti. Per pochi spiccioli. “Non tutti gli israeliani ci trattano male – dice in buon italiano un’anziana eritrea che da anni gestisce un piccolo negozio di alimentari dietro via Perez a Tel Aviv – ma iniziano a non sopportarci più, pensano che siamo delinquenti o, quando va bene, ladri di lavoro, perché anche molti di loro non stanno più così bene, il costo della vita qui è cresciuto tantissimo”.
SECONDO l’autorità sull’immigrazione, ci sono 62 mila immigrati su una popolazione di quasi 8 milioni di israeliani. I migranti entrati in Israele lo scorso mese sono circa 2mila, rispetto ai 637 del maggio 2011. Il Guardian ha riportato le parole shock del deputato Aryeh Eldad: “Si dovrebbe saparare a chiunque entri in Israele”. Purtroppo, ha aggiunto, “tanti cuori sanguinanti potrebbero rivolgersi ai tribunali”.
Corriere 6.6.12
Se la Russia tende la mano alla Cina per paura di una primavera dei diritti
di Luigi Ippolito
L'Orso e il Dragone, potrebbe essere il titolo del remake del film di spada e magia. Più spada che magia, a dire il vero: perché Russia e Cina hanno molto in comune soprattutto sui temi di sicurezza e difesa. Oltre, ovviamente, all'onnipresente questione energetica.
È una partnership strategica quella che prende corpo in questi giorni di visita nella Città Proibita da parte di Vladimir Putin. L'asse fra Mosca e Pechino in questo momento è attivo in primo luogo alle Nazioni Unite sulla Siria. «Entrambe le parti si oppongono a un intervento esterno in Siria e si oppongono a un cambio di regime ottenuto con la forza», ha sintetizzato il portavoce del ministero degli Esteri cinese. Il che vuol dire che ogni tentativo di forzare la mano al Palazzo di Vetro è destinato a infrangersi contro un muro.
Mosca e Pechino guardano con sospetto alla tentazione interventista che serpeggia in Occidente per ragioni interne speculari. Putin teme che l'America possa soffiare sul vento di «una primavera russa» che delegittimi il suo regime mentre la leadership cinese è sempre in guardia rispetto alle interferenze esterne, sia che riguardino il Tibet sia che tocchino il tasto dei diritti umani. E a ben guardare la situazione politica dei due Paesi è entrata in una fase similare. Putin III è intento a cementare il suo potere contro quella che viene percepita come una minaccia interna fomentata da fuori: con un inevitabile rimbalzo di retorica (e non solo retorica) nazionalista. La Cina è entrata in una fase di estrema turbolenza alla vigilia del decennale passaggio di poteri al vertice: anche qui il risultato è un'aggressiva sterzata nazionalista.
C'è a dire che la percezione dei due regimi è alimentata da alcuni fattori oggettivi esterni. Mosca è ossessionata dai progetti occidentali di difesa anti-missile in Europa mentre Pechino guarda con irritazione agli accordi militari americani con Vietnam, Filippine, Australia, che vengono letti come una strategia di accerchiamento.
Ecco allora che le visioni strategiche dei due Paesi vengono a collimare, grazie anche alla complementarietà fra il più grande esportatore e il più grande consumatore mondiale di energia. L'Occidente prenda nota.
l’Unità 6.6.12
Due repliche a proposito di Gramsci
di Bruno Gravgnuolo
DUE RISPOSTE. UNA A NUNZIO DELL’ERBA, L’ALTRA A CLARA SERENI. Il primo ci ha scritto, denunciando «sibillinità», e mancanza di rispetto nei suoi riguardi, per un Tocco&ritocco che giudicava raffazzonato un suo scritto su Europa sull’ultimo libro di Luciano Canfora dedicato a Gramsci. Sereni ci ha contestato (l’Unità del 18 maggio) l’opinione che la sinistra abbia fatto i conti con Israele e «Questione ebraica». Cominciamo da Dell’Erba, studioso di idee politiche a Torino. Nessuna mancanza di rispetto nei suoi confronti, tutt’altro. Ma definire massacro editoriale, l’edizione tematica di Gramsci del 1947, è mancanza di rispetto per la realtà. Vero, vi furono censure in essa e sulle lettere famose (Grieco a Gramsci del 1928, Gramsci ai sovietici del 1926, Gramsci a Tatiana sul caso Grieco, etc.). E fra i «censori» vi fu Sraffa, di cui Gramsci si fidava ciecamente! Però l’opera di Gramsci fu salvata da Togliatti a Mosca dal tentativo delle sorelle Schucht di affidare i Quaderni al Komintern. Poi «filtrata», ma senza distorsioni. E fu Togliatti stesso a rimuovere le censure e a porre le basi della prima edizione critica. Inoltre Togliatti usò alla lettera non «strumentalmente» le indicazioni eretiche di Gramsci. Realizzandole. Cioè: il nesso democratico tra fronte antifascista e Costituente, col gradualismo «di posizione» e «l’egemonia» care a Gramsci. Se Gramsci è vivo e integro, lo dobbiamo filologicamente e culturalmente al Pci e ai suoi eredi. Il che è incontestabile, piaccia o meno a Dell’Erba.
