lunedì 4 giugno 2012

l’Unità 4.6.12
Subito una road map per voltare pagina in Italia
Aprire una fase nuova come in Francia
Se non si cambia meglio votare
di Pietro Folena, Sergio Gentili, Carlo Ghezzi
, di Laboratorio Politico

ABBIAMO UN GRANDISSIMO DOVERE, COME SINISTRA E COME DEMOCRATICI: QUELLO DI PRODURRE SPERANZA. Il mondo occidentale, l'Europa e l'Italia in particolare sono entrati in un lungo periodo di difficoltà. La sfiducia e la depressione rischiano di prendere piede.
Produrre speranza vuol dire prima di tutto chiarire le responsabilità della crisi. Il voto amministrativo ha detto che le destre non raccolgono più la fiducia di gran parte del proprio elettorato; che il Pd, pur flettendo, rimane un punto di riferimento per il cambiamento e che la protesta e la sfiducia sono un fenomeno radicato ed in cerca di nuova rappresentanza politica, come ci segnala il successo del movimento 5stelle.
La sfiducia contro i partiti e la politica è allarmante. Il Paese, quindi, è in forte sofferenza economica e sociale, è in fermento e nello stesso tempo riesce a dare prova di grande solidarietà e partecipazione di fronte al dramma del terremoto delle terre emiliane. Il Paese è di fronte ad un bivio. Non si può aspettare il 2013 per agire sul terreno sociale e politico. Nelle condizioni degli ultimi mesi, il governo Monti ha esaurito la sua funzione. Vanno rivisti gli accordi europei, corrette le scelte più inique e vanno assunte celermente politiche per la ripresa perché il lavoro, i redditi, le crisi industriali, l'accessibilità al credito, la drastica riduzione del precariato giovanile, gli esodati, la tutela del territorio, la possibilità per gli enti locali di intervenire nell’economia locale, la crescita della domanda interna sono le prime e immediate misure da prendere contro la recessione. Si può pensare di far durare la legislatura solo se le condizioni politiche cambiano, e se si crea una nuova maggioranza senza le destre e il blocco elettorale che esse rappresentano, che oggi appare frammentato, smarrito e indeciso sul che fare. Solo se, nello scorcio finale della legislatura, si avviano politiche di crescita, di coesione sociale, di concertazione, di ripresa del dialogo con le parti sociali. Così fu per i governi tecnici degli anni '90, che prepararono le condizioni per l'aggancio dell' Italia all'Euro. Il governo Monti, invece, ha ricercato in questi mesi, a più riprese, la rottura col sindacato e con le parti sociali nel nome dei mercati e della religione della Banca Centrale Europea.
Se queste condizioni di cambiamento invece non ci fossero, tenere il Partito Democratico in un limbo, nel quale paga i prezzi delle scelte del governo, senza poter indirizzarne l'azione verso obiettivi di giustizia sociale e di eguaglianza, sarebbe un errore esiziale un danno per l'Italia. Candidarsi ad aprire anche in Italia una fase nuova, con François Hollande presidente in Francia, è oggi più realistico di prima. Ma per farlo occorre che su un programma chiaro gli italiani siano allora chiamati a decidere, anche prima dell'inizio del periodo del semestre bianco. Occorre interpretare il malessere e le ansie degli italiani, per offrire loro una alternativa realistica e radicale. Il rapporto del Pd con la società va cambiato profondamente. Va marcata, con i fatti, la nostra diversità dagli altri partiti in quanto luogo trasparente e di persone oneste, partito della partecipazione attiva e che finalizza la sua azione alla definizione di un programma per la ricostruzione dell’Italia. Sui territori serve un partito unitario, gruppi dirigenti autorevoli in grado di interloquire e partecipare ai movimenti non violenti per il lavoro, i diritti. Pensare che si possa risolvere il problema di conquistare la fiducia e la rappresentanza politica di milioni di persone e di conquistare al cambiamento degli orientamenti dei gruppi intermedi e delle forze dirigenti della società civile aspettando il 2013 e nel frattempo discutere di alleanze in astratto, di liste civiche (magari selezionate da qualche grande editore: è un film già visto), di candidati, di primarie/plebiscitarie e senza regole, ci pare semplicemente assurdo e dannoso. La prossima riunione della Direzione del Pd dovrà dare risposte chiare e semplici sulla «road map» per uscire da questa situazione. La nostra proposta, quindi, è chiara: o si cambia, spostando a sinistra l'asse del governo, o è meglio votare. E il Pd deve nell'estate dar vita ad un evento -un Congresso tematico, una grande Assemblea partecipatasulla questione morale, sull'apertura ai movimenti e alla società, sul rinnovamento della politica.

La Stampa 4.6.12
Il bivio della politica
L’assalto alla società civile
di Gian Enrico Rusconi


La società civile si sta decomponendo, nel momento in cui tutti parlano in suo nome. Non esiste documento politico o sociale che non faccia riferimento in termini enfatici alla società civile. C’è la rincorsa - urlata - a presentarsi come i veri rappresentanti della società civile. L’indicatore principale è l’antagonismo: contro il sistema partitico, contro la casta dei politici, sino a coinvolgere confusamente l’intero apparato istituzionale e naturalmente la politica sin qui praticata dal governo Monti. Chi fa la faccia più ringhiosa e le spara più grosse è convinto di essere ascoltato. Chi si attiene ad un discorso sobrio e razionale rischia di essere sbeffeggiato. Sarà questa la vittoria della «società civile»? La società civile più che l’interlocutrice, l’interfaccia o il deposito dei valori e delle risorse attivabili per la politica, è considerata e invocata sempre di più come la sua antagonista. O è così soltanto nell’immaginario di chi l’ha sempre sulla bocca? Per non fare confusione, è bene chiarire che non stiamo parlando della società in generale in tutta la sua complessa articolazione, o di quella «società civile» che si sta esprimendo sotto i nostri occhi in questi giorni negli eventi luttuosi legati al terremoto: coinvolgimento, partecipazione, solidarismo, dedizione insieme alle istituzioni. In questi momenti è percepibile quel potenziale di «coesione sociale» (termine che è diventata una formula istituzionale) che dovrebbe essere il segnale del rapporto ottimale tra società civile e sistema politico. Ma non può sfuggire il fatto che proprio in queste circostanze alcune forze politiche, convinte di rappresentare in esclusiva la «società civile», hanno contestato la celebrazione del 2 giugno. Ma c’è il sospetto che dietro agli argomenti avanzati si celino altre intenzioni.
Facciamo un passo indietro tornando alla fase culminante e poi rovinosamente precipitata del berlusconismo. Quella è stata la stagione alta dei movimenti della «società civile» di cui retrospettivamente oggi si colgono i limiti. Dalla famosa e ormai dimenticata manifestazione al Circo Massimo (con Veltroni, se ben ricordo) sino alle altre successive manifestazioni di profilo «civile» più specifico, non si trattava semplicemente di un collettore dell’antiberlusconismo, come si disse. Il berlusconismo intendeva essere una rivoluzione del costume e un modo diverso di concepire la società e la politica, una virtuale mutazione democratica - come ci insegnavano anche seriosi intellettuali che ora si defilano. Contro questa mutazione era inevitabile che si mobilitasse un movimento che si identificava come «società civile», prima ancora che come parte politica. Ma questo era un errore, perché anche quella che credeva nel berlusconismo era «società civile».
Discorso diverso meriterebbe l’ultimo grande movimento, quello delle donne «Se non ora, quando? » la cui successiva dispersione e mancanza di incidenza politica è (stata) una dura lezione molto istruttiva. Se c’era un movimento che poteva avanzare più degli altri il diritto di esprimere valori di «civiltà sociale» trasversali e alternativi all’anima profonda del berlusconismo, era quello delle donne. Proprio per questo è stata clamorosa la sua incapacità di fecondare una nuova politica, una volta che il Cavaliere se n’è andato.
Nel frattempo la «società civile», dispersa e depressa, assiste passiva e apparentemente disarmata all’irruzione sulla scena di chi la solletica in continuazione. Il termine «scena» qui non è un modo di dire. La tanto deprecata «democrazia mediatica» dell’età berlusconiana ha raggiunto paradossalmente la sua maturità. Non c’è più l’intrattenimento politico al servizio di un protagonista principale e della sua corte. Ma il sistema mediatico in tutte le sue forme è il luogo privilegiato della comunicazione politica di massa. La «società civile» è diventata la società degli spettatori o dei fruitori di Internet. Vi si possono vedere tutti: da Mario Monti (più o meno a suo agio) in una Piazza mediatica alle nuove facce - da Beppe Grillo a Roberto Saviano.
In questo contesto è evidente l’ansia con cui si cerca di anticipare - tramite continui monitoraggi demoscopici - l’ipotetico futuro comportamento elettorale. Se da un lato è la conferma che l’appuntamento elettorale rimane in definitiva per tutti l’unico criterio di giudizio della politica, dall’altro è impressionante la dispersione delle forze politiche che parteciperanno alla competizione elettorale - a parte l’immobile montagna delle dichiarazioni di astensione. Al momento è impossibile prevedere quanto significativa sarà la tenuta del Pd, quanto pesante sarà il tasso di dissolvimento del Pdl, e quindi quale sarà l’assestamento delle altre forze che sono già in campo. Ma l’incognita maggiore sarà il presumibile avanzamento del Movimento Cinque Stelle, tanto sicuro di che un ordine di servizio; in risposta il collega, il parigrado o il sottoposto, risponde con una mail per mettersi al riparo da eventuali contestazioni, per «pararsi il c... » (mi si passi l’espressione). La mail non è più parte di una comunicazione biunivoca, bensì tiene il posto della raccomandata, atto che resta, deposizione a futura memoria. In quasi tutte le organizzazioni e aziende la mail ha sostituito il colloquio faccia a faccia, oppure la telefonata, che viene utilizzata tuttora in modo massiccio, ma non per questo scopo (il gossip è per lo più ancora telefonico).
La mail è scritta, perciò resta: verba volant, scripta manent. «Non hai letto, o sé quanto portatore di una strategia politica complessiva ancora troppo confusa (a prescindere dalla punizione esemplare della casta). L’idea che la formula vincente possa essere proprio la combinazione tra voglia di punire e confusione strategica fa rabbrividire. Una cosa è certa: con il passare del tempo e il prevedibile peggioramento della crisi economica, pur di strappare consenso, si farà sempre più forte il radicalismo verbale con proposte dettate dall’emotività anziché da argomentazioni ragionate - compresa l’uscita dall’euro e dall’Ue. L’ultima «pazza idea» di Berlusconi di una zecca italiana dell’euro, anche se subito ritirata, è un segnale da prendere sul serio.
Abbiamo disperatamente bisogno di una forza politica che tenga i nervi a posto, agisca in modo razionale e trasparente e abbia la capacità di convincere la società («civile» è pleonastico) a darle credito. non ti ricordi, la mail che ti ho mandato ieri...? », così ci si apostrofa nelle aziende tra colleghi e collaboratori nelle riunioni (e adesso anche tra genitori e figli, e persino tra coniugi). Le mail sono il perfetto documento della nostra società istantanea che tanto sarebbe piaciuta ad Andy Warhol; sono le polaroid della nuova comunicazione Internet. Lavorare in un’organizzazione complessa come un’azienda è diventato più difficile, e soprattutto più faticoso. Non solo per via delle mail, ma perché le persone si parlano sempre meno in forma diretta e delegano tutto, o quasi, allo scambio di messaggi elettronici. Una forma di deresponsabilizzazione, e insieme una fatica in più. Scrivere è più complesso che parlare e leggere impegna più che ascoltare. Energie sprecate in un mondo che è, sì, istantaneo, ma sempre più mediato da forme comunicative complesse. Le e-mail sono le nostre tavolette d’argilla incise a caratteri immateriali, invece che cuneiformi: pesano meno, ma durano anche meno. E poi si ricordano poco: se ne ricevono sempre troppe. Perché mai dovremmo leggere tutte le e-mail che ci mandano?

