l’Unità 3.6.12
Ci sono segni che identificano una nazione
Il 2 giugno è una grande festa della memoria repubblicana, di valore fortemente simbolico,
una sorta di “plebiscito” al quale sono chiamati tutti
di Michele Ciliberto
Le polemiche di questi giorni sulla Festa della Repubblica hanno avuto toni spesso volgari e stucchevoli e sono sfociate anche in prese di posizioni grottesche, come quella del sindaco di Roma. Ma pur nella loro miseria alludono ad alcuni problemi importanti, perché riguardano il tema ancora aperto della nostra identità nazionale, del significato dei valori della Repubblica, dei rapporti tra dimensione nazionale ed ethos repubblicano.
La Festa della Repubblica ricorda e celebra questo elemento fondamentale: il patto fra i cittadini italiani che si riconoscono nella Repubblica e nella Costituzione. È il momento grave e solenne nel quale la «religione civile» degli italiani, rappresentata dalla Carta Costituzionale celebra il suo rito più alto e coinvolgente, mettendo al centro della riflessione i valori essenziali della Repubblica, come sono espressi fin dai primi articoli della Costituzione, a cominciate dall’articolo 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Il 2 giugno è, in altre parole, una grande festa della memoria repubblicana, di valore fortemente simbolico, una sorta di “plebiscito” al quale sono chiamati tutti i cittadini della Repubblica. Così intesa, quella della Repubblica è la Festa dei valori democratici, laici, di solidarietà e di unità della Nazione; è la Festa di tutti i valori repubblicani e costituzionali; è il momento in cui gli italiani si identificano come un popolo, una Nazione.
Non celebrare in questo momento il 2 giugno sarebbe stato perciò singolare e incomprensibile da ogni punto di vista. Proprio perché importanti zone del Paese attraversano gravissime difficoltà era necessario ricordare, e riaffermare, i valori repubblicani; ed era necessario farlo con le opportune innovazioni anche sul piano simbolico, perché le comunità vivono, e si identificano, anche attraverso i simboli con cui esprimono sia ciò che sono sia quello che intendono essere.
Ha fatto dunque assai bene il Presidente della Repubblica a non cedere alle varie spinte demagogiche e retoriche di questi giorni, facendo svolgere le celebrazioni in un clima di raccoglimento e di generale consapevolezza delle attuali, profonde difficoltà che il nostro Paese attraversa.
Ma proprio quelle spinte demagogiche e retoriche fanno comprendere, quanto l’ethos repubblicano sia poco condiviso da larghi strati delle attuali classi dirigenti nazionali; e quanto sia perciò necessario lavorare per trasformare i valori repubblicani e costituzionali in senso comune diffuso.
Sarebbe tuttavia sbagliato dipingere un quadro a tinte fosche del nostro Paese, anche in questo momento. La lezione che viene quotidianamente dalle popolazioni dell’Emilia fa capire quanto i valori repubblicani della solidarietà e della unità nazionale abbiano attecchito in Italia saldandosi alle nostre migliori tradizioni civili e religiose. Sarebbe bene che qualche sindaco alla ricerca di pubblicità a buon mercato e molti esponenti delle attuali classi dirigenti ci riflettessero per una volta, e iniziassero imparare qualcosa, se vogliono cercare di rimettersi in sintonie con quanto sta avvenendo nel fondo della società Italia. Ma, temo, ci sia poco da sperare. Come dicevano gli antichi: dio fa impazzire quelli che vuol perdere...
l’Unità 3.6.12
Siamo alla resa dei conti e la politica italiana parla d’altro
di Emilio Barucci
LA CRISI DELL’EURO NON PUÒ FUNGERE SOLTANTO DA SFONDO PER IL TEATRINO della politica nostrana, deve richiamare tutte le forze politiche al senso di responsabilità del dicembre 2011. Altro che antipolitica, alleanze, primarie o riforma elettorale, la crisi dell’euro dovrebbe essere il tema numero uno.
È oramai convinzione di molti che siamo arrivati alla resa dei conti. Le elezioni in Grecia e la crisi del sistema bancario spagnolo stanno facendo precipitare la situazione. Il summit europeo di fine giugno assomiglia sempre di più alla pistola dello starter che potrebbe segnare l’inizio di una corsa alla disintegrazione dell’euro. Occorre agire presto, le istituzioni europee sembrano aver finito le cartucce a loro disposizione, come ha osservato Draghi le risposte ortodosse non bastano più, la risposta deve essere politica e l’Italia deve fare la sua parte.