Quanto a Clara Sereni, abbiamo tirato in ballo anche Marx, come causa di equivoci ed errori! E confermiamo: Pci e «post-Pci» il loro dovere, su antisemitismo e antisionismo, lo hanno fatto. Dalla metà degli anni 80. Sacche di ignoranza e ideologia «alla base»? D’accordo. Ma l’Unità le martella da anni e anni. E distinguendo sempre tra destra israeliana e diritto di Israele.
Corriere 6.6.12
Gramsci e il mistero del Quaderno XXXIII
di Franco Lo Piparo
Morto Gramsci (27 aprile 1937), la cognata Tania (o Tatiana) Schucht ha due ossessive preoccupazioni tra loro collegate.
Prima preoccupazione. I manoscritti del cognato non devono andare nelle mani di Togliatti. Lettera alla sorella Giulia (moglie di Antonio) del 5 maggio: «La sua (di Gramsci, ndr) volontà è che sia tu a ricevere questi manoscritti, e non la sezione italiana, capisci mia cara?». Lettera del 25 maggio alla sorella Eugenia: «Non bisogna pensare che un italiano qualsiasi, un compagno ex amico, debba farsi carico di questo lavoro (di edizione dei manoscritti, ndr)». Non pare che ci siano margini per interpretazioni.
Seconda preoccupazione. Bisogna vigilare perché i manoscritti non vengano manomessi. Lettera a Sraffa del 12 maggio: «Volevo che Giulia sapesse della mia intenzione di mandarle tutti gli scritti affinché lei li ritirasse per evitare qualsiasi perdita o intromissione di chicchessia».
Tania è portavoce dei timori che il cognato le ha comunicato nelle cliniche Cusumano e Quisisana. La conferma che i timori fossero fondati la fornisce la lettera che Togliatti scrive il 25 aprile 1941 a Dimitrov, all'epoca segretario del Comintern: «I quaderni di Gramsci che io ho (…) accuratamente studiato (…) possono essere utilizzati solo dopo un'accurata elaborazione. (…) Alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili al partito».
Gramsci e Togliatti concordano sulla dissonanza dei quaderni con pratica e teoria bolsceviche. Ciò ha reso necessaria ai fini della pubblicazione una qualche «perdita» o «intromissione» di mano estranee? Degli indizi che fanno pensare alla «perdita» di un quaderno mi sono occupato nel recente libro I due carceri di Gramsci (Donzelli). Ne aggiungo un altro che non avevo notato nel libro.
Nei giorni immediatamente successivi alla morte del cognato, Tania ha incollato sulla copertina di ciascun quaderno, allo scopo di meglio identificarlo, una etichetta con un numero in cifre romane. I numeri che ci sono pervenuti sono attribuiti in modo del tutto casuale, vanno dal I al XXXIII, ma saltano da XXXI a XXXIII.
In basso a sinistra sulla copertina del quaderno che nella edizione di Gerratana ha il numero 10 (La filosofia di Benedetto Croce), è incollata una strisciolina di carta col numero XXXIII. Riporto la descrizione analitica che ne fanno Francioni e Cospito nella presentazione dell'edizione anastatica: «In una strisciolina di carta incollata in basso sul dorso del quaderno a scopo di inventario dopo la morte di Gramsci, Tatiana Schucht ha scritto a matita l'indicazione XXXIII».