Repubblica 4.6.12
1976 - 2012
Scalfari: "Così ho imparato a conoscere i nostri lettori"


«Vendemmo moltissime copie, 230mila. Ci fu il tutto esaurito nelle edicole. E meglio non avremmo potuto fare, le nostre due rotative di Roma e Milano non avrebbero potuto tirare di più». Eugenio Scalfari ricorda così l´esordio il 14 gennaio del 1976 del quotidiano da lui fondato.
Direttore, quella data segna anche la nascita della "comunità" di lettori di Repubblica?
«Non direi. Il primo giorno molti comprarono Repubblica per curiosità. Il secondo giorno i lettori scesero a 150mila, poi a 100mila. Il quarto giorno erano 70mila e lì si stabilizzarono a lungo. Ma non si poteva ancora parlare di una comunità di lettori. Nel fondare Repubblica, la mia speranza era quella di portarmi dietro almeno la metà dei 300mila lettori dell´Espresso. Invece questo non avvenne: non avevo capito che il gesto d´acquisto di un settimanale è diverso dal gesto d´acquisto di un quotidiano. Il risultato fu che mi ritrovavo meno lettori di quanti me ne aspettassi e soprattutto non sapevo chi fossero. Quando ero all´Espresso riconoscevo per strada i lettori "fisicamente", anche se non avevano in mano una copia del settimanale. Può sembrare lombrosiano, ma è così e la dice lunga sulla sicurezza con sui facevamo l´Espresso. Nei primi mesi di Repubblica invece non riuscivo a capire chi fossero i nostri lettori e procedevo a tentoni».
È così importante sapere a che tipo di pubblico ci si rivolge?
«Rappresenta almeno il 50 per cento del lavoro di un direttore. Il giornale è la voce di una comunità di lettori, ma al tempo stesso, pur confermandoli nelle loro convinzioni, li aiuta a crescere e ad evolvere. Esistono due tipi di opinione pubblica: quella "emotiva", che compra il giornale solo in occasione di grandi eventi, e quella "strutturata", che invece condivide i valori che ispirano il giornale di riferimento. All´epoca in Italia c´erano due giornali che si rivolgevano a opinioni pubbliche strutturate: il Corriere della Sera per la borghesia produttiva lombarda e la Stampa, che rappresentava i valori della Fiat, il più grande gruppo industriale del Paese. Poi arrivammo noi, che volevamo rivolgerci soprattutto a un pubblico di donne e di giovani, adottando una linea radical-socialista».
Quando vi rendeste conto che anche i vostri lettori erano un´opinione pubblica strutturata?
«In occasione del rapimento di Aldo Moro, quando ci schierammo per la linea della fermezza. Allora capimmo che la nostra missione era quella di far uscire i comunisti dal ghetto in cui erano stati rinchiusi dal dopoguerra. Il Pci doveva diventare un partito democratico, solo così in Italia ci sarebbe stata una vera democrazia dell´alternanza».
E questa linea politico-editoriale si tradusse in un successo in termini di copie e di lettori?
«Certo, perché ci occupavamo di temi che interessavano ai lettori comunisti. E in breve mettemmo in crisi i due quotidiani legati al Pci: Paese Sera e l´Unità. Così, in meno di tre anni dall´esordio, arrivammo a 120mila copie. Ma Repubblica rimase un giornale trasversale: era letto dai liberali laici, come dai cattolici democratici e, appunto, dai comunisti. Lo leggevano perfino le Br, come dimostra la drammatica foto di Aldo Moro che tiene in mano una copia del nostro giornale mentre è prigioniero dei terroristi».
Ci sono stati momenti nella storia recente del Paese, in cui la gente è scesa in piazza con le prime pagine di Repubblica, quasi fosse una bandiera. Che effetto ti faceva vedere quelle immagini?
«Un effetto euforico, di un sogno che si avverava».
Ma non hanno finito per alimentare quelle voci che tornano periodicamente sull´esistenza di un "partito Repubblica"?
«A questo proposito cito Ezio Mauro: "Repubblica è insieme molto più e molto meno di un partito". È un giornale autoreferente, nel senso che si rivolge a un´opinione pubblica strutturata e risponde solo a lei. Siamo noi che decidiamo dove stiamo. E se dove stiamo troviamo anche altri che la pensano come noi vuol dire che diamo voce anche a loro».
Oggi la "comunità" di Repubblica va da chi aveva 30 anni nel 1976 ai trentenni del 2012 che usano il web e l´iPad. C´è un´unica definizione per tutte queste generazioni di lettori?
«Sono la sinistra italiana di oggi. Sono coloro che come Repubblica si battono non contro lo Stato ma per la riforma dello Stato, che credono nell´innovazione, nell´efficienza e nel laicismo. Questo è il Dna di Repubblica e dei suoi lettori».

l’Unità 4.6.12
Alemanno dice no al 2 giugno, poi benedice l’Air Show
Il Campidoglio ha patrocinato l’evento a Ostia. Acrobazie delle Frecce Tricolori e dei Canadair
di Natalia Lombardo


La parata la voleva personale, il sindaco di Roma Gianni Alemanno. Il quale con sdegno aveva disertato la sfilata militare del 2 giugno su via dei Fori Imperiali lamentando lo spreco di soldi che sarebbero potuti andare ai terremotati dell’Emilia, mentre ieri le roboanti e costose Frecce Tricolori, tenute a terra per la parata nazionale, hanno sorvolato i cieli di Ostia per esibirsi le acrobazie bianco rosse e verdi come momento clou della seconda edizione dell’Air Show. Una scelta contraddittoria che è costata al sindaco di Roma la definizione di «ipocrita» da parte di Enzo Foschi, consigliere regionale del Pd e aspre critiche dall’Italia dei Valori, da Sel e dai Verdi.
Così ieri sul lungomare di Ostia, già prescelto dall’idea fuori stagione della giunta di Alemanno di costruire a un passo dal bagnasciuga una pista da sci, sono sfrecciati in aria cinquanta velivoli delle pattuglie acrobatiche di tutta Europa; presenti le nostre Forze armate con mezzi della Marina, della Forestale, della Guardia di Finanza, i Canadair della Protezione civile e il Reparto Sperimentale Volo di Pratica di Mare. Drappelli aerei che ignari bagnanti si sono visti sorvolare a pochi metri dalla testa, con gran finale delle Frecce Tricolori. Una tre giorni, da venerdì, organizzata dall’aeroclub «Volere e Volare» col patrocinio del Comune di Roma.
IL TWEET INDIGNATO
Dalle pale distribuite ai romani bloccati dalla neve nell’assenza di altro ai progetti di piste di Formula Uno all’Eur, mai come questa volta è stata roboante l’incoerenza del sindaco della Capitale, che nella polemica sulla parata del 2 giugno ha cambiato più volte posizione: dal primo sì all’insegna del «senso dello Stato» in linea con il presidente Napolitano, al distacco dei «punti di vista diversi», fino alla decisione comunicata con un tweet di non sedersi sulla tribuna in Via dei Fori Imperiali con le altre autorità (compresa la presidente di Regione, Polverini, e quello della Provincia, Zingaretti.
L’indignazione di Alemanno per lo «sperpero» di fondi, inconcepibile per lui che ha raccontato commosso di aver toccato con mano il disastro in Emilia (annunciando il giorno prima la visita con una raffica di comunicati alle agenzie), è cresciuta a fine maggio via via che sui social network rimbalzava la protesta del popolo della Rete, ormai il più corteggiato dai politici in calo di consensi.
«Alemanno è un ipocrita», è il commento di Enzo Foschi: «Sabato ha fatto la sua sceneggiata non andando alla cerimonia del 2 giugno perché secondo il sindaco si dovevano destinare i soldi della parata ai terremotati», ora, «ad appena 24 ore di distanza, scopriamo che il sindaco di Roma ha autorizzato una manifestazione a Ostia che vedrà la partecipazione della squadra acrobatica delle frecce tricolori». Non solo, Ostia è bloccata da transenne con pattuglie della polizia municipale: «Strutture e personale che il Campidoglio, ovviamente, paga». E Pedica, dell’Idv, condanna la «commedia degli equivoci» e le pessime performance del sindaco di Roma.
«Nessuno spreco», l’evento si sarebbe ripagato con «la tassa di occupazione del suolo pubblico», spiega il presidente del 13esimo Municipio che ha promosso l’iniziativa, che se la prende con la sinistra e salva Alemanno. Non era neppure qui, in compenso i terremotati sono stati «ricordati».

l’Unità 4.6.12
Assessore a Renzi: «Firenze strumento per le tue ambizioni»
Il titolare del Bilancio dimissionario oggi vedrà i vertici locali del Pd. Il sindaco: «Conti a posto»
di Osvaldo Sabato


Accuse di personalismi e cattiva gestione dei conti del Comune. L’assessore a Bilancio, Casa e Patrimonio di Palazzo Vecchio, Claudio Fantoni (Pd), sbatte la porta e lascia il suo incarico accusando il sindaco Matteo Renzi di pensare più alla sua immagine, da giocare nelle primarie, che all’interesse di Firenze. «Ho sempre pensato che chi è chiamato a governare Firenze sia al servizio della città e non che la città sia al servizio di ambizioni personali».
Parole dure quelle che Fantoni rivolge al sindaco rottamatore nella lettera con cui annuncia le sue dimissioni «dovute esclusivamente a motivi di carattere politico e amministrativo» e «in assenza di qualsiasi paracadute, ovvero trasferimento ad altro incarico compensativo». Come dire che l’ex assessore torna a fare il corista del Maggio musicale fiorentino, dove lavora dal 1996, dopo aver vinto un concorso pubblico. Impiego che per le difficoltà della Fondazione è «a rischio». Non a caso ricorda con una certa ironia di essere probabilmente «un lavoratore in cassa integrazione».
Ma perché Fantoni ha deciso di lasciare il suo incarico? «Divergenze in ordine alle azioni da mettere in atto in merito alla gestione economica e finanziaria del Comune, quindi alla sicurezza dei conti», spiega. Queste divergenze avevano a che fare con le pressioni di Renzi sulla possibile violazione del patto di stabilità. Di parere opposto Fantoni, quinto assessore a lasciare Palazzo Vecchio, che invece ne chiedeva il rispetto. Insomma lo spartano ex assessore al Bilancio si oppone alla flessibilità di Renzi, che parla di eccessiva rigidità ragioneristica. Quanto all’allarme sui conti del Comune è lo stesso sindaco a precisare che «sono in ordine e nessun allarmismo è giustificato dalle cifre».
CASO POLITICO
Ma il caso ora è diventato politico. Tanto che Fantoni questa mattina sarà nella sede del suo partito per parlare di quanto è successo con il segretario regionale, Andrea Manciulli, quello metropolitano, Patrizio Mecacci, e cittadino, Lorenza Giani. Un faccia a faccia, che servirà anche a capire quali potranno essere le ricadute di questa vicenda sul futuro della città.
«Il sindaco può nominare un nuovo assessore, ma sulle questioni politiche e amministrative sottolineate da Fantoni serve un approfondimento che interessi tutto il partito», spiega Mecacci.
A questo punto è lampante come le dimissioni di Fantoni abbiano aperto uno squarcio sulle stesse difficoltà che aveva l’ex assessore a relazionarsi con il sindaco: pare che abbia chiesto da due mesi di incontrarlo per parlare dei problemi legati allo sforamento del patto di stabilità, ma Renzi non l’avrebbe mai accontentato. Evidentemente Fantoni non era d’accordo con la gestione del bilancio di Renzi: l’anticipo di investimenti con delibere fuori sacco, con il parere di regolarità contabile spostato nel 2014, quando, si sussurra nei corridoi di Palazzo Vecchio, il sindaco potrebbe essere già lontano da Firenze. Una corsa sfrenata dalla quale Fantoni ha voluto prendere le distanze, senza risparmiare al sindaco l’accusa di sfruttare la città per il «perseguimento di ambizioni personali».
«Certo non interrompiamo i lavori in corso in omaggio a un principio ragionieristico e contabile», replica Renzi. Quanto all’accusa di una sua sovraesposizione nazionale ricorda che «se abbiamo chiuso partite storiche ferme da anni questo è dovuto prima di tutto al nostro impegno in sede nazionale».
Oggi in Consiglio comunale il sindaco nominerà subito il nuovo assessore al Bilancio, con l’intenzione di chiudere subito questa vicenda. I nomi sono tutti top secret. Ma le ferite politiche per lo strappo di Fantoni restano tutte, proprio quando Renzi si appresta a giocare sullo scacchiere nazionale.