Il summit europeo non sembra nascere sotto i migliori auspici. Le novità di questa settimana sono almeno due. In primo luogo il problema di Bankia in Spagna è molto serio: occorrono subito venti miliardi di euro e probabilmente molti di più per le altre banche piene di mutui oramai deteriorati, il governo spagnolo non sembra in grado di reperirli sui mercati. Le responsabilità dei governi spagnoli sono serie ma impallidiscono di fronte a quelle del governo tedesco che si ostina a dire no a qualunque risposta collettiva europea nei confronti della crisi. Dopo i no agli Eurobond, agli interventi della Bce a sostegno dei Paesi in difficoltà, adesso è arrivato il no nei confronti della proposta di Draghi di costruire un sistema di tutela dei depositi a livello europeo in cambio di una centralizzazione della vigilanza.
Per ora l’Italia non è nell’occhio del ciclone, ha subìto soltanto un innalzamento del livello dei tassi di interesse e una fuga degli investitori esteri dai titoli di Stato, ma è difficile pensare che ne rimarrà fuori a lungo: gli elevati tassi e la recessione rischiano di mettere in dubbio l’obiettivo del pareggio di bilancio, se la Grecia uscisse dall’euro o la Spagna dovesse accettare un piano di aiuti internazionali il giorno dopo toccherebbe a noi. Il tutto potrebbe concretizzarsi entro la fine dell’anno, arriveremmo al commissariamento in piena campagna elettorale.
Quello che sorprende è che non ce ne è affatto la consapevolezza nelle parole dei nostri leader politici. Al governo Monti va dato atto di fare il possibile per portare la Merkel su posizioni più ragionevoli ma i risultati sembrano deludenti. Non c’è da meravigliarsi, del resto anche le aspettative riposte nella novità Hollande sono state seguite da ben pochi risultati. Forse si sopravvalutava la rilevanza del direttorio franco-tedesco, la Germania è sì rimasta sola ma può sempre contare sul sostegno più o meno silenzioso di molti paesi del centro e del nord Europa.
Esaurite le risposte predisposte dai tecnici occorre che la politica batta un colpo. L’Italia deve fare ancora una volta i compiti a casa.
A dicembre non siamo andati a votare perché i mercati non ce lo avrebbero permesso. A sei mesi di distanza lo scenario appare immutato: lo spirito di responsabilità richiamato dal Presidente della Repubblica a fine anno si è perso per strada, il governo appare avere esaurito la spinta propulsiva, gli schieramenti sembrano ben lontani dall’assumere i contorni definiti che potrebbero portare ad una sana competizione. Rischiamo di dover affrontare la crisi dell’euro con un governo debole e partiti alla ricerca di una strada per loro stessi senza una ricetta per affrontare la situazione.
Rischiamo di aver perso sei mesi fatali. I partiti mostrano di non aver neppure imparato la lezione delle elezioni amministrative. I cittadini italiani sono in attesa di risposte chiare e di fatti dai loro rappresentanti. In un momento così grave il senso di responsabilità non si può soltanto evocare, occorre coltivarlo giorno per giorno.
Soltanto così la politica recupererà credibilità. In poche parole, piuttosto che occuparsi di tatticismi, sarebbe bene che un leader politico dicesse cosa vuol fare per affrontare la crisi dell’euro e che agisse davvero per scongiurare lo scenario greco.