Francioni e Cospito si sbagliano: l'indicazione XXXIII non è stata scritta da Tatiana Schucht. Il lettore se ne può accorgere da solo confrontando, a titolo esemplificativo, il numero XXVIII, sicuramente scritto da Tania, col numero XXXIII, scritto nella «strisciolina di carta incollata sul dorso del quaderno». Per maggiore sicurezza ho chiesto una perizia grafologica al dottor Pietro Pastena, consulente di diversi uffici giudiziari. Il responso è stato netto: il numero XXXIII non è attribuibile alla mano di Tania. Si può escludere che una precedente etichetta di Tania sia stata sostituita con quella posticcia che leggiamo nel manoscritto? Se le cose sono andate in questo modo perché l'intrusione di una mano estranea?
Le tecnologie moderne sono in grado di dare una risposta sicura a questi e altri dubbi. Faccio un appello al presidente della Fondazione Gramsci, Giuseppe Vacca, perché costituisca un gruppo di lavoro, presieduto da Francioni, autorizzato a esaminare direttamente (non sul monitor o su copie anastatiche) i manoscritti, con l'incarico di stabilire come effettivamente stanno le cose.
L'argomento è troppo importante per non affrontarlo con la dovuta cautela e perizia tecnica. Potrebbe rivelarsi il grimaldello filologico con cui aprire nuovi percorsi interpretativi della figura umana e politica di Antonio Gramsci.
Corriere 6.6.12
Nietzsche, il primo filosofo pop
Rappresenta per la storia del pensiero quello che Andy Warhol è per l'arte
di Vincenzo Trione
Solo un americano poteva avere questo ardire: considerare Nietzsche un filosofo pop. Lo ha fatto Arthur C. Danto. Un estetologo — professore emerito alla Columbia University di New York — ampiamente conosciuto e tradotto anche in Italia, autore, nel 1965, di un'importante monografia ora in uscita da Mimesis, Nietzsche filosofo (con l'introduzione di Tiziana Andina).
All'origine di questo libro, c'è un ribaltamento. Il Nietzsche di Danto non è il profeta del superuomo, né il demistificatore spietato. Non è l'esegeta del disagio della civiltà, né l'intrepido distruttore di valori, e neanche il rivoluzionario esploratore dell'inconscio, capace, prima di Freud, di indagare l'instabilità dell'io. È, appunto, il primo filosofo pop. Forse, il pensatore moderno più amato, citato, discusso (e frainteso) dai lettori comuni. Spesso tradito e banalizzato, egli ha elaborato una riflessione che ha appassionato un pubblico molto esteso, con un consenso quasi mai attribuito alla speculazione «alta» e «accademica»: perciò, non senza un certo azzardo, Danto arriva a sostenere che, in filosofia, Nietzsche rappresenta quel che Warhol rappresenta in arte.
A questo cambio di prospettiva se ne accompagna un altro: più decisivo. La fortuna «pop» di Nietzsche è dovuta al suo essere stato un personaggio eversivo e scandaloso, ma anche alla sua scrittura: aforismatica, rapsodica, segnata da incoerenze, abitata da tematiche affermate, abbandonate e poi ossessivamente riprese. Sequenze di frammenti autonomi, come «una distesa di diamanti, in cui la brillantezza di ciascun cristallo si perde nell'indistinzione» o come una carrellata di illuminazioni o di «macchie di luce e di frastuono». Schegge e barlumi destinati a confluire in libri «assemblati piuttosto che composti».
Insofferente nei confronti di ogni sterile biografismo, Danto affronta Nietzsche non come poeta, intellettuale, profeta, ma, semplicemente, come filosofo, «il cui pensiero merita di essere esaminato nella sua propria peculiarità, indipendentemente dalle stranezze della sua personalità». Iscrivendosi nell'orizzonte del pensiero analitico statunitense, Danto propone una sorta di dislettura, tesa a ricomporre le tessere impazzite del mosaico nietzschiano. Senza prudenze, perlustra una mappa disseminata di «mostri», di indicazioni e di «ornamenti cartografici». Recupera episodi lontani, situandoli in un corpus organico e lineare, in modo da attenuare alcune contraddizioni. Da un ricco archivio di voci fa emergere un sistema dinamico, che ruota intorno a un nucleo teorico forte.
Il suo Nietzsche è un «esternalista», secondo il quale «la conoscenza descrive il modo in cui creature di un certo tipo rappresentano il mondo». Un nichilista scettico, sorretto da una profonda diffidenza nei confronti del concetto di verità, dalla consapevolezza che non è possibile dare un senso al mondo, dalla necessità di tendere verso una saggezza non garantita da alcuna trascendenza.