La Stampa 4.6.12
La coppia si separa? Lei rischia la povertà
Rapporto Istat fotografa un nuovo fenomeno Gli esperti: un effetto dell’affidamento condiviso
di Maria Corbi


ROMA Che la fine di un matrimonio impoverisca, non solo sentimentalmente, non è certo una novità. Quello che stupisce è che se fino ad oggi a piangere miseria erano soprattutto gli uomini separati, oggi con uno studio pubblicato sull’ultimo rapporto Istat, scopriamo che le più «povere» dopo un addio sono le donne: una su quattro, nei primi due anni dopo la separazione, è a rischio povertà o «deprivazione» (uno su sei gli uomini). Il cambiamento radicale, e spesso improvviso, della loro condizione familiare «genera effetti pontenzialmente rilevanti sulla loro condizione economica». Più a rischio disagio le donne che pagavano l’affitto, ma anche per quelle che avevano l’abitazione in uso o in usufrutto e per quelle che non avevano un’occupazione o che erano occupate a tempo parziale. Due anni dopo l’evento circa il 35% di chi non aveva un lavoro lo ha trovato ma ciò non è bastato a tutelarle: più del 32 per cento è materialmente deprivata e il 26,3% è a rischio povertà.
E quando ci si separa sia lui che lei (26%) tornano a casa da mamma e papà, un porto sicuro e soprattutto economico. Mammoni di ritorno causa fine di un amore. E per i primi due anni da «ex» il 19% riceve un «aiutino» in soldi dai parenti. Non che questo migliori di tanto la situazione. Se si hanno figli minori è peggio.
La buona notizia è che a un certo punto si intravede la fine del tunnel: i rischi, iniziano a calare dopo due anni dalla fine del rapporto coniugale e diminuiscono ulteriormente con il passare del tempo. Il 50% delle donne e il 40% degli uomini «dichiara un peggioramento della situazione economica nei due anni successivi la separazione. Se questa è avvenuta da non più di cinque anni, la percentuale di donne a rischio povertà è pari al 30%, mentre scende al 20 per cento dopo almeno dieci anni dalla separazione».
E adesso chi glielo ai dice ai padri separati sempre pronti a manifestare per denunciare di essere polli spennati da mogli che chiedono troppi soldi e concedono poco tempo con i figli? I dati Istat parlano chiaro. E Adriana Boscagli, uno dei più noti avvocati matrimonialisti italiani, mentre legge i numeri del rapporto annuisce e spiega: «Effettivamente c’è un’inversione di tendenza. E le cause sono diverse. Intanto gli uomini sono stanchi di essere troppe volte defraudati e iniziano a essere fin troppo sulla difensiva, non si fidano più di consegnare parte del proprio patrimonio e del reddito alla ex moglie affinché lo gestisca per sé e per i figli. Poi, con l’affido condiviso molti mariti pensano erroneamente che il tempo di frequentazione padre figli sia l’unica discriminante per quantificare il contributo. Più tempo ci sto meno pago. In realtà è solo uno degli elementi che il giudice deve considerare». Come può salvarsi una donna dalla rovina post separazione? «Il consiglio, continua l’avvocato Boscagli, è quello di consegnarsi al magistrato con una lista dei costi che si dovranno sostenere nella nuova gestione da separata tenendo presente le spese effettuate fino a quel momento per mantenere il menage familiare. In modo da conservare il più possibile il tenore di vita.
Il danno più grave è per quelle donne che hanno subito l’imposizione del marito che le voleva a casalinghe. Ovvero per quelle donne che hanno scelto di abbandonare un lavoro sapendo di poter contare sul maggior reddito del marito. E in entrambi i casi l’uomo deve assumersi le responsabilità economiche di queste scelte. Ma nella versione moderna è meno generoso e in certi casi addirittura ingiusto, non considerando affatto le scelte fatte in passato». 1963, è disoccupato, ma è un idraulico e ha avuto anche una propria famiglia, per poi tornare a vivere con la mamma; Alessandro, classe ‘78, ha lavorato in una pasticceria, anche se dalla casa dei genitori non è mai uscito. Per dimostrarlo, però, papà Vincenzo ha faticato non poco. «Sarebbe bastato un po’ di buonsenso - dice ancora l'avvocato Raneri - dato che parliamo di pensionati, di gente che non nuota certo nell' oro». Adesso solo alla moglie, che ha una pensione mensile di circa 400 euro, spetterà ancora l'integrazione per gli alimenti.
Per Vincenzo Capuano è comunque l'uscita da un tunnel: «A conti fatti, a me rimanevano 100 euro al mese, o poco più - racconta l'anziano -. Mia sorella non poteva ospitarmi e, se non fosse stato per una signora che prima mi ha dato una stanza a pagamento e poi, quando non ho avuto più un soldo, mi ha ospitato gratis, sarei finito a dormire sotto i ponti, a vivere come un barbone». Anche ora però la situazione non è delle migliori e Capuano vorrebbe tornare a vivere con la moglie separata, Antonina Cimino, di 76 anni: «Mi accontenterei anche di uno sgabuzzino». Difficile però che la richiesta venga accolta: alla base della rottura tra i due ci sarebbe infatti un tradimento avvenuto in tarda età, che l'arzillo vecchietto separato nega, ma che ha incrinato in maniera insanabile i rapporti familiari.

Corriere 4.6.12
Esclusivo
Emanuela Orlandi, Mirella Gregori e la pista dei preti pedofili a Boston
I legami con la città dello scandalo pedofili: un timbro postale e le telefonate dell'«Amerikano»
di Fabrizio Peronaci


Emanuela Orlandi e Mirella Gregori: un filo robusto lega la loro scomparsa allo scandalo dei preti pedofili a Boston. Una vicenda che nel 2002 sconvolse la Chiesa cattolica, lasciò sgomenti milioni di fedeli americani per i sistematici abusi su minori coperti dai vertici ecclesiastici e portò alle dimissioni dell'arcivescovo Bernard Law, poi tornato a Roma nel 2005.

ROMA — C'è un filo robusto — rimasto sottotraccia nelle decine di faldoni dell'inchiesta aperta da 29 anni presso la Procura di Roma — che lega la scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori allo scandalo dei preti pedofili a Boston. Una vicenda che nel 2002 sconvolse la Chiesa cattolica, lasciò sgomenti milioni di fedeli americani per i sistematici abusi su minori coperti dai vertici ecclesiastici e portò alle dimissioni dell'arcivescovo Bernard Francis Law, poi tornato a Roma nel 2005 in qualità di arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore.
Mirella, Emanuela. Due ragazzine quindicenni accomunate da un atroce destino: la prima sparì nel piazzale di Porta Pia il 7 maggio 1983, dopo aver detto alla mamma che doveva incontrarsi con gli amici, e la seconda (figlia del messo pontificio di Wojtyla) il successivo 22 giugno, all'uscita della lezione di flauto a Sant'Apollinare. Un duplice mistero che da tre decenni fa perdere il sonno agli investigatori. E che — considerata l'ipotesi di una mai chiarita Vatican connection — solletica fantasie, ambizioni e congetture di stuoli di giallisti, detective, giornalisti, persino veggenti. L'ultimo colpo di scena, il 14 maggio, ha portato all'apertura della tomba del boss Enrico De Pedis, sepolto nella basilica a ridosso della scuola di musica della «ragazza con la fascetta».
Ma ora c'è di più. Un timbro, un fermo posta: entrambi localizzati in Kenmore Station, nel centro di Boston. L'uno agli atti, l'altro no. Il primo risale alle prime rivendicazioni dell'affaire Orlandi-Gregori, il secondo fu usato dall'associazione pedofila Nambla (North American Man Boy Lover Association) ed è emerso 19 anni dopo. Vale la pena spiegarlo, questo indizio principe. Metterlo a fuoco, contestualizzarlo.
Macchina indietro di 29 anni: luglio 1983. Il Papa è da poco rientrato dai bagni di folla nella sua Polonia, le elezioni in Italia hanno appena spianato la strada a Bettino Craxi ma, sul doppio sequestro, è buio totale. Quello di Mirella è «silente» ormai da due mesi e lascia attoniti i genitori, gestori di un bar vicino alla stazione Termini, mentre quello di Emanuela, inaspettatamente, deflagra: è Giovanni Paolo II, con l'appello del 3 luglio all'Angelus («Sono vicino alla famiglia Orlandi, la quale è in afflizione per la figlia...»), a proiettare uno dei tanti casi di missing people in una dimensione planetaria. L'effetto è immediato. Il 5 luglio a casa del «postino» papale arriva la prima telefonata del cosiddetto «Amerikano», italiano incerto e poche battute in inglese, che getta sul piatto una richiesta secca: libereremo «tua figliola», dice, in cambio della scarcerazione di Ali Agca.
Vincenzo Parisi, del Sisde, traccerà il seguente profilo dell'inquietante personaggio: «Straniero, verosimilmente anglosassone, livello culturale elevatissimo, appartenente (o inserito) nel mondo ecclesiale, formalista, ironico, calcolatore...». Trattativa vera o di facciata, quella sull'attentatore di Wojtyla? Un dato è certo: di contatti con la Santa Sede, attraverso il famoso codice «158», il dominus dell'intera vicenda ne ebbe più d'uno.
Il giallo infiamma l'estate. A luglio l'«Amerikano» telefona ancora, lancia ultimatum sulla vita di Emanuela. Ma all'improvviso smette, tace. Agosto viene così «riempito» da un altro soggetto, il Fronte Turkesh, i cui messaggi (scoprirà l'ex giudice Ferdinando Imposimato) altro non sono che depistaggi della Stasi e del Kgb per tenere sotto scacco l'odiato Papa anticomunista e filo-Solidarnosc.
Settembre, mese chiave dell'intrigo. Il 4 l'«Amerikano» riappare e fa trovare una busta dentro un furgone Rai, contenente un messaggio a penna e uno spartito di Emanuela. Ancora: al bar dei Gregori, il 12, giunge una telefonata choc. Un anonimo elenca i vestiti indossati e la marca della biancheria intima di Mirella, che solo la madre conosce. È un complice dell'«Amerikano»? Entrambe le ragazze sono in suo pugno?
Ed eccoci al 27 settembre 1983, all'ulteriore rivendicazione (o messinscena?) che, riletta oggi, fa correre brividi lungo la schiena. Richard Roth, corrispondente da Roma della Cbs, riceve una lettera che preannuncia «un episodio tecnico che rimorde la nostra coscienza». Gli investigatori, scrive l'Ansa il giorno dopo, sono sicuri: si tratta dei «veri rapitori di Emanuela» o di «quelli che l'hanno tenuta prigioniera». Sulla busta c'è il timbro di partenza: Kenmore. Ma a quale episodio «tecnico» si allude? «L'imminente uccisione dell'ostaggio». Non basta: una perizia grafologica accerta che il messaggio del 4 settembre e questo del 27 sono opera della stessa mano. L'«Amerikano» si è spostato sulla East coast? O ha trasmesso i suoi scritti a qualcuno, forse per continuare i depistaggi?
Tale pista all'epoca non fu percorsa ma adesso, alla luce dei nuovi indizi, potrebbe riprendere quota. Gennaio 2002, Boston: scoppia lo scandalo. Il cardinale Law è accusato di aver coperto per molti anni sacerdoti pedofili della diocesi. Maggio 2002, si apre il processo davanti alla Corte di Suffolk: Law nella deposizione risponde a monosillabi, si scusa per aver controllato poco i «collaboratori». 7 giugno 2002: fuori dal tribunale le mamme delle vittime (per lo più maschietti, ma non solo) protestano. E, dentro, l'interrogatorio è incalzante: «È emerso in una precedente deposizione — attacca il rappresentante dell'accusa — che 32 uomini e due ragazzi hanno formato il gruppo Nambla. Per contattarlo si può scrivere presso il Fag Rag, Box 331, Kenmore Station, Boston... Cardinale Law, ha inteso?». Pausa. Nell'aula risuona una frase sibilata, poco più di un soffio.
«I do», risponde l'arcivescovo. Sì, è vero. Il Fag Rag, che sta per «Giornalaccio omosessuale», faceva quindi proseliti per conto del temutissimo sodalizio pedofilo degli States, proprio dalla stazione da cui partì la lettera su Emanuela. Nella sequenza di omissioni e depistaggi che da sempre alimenta il giallo della «ragazza con la fascetta», la pista di Boston, 29 anni dopo, fa balenare il più spaventoso e sconvolgente degli scenari.

Repubblica 4.6.12
Il corvo scuote ancora la Santa Sede "Vogliono colpire padre Georg l’obiettivo è metterlo sotto ricatto"
l portavoce del Papa: "Usciranno altri documenti"
Allarme nello staff del Pontefice per le due lettere "sbianchettate" di Gaenswein
di Marco Ansaldo


MILANO - «Anche Georg adesso è nel mirino. E se prima non c´erano delle prove, al di là di qualche lettera uscita in un libro, ora invece il fatto è evidente». Lo stretto entourage del Papa, il piccolo gruppo che in questi giorni ha accompagnato in aereo e negli spostamenti in elicottero Benedetto XVI a Milano, ha accolto con qualche irritazione la fuoriuscita dei nuovi documenti consegnati a Repubblica dal corvo.
Vicini al Pontefice, insieme agli altri, si notano di continuo due persone: il Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, e il segretario particolare del Papa, monsignor Georg Gaenswein. Entrambi citati in modo aspro nelle carte: «Cacciate dal Vaticano i veri responsabili di questo scandalo», scriveva ieri il corvo, indicandoli in una missiva che spiegava i tre documenti consegnati.
«La situazione non va bene», si sussurra a denti stretti nel ristretto gruppo del Papa. «Come vuole che commentiamo», rispondono in maniera laconica. «Il diavolo ci mette del suo». Già al mattino la notizia della pubblicazione di nuove carte era stata accolta con amarezza. Poi la lettura dei giornali, continuata nel pomeriggio in volo sulla via del ritorno e anche la sera in Vaticano al termine di una giornata intensa, faticosa e bella con un milione di persone a messa attorno al Pontefice, ha portato una convinzione. Che la nuova sortita del corvo sia dovuta a obiettivi precisi. Già il cardinale Bertone era fatto oggetto di attacchi molto duri. Ma ora è anche don Georg a essere preso di mira. Perché?
Ed ecco che salta fuori l´immagine di «un ricatto». Non si vede come definirlo altrimenti, trapela dal gruppo. Un ricatto contro il segretario particolare del Papa. È scritto infatti nella missiva che prelude alle tre carte, due di queste sbianchettate, con solo la provenienza ("Città del Vaticano") e una data in testa, e in calce la firma autografa di "d. Georg Gaenswein": «Non pubblichiamo in modo integrale per non offendere la Persona del Santo Padre, già molto provata dai suoi inetti collaboratori. Per correttezza ci riserviamo di pubblicare i testi integrali nel caso ci si ostini a nascondere la verità dei fatti».
Di che cosa si parla, dunque, riferendosi al 19 febbraio 2009? Non è dato sapere, ora. In quel periodo imperversava sulla Santa Sede il caso Williamson, la polemica sul vescovo lefebvriano rimesso dalla scomunica su iniziativa del Papa, ma poi risultato negazionista sull´Olocausto. Ha questo a che fare con le accuse a don Georg? Ha destato poi sconcerto, e qualche preoccupazione, il fatto che il contenuto delle due lettere in apparenza firmate dal segretario particolare del Pontefice risulti cancellato. Ci si chiede, pure, quale sia il motivo dell´acrimonia nei suoi confronti. Da tempo, è vero, Gaenswein non è ormai più un semplice assistente dietro la scena. Con gli anni e l´esperienza ha anzi acquistato peso e potere. La sua capacità di intervento sul Pontefice tedesco è spesso decisiva, e i suoi "sì" o i suoi "no" adesso contano. Gaenswein gioca un ruolo importante nell´agenda del Papa, nel filtro delle persone da incontrare, nello screening delle carte: quelle che devono arrivare sul tavolo dell´Appartamento, e quelle invece da indirizzarsi altrove, alla Segreteria di Stato o altri dicasteri. Conta poi il parere di don Georg su alcune nomine. Non ha mai proposto candidati propri, ma è in grado di far giungere all´orecchio del Papa le preferenze di alcuni rispetto ad altri. E Ratzinger, attraverso di lui, si aggiorna e conosce i segreti che contornano la Curia. Ce n´è abbastanza perché un ruolo come questo possa infine attirare attenzioni e gelosie.
Comunque, serena ieri la reazione ufficiale del portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. «Non sono stupito della pubblicazione di altri documenti - ha commentato - né sono ora più preoccupato, se non per la situazione generale dei tanti documenti usciti. Ci interroghiamo su significato e finalità perseguite. Non ci aspettiamo che i documenti pubblicati finora siano gli ultimi - ha aggiunto - e non mi sorprenderei se nei prossimi giorni se ne pubblicassero altri. È chiaro che chi ha recepito la quantità di documenti poi se li gioca con le sue strategie e le sue finalità, non certo con l´intenzione di fare tutto in una volta e poi lasciarci tranquilli». Finita la tre giorni milanese, da oggi l´attenzione ritorna sullo scenario della Santa Sede.