l’Unità 3.6.12
Il Pd torni a fare il Pd e parli a tutta l’Italia
di Walter Verini
IL DIBATTITO SULLE COSIDDETTE LISTE «CIVICHE» È DOMINATO DA UNA CURIOSA CONCEZIONE “TOLEMAICA” DELLA POLITICA e del ruolo dei partiti (segnatamente del Pd). Come se fosse nella assoluta disponibilità degli stessi decidere o non decidere di «far nascere» movimenti e raggruppamenti di ispirazione «civica». Non è così. Dal 2008 al 2012 il Pd è stato abbandonato da alcuni milioni di elettori. Ben prima dell’appoggio che, giustamente, abbiamo dato alla nascita e all’azione del Governo Monti. A questo proposito sarebbe meglio, evitare atteggiamenti «giustificazionisti»: perseguire l’interesse del Paese come, con la sua autonomia, ha fatto e fa il Pd sostenendo Monti è cosa da rivendicare, non da nascondere. Sono stati atteggiamenti antagonisti di altre forze di centrosinistra e di sinistra, semmai, a essere stati e ad essere poco responsabili. Anche perché cercare consensi alle prossime politiche chiedendo quasi scusa di quanto da noi fatto dopo la caduta di Berlusconi (ci siamo dimenticati cos’erano, a novembre scorso, l’Italia e quel Governo?) sarebbe sbagliato e autolesionista. Tornando ai voti persi dal Pd, tanti di questi cittadini non se la sono sentita di votare altri partiti scegliendo l’astensione. Altri hanno votato 5 Stelle. Ci sono poi elettori «in cerca di autore», come ha detto Bersani: avevano creduto al berlusconismo e alla Lega, ora sono delusi dai fallimenti di governo e dallo sfascio etico del loro sistema. C’è poi la discesa ai minimi termini della fiducia dei cittadini nei confronti della politica e dei partiti. Non siamo tutti uguali, è vero ed è giusto dirlo. Ma non basta. Il Pd ha davanti a sé una opportunità: provare a fare il Pd. Cercare di recuperare i voti persi, consolidare i propri, provare a convincere ex-elettori Pdl e Lega (anche loro operai, precari, partite Iva, pensionati, imprenditori, professionisti) che una ricostruzione economica, sociale, culturale ed etica dell’Italia è possibile. Dalle amministrative il Pd è uscito come l’unico dei «vecchi» edifici dei partiti rimasto in piedi. Ma con crepe e qualche lesione, come ci dicono quegli elettori che hanno gettato altrove lo sguardo. Fare il Pd, innanzitutto. Costruire un programma riformista e di cambiamento, individuare dieci idee-forza convincenti e su queste costruire un dialogo con tutta l’Italia. Tutta. Pensiamo ad uno stadio: dobbiamo volere e sapere parlare ad ogni settore, non solo alle curve dei tuoi tifosi e tantomeno a quelle dei soli ultras. E poi il Pd deve decidere di essere davvero, con gesti, esempi e testimonianze la locomotiva di un radicale rinnovamento della politica. Qualcuno riduce tutto al tema primarie che sono solo uno degli elementi. E che sono un po’ come un bambino, da tutelare e da far crescere. Spesso però, in questi anni, sono state inquinate da acqua sporca, usate come regolamento di conti e qua e là perfino taroccate. Le primarie sono un bene prezioso, un’occasione per aprire la politica alla società e non può essere consentito di «sporcarle». Non a caso in diverse realtà i partecipanti sono crollati rispetto a cinque anni fa o allo stesso 2009. C’è qualcosa da fare subito. Mettere al bando ogni forma di correntismo (che non è pluralismo) che toglie ossigeno alla vita democratica. Decidere, unilateralmente, di far compiere alla politica passi indietro rispetto all’occupazione di spazi impropri. Per esempio: perché non uscire da tutti i CdA delle partecipate, da tutti gli enti di gestione quando i rappresentanti sono stati nominati con criteri politici? Il giorno dopo, avanti con i soli criteri di capacità e competenza. Sarebbe un segnale di rinnovamento praticato, non predicato, mentre si continua la battaglia per portare a casa, anche «incatenandoci» in Parlamento se necessario, la riduzione del numero dei parlamentari e la nuova legge elettorale. Ho citato solo tre cose. Se il Pd le facesse proprie, tanti di quei milioni che ci avevano scelto nel 2007 (primarie) e nel 2008 (politiche) potrebbero tornare a guardarci con rispetto, simpatia, condivisione. E magari cittadini, associazioni, personalità, mondi sociali sentirebbero meno il bisogno di luoghi “civici”. Tra la terra e il cielo, però, ci sono molte cose. È possibile che un bisogno del genere si manifesti lo stesso. Ma lo deciderebbero loro, non un partito. Oppure è possibile che – mi auguro di no – il nostro partito non riesca a convincere questi mondi di essere davvero aperto, accogliente, riformista. Credo che si debba guardare a quello che si muove nella società con sincero spirito di apertura. Spinte e pulsioni positive che riguardano disagi e speranze sociali, legalità, regole della democrazia possono aiutare la politica, stimolarla verso l’innovazione e una nuova credibilità. Purché disponibili ad un cammino comune di ricostruzione riformista dell’Italia. Perché chiudersi? Sarebbe un innaturale segno di debolezza, non di forza. Meglio meno atteggiamenti da «veniamo da lontano e andiamo lontano», meglio un po’ più di umiltà e un po’ più di coraggio.