È, questo, il «vero» Nietzsche? Forse, siamo dinanzi a un intelligente e ardito tentativo di eliminare increspature, interstizi e aporie: come una fotografia che prova ad «appiattire» gli spessori e le asprezze del reale. Danto «usa» Nietzsche non senza stimolanti forzature. Talvolta, però, sembra sfuggirgli la straordinaria potenza di quello che Gianni Vattimo ha chiamato il filosofo dell'eccesso. Che intende la sua pratica come infrazione di regole e di categorie, trionfo del movimento della differenza. Padre non di Warhol, ma delle due grandi anime dell'avanguardia del XX secolo: futurismo e metafisica.
RIPRODUZIONE RISERVATA
Il libro: Arthur C. Danto, «Nietzsche filosofo», introduzione di Tiziana Andina, Mimesis edizioni, pagine 292, 22
Corriere 6.6.12
«La sua prosa scintillante ed esplosiva è uno strumento di liberazione della mente»
La filosofia di Nietzsche è spesso espressa in proposizioni in cui appaiono dissonanze, qualora vengano intese congiuntamente al linguaggio ordinario, e qualcuna delle sue più celebrate espressioni acquisisce quel tipico carattere pungente tramite le sollecitazioni e le deformazioni dell'utilizzo simultaneo della medesima parola in un contesto ampio e in un altro più specifico. Il suo stile di scrittura e il suo modo di filosofare, in parte, andavano a dilatare e poi improvvisamente a circoscrivere il significato di una parola, sebbene probabilmente Nietzsche non fosse sempre consapevole di stare operando in tal modo, e fosse talvolta parecchio fuorviato proprio da quel che egli stesso scriveva (così come devono essersi ingannati sul suo conto anche i suoi disorientati lettori). Egli avrebbe preso in considerazione una parola, che ha un uso circoscritto, e cominciato a darle una più ampia applicazione, usandola per descrivere oggetti il cui significato non era mai stato prima associato a quella parola. Quindi, avendo estremamente ampliato il campo d'applicazione della parola, l'avrebbe strappata dal contesto in cui originariamente era situata. Il contesto si trova quindi a dover sopportare un sovraccarico di energia concettuale al quale non è predisposto a resistere.
L'effetto non è sempre stato dei più felici. Le vecchie parole, usate in una nuova guisa ma in contesti comunque vecchi, qualche volta esplodono in assurdità e sciocchezze. A volte la frase ne ottiene una singolare intensità e induce a una creativa distorsione nella struttura della nostra comprensione. Proprio perché Nietzsche si soffermava nel mettere in scena il proprio dramma, gli piacque parlare di sé come di colui che filosofa col martello. Il suo proponimento è consistito, in parte, nello spezzare il coercitivo pensiero abituale in cui il linguaggio ci mantiene, per renderci consapevoli di quanto la nostra mente sia dominata da concetti di cui con estrema difficoltà potremmo liberarci, date le regole seguite dal nostro linguaggio. Poi, avendo realizzato che la natura del linguaggio è convenzionale, avremmo potuto provare a creare nuovi concetti e, conseguentemente, nuove filosofie.
La violenta chimica della sottile incongruità linguistica ha così prodotto, come suoi effetti migliori, una prosa scintillante ed esplosiva nonché un mezzo di liberazione della mente umana. Nietzsche aveva intuito che gli uomini sono fatti per capire che tutto è possibile, visto che sono stati mossi dal tentare ogni cosa. Quindi la sua filosofia si configura come totale permissivismo concettuale. E i concetti che ha attaccato sono stati quelli fondamentali, i pilastri, per così dire, che hanno sorretto l'intera ramificata rete di idee umane, pilastri che sprofondano nella psicologia umana (come a malapena veniva riconosciuto dagli altri pensatori a lui coevi).