Corriere 4.6.12
Chiesa cattolica e ragioni del cuore. Sposi per sempre meglio se innamorati
di Isabella Bossi Fedrigotti


«La chiesa non chiede agli sposi se sono innamorati, chiede se intendano rimanere insieme per sempre» ha detto Benedetto XVI nel suo discorso di Bresso. Meglio, sarebbe, però, forse, che la Sacra istituzione chiedesse loro anche se sono innamorati, davvero innamorati. Si sa bene che quell'iniziale non poter stare l'uno senza l'altro, quella gioia intensa di trovarsi vicini, quell'allegria di rincontrarsi ogni giorno facilmente si diradano e poi sfumano con il tempo, ma se non ci sono nemmeno al principio, quale speranza, quale solidità, quale durata può avere un matrimonio?
Davvero pensa la Chiesa che ci possano essere molte unioni perpetue — e perciò, per forza di cose ben vive e vitali — basate soltanto sul senso del dovere e sulla tenace volontà di stare insieme? Che si debba meditare nel profondo prima di sposarsi, analizzando i propri sentimenti e le proprie intenzioni senza confondere, nell'entusiasmo dei primi tempi, l'innamoramento con la sia pur forte attrazione, è fuori di dubbio; ma senza amore o con amore appena tiepido quante sono le coppie che riusciranno a restare tali tutta una vita?
Si sa bene anche che i bambini, la maggioranza dei bambini, vorrebbero che i genitori stessero assieme, pur nei silenzi, pur nella discordia, tuttavia passare infanzia e adolescenza con padri e madri votatissimi all'impegno matrimoniale fino alla morte però privi perfino del ricordo di un passato, condiviso amore sarà buono per loro, sarà utile, servirà a farli crescere e maturare in equilibrio e armonia?
E se alla Chiesa non interessa che ci sia o non ci sia innamoramento tra gli sposi, se si accontenta di ferma resistenza e di reciproca sopportazione, a chi e cosa si destineranno allora passione e amore? Verranno considerati sentimenti senza valore da ignorare sistematicamente o pericolose bombe da disinnescare con massima prontezza? Oppure, semplicemente, saranno fiumi impetuosi costretti a disperdersi in tanti rivoli minori, magari extraconiugali, quelli dei quali si usa dire che «non intaccano il matrimonio» se non addirittura che lo «soccorrono e lo aiutano a durare tutta la vita»?

l’Unità 4.6.12
Family 2012
L’appello del Papa: l’amore contro il profitto
«La famiglia è l’unione tra uomo e donna»
di Roberto Monteforte


Una lezione sul valore della famiglia tradizionale. Sul suo essere portatrice di solidarietà e di apertura all’altro, di educazione al dialogo e di attenzione agli ultimi. Di impegno responsabile verso la società civile. Anche al perdono. A questo ha dedicato la sua omelia Benedetto XVI concludendo a Bresso il «VII Incontro mondiale delle famiglie» davanti a una grande folla di fedeli. Ad ascoltarlo anche il presidente del Consiglio, Mario Monti. Ha parlato di valori positivi. Del matrimonio e dei compiti dell’uomo e della donna. Dell’amore coniugale «donazione per la vita» e della procreazione «generosa e responsabile». Senza lanciare anatemi contro altre forme di coppia.
Una critica però l’ha mossa e radicale alle «moderne teorie economiche» che fanno propria una «concezione utilitaristica del lavoro, della produzione e del mercato». «Il progetto di Dio e la stessa esperienza umana ha affermato il pontefice mostrano che non è la logica unilaterale dell’utile proprio e del massimo profitto quella che può concorrere ad uno sviluppo armonico, al bene della famiglia e ad edificare una società più giusta». Ne spiega le ragioni: «Perché porta con sé concorrenza esasperata, forti diseguaglianze, degrado dell’ambiente, corsa ai consumi, disagio nelle famiglie». Non è questo solo un danno economico. Gli effetti, osserva il pontefice, sono più profondi. Perché la «mentalità utilitaristica tende ad estendersi anche alle relazioni interpersonali e familiari, riducendole conclude a convergenze precarie di interessi individuali e minando la solidità del tessuto sociale».
Una ragione in più per difendere la domenica come giorno della festa e come «giorno del Signore». È il giorno dell’uomo sottratto al lavoro, è il giorno della famiglia, della convivialità, dell’amicizia, della solidarietà, della cultura, del contatto con la natura, dello sport. «È il giorno insiste il pontefice nel quale si vive assieme il senso della festa e della condivisione, anche della partecipazione alla celebrazione religiosa». Per costruire una società dal volto umano va trovato «un armonico equilibrio» tra famiglia, lavoro e festa. Vale a dire tra esigenze del lavoro e i tempi da dedicare alla famiglia, tra la  professione e la maternità, tra il lavoro e la festa. Il Papa ha voluto rassicurare i credenti divorziati e separati risposati. Ha assicurato l'impegno della Chiesa ad accoglierli, a sostenerli ed essere loro vicini anche se non possono essere ammessi ai sacramenti. La loro condizione è una ferita aperta e dolorosa per la Chiesa che Papa Ratzinger aveva già affrontato sabato sera, alla «festa delle testimonianze» tenutasi sempre a Bresso.
TEMPI DI CRISI
Rispondendo alle domande dei fedeli aveva anche invitato le diocesi a una solidarietà concreta verso le realtà colpite dalla crisi. Perché i Paesi occidentali non costruiscono gemellaggi con le città greche e degli altri Paesi colpiti dalla crisi? Qualcosa di più di una semplice provocazione. Come lo è stato il duro richiamo ai politici «che avanzano promesse che sanno di non poter mantenere». Durante la veglia è stato toccante l’abbraccio del Papa con la famiglia di Cento, il paese in provincia di Ferrara colpito dal sisma. Il dolore, la vicinanza, l’impegno affettuoso del pontefice al sostegno alle comunità colpite dal terremoto è stato costante durante questi giorni. Ieri all’Angelus lo ha rinnovato chiedendo di essere sempre solidali con le famiglie che vivono maggiori difficoltà, in particolare verso quelle colpite dal terremoto in Emilia. Non è stato solo un invito. Il pontefice ha donato 500 mila euro in favore delle famiglie delle diocesi di Ferrara, Mantova, Bologna, Modena e Carpi in maggiori difficoltà. All’Angelus, oltre a ringraziare l'arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola e il presidente del Pontificio consiglio per la Famiglia, cardinale Ennio Antonelli organizzatori dell'Incontro mondiale delle famiglie, ha annunciato che il prossimo si terrà a Filadelfia negli Stati Uniti d’America nel 2015.
È pienamente positivo il bilancio di questa visita. Non è stata offuscata dalle altre lettere «riservate» uscite da Oltretevere, apparse sui quotidiani e dalla minaccia che altre «usciranno» se il Papa non «caccerà i veri responsabili dal Vaticano» indicati nel segretario di Stato, cardinale Bertone e nel segretario particolare monsignor Georg Gaenswein. «Non sono stupito della pubblicazione di altri documenti, né sono ora più preoccupato, se non per la situazione generale dei tanti documenti usciti e sulla quale ci interroghiamo in merito al significato e alle finalità perseguite», è stato il commento di padre Federico Lombardi. «È chiaro che chi ha recepito la quantità di documenti ha concluso il portavoce vaticano poi se li gioca con le sue strategie e le sue finalità, non certo con l’intenzione di fare tutto in una volta e poi lasciarci tranquilli».

l’Unità 4.6.12
Intervista a Rosy Bindi:
«Un messaggio di apertura che non comprime i diritti»
di Simone Collini


«Un colpo d’occhio impressionante». Rosy Bindi è al Parco nord di Bresso per la giornata conclusiva dell’Incontro mondiale delle famiglie. Non è azzardato dire che si tratta dell’evento pubblico più partecipato che ci sia stato in Italia da molti mesi ad oggi. «Da qui parte un messaggio ecclesiale ma anche civile molto forte. Un messaggio di apertura, di universalità, non di chiusura di una cultura contrapposta ad altre, una visione della vita che è messa a disposizione di tutta la società». Poi alla presidente del Pd viene in mente un’altra cosa, e sorride: «Vedo anche molta serenità. Per esempio siamo stati accolti molto bene anche noi politici. È vero che noi che abbiamo partecipato all’appuntamento siamo parte di questo mondo, ma di questi tempi era tutt’altro che scontato».
Di questi tempi, guardando al Vaticano, c’è da chiedersi se i “corvi” non rischino di intaccare la credibilità dei vertici della Chiesa: lei che dice?
«Ho colto un grandissimo affetto nei confronti del Papa, che avrà sicuramente fatto bene al suo cuore. Un milione di persone che lo applaude, in piedi, è la prova che la fede del popolo di Dio per il Santo Padre supera tutte le difficoltà e i problemi di cui siamo venuti a conoscenza in questi giorni. Non solo non ho visto intaccato l’affetto per Benedetto XVI, ma l’ho visto più forte».
Cos’altro l’ha colpita di questo Incontro con le famiglie?
«La serata della testimonianza, sabato. Al Papa famiglie vere hanno raccontato la loro vita reale, i loro problemi concreti e la fede non è apparsa un elemento di estraneità ma di condivisione con la realtà umana. Anche le risposte di Benedetto XVI sono state molto ferme nella dottrina ma anche molto accoglienti, pastorali. Basti pensare a quello che ha detto sul tema dei divorziati».
Non è molto “accogliente” però dire che la famiglia è solo quella fondata sul matrimonio tra uomo e donna, non crede?
«Il Papa ha soltanto ribadito la visione della famiglia così com’è nel Vangelo e nell’insegnamento della Chiesa. Non poteva e non può essere che così».
Però ha anche invitato lo Stato a sostenere questo tipo di nucleo: non è un modello che esclude e che tra l’altro confligge anche con l’ordinamento civile?
«No, intanto perché l’articolo 29 della Costituzione dice esattamente che la famiglia è titolare di diritti e doveri. E poi perché vale quello che anche Pisapia ha ricordato, e cioè che le istituzioni devono farsi carico di tutte le altre situazioni. Chiedere sostegno per le famiglie basate sul matrimonio non vuol dire non aiutare le altre, bensì insistere sulla necessità che parta una politica organica sulla famiglia».
Se ne parla da anni, senza che si siano visti i frutti. Perché oggi dovrebbe essere diverso?
«Intanto col governo Prodi ci abbiamo provato. Poi, rispetto al passato cresce la consapevolezza che le politiche per la famiglia vanno collocate all’interno delle più generali problematiche sociali ed economiche. Va valutato l’impatto familiare di tutte le politiche, non solo quelle riguardanti specificatamente la famiglia. Per esempio l’organizzazione del lavoro deve rispettare i tempi della famiglia, riposo compreso. Per troppo tempo ci siamo dimenticati di questo. Quando abbiamo tifato che gli operai di Mirafiori votassero sì al referendum abbiamo pensato cosa vogliano dire per una famiglia 18 settimane consecutive di turno notturno?».
Dice che la sinistra è in grado di opporsi alla deriva individualista che domina la società? O non ne è stata in parte contagiata anch’essa?
«Prima che questa crisi mostrasse il volto peggiore una parte della sinistra ha avuto qualche cedimento nei confronti dell’individualismo, o quanto meno non ha fatto abbastanza per contrastarlo. Oggi ci sono le condizioni perché ci riappropriamo di valori nostri e cerchiamo alleanze culturali giuste nella società di oggi».
Col mondo cattolico, per fare nomi?
«Io sono molto rispettosa e non mi sognerei mai di avere un rapporto strumentale, meramente elettorale, con quel mondo. So però che attorno al programma con cui il Pd si presenterà alle elezioni basato sul superamento di un modello di sviluppo fondato sull’umiliazione del lavoro, sullo sfruttamento dell’ambiente, sul profitto fine a se stesso si dovrà costruire un’alleanza culturale con chi ha un patrimonio etico come quello del mondo cattolico».
Il Papa ha detto ai politici: niente promesse che non si possono mantenere. «Giustamente la politica va richiamata a parole di verità e responsabilità. È un imperativo assoluto in questo momento delicato, dal quale usciremo se non si nascondono le difficoltà attraverso cui bisogna passare».
Da ministro delle Politiche per la famiglia lei ha tentato di introdurre i Dico per le coppie di fatto, e la reazione d’Oltretevere non è stata morbida: ferita ancora aperta o sanata?
«Su un tema come questo non si deve aspettare la benedizione della Chiesa. La nostra Costituzione dice che non possiamo equiparare anche solo giuridicamente la famiglia fondata sul matrimonio ad altre forme di convivenza. Però al tempo stesso non ci possono essere situazioni di fatto clandestine per l’ordinamento giuridico. Serve una regolamentazione dei diritti e doveri per quei milioni di persone che nel loro progetto di vita condividono affetti, solidarietà, in forma diversa dal matrimonio. Sia che si tratti di convivenza tra persone eterosessuali che tra persone omosessuali».
La legislatura si avvia al termine e il tema non sembra tra le priorità di questo governo.
«Vuol dire che lo affronteremo noi».