il Fatto 3.6.12
A Carrara Pd e Pdl fanno cartello contro i grillini
La notizia arriva dal sito internet di Beppe Grillo: “Primo consiglio comunale a Carrara, 1 Giugno 2012 - scrivono i ragazzi del meetup carrarino - primo biscotto servito ai carraresi dalla premiata ditta centrosinistra-PdL. La maggioranza infatti ha deciso di intervenire su un ruolo che spetta all’opposizione, votando per il candidato di Berlusconi. Questo nonostante i carraresi abbiano nettamente indicato alle elezioni il Movimento 5 Stelle come principale forza di opposizione. Se qualcuno aveva ancora qualche dubbio... La giunta di ‘centrosinistra’ decide di appoggiare un consigliere del Pdl che ha preso un pugno di voti anzichè un candidato del Movimento 5 Stelle che ha preso più del doppio. La volontà popolare, dove la mettiamo?”. Il comunicato si chiude con un “siamo giganti in mezzo ai nani”. Nelle elezioni carrarine, il Movimento Cinque Stelle ha eletto due consiglieri contro un singolo eletto di Pdl e Destra. Diciotto sono invece i consiglieri di maggioranza, eletti nelle liste del centrosinistra (con una coalizione che va da Sel all’Udc).
Repubblica 3.6.12
In quattro anni i voti di Berlusconi e Lega scesi dal 45% al 22%
I 5 Stelle in due mesi dal 5% al 16,5%
Nel sondaggio Demos la radiografia di una rivoluzione
Ma quattro elettori su dieci sono ancora alla finestra
Centrodestra in picchiata Grillo ormai tallona il Pdl Pd primo partito al 27,5%
Fiducia, Monti supera tutti i leader di partito
In flessione Udc e Fli. Stabili Italia dei valori e Sel. L’alleanza Prc-Pdci vicina al 3%
Confermato il calo di apprezzamento per il governo: 45% contro il 61,7% rilevato in marzo
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon
La pesante sconfitta subita, alle recenti amministrative, dalla ex-coalizione di centrodestra ha provocato un cambiamento degli orientamenti di voto impensabile fino a poche settimane fa. Il Pdl, in caduta libera insieme alla Lega, vede minacciato il suo ruolo di principale avversario del centrosinistra. Il Pd consolida il suo primato tra le forze politiche, ma non riesce ad attrarre nuovi consensi. A rendere più incerto il quadro politico concorrono l´aumento dell´astensionismo, la sfiducia verso i partiti e la progressione del Movimento 5 Stelle. I dati dell´Atlante politico di Demos confermano, inoltre, la netta flessione dell´apprezzamento per il governo nei primi mesi del 2012.
Il Pdl e la Lega raccoglievano più del 45% dei voti nel 2008 (e ancora nel 2009): questo bacino di consenso appare oggi dimezzato (22%). La formazione di Alfano perde sei punti rispetto alla precedente rilevazione (17%), mentre molti ex-elettori del partito si collocano nella zona grigia - che si attesta al 41% dei potenziali elettori - dell´incertezza e della possibile astensione. Nel caso della Lega (4,6%), il peso elettorale si è ridotto alla metà in due soli (travagliati) mesi. Grava, su tutta l´area del centrodestra, la delusione per l´epilogo dell´ultima esperienza di governo, e il declino dei leader storici: Bossi e Berlusconi sono precipitati agli ultimi due posti nella graduatoria delle personalità politiche.
I vincitori della recente tornata elettorale, nelle opinioni degli italiani, sono stati due: la coalizione di centro-sinistra guidata dal Pd e la lista di Beppe Grillo. Il Movimento 5 Stelle (stimato oggi al 16%) ha triplicato in pochi mesi i suoi consensi, dando espressione alle proteste contro i partiti e le politiche del governo, ma anche alle domande di cambiamento e di ascolto per i problemi dei cittadini. Il Pd (27,5%) si conferma primo partito, e insieme alle altre formazioni di centrosinistra mantiene un´area di consenso superiore al 44%. Tuttavia, la coalizione che alle recenti consultazioni si è affermata in molti comuni appare, per ora, incapace di allargare il proprio bacino elettorale.