È per tutto questo che ha il diritto di essere chiamato filosofo. Nietzsche è stato più di un critico dei concetti e di un anarchico manipolatore di parole. Egli ha provato a costruire una filosofia consistente nella straordinaria apertura che avvertì essere a disposizione dell'uomo o, quanto meno, una filosofia che comportasse tale apertura come una delle sue conseguenze. Nel corso della sua frammentaria elaborazione egli ha affrontato i maggiori problemi affrontati tradizionalmente dai filosofi, e li ha discussi inquadrandoli da un'altra angolatura, ma anche con profondità. Se ci si prende il disturbo di rendere comprensibile la sua filosofia, di delucidare i cambiamenti di significato che le sue parole sottendono nel loro cambiamento di contesto, allora Nietzsche emerge quasi come un pensatore sistematico, oltre che originale e accostabile ai filosofi analitici.
Corriere 6.6.12
L'inedito Saramago vede la luce
Scritto a vent'anni e rifiutato, anticipa i temi del futuro Nobel
di Luca Mastrantonio
Un regalo che arriva da lontano, inaspettato persino per chi l'ha confezionato. Lucernario, il nuovo romanzo di José Saramago (Azinhaga, Portogallo 1922 — Tías, Isole Canarie, 2010) è un «libro perduto e ritrovato nel tempo». Come racconta Pilar del Río, traduttrice e vedova del Nobel portoghese, nella prefazione all'edizione che Feltrinelli manda in libreria oggi (trad. Rita Desti, pp. 325, 18). Saramago, dopo l'esordio con Terra do pecado (1947), scrisse questo libro tra il 1949 e il 1953. Incaricò un amico di mandarlo a un editore che però non rispose mai e perse l'unica copia del manoscritto. Spuntò fuori, per un trasloco, decenni dopo. Fu offerta all'autore la pubblicazione, ma il dolore del rifiuto s'era indurito per il lungo silenzio. «Obrigado — ringraziò Saramago — per ora no». Non lo pubblicherà in vita, ma non lo disconoscerà. A recuperarlo corse come si accorre per mettere in salvo qualcuno.
Lucernario è, d'altronde, un romanzo assai popolato. Sei famiglie, umili, in un condominio di tre piani, a Lisbona, nel 1952. Si mescolano voci, rumori e musica, amori, sogni e livori, odori, profumi, pettegolezzi, sospiri e, soprattutto, imbrogli. Su tutti, veglia un lucernaio che filtra luce dal soffitto. Ed è la luce, anche quella elettrica degli appartamenti che spesso scandisce scene e dialoghi, la protagonista del libro. Modella le persone, misura le distanze, abita lo spazio con le sue ancelle dispettose, le ombre. Ecco Lidia, che mantiene la madre con i soldi del proprio amante, ricapitolare davanti allo specchio «in pochi secondi la propria vita — luce e ombra, farsa e tragedia, insoddisfazione e profitto». Ecco un velo, nello spazio promiscuo del letto condiviso da due sorelle: «Adriana si strinse nelle spalle, con un movimento che le era peculiare. Diede la schiena alla sorella, si coprì con le coperte per evitare che la luce le battesse sugli occhi e poco dopo dormiva. Isaura continuò a leggere». Ecco il buio che s'accende nel cuore di una madre (Justina) priva della sua unica gioia mai avuta: «Sul comò, il ritratto della figlia si apriva in un sorriso allegro, l'unica luce viva di quella stanza cupa e muffita».
La luce è il pigmento dell'inchiostro che Saramago, ateo evangelista, usa per descrivere, mettere a nudo, affrescare. È l'oro dei pochi — assoluti, indescrivibili quasi — momenti di felicità. Come quando le donne che fanno cucito (sono in quattro, una di troppo per essere vere Parche) vengono rapite da Beethoven alla radio: «Un fremito si diffuse sui capi chini. Il cerchio incantato della luce che scendeva dal soffitto univa le quattro donne in uno stesso incantesimo. I visi seri avevano l'espressione tesa di coloro che assistono alla celebrazione di riti misteriosi e impenetrabili. La musica, con il suo potere ipnotico, scoperchiava botole nello spirito delle donne».
La presenza di temi trasgressivi, dall'incesto saffico al welfare «peripatetico», non era un buon incentivo alla pubblicazione, nel Portogallo di Salazar. Ma il testo, invecchiato bene, oggi è doppiamente sorprendente: presenta un giovane Saramago già padrone dei suoi mezzi letterari e regala al lettore odierno, orfano del Saramago più maturo, un testo freschissimo. Assai visibile, al limite dell'ingenuità, è la presenza della grande tradizione letteraria europea, francese e russa; così come i debiti verso il realismo portoghese di quegli anni, sebbene Saramago ne disinneschi ogni proposito moralista con quel pessimismo che sarà costante nei libri successivi. In Lucernario — annota Pilar — sono già presenti pure i tratti caratteristici di molti suoi futuri personaggi: donne di carattere, capaci di fare breccia nel cuore di uomini duri, di poche parole e solitari, ma tutt'altro che infrangibili.