l’Unità 4.6.12
Il valore dell’istituzione: non c’è una Chiesa senza Chiesa
di Carlo Sini
, filosofo...

CHE LA VISITA DEL PAPA A MILANO SIA STATO UN GRANDE SUCCESSO, DI PORTATA NAZIONALE E INTERNAZIONALE, è un fatto. Che questo fatto si accompagni alle recenti vicissitudini interne della Chiesa costituisce un elemento di ulteriore proficua riflessione. Per esempio si tratta di comprendere la grande funzione delle istituzioni (e la Chiesa è tra le più diffuse e universali).
Si ha voglia a criticare gli innumerevoli difetti che le istituzioni pubbliche e le grandi istituzioni storiche manifestano e hanno manifestato in ogni tempo: senza le istituzioni le idee e le fedi non si incarnano nella realtà e non ispirano grandi emozioni e il consenso partecipativo delle moltitudini. Questo fatto può piacere o non piacere alla coscienza singola, ma la questione è un’altra ed è che senza una funzione ufficiale di rappresentanza non è possibile né efficace un credo religioso o un ideale politico. Si tratta insomma di un monito rivolto alle anime belle che credono davvero che sia facile voltar pagina e fare a meno di qualsivoglia gerarchia e selezione di vertice nella programmazione e amministrazione della vita pubblica. Come dire: c’è del marcio in Danimarca, c’è sempre stato, così come presumibilmente sempre ci sarà, perché l’uomo, diceva Kant è un legno storto (e i legni storti, come le gambe dei cani, non si raddrizzano); ma non possiamo fare a meno della Danimarca, cioè di un simbolo realizzato di comunione pubblica; possiamo al più farci sempre di nuovo carico della parte di male inevitabile che si deve cercare di diminuire.
Si può operare fuori dell’istituzione per stimolarla e non lasciarla cadere nell’inerzia delle sue gerarchie costituite, senza però dimenticare che è comunque all’interno di essa che lo stimolo deve trovare efficacia e modi di espressione. Una Chiesa senza Chiesa, uno Stato senza Stato è una pericolosa illusione, una visione infantile o, peggio, un discorso in mala fede per ingannare gli ingenui.
Il successo del Papa a Milano fornisce, tra i molti, un ulteriore motivo di riflessione ed è che con la visione del mondo dei cattolici è indispensabile venire a un dialogo serio e sincero. I toni usati dal Papa nel ribadire le convinzioni della Chiesa relativamente alla vita civile di tutti sono stati moderati e rispettosi: è una cosa che va sottolineata e di cui essere, come laici, soddisfatti. Si tratta allora di cercare una demarcazione sempre più limpida e serena tra le funzioni della società civile e quelle della comunità religiosa.
Ma bisogna aggiungere che entrambe le funzioni non devono limitarsi a demarcare il territorio di rispettiva competenza: c’è anche una funzione generosa che entrambe possono reciprocamente esercitare, per il bene reciproco e di tutti. Importante e anzi importantissimo è che, in un momento come questo, la più grande autorità spirituale del nostro Paese ricordi alla politica, a tutti i partiti e alle associazioni politiche, il dovere della dedizione, dell’altruismo, del dono di sé, della rinuncia all’egoismo tattico per la prevalente attenzione al bene comune.
Non è meno importante che il libero pensiero dei laici ricordi, con comprensione generosa, alla Chiesa che anche la fede è un’esperienza di continuo rinnovamento e di continua avventura, che anche la Chiesa come istituzione continua a vivere perché alimentata nel profondo dalla libertà di pensiero dei suoi migliori credenti: essi recano in ogni tempo testimonianza dello spirito, certo, ma anche e soprattutto del fatto che lo spirito soffia dove vuole, segnando il destino degli umani di tutte le religioni, di tutte le culture e di tutte le fedi. C’è una verità ecumenica in cammino, che è forse il più tipico contrassegno del destino della modernità. Anche il pensiero laico può imparare dalla esperienza millenaria della Chiesa a pensare e a guardare in grande il presente e il futuro, così come può offrire alla Chiesa la testimonianza della sua fede: nel valore imprescindibile della libertà, che è condizione prima per ogni figura e avventura della verità.

l’Unità 4.6.12
Le famiglie cambiano. Guai a chiudersi nel «modello»
di Serena Noceti
, teologa...

«LAVORO E FESTA» SONO L’ANGOLO PROSPETTICO SOTTO IL QUALE È STATO AVVICINATO IL DELICATO TEMA DELLA FAMIGLIA nell’Incontro mondiale appena conclusosi a Milano. La prospettiva adottata intercetta con intelligenza preoccupazioni vitali per ogni nucleo familiare, raccoglie nella fatica post-moderna di armonizzare i «tempi del vivere» i difficili equilibri tra la sfera del personale e le esigenze del sociale e ricolloca così là dove si gioca chiaramente la relazione tra scelte individuali e struttura sociale la questione che il magistero cattolico da alcuni decenni considera centrale: il riconoscimento della famiglia quale struttura basilare della società.
La preoccupazione per la tenuta del tessuto sociale in Occidente e il richiamo a ripartire da questa «cellula base» per vivere relazioni, appartenenza, dinamiche culturali sono emersi con chiarezza dalle parole del Papa, insieme all’appello a una politica che formuli criteri per ripensare welfare, sistema economico, mercato del lavoro in modo da salvaguardare l’istituto familiare che sperimenta fragilità sempre più evidenti e insieme rappresenta, in questo tempo di crisi, uno dei luoghi di «tenuta» sociale ed economica più rilevanti.
Un tale richiamo al «fare famiglia» sotto questa prospettiva di lavoro e tempi di vita risuona indubbiamente utile proprio nello scenario italiano, segnato da una «cultura della famiglia» che rimane diffusa e radicata ma che è particolarmente debole sul piano legislativo proprio in ordine alle politiche per le famiglie. Allo stesso tempo non si può non rilevare che proprio il «dossier famiglia» fa percepire la difficoltà che la Chiesa cattolica e il suo magistero hanno nell’interpretare i cambiamenti sociali avvenuti nell’ultimo secolo.
Le trasformazioni nella relazione di coppia e nei ruoli familiari, la priorità riconosciuta al codice affettivo rispetto alla regolazione oggettiva dell’impegno, il superamento di logiche di autorità e lo spazio dato alle dinamiche comunicative, il riconoscimento della soggettualità dei bambini e la crisi della maschilità, il pluralismo di modelli familiari presenti, hanno inciso profondamente sulla strutturazione delle famiglie: «fare famiglia» si dà secondo nuove forme e nuovi significati.
Al di sotto della parziale recezione di queste prospettive da parte del magistero sono individuabili due questioni nodali non ancora adeguatamente tematizzate nell’immaginario cattolico: la soggettualità libera delle donne (non riducibile mai al solo «sponsale-materno») e l’autonomia di pensiero e di scelta dell’adulto. La parola della Chiesa appare oggi poco significativa proprio perché non capace di intercettare il ridefinirsi dell’umano intorno a queste due prospettive del moderno: stigmatizza così comportamenti individuali secondo un codice non più condiviso, perpetua stereotipi di genere, si arrocca nel ripetere un già esperito, perché non si fa interpellare fino in fondo dal cambiamento delle relazioni affettive e dalla ri-collocazione della famiglia nell’insieme delle dinamiche sociali.
Proprio perché appaiono essenziali gli appelli al valore della persona, l’attenzione alle relazioni primarie davanti all’anonimato crescente, il richiamo al ruolo proprio della famiglia per l’educare e per il passaggio tra generazioni, la Chiesa in Italia non può pensare di imboccare la sola via di un’influenza politica della gerarchia per modifiche sul piano legislativo. Rischia di risultare inadeguata al futuro la posizione di chi sottovaluti la trasformazione avvenuta e lo sviluppo di una pluralità di modelli familiari e pretenda di pensare la famiglia intorno a una sola «forma» (per molti ormai anacronistica), in una società che in ogni caso non si sviluppa più per adeguamento a procedure standardizzate o a modelli predeterminati socialmente.
Per la società italiana come per la Chiesa la sfida rimane quella di apprendere dalla famiglia di oggi la sua logica più rilevante: abitare il quotidiano creando di volta in volta, con laboriose negoziazioni comunicative e per via di mediazione, gli spazi e i tempi del «con-vivere».

l’Unità 4.6.12
I fedeli e lo scandalo «Dove c’è il bene c’è anche il male»
Dopo i corvi in Vaticano: «La Chiesa è fatta di uomini»
«Sono confusa» «Ci vuole più affetto»
di R.M.


Festa delle famiglie, ma anche festa per il Papa ieri al Family 2012 di Bresso. Alla fine della messa Benedetto XVI è stato salutato con una vera ovazione. C’è chi per assicurarsi il posto tra le prime file ha trascorso la notte in sacco a pelo nella grande spianata del Parco Nord. Come per i grandi concerti rock. Questa volta per il Papa. Secondo gli organizzatori sono stati oltre un milione i fedeli giunti da tutti i continenti.
I numeri ufficiali parlano di 85 conferenze episcopali presenti con le loro delegazioni e di 153 Paesi rappresentati. La realtà è di una moltitudine fatta di gruppi organizzati, famiglie, singoli spinti dal desiderio di non mancare questo appuntamento. «Un’assemblea composta e festosa», l’ha definita il portavoce della diocesi milanese, don David Milani. Malgrado la crisi, le difficoltà e le incertezze che vivono tante famiglie. Malgrado le difficoltà che vive la Chiesa.
Diana ha 50 anni. È nata in Ecuador, ma da 12 anni vive a Milano. È qui con il gruppo della sua parrocchia. Sono un centinaio. «Sono qui per condividere il desiderio di cambiamento. Vorremmo più sensibilità sui temi della famiglia e più speranza. Lo vedo nella mia attività di catechista: bisogna credere di più nella famiglia. I genitori devono sforzarsi di essere più uniti e stare di più con i loro figli». «È il lavoro osserva che leva spazio alla famiglia che, invece, dovrebbe essere la cosa più importante».
Laura Ubrizzi è qui con il marito Giorgio e i suoi tre figli. Fanno parte di un gruppo di Faenza. «Siamo in centoventi. Ci ha organizzato la parrocchia. Come potevamo mancare? Siamo qui per confermare l'unità della Chiesa e viverla». Oltre la transenna una parte della spianata è decisamente «spagnola». Sono in 600 venuti da Madrid con bandiere e striscioni.
Un gruppo di loro, una trentina con 17 bambini, hanno trascorso la notte della veglia nella grande area dell’aeroporto di Bresso.
Uno di loro non ha difficoltà a commentare così l’arresto del maggiordomo del Papa. «La Chiesa è fatta anche da uomini che commettono errori. Come stupirsene se anche chi è stato il primo pontefice, l’apostolo Pietro, ha rinnegato Gesù? Non ci possiamo scandalizzare. Forse se fossimo stati al posto del maggiordomo del Papa avremmo agito peggio di lui...».
«Sono qui dalle quattro di mattina. Sono venuta con le mie amiche e sono felice di esserci», afferma Pina. Vive da tempo a Milano, ma viene dal Sud. Ha 53 anni e un figlio di 25. «Ho raccolto questa opportunità. È stata l’esperienza di un percorso di fede. Ho mille dubbi che affiorano in me. Mi sento come presa dal clima composto di questo grande incontro. Alla folla preferisco la solitudine. Qui mi sono sentita accolta. Mi resterà l’emozione di questa compostezza. Ne è valsa la pena».
QUASI UNA PREGHIERA
«Ci sia più unità e affetto nelle famiglie e nella Chiesa. Perché purtroppo non è così». Lo afferma Milena. La sua è quasi una preghiera. Viene da La Spezia, dove vive, anche se lei è milanese. È rimasta colpita dalla denuncia degli scandali d'Oltretevere. «La stampa deve averli ingranditi, ma qualcosa che non va ci deve essere», commenta preoccupata. «Dove c'è il bene, c’è anche il male», osserva con serenità Sandra. È boliviana e vive da 6 anni a Milano. «Sono contenta di essere qui. È il culmine della nostra fede quel sì dei cristiani alla famiglia».
Un'altra sudamericana, Kadina, sottolinea il senso di armonia che si respira. «Il carisma di Papa Benedetto è molto concreto e reale». La preoccupano le notizie sui contrasti in Vaticano. «Sono molto confusa... Spero sia solo una piccola parte della verità. La Chiesa va vissuta come oggi per essere veramente capita». Si incontra una rappresentanza del Brasile. Sono in venticinque e vengono da San Paolo Paranà. «Dio era qui con noi. Il Papa ci ha dato una parola di coraggio», osserva Elisa Bucci Ercolin, di origini italiane. Non la preoccupano troppo scandali e corvi. «Tutto ciò che succede è per la nostra conversione».

Repubblica 4.6.12
Le responsabilità di Berlino
"Abbiamo tre mesi di tempo il sistema bacato di Berlino sta uccidendo l’Unione"
Pagano solo i Paesi deboli con l’austerità
di George Soros


Sull´Europa incombe un destino simile a quello riservato negli anni 80 al Sudamerica: fu un decennio perduto. Anche allora furono protette solo le banche
Il primo passo del processo di disintegrazione lo ha compiuto Angela Merkel. Il centro ha scaricato regolarmente tutti gli oneri sulla periferia

Sono giunto alla conclusione che la crisi dell´euro minaccia di distruggere davvero l´Unione Europea. L´Unione Europea è essa stessa una bolla. Nella fase del boom, la Ue era quella che lo psicoanalista David Tuckett definì un´"idea fantastica", irreale, ma affascinante.
Era l´incarnazione stessa di società aperta, un´associazione di nazioni basata sui principi democratici, i diritti umani, la legalità, e nella quale nessuna nazionalità avrebbe avuto una posizione dominante rispetto alle altre.
La Germania è sempre stata in prima linea in questa impresa. Quando l´impero sovietico iniziò a disintegrarsi, i leader tedeschi si resero conto che la riunificazione del loro Paese sarebbe stata possibile soltanto nell´ambito di un´Europa più unita e furono disposti a fare considerevoli sacrifici per riuscirci. Quando giunse il momento di negoziare, furono disposti a dare qualcosa di più e a prendere un po´ meno degli altri, facilitando così che si arrivasse all´accordo. All´epoca gli statisti tedeschi erano soliti affermare che la Germania non aveva una politica estera indipendente, ma soltanto una politica europea.
Il processo è culminato con il Trattato di Maastricht e con l´introduzione dell´euro, ai quali ha fatto seguito un periodo di stagnazione che dopo il crollo del 2008 si è trasformato in un processo di disintegrazione. Il primo passo lo ha fatto la Germania, quando Merkel - dopo la bancarotta di Lehman Brothers - ha dichiarato che la garanzia virtuale estesa ad altre istituzioni finanziarie sarebbe dovuta arrivare dall´azione di ogni Paese, e non dall´azione congiunta dell´Europa.
Il Trattato di Maastricht era difettoso in partenza. Il suo punto debole principale era del resto ben noto ai suoi artefici: instaurava un´unione monetaria senza che esistesse un´unione politica. Ma l´euro aveva anche altre imperfezioni strutturali delle quali i suoi artefici erano inconsapevoli e che perfino oggi non sono comprese appieno. In retrospettiva, la fonte principale di tutti i problemi è che gli Stati membri della zona euro hanno abdicato e ceduto alla Bce i loro diritti di creare moneta a costo forzoso. Non si sono resi affatto conto di quello che ciò implicava, e così pure le autorità europee. Quando l´euro è stato introdotto, i regolatori hanno consentito alle banche di acquistare quantità illimitate di titoli di Stato senza però accantonare alcun capitale azionario. E la Banca centrale ha accettato tutti i titoli di Stato al suo sportello-sconti alle stesse condizioni. Le banche commerciali hanno così scoperto che era vantaggioso accumulare i titoli dei Paesi membri della zona euro più deboli per guadagnare qualche punto extra percentuale. È questo ad aver fatto sì che i tassi di interesse convergessero e che la competitività divergesse. La Germania, affaticata per gli oneri della riunificazione, ha intrapreso riforme strutturali ed è diventata più competitiva. Altri Paesi hanno goduto di bolle immobiliari e dei consumi, alle spalle di credito a basso costo, e ciò li ha resi meno competitivi.
Poi è subentrato il tracollo del 2008, che ha creato situazioni lontane da quelle previste dal Trattato di Maastricht. Molti governi hanno dovuto trasferire i passivi bancari sui loro bilanci e impegnarsi in una massiccia spesa in disavanzo. Questi Paesi si sono ritrovati nella posizione di quelli del Terzo mondo: indebitati in una valuta sulla quale non avevano controllo. A causa delle divergenti performance, l´Europa si è spaccata in due: da una parte i paesi creditori, dall´altra i paesi debitori. E tutto ciò sta avendo implicazioni politiche molto più ampie.
La zona euro sta adesso ripetendo quello che è spesso accaduto nel sistema finanziario globale. C´è uno stretto parallelismo tra la crisi dell´euro e la crisi bancaria internazionale scoppiata nel 1982. Allora le autorità finanziarie internazionali fecero tutto quello che era necessario per proteggere il sistema bancario: inflissero l´austerità alla periferia per proteggere il centro. Adesso la Germania e gli altri Paesi creditori stanno inconsapevolmente rivestendo quello stesso ruolo. I creditori stanno rifilando l´onere dell´adeguamento ai Paesi debitori, eludendo le proprie responsabilità per ciò che riguarda gli squilibri. Proprio come negli anni Ottanta, tutta la colpa e l´onere stanno ricadendo sulla "periferia", mentre la responsabilità del "centro" non è mai stata neppure adeguatamente riconosciuta. Eppure, nella crisi dell´euro la responsabilità del centro è di gran lunga maggiore di quanto fu nel 1982. Il "centro" è responsabile per aver messo a punto un sistema bacato, per aver promulgato trattati e perseguito politiche piene di imperfezioni, e per aver sempre fatto troppo poco e troppo tardi. Negli anni Ottanta l´America latina soffrì a causa di un decennio perduto; oggi un simile destino incombe sull´Europa. Questa è la responsabilità che la Germania e gli altri Paesi creditori devono riconoscere. Invece, non ci sono segnali che ciò stia accadendo. Le autorità hanno ancora tre mesi per correggere i loro errori. Dicendo "le autorità" intendo il governo tedesco e la Bundesbank.
Il testo è uno stralcio del discorso fatto da George Soros al Festival dell´Economia di Trento. Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 4.6.12
Samo tutti ebrei greci
di Mario Pirani


Esiste un ritorno ad una minaccia nazista in Europa, oppure si tratta di un timore artificialmente alimentato per dare corpo a pericoli inesistenti, tali da delineare una volta ancora profili minacciosi secondo vecchi schemi senza credibilità attuale? Certo, la risposta può pendere da una parte o dall´altra, a seconda del senso storico attribuito a fatti e del collegamento tra questi e la crisi economica. Così, se si tende ad attribuire alla presenza di masse di emigranti dell´Est una pressione incombente e minacciosa sul Welfare occidentale, è facile trarne conseguenze che implicano iniziative di difesa attiva, politiche di limitazione del benessere pubblico, una propaganda ostile all´arrivo di nuove masse di emigranti. Possono sembrare ipotesi fuori tempo ma se si esaminano le implicazioni quotidiane della crisi economica si possono tracciare premesse non tranquillizzanti.
Le sorti della Grecia, per proporre l´esempio più vicino, non possono lasciarci indifferenti. Un gruppo di intellettuali europei, proprio in concomitanza con le elezioni greche che il 6 maggio hanno visto il successo parlamentare del partito Alba Dorata, si è grandemente allarmato e ha lanciato un appello su varie testate, incitando alla mobilitazione con lo slogan: "Siamo tutti ebrei greci", contro le spinte razziste, antisemite, xenofobe che stanno emergendo in vari Paesi dell´Unione. Alba Dorata con un emblema che richiama la svastica, il saluto hitleriano Mein Kampf come riferimento, la proclamata ideologia razzista e antisemita, il negazionismo, la verificata violenza contro gli immigrati, la sua lotta contro la libertà di stampa, è l´erede non solo del partito nazista ma anche dei gruppi armati che dettero vita alla Grecia dei colonnelli.
Si può ignorare tutto ciò, rimuovere il senso di una tendenza che non coinvolge solo l´Ellade ma altri Stati che non appaiono alieni da un richiamo all´ideologia nazista. Così quest´anno per la prima volta in Lituania, il presidente della Repubblica ha sostenuto la marcia annuale delle Waffen SS, nonostante le forti critiche sollevate. In Austria il Partito delle Libertà Austriache -Fpo - apertamente nostalgico del Terzo Reich, è tra i favoriti nei sondaggi per le prossime elezioni parlamentari. Analoga l´influenza del Movimento della Guardia Ungherese, discendente delle Croci Frecciate, responsabile degli eccidi e pogrom contro ebrei e zingari durante la prima guerra mondiale. L´assieme di episodi di aggressione di questo tipo che si ripetono nei Paesi balcanici e danubiani con una frequenza che sembrava negli anni scorsi fortemente affievolita sembra confermare il consolidarsi di un fermento ideologico, tendente ad addossare alla presenza islamica ed ebraica le cause della crisi economica.
Di qui ad addebitare la responsabilità alle misure di austerità ai tagli sociali, all´intervento delle banche internazionali, il passo è rapido. Tutto il discorso sull´Europa (basta analizzare la prosa lepenista) ne è investito sia nei suoi tentativi di ripresa sia nei piani socialdemocratici di rilancio. Nell´assieme si è venuto consolidando un diritto di difesa europeo in chiave antislamica e antisemita, che legittima i partiti di estrema destra, la cui normalizzazione è oggi facilitata dalla loro partecipazione ai governi di centro e di estrema destra, con slogan che non si differenziano dalla vecchia ideologia nazista.
Una verifica sul grado della sua penetrazione la si è avuta a marzo e giugno 2011 in un test svolto nei locali di divertimento di Austria, Francia, Italia, Romania, Norvegia, e Serbia. Ebbene al 25% del campione è stato negato l´accesso perché nero, arabo o Rom. A Varsavia si è proceduto in senso opposto: il Comune ha modificato i contratti con i luoghi di intrattenimento, includendo una clausola contro le discriminazioni e imponendo la chiusura dei locali in caso di violazioni.

l’Unità 4.6.12
L’arsenale nucleare d’Israele? Parla tedesco
Lo Spiegel: atomiche montate sui sottomarini forniti a Tel Aviv
Un terzo della spesa a carico di Berlino all’insaputa dei cittadini
di Marina Mastroluca