Tra questi, spicca Abel, giovane intellettuale disincantato, libertario, che si stabilisce a casa del vecchio Silvestre, il buon calzolaio, e Mariana, l'amorevole moglie, che hanno deciso di affittare una camera per fronteggiare la crisi. Il nome fa cortocircuito con il protagonista dell'ultimo libro di Saramago, Caino (2009). Per Abel, la società è un cattivo padre, pietoso per interesse e ipocrisia: «Mi volevano sposato, futile e tassabile?», protesta in uno dei tanti dialoghi filosofici con Silvestre, citando, dell'adorato Fernando Pessoa, l'ambigua ricerca del «senso occulto della vita». Qual è? «Che la vita non ha alcun senso occulto».
Oppure — si può pensare — il senso è lì sotto gli occhi, ben nascosto (da Saramago) attraverso la sua evidenza. Il cognome di Abel è Nogueira, uno dei nomi di Pessoa, a testimoniare la natura letteraria del personaggio pieno di astratti furori e di odio verso un mondo che gli ha dato uno stipendio che «basta appena per morire di fame». E lo fa sentire «inutile», soprattutto di fronte all'umanità concreta di Silvestre, convinto che dopo le stagioni dell'odio debba sempre sbocciare l'amore. Si potrebbe pensare che Abel sia come Saramago era da giovane, mentre Silvestre è come, forse, avrebbe voluto essere da vecchio. Così Lucernario, letto oggi, permette di godere dei due autoritratti di Saramago — da giovane e da vecchio — in un gioco di specchi che il destino ha voluto regalare al lettore.
Corriere 6.6.12
Il mercato degli organi
Un viaggio nel bazar dei «corpi di ricambio»
di Elisabetta Rosaspina
Erano atti d'amore, all'inizio. Quando cominciarono a essere possibili, a metà degli anni 60, lasciavano intravvedere nient'altro che generosità. La poesia di un gesto: donare un organo, ancora vivo, estratto da un corpo già destinato a tornare polvere. La speranza di chi così si sarebbe salvato e il conforto di chi aveva invece perso un famigliare, magari giovane, sicuramente in buona salute, ma lo sentiva «rinascere» dentro un'altra persona, riuscivano quasi a trasformare una disgrazia in una (doppia) resurrezione. Anche per i più laici, era quanto meno un miracolo della scienza medica.
Non poteva durare così. Il progresso richiede materia prima. La routine comporta distacco, se non cinismo. Talvolta perfino in sala operatoria. E poi c'è il mercato. C'è la legge della domanda e dell'offerta. C'è il Traffico d'organi, come s'intitola con crudo realismo il libro-inchiesta di Franca Porciani (con prefazione di Ettore Mo, pp. 144, 18), edito da Franco Angeli. Ci sono i «nuovi cannibali» e le «vecchie miserie», come spiega il sottotitolo, anticipando la descrizione di una realtà che si preferirebbe liquidare per sempre come «leggende metropolitane».
Certo, bisogna capire la disperazione di chi aspetta un rene per sopravvivere, e forse morirà aspettandolo. Bisogna anche capire la disperazione di chi ha entrambi i reni funzionanti e nessun mezzo di sussistenza per sé e per la sua famiglia. Ma tra loro si è radicata un'organizzazione mossa solamente dagli interessi che quelle due complementari disperazioni possono generare.
Paradossalmente è stata la diffusione di una sostanza vitale, la ciclosporina, ad aprire le porte al commercio di organi in un momento imprecisato degli anni 80. E in un luogo già più certo: l'India. La ciclosporina e i farmaci immunodepressori, un'altra vittoria della medicina sulle crisi di rigetto, favoriscono infatti i trapianti tra non consanguinei. È a quel punto che gli organi, in particolare i reni, entrano in un tariffario come gli intermediari, nelle baraccopoli alle periferie di Madras o Bombay.