Israele installa missili nucleari sui sottomarini forniti dalla Germania. Apparentemente non è una notizia: è dalla fine degli anni ‘90 che senza mai una vera e propria conferma ufficiale da parte di Tel Aviv la storia circola sulle stampa internazionale. Ma l’inchiesta oggi in edicola sullo Spiegel è di quelle destinate a far montare la polemica. Perché Israele piazza missili nucleari sui sottomarini che Berlino ha costruito, in larga parte finanziato e per il resto venduto a condizioni agevolate. E il governo tedesco lo ha sempre saputo. «La Germania anticipa lo Spiegel sta aiutando Israele a sviluppare le sue capacità nucleari militari», a dispetto di quanto ha finora sostenuto. E i contribuenti tedeschi danno una mano a loro insaputa. Non stupisce che il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak dichiari al settimanale che «i tedeschi possono essere fieri di aver garantito per molti anni l’esistenza dello Stato di Israele».
U-BOOT E INSEDIAMENTI
«Operazione segreta Sansone», il titolo di copertina dello Spiegel mostra il volto di Angela Merkel e quello di Netanyahu, sullo sfondo azzurrino con la sagoma di un U-Boot. Il settimanale, che ha dedicato mesi all’inchiesta, ha raccolto le testimonianze dell’ex sottosegretario alla Difesa, Lothar Ruehl, e dell’ex responsabile dell’Ufficio di coordinamento, Hans Ruehle. Entrambi hanno spiegato al settimanale di Amburgo di aver dato per scontato che Israele avrebbe montato missili nucleari sui sommergibili costruiti nei cantieri di Kiel.
Israele ha sempre mantenuto un assoluto riserbo sulle proprie capacità nucleari, lasciando tuttavia intendere di essere in possesso di un arsenale che non avrebbe difficoltà ad utilizzare. E secondo lo Spiegel, la Germania sapeva dei programmi nucleari israeliani sin dal 1961. L’ultima occasione documentata in cui la questione è stata sollevata tra i due governi risalirebbe al 1977, quando l’allora cancelliere Helmut Schmidt ne parlò con il ministro degli esteri israeliano Moshe Dayan. Eppure da quando, dopo la prima Guerra del Golfo, Berlino ha fornito a titolo gratuito i primi due sottomarini ad Israele, i governi tedeschi sono stati estremamente vaghi sul possibile impiego di armi nucleari a bordo. Quando la questione è stata sollevata al Bundestag, in particolare perché i sommergibili erano dotati di tubi lanciasiluri da 650 millimetri compatibili con l’impiego di testate nucleari la risposta è stata che non se ne conosceva la ragione visto che la progettazione era su disegno israeliano.
Finora dai cantieri «Howaldtswerke» sono usciti tre sommergibili già consegnati allo Stato ebraico e segnalati in passato tra il Mediterraneo e il Mar Rosso, da dove facilmente possono tenere sotto tiro l’Iran (che anche ieri ha proferito nuove minacce contro Israele). A bordo secondo quanto rivelato già nel 2003 da ufficiali Usa e israeliani avrebbero la possibilità di alloggiare missili da crociera a lungo raggio, i Popeye Turbo, capaci di colpire fino a 1500 chilometri. Altri tre sottomarini, più grandi e di nuova concezione, verranno forniti dalla Germania entro il 2017. La nuova serie, denominata U-212, è più veloce e silenziosa, più difficile da individuare e dotata di un finora segreto sistema di espulsione dei missili.
Il primo sottomarino di questa seconda serie è già stato consegnato all’inizio dello scorso maggio: si tratta della nave Tanin, coccodrillo in ebraico. E dopo qualche difficoltà a chiudere l’accordo, il governo tedesco ha di recente firmato il contratto per la fornitura del sesto sommergibile ma Israele sta considerando l’acquisto anche di altri tre. Secondo lo Spiegel, la cancelliera Angela Merkel ha fatto «concessioni sostanziali» ad Israele. «Non solo Berlino finanzia un terzo del costo del sottomarino, circa 135 milioni di euro» ma ha anche consentito a Tel Aviv pagamenti dilazionati fino al 2015. La cancelliera avrebbe anche subordinato la consegna del sesto sottomarino ad uno stop della politica degli insediamenti e all’autorizzazione a realizzare nella Striscia di Gaza un impianto di depurazione delle acque, in parte finanziato dal governo tedesco. Nessuna di queste condizioni, specifica lo Spiegel, è stata finora mantenuta.

l’Unità 4.6.12
Caos totale nella Linke, Gysi evoca la scissione
di Gherardo Ugolini


Doveva essere il congresso del rilancio, dopo i pessimi risultati delle ultime elezioni regionali (costati la fuoriuscita dai parlamenti dello Schleswig-Holstein e del Nord Reno-Westfalia), e invece è stato il congresso delle spaccature. Doveva esserci il clamoroso comeback di Oskar Lafontaine, l’unico leader di spessore in grado forse di riportare in auge il partito della Linke, ma Oskar il rosso, ormai ristabilitosi dopo la lunga malattia, alla fine ha rinunciato a candidarsi alla presidenza. Pretendeva di esercitare una leadership assoluta senza avere accanto dirigenti non di sua fiducia; una richiesta che molti nel partito hanno rigettato come «arrogante».
Le parole d’ordine del congresso della Linke, svoltosi lo scorso weekend a Göttingen, sono state solidarietà, democrazia, giustizia e pace, scritte a caratteri cubitali su sfondo rosso dietro la tribuna degli oratori. Ma l’atmosfera è stata tutta all’insegna dei conflitti intestini. Gregor Gysi, l’altro leader carismatico, in un intervento assai accorato e applaudito, è arrivato al punto di evocare il rischio di una scissione. «Non se ne può più di questo clima d’odio reciproco. Piuttosto che trascinare un matrimonio completamente fallito, ricorrendo a inganni meschini, calci negli stinchi e accuse diffamatorie, è meglio una separazione senza rancori» ha detto senza ipocrisie colui che ha guidato i comunisti della ex Rdt negli anni post unificazione fino al 2007, quando la Pds si fuse con il movimento dei fuoriusciti dell’Spd guidati da Lafontaine dando vita al partito della Linke.
Sono passati appena cinque anni dalla fondazione. L’apice del successo è stato nel 2009 con l’ingresso trionfale in molti parlamenti regionali dell’ovest e l’incredibile percentuale dell’11,9% conquistata alle politiche. Da allora in poi un susseguirsi di polemiche e di diatribe storico-ideologiche (sul significato del comunismo o sull’eredità della Rdt) ha logorato li vertici e stancato la base. A ciò va aggiunta la ripresa dell’Spd, che una volta passata all’opposizione è riuscita a riconquistare voti a sinistra, e la concorrenza di Verdi e Pirati. Ma la debolezza attuale della Linke (data al 7% a livello nazionale) è dovuta all’endemica divisione tra la fazione «orientale», gli eredi della Pds e della Ddr, e quella «occidentale», ovvero i dissidenti della socialdemocrazia dell’epoca Schröder. La verità è che la fusione tra le due anime non si è mai veramente compiuta. Gli orientali sono pragmatici e «governativi», disposti ad accettare compromessi per allearsi con le altre forze di sinistra; gli «occidentali» sono massimalisti, nutrono un’ostilità irriducibile verso i «traditori» dell’Spd e non ne vogliono sapere di partecipare ad alleanze di governo.
Le spaccature interne hanno finito con l’offuscare il risultato più importante del congresso, ovvero il cambio della guardia al vertice del partito. Il duo formato da Klaus Ernst e Gesine Lötsch è stato sostituito dopo due anni di guida turbolenta e contestata da un’altra coppia, come da statuto, formata anche stavolta da un uomo (dell’ovest) e una donna (dell’est). I nuovi presidenti della Linke sono dunque Katja Kipping e Bern Riexinger. La prima è una 34enne della Sassonia, il secondo un sindacalista di Stoccarda, fedelissimo di Lafontaine. Sulle loro spalle grava ora la responsabilità di dare al partito una prospettiva strategica così da tenerlo unito almeno fino alle politiche del 2013.

La Stampa 4.6.12
Intervista
Le quattro mosse per fare cadere il raiss di Damasco
«Un’operazione militare sul modello libico non è pensabile anche per il no della Russia»
Parla Dennis Ross, ex zar Usa per il Medio Oriente
di Paolo Mastrolilli


L’ intervento militare in Siria non è praticabile, ma si può e si deve accelerare la caduta del regime di Assad. Quanto all’Iran, bisogna tirare una linea rossa invalicabile: le potenze coinvolte nei negoziati devono chiarire che non accetteranno mai la costruzione di una bomba atomica, e nel privato dei colloqui devono comunicare a Teheran una scadenza precisa entro cui scatterà l’attacco, se non ci saranno progressi nella trattativa.
Queste non sono semplici considerazioni di qualche analista, ma opinioni espresse da Dennis Ross durante un recente incontro alla 92Y di New York. Ross, che ha servito in cinque Amministrazioni democratiche e repubblicane come inviato in Medio Oriente, è stato per due anni l’assistente speciale del presidente Obama nella regione, e per un anno il consigliere speciale del segretario di Stato Clinton sull’Iran.
Perché - gli ha chiesto l’ex direttore della rivista Foreign Affairs James Hoge - andava bene rovesciare Gheddafi ma non si può fare lo stesso con Assad?
«Un intervento militare sul modello della Libia non è praticabile, per varie ragioni. La Russia si oppone, e questo impedisce il consenso su una risoluzione all’Onu. La Siria ha difese aeree molto più attrezzate e sofisticate, e quindi l’operazione sarebbe più difficile. L’Europa in Libia ha quasi esaurito le sue scorte di armi di precisione, e in sostanza rischieremmo di provocare una lunga guerra civile. Però dobbiamo accelerare lo stesso la fine di Assad, con quattro mosse. Primo, spingere Mosca ad abbandonarlo, offrendo a Putin la possibilità di rivendicare il merito della caduta, e chiedendo agli arabi di porre il Cremlino davanti alla scelta netta tra la loro amicizia e quella con Assad. Secondo, far capire agli alawiti che hanno un futuro anche senza Assad, e quindi lui ha torto quando dice che devono combattere col regime fino alla morte perché non esistono alternative. Terzo, costituire una zona di sicurezza nel Nord del Paese con l’appoggio della Turchia. Quarto, costringere l’opposizione a prendere una posizione unitaria».
In Iran si va verso la guerra?
«Il problema è la diversa percezione tra Israele e gli Usa sul tempo a disposizione per un intervento militare: noi americani possiamo aspettare più a lungo, per vedere se le sanzioni funzionano. Invece la finestra entro cui un intervento israeliano potrà essere efficace si chiuderà molto prima, probabilmente intorno a ottobre. Dunque gli israeliani hanno più fretta, e per evitare la guerra bisogna ottenere risultati prima. I colloqui avvenuti finora non hanno dato frutti perché servivano a posizionare le parti. Ora vediamo come andrà la prossima tornata, prevista alla vigilia dell’entrata in vigore delle nuove sanzioni, il primo luglio, che metteranno davvero Teheran in difficoltà. La chiave, da parte americana, è parlare con gli iraniani, offrire loro una via d’uscita per salvare la faccia, ma essere molto chiari sul fatto che non accetteremo mai l’atomica. Gli stessi arabi, a partire dal governo saudita, non sono disponibili al contenimento. Ma per avere successo dobbiamo imporre un ultimatum, in privato: gli iraniani devono sapere che, valicata quella linea, scatterà l’intervento, se non ci saranno risultati al tavolo dei negoziati».
Che impatto ha questa situazione sul confronto tra israliani e palestinesi?
«Il Medio Oriente vive una fase storica che cambierà tutto. Con la maggioranza senza precedenti di cui dispone ora, Netanyahu è sotto pressione perché deve usarla per ottenere qualche risultato. Di recente ha detto che Israele ha interesse a fare la pace adesso, perché non vuole diventare uno stato binazionale, ma restare uno Stato ebraico democratico. Era la posizione di Sharon, e in parte della sinistra. Resta poi la divisione tra Fatah e Hamas, ma Hamas ha avviato un processo per vedere se esiste un possibile programma comune con Fatah. Abu Mazen vuole l’eredità storica di aver riunificato il suo popolo, ma teme che la crescita dei Fratelli musulmani in tutta la regione gli impedisca di negoziare. Però Mashal e la leadership di Hamas hanno abbandonato Assad, indispettendo l’Iran, e quindi forse adesso hanno incentivi per cercare un terreno comune con Fatah».

Corriere 4.6.12
Il ministero della sanità Usa: «Gli zombie non ci sono»


Prima un trentunenne nudo che si mette a divorare il volto di un senzatetto nel bel mezzo del traffico — e alla luce del giorno — a Miami. Poi l'attore porno canadese che con un rompighiaccio uccide, spezzetta e mangia parti di corpo della vittima spedendo i resti via posta. Quindi lo studente africano di 21 anni che negli Usa smembra il compagno di stanza e ammette di avergli mangiato cuore e cervello. Tre atti di cannibalismo in Nord America in poco più di una settimana. Abbastanza per spaventare molti americani e da far registrare un boom di ricerche su Google a proposito di zombie e Apocalisse. Una psicosi che ha costretto il Centers for Disease Control and Prevention (agenzia federale del ministero della Sanità) a chiarire che negli Usa non è in corso nessuna epidemia di antropofagia. In una email inviata all'Huffington Post, il Cdc scrive che l'ente «non è a conoscenza di un virus e di una condizione in grado di rianimare i morti o che esistano sintomi paragonabili a quelli degli zombie». Una spiegazione che, a dire il vero, non ha convinto proprio tutti: sul web arrivano sempre più segnalazioni di sintomi da zombie da una parte o l'altra. Intanto continua la caccia al porno attore canadese di 29 anni sospettato di aver ucciso, smembrato e mangiato parti di corpo di un giovane cinese, Jun Lin, di 33. Luka Rocco Magnotta, questo il suo nome, è ricercato dall'Interpol e ora si troverebbe in Francia da qualche giorno. Le ultime tracce lo collocano in un albergo di Bagnolet, nella banlieue parigina. Ma lì non l'hanno più trovato.

Repubblica 4.6.12
La prevalenza dell’etica
Perché i filosofi non possono fare solo la morale
di Roberto Esposito


Oggi, tra saggi e convegni, sembra che gli studiosi si concentrino sul tema dei valori. Che resta fondamentale ma non può oscurare altre riflessioni
È evidente e necessario porre l´accento su alcune questioni, anche contro l´illegalità
Dovremmo anche cercare di capire, però, come mai certi ideali faticano a tradursi in pratica
Serve, oltre la normatività, un pensiero analitico e critico che abbracci la storia

C´è una tendenza in atto a moralizzare la filosofia. Non nel senso di rendere buoni i filosofi – ‘vaste programme´, avrebbe detto qualcuno. Ma nel senso di porre i valori morali al centro della ricerca filosofica, al punto da fare dell´etica non più un suo territorio, ma la questione stessa del pensiero. E´ questo il presupposto implicito, e anche la tonalità diffusa, che sembra accomunare una serie di libri recenti come La questione morale di Roberta de Monticelli (Cortina 2010), Filosofia morale di Luigi Alici (La Scuola 2011), Il coraggio dell´etica. Per una nuova immaginazione morale di Laura Boella (Cortina, 2012). Se si aggiunge che dopo una fortunata collana filosofica del Mulino, su ciascuno dei dieci comandamenti, ne è nata un´altra, da Cortina, sulle virtù, i cui primi titoli sono Sincerità (di Andrea Tagliapietra), Rispetto (di Roberto Mordacci) e Coraggio (di Diego Fusaro), il quadro si completa. Dopo una fase in cui il compito del pensiero è apparso quello di decostruire i valori consolidati, ponendo un interrogativo critico sulla loro vigenza, oggi la filosofia torna a riproporli in prima persona, parlando direttamente il linguaggio della morale.
I motivi di tale svolta sono evidenti. Nel momento in cui non solo l´etica pubblica sembra affondare sotto il peso di una corruzione ormai insostenibile, ma anche la politica diventa un collettore di interessi privati, la filosofia è portata ad assumere un ruolo di supplenza nei loro confronti. Questo spiega lo straordinario successo della filosofia in piazza, anch´esso in contrasto con la crescente disaffezione politica. Contro l´illegalità dilagante, e la vera e propria barbarie che esplode improvvisa a devastare il senso stesso della vita umana, L´elogio del moralismo – è il titolo del vibrante pamphlet di Stefano Rodotà (Laterza 2011) – diventa più che un segno di rivolta. Esso è un anticorpo nei confronti di questo virus micidiale e insieme un invito alla ricostituzione dello spirito pubblico. Del resto tutti i saggi citati esprimono una simile esigenza di riscatto e di ricostruzione di un tessuto sociale lacerato. La necessità di uno scatto morale rispetto a comportamenti nutriti da un cinismo diffuso, da un minimalismo etico, o anche da un male radicale che distrugge la nozione stessa di responsabilità individuale. Da qui l´invito al coraggio della protesta aperta, la ricerca di nuovi percorsi etici, il richiamo ad una capacità immaginativa che ricostruisca su altre basi il rapporto tra sé e gli altri.
E tuttavia, ciò detto – individuate le ragioni oggettive e le intenzioni soggettive di questa inclinazione della riflessione filosofica verso la sfera della morale – resta aperta una domanda sul suo significato d´insieme. Può, la pratica del pensiero, limitarsi alla riproposta di valori che sono già parte integrante della nostra cultura e che, almeno in linea di principio, nessuno mette in discussione? Perché se è chiaro che proprio in questo periodo si stanno sviluppando tante linee di dibattito diverse, da quella di critica al dominio quasi metafisico dell´economia al nuovo realismo, è anche evidente come il lavoro più "emergente", soprattutto nella percezione esterna, sia questo tipo di ragionamento morale.
Ma il compito della filosofia si può ridurre a quello di fondare razionalmente quanto appare ovvio alle persone dabbene? Oppure le compete anche l´onere di cercare, all´interno di quegli stessi valori, come si sono sedimentati nella nostra tradizione, i motivi di lunga durata della loro difficoltà a tradursi sul piano della pratica concreta? La filosofia contemporanea può, insomma, rinunciare alla propria anima analitica e critica a favore di una attitudine soltanto normativa e prescrittiva? Interrogativi del genere nascono dalla rilettura di un celebre testo di Nietzsche che Einaudi ristampa, con una bella prefazione di Pier Aldo Rovatti. Si tratta di La genealogia della morale, scritto d´un fiato nell´estate del 1887, e rivolto ad investigare la nascita delle nostre idee morali, riconoscendo in essa qualcosa che sottilmente le contraddice. Quale è, si chiede Nietzsche, ‘il valore dei valori´ – al di là di ciò che essi presuppongono come evidente e che invece può sempre rovesciarsi nel loro opposto.
La sua risposta è che, per penetrare nella loro scatola nera, i valori vanno messi in rapporto con i tre ambiti della storia, della vita e del conflitto. Quanto alla prima, è necessario portare a coscienza il fatto che essi non soltanto non sono eterni, ma si intrecciano inestricabilmente con le pratiche umane in una forma che non consente di assolutizzarli. Come è noto, molte delle peggiori nefandezze politiche, vicine e lontane, sono state consumate in nome del bene, della verità, del coraggio. Il problema è di sapere cosa, quale groviglio di egoismi e di risentimenti, si nascondeva dietro queste gloriose parole. Il significato della genealogia – come quella attivata da Nietzsche e, dopo di lui, da Foucault, sta nella consapevolezze che ciò che si presenta come primo, o come ultimo, ha dentro di sé i segni del tempo, le cicatrici delle lotte, le intermittenze della memoria. Nulla è più opaco, impuro, bastardo delle origini da cui proveniamo. Il genealogista buca la crosta dell´evidenza, scopre tracce nascoste, solleva i ponti gettati dagli uomini per coprire i buchi della falsa coscienza. Come ben argomenta Massimo Donà in Filosofia degli errori. Le forme dell´inciampo (Bompiani 2012), senza una pratica consapevole degli errori, una analitica degli ostacoli, non vi sarebbe filosofia
Quanto alla vita, la tesi di Nietzsche è che i valori spirituali – rivolti a modelli ascetici – determinino talvolta un pericoloso effetto recessivo. La sua polemica è diretta soprattutto contro la religione cristiana, orientata ad una complessiva svalutazione, e anche mortificazione, della dimensione corporea, che ha condotto al declino delle virtù politiche. Che il significato conferito da Nietzsche al termine ‘politica´ sia altamente problematico, non toglie la forza dirompente delle sue argomentazioni. Al fondo della vita vi è sempre un miscuglio di forze, impulsi, emozioni, dei quali è bene tenere conto per non farli ritorcere contro la vita stessa. E´ appena uscito un godibile libro di Françoise Heritier, Il sale della vita (Rizzoli, 2012), che ricostruisce, con ironia e finezza, la trama dell´esistenza a partire dai piccoli gesti e affetti della vita quotidiana, irriducibili ad un semplice elenco di valori. Quando Nietzsche mette la salute in rapporto con la malattia – e chi più di lui poteva farlo? – intende dirci che se la filosofia perde il nesso con la contraddizione che è parte di noi, smarrisce il senso più intenso dell´esperienza.
Infine il conflitto come l´unico possibile ambito di dispiegamento dei valori. Contrariamente a chi immagina che i valori uniscano sempre, Nietzsche sa bene che nulla più di essi può dividere. Ciò non solo è inevitabile, ma anche produttivo, perché senza la tensione attraverso la quale valori contrapposti si sfidano, la nostra esistenza cadrebbe nella piattezza di una omogeneità coatta. Naturalmente, perché ciò accada, perché rimanga vitale, e non diventi distruttivo, il conflitto non deve eccedere gli argini civili che la società si è data. Ma alla base di tutto vi è il riconoscimento di questa dinamica. Come ha ben visto Carl Schmitt, in un saggio ristampato da Adelphi con una prefazione di Franco Volpi (La tirannia dei valori, 2008), i valori che si vogliono assoluti, che non aprono una dialettica con concezioni diverse, tendono a divenire tirannici. Naturalmente si può sempre sostenere, come a volte si legge, che Nietzsche era un pazzo, Heidegger solo un nazista e, magari, Baudelaire un pervertito. Ma in questo modo non si fa un gran servizio alla filosofia.

Repubblica 4.6.12
Un chip nella testa e la tecnologia creò il supercervello
di Angelo Aquaro


E gli scienziati già si domandano se finiremo tutti teleguidati come in Johnny Mnemonic
Impiantato nel cranio un software può ridare la parola ai pazienti che l’hanno persa
Sistemi informatici che permettono ai ciechi di vedere, protesi cibernetiche per far camminare i disabili La medicina hi-tech trasforma sempre più l´uomo in una macchina. E avvicina la realtà alla fantascienza

NEW YORK E adesso chi ce lo toglierà più dalla testa? Una volta che l´impianto sarà lì bello e piazzato, più o meno gentilmente infilato sotto pelle, giusto un pelino sotto, tra la calotta e il cervello vero e proprio: chi ce lo potrà più togliere dalla testa?
No, inutile ritirare fuori i soliti incubi da fantascienza. Il professor Frank Guenther, per esempio, capo del dipartimento Cognitive and Neural Systems dell´Università di Boston, ha poco da spartire col Keanu Reeves di Johnny Mnemonic. Eppure il professore ha fatto nella realtà quello che il film tratto dal romanzo di William Gibson immaginava: ha aperto il cervello di un tizio e ci ha infilato dentro una simpatica macchinetta. L´apparecchio serve a trasformare in linguaggio i pensieri del volontario: impossibilitato a parlare dopo un incidente terribile. L´operazione funziona così. Questa specie di elettrodo viene piazzato sotto la calotta, al confine della zona della corteccia cerebrale predisposta al linguaggio. L´apparecchio rivela gli impulsi del cervello e li trasferisce via radio (e già: in modulazione di frequenza, come viaggiano le canzoni e le news) a un microcomputer esterno che trasforma l´ordine in un programma di sintesi vocale, tipo quelli usati negli ultimi iPhone. Risultato: il paziente che non poteva parlare adesso parla. Tempo rilevato tra la trasmissione degli impulsi e l´ascolto della voce elettronica: 50 millisecondi. Cioè lo stesso tempo medio che tutti noi impieghiamo a trasferire i nostri pensieri alla bocca: anche se non sempre diamo l´impressione che il cervello sia collegato.
Chiamatela mente bionica. Chiamatelo l´upgrade del cervello. Chiamatelo braintech. Chiamatelo come volete: ma soprattutto preparatevi a fare i conti con questo connubio tra uomo e macchina. L´incubo di ieri è già il sogno di oggi. Intendiamoci: per adesso i primi a usufruirne sono giustamente i malati. Come quella signora sessantenne, paralizzata da 15 anni, che l´altro giorno è riuscita a muovere col pensiero gli oggetti: riuscendo a versarsi una tazza di caffè. Telecinesi? Macché: nulla a che fare con le potenze extrasensoriali inutilmente evocate dal povero Massimo Troisi in quell´esilarante scena di Ricomincio da tre. Qui il miracolo si chiama BrainGate: che è il nome appunto di un neuroimpianto sviluppato tra gli altri da Leigh Hochberg, neuroingegnere della Brown University, Rhode Island. Ma che cosa succederà quando invece di aiutare i malati e gli incidentati a superare gap fino a ieri insormontabili, queste tecniche finiranno invece per portare un diretto vantaggio su tutti gli altri?
È proprio quello che Daniel Wilson, l´autore di Robopocalypse, immagina in un articolo sul Wall Street Journal, alla vigilia dell´uscita del suo attesissimo Amped. Il termine sta appunto a indicare gli «amplificati»: quelli cioè con le capacità cerebrali amplificate dalle tecniche che fino a ieri sembravano solo fantascienza. Volete un esempio diretto? Dalla testa ai piedi: pensate al caso di Oscar Pistorius. Le superprotesi permettono al coraggiosissimo campione sudafricano di correre, puntando perfino alle Olimpiadi, malgrado l´amputazione a tutt´e due le gambe: ma dal superamento del gap al vantaggio sugli altri - le protesi non cederebbero mai, per esempio, per fatica - il passo è, manco a dirlo, velocissimo.
I neuroimpianti, del resto, potranno presto essere impiegati anche per aiutare a sviluppare tra i cosiddetti normodotati qualità e tecniche oggi conquistabili solo a fatica. L´elettrodo che ci sveglia quando l´attenzione cala. L´elettrodo che sviluppa udito e vista. O quello che favorisce le sinapsi e quindi ci aiuta a leggere più velocemente il mondo. Basterà un impianto a renderci dunque più intelligenti? E saremo costretti a denunciare o no di essere portatori di questi "bypass del cervello"? Dovremo fare domanda a qualche autorità (più o meno) etica per essere sottoposti a impianto? Ecco: tutte domande che nessuno, da questo momento in poi, riuscirà più a toglierci dalla testa. Almeno fino alla prossima operazione.

Repubblica 4.6.12
Su Radio 3
I cent’anni di Elsa Morante leggendo i suoi capolavori


Radio3 festeggia il centenario della nascita di Elsa Morante (nell´agosto del 1912; scomparse nel 1985), dedicandole un ciclo del programma Ad alta voce, dal lunedì al venerdì alle 17, a partire da oggi. Rendono omaggio alla scrittrice tre attori: Iaia Forte, Sandro Lombardi e Maria Paiato che tracceranno a ritroso il percorso letterario dell´autrice attraverso la lettura di tre suoi capolavori: Aracoeli (1982), La Storia (1974) e L´isola di Arturo (1957). Il ciclo inizierà lunedì 4 giugno con Sandro Lombardi che legge Aracoeli, ultimo romanzo di Elsa Morante e proseguirà con Maria Paiato che legge La Storia, per concludersi con Iaia Forte che legge L´isola di Arturo (Premio Strega). Oltre alle letture, in programma anche una serie di collegamenti con i luoghi dove ancora si leggono i libri della Morante e una serata speciale, in programma per settembre, dove saranno presentate opere teatrali, letture, esperienze artistiche e sociali ispirate alla scrittrice.