Comunque sia iniziata, ora si sa in ogni caso come la storia è proseguita: il bazar dei «pezzi di ricambio», da esseri umani vivi o morti, si è esteso in tutto il mondo, dalla Turchia al Brasile, dal Sudafrica ai Paesi dell'ex Unione Sovietica; a volte con l'imprimatur di Stato, come in Cina, dove fornitori involontari, ma puntuali, sono diventati i condannati a morte.
Non sono altre prove, non sono dettagli raccapriccianti o angosciose rivelazioni di «cannibalismo» sui bambini a riempire le pagine del libro. Franca Porciani fotografa la realtà e poi cerca risposte. Etiche, pratiche, culturali e scientifiche. Una soluzione, che non passi attraverso le nozze tra due disperazioni e i loro ben remunerati sensali. Si può commercializzare la «donazione samaritana»? Legalizzare il mercato sarebbe meglio che reprimerlo? Ha infranto le frontiere dell'ipocrisia o di Ippocrate quel nefrologo israeliano, Michael Friedlaender, che già dieci anni fa si schierava a favore della regolamentazione di questo traffico? O sarà finalmente la bioingegneria, magari proprio quella indiana, degli organi artificiali ad aprire una liberatoria terza via?
L'autrice lascia parlare le carte e gli esperti. Per poi domandarsi: se la «ricerca spasmodica di organi» non assomigli stranamente alla «battaglia contro l'invecchiamento che tanto va di moda in questi anni». E se arriverà mai il momento in cui la medicina saprà accompagnare «verso una buona vecchiaia, verso una buona morte».
Repubblica 6.6.12
Su Reset.it
Il ritorno dell’utopia
Piazze e proteste quelle emozioni globali di oriente e occidente
Il sociologo di Yale analizza i nuovi movimenti sociali dall´Egitto agli Stati Uniti
di Jeffrey C. Alexander
Vorrei analizzare la recente convergenza di significato tra "Oriente" e "Occidente" collegando strettamente tra loro tre accadimenti sociali che hanno sconvolto le routine mondiali e alimentato l´immaginario collettivo globale: la campagna di Obama per le elezioni presidenziali, la rivoluzione egiziana, e il movimento di Occupy Wall Street. Questi movimenti andrebbero interpretati non solo politicamente, come battaglie per il potere, ma anche come sconvolgimenti simbolici.
Ponendosi come vere e proprie eruzioni di possibilità utopiche fondate sulla componente emotiva, queste vicende hanno proiettato speranze in decine di milioni di spettatori che, immedesimandosi, hanno assistito dall´esterno. Così la ripetizione di una performance utopica, negli ultimi decenni, è diventata una sorta di arco narrativo nonché una struttura culturale fortemente radicata nella società civile globale.
L´ideale utopico di una comunità solidale fatta di cittadini autonomi e al contempo mutualmente responsabili ha costituito il fulcro della modernità occidentale fin dall´epoca delle Città-Stato del Rinascimento. Con le rivoluzioni del Diciassettesimo e Diciottesimo secolo in Inghilterra, America e Francia, l´immaginario civile si è cristallizzato in rivoluzioni democratiche che hanno fatto delle comunità di cittadini costituzionalmente regolate e autogovernantesi i nuovi attori regolatori dei rispettivi stati di appartenenza.
Con la nascita del capitalismo industriale a metà del Diciannovesimo secolo, i programmi per la democrazia politica sono stati gradualmente rimpiazzati dalla "questione sociale", focalizzata sulle disparità di ceto e che spingeva più per il socialismo che per la democrazia. Gli sforzi volti a contenere i danni del capitalismo industriale e dell´imperialismo hanno imposto la creazione di imponenti burocrazie statali. E sull´onda di questi nuovi e pressanti interessi, l´imperativo della società civile è stato spesso messo da parte.
Nel 1981, con grande sorpresa degli intellettuali liberali, radicali e conservatori, il movimento di Solidarnosc è comparso in Polonia. È stato represso l´anno dopo, ma i dieci anni che l´hanno seguito hanno mantenuto il suo ideale di società civile democratica come obiettivo radicale e fonte di ispirazione rivoluzionaria. Questa prima fase di movimenti per la società civile globale è culminata nel 1989, quando le dittature comuniste sono cadute una dietro l´altra di fronte alle non violente rivoluzioni di velluto.
Negli ultimi tempi, questa parabola narrativa si è proiettata ancora una volta. Tutto è iniziato con l´effervescenza sia in patria che all´estero della campagna di Obama per le elezioni presidenziali del 2008, passando per il Nord Africa e il Medio Oriente durante la primavera e l´estate del 2011, per poi occupare Wall Street nell´autunno dello stesso anno.
L´ascesa di Obama ha incoraggiato decine di milioni di americani a credere e sperare nelle possibilità unificanti, ugualitarie e liberatorie della sfera civile. L´eccitazione ai comizi di Obama era il segno di "rituali civili carichi di effervescenza democratica". La persona di Obama è diventata un simbolo iconico che irradiava un´aura di cambiamento radicale. La sua trionfale affermazione indicava il prevalere dell´inclusione sull´esclusione, della solidarietà sulla frammentazione, la vittoria della giustizia democratica sulla cinica rassegnazione agli abusi di potere. Le difficoltà che Obama ha incontrato dopo il suo insediamento non devono sorprendere. Le speranze utopiche che la sua campagna elettorale ha incarnato e alimentato non avrebbero mai potuto essere soddisfatte dalla macchina del governo effettivo. E Obama stesso sembra esserne rimasto vittima.
A poca distanza da quando i repubblicani hanno restituito a Obama la sua testa su un piatto – a novembre 2010, in occasione delle elezioni per il Congresso – la parabola incessante del movimento sociale civile si è estesa al Nord Africa e al Medio Oriente. Come nel caso dell´ascesa di Obama, anche la primavera araba ha costituito un evento assolutamente inaspettato. È stata percepita come un´eruzione vulcanica di aspirazioni pressoché avventate, e pochi credevano che avrebbe avuto un seguito. Malgrado ciò, la rivoluzione dei gelsomini in Tunisia ha innescato tutta una serie di mobilitazioni, e la lava che ne è scaturita si è estesa a Egitto, Libia, Yemen, Giordania, Marocco, Bahrein e Siria. In effetti, nel mondo arabo si è verificata una rivoluzione intellettuale, un´evoluzione politico-culturale interna che, contrapponendosi a occidentalismo, socialismo e islamismo violento, ha cercato di sposare i principi di una democrazia liberale se non addirittura laica.
Ed è stato in Egitto, in Piazza Tahrir, che ha raggiunto simbolicamente il suo apice. A prescindere dagli esiti, come nel caso del movimento Obama e di Solidarnosc prima, gli eventi di Piazza Tahrir hanno proiettato nuovo significato agli occhi dell´opinione pubblica ben oltre i confini dell´Egitto. "La gente vuole la fine del regime", "La gente vuole lo stato di diritto": gli slogan di Piazza Tahrir sono risuonati non solo in tutto il Medio Oriente e Nord Africa, ma anche in Europa e America.
Dopo aver visto un governo occidentale dopo l´altro abbracciare le urgenze restrittive dell´austerità fiscale, sono scoppiate mobilitazioni di massa a Madrid, Londra, Tel Aviv, Madison. Erano la rivolta della società civile contro la società del mercato e della finanza. Tra tutti questi dimostranti, erano frequenti i riferimenti espliciti al modello "Tahrir".
Il movimento di "Occupy Wall Street" è stato sorprendente e inaspettato. Il disordinato radunarsi di poche centinaia di manifestanti a Zuccotti Park, inizialmente oggetto di scherno, ben presto ha finito per trasformarsi in un evento sociale catalizzatore. Zuccotti Park non ha cambiato la politica, non ha portato all´elezione di nuovi rappresentanti o a una diminuzione del tasso di disoccupazione. Quel che ha fatto è stato invece dar vita a una forma di potere civile radicalmente più critica ed energica. In più di 150 città ci sono state repliche di Occupy: Occupy Oakland, Occupy Los Angeles, Occupy Chicago, addirittura Occupy New Haven e Yale. Per fornire supporto e materiale alla protesta si è perfino costituita una coalizione di 70 organizzazioni liberali, il Movimento del Sogno Americano. E ancora una volta la parabola del movimento civile utopico ha superato i confini degli Stati Uniti. A ottobre il New York Times ha scritto che "in Europa, Asia e nelle Americhe erano in atto manifestazioni di emulazione di Occupy Wall Street, che contavano centinaia di migliaia di partecipanti". È per merito di questa parabola dell´emancipazione civile che adesso sembra che sia cominciata una nuova era.