Allo stesso modo, i partiti del Terzo Polo, che sostengono con grande convinzione il governo Monti, non sono riusciti a intercettare i voti in uscita dall´area di centro-destra. Le preferenze per l´Udc (7,2%) e per Fli (2,5%) si sono anzi lievemente ridotte.
D´altra parte, la luna di miele tra l´esecutivo e gli italiani appare da tempo conclusa. Tra marzo e aprile i giudizi positivi sul governo sono scesi di circa venti punti, e fanno segnare una lieve ripresa nell´ultimo sondaggio (45%). Nonostante i forti malumori suscitati dai provvedimenti in materia economica e fiscale, Monti continua a beneficiare della speranza diffusa che il governo ci possa traghettare fuori dalla crisi - opinione però in evidente calo rispetto a marzo. Così, l´apprezzamento per il Presidente del Consiglio (52%) e per i suoi ministri - sebbene ridotto di oltre dieci punti - resta superiore a quello degli altri leader politici.
Repubblica 3.6.12
Il partito che non c’è
Il vento del cambiamento e la sordità delle oligarchie così l’Italia resta sospesa
I 5 Stelle promossi per guidare le città. Ma 7 su 10 convinti che non saprebbero governare il Paese
di Ilvo Diamanti
È un Paese sospeso, quello che emerge dal sondaggio dell´Atlante Politico di Demos. Un Paese spaesato, in cerca di prospettive politiche ancora incerte. E per ora, comunque, insoddisfacenti. Il governo, dopo il sensibile calo di fiducia subìto fra marzo e aprile (circa 20 punti in meno), sembra aver recuperato consenso, fra i cittadini. Oggi il 45 per cento degli italiani ne valuta positivamente l´operato. Una quota elevata, se si pensa alle difficoltà economiche e sociali del periodo. E al malessere suscitato dalle politiche fiscali, in particolare dall´Imu, giudicata negativamente dal 70 per cento degli intervistati.
Se si pensa, inoltre, che quasi il 50% degli italiani giustifica le proteste - talora clamorose - contro Equitalia. Nonostante tutto ciò, una consistente maggioranza della popolazione (60%) continua a credere che, alla fine, il governo "ce la farà" a condurci fuori dalla crisi. E per questo, probabilmente, ne sopporta le scelte, per quanto con insofferenza. D´altronde, Monti stesso, personalmente, è giudicato positivamente da oltre il 50% degli intervistati. E si conferma, quindi, il leader "politico" più affidabile, presso gli italiani. Molto più di qualunque altro leader di partito o aspirante tale. Da Bersani a Di Pietro, passando per Fini, Casini e Montezemolo. Mentre la popolarità di coloro che avevano guidato la maggioranza di governo per circa un decennio, Berlusconi e Bossi, è scesa ai minimi storici. La perdita di credibilità personale - e familiare - di Bossi ha coinvolto tutta la Lega. Compreso Maroni. Da ciò la crisi che ha affondato il centrodestra, attualmente privo di leadership ma anche di riferimenti politici.
Gli orientamenti di voto riflettono questo senso di spaesamento, rivelato - e accentuato - dalle recenti amministrative. Segnalano, in particolare: a) lo sfaldamento del Pdl, ormai dimezzato, rispetto alle elezioni politiche del 2008; b) la frana della Lega scivolata poco sopra il 4%, come 10 anni fa; c) Mentre il Pd e l´Idv tengono bene, anche se non riescono a intercettare lo sfarinamento dei partiti di centrodestra. Il Pd, in particolare, si conferma primo partito in Italia. D´altronde, secondo gli intervistati, è la formazione politica che si è rafforzata maggiormente, in seguito alle elezioni amministrative. d) Insieme, ovviamente, al Movimento 5 Stelle (M5S), promosso e ispirato da Beppe Grillo. Il quale, dal punto di vista elettorale, è stimato oltre il 16%, poco al di sotto del Pdl. Il successo alle recenti amministrative ha contribuito ad allargare ulteriormente la sua base elettorale. Il M5S è divenuto, infatti, il collettore privilegiato dell´insoddisfazione sociale verso il sistema partitico. Un sentimento generalizzato, che non dà segni di rallentamento.
Oltre il 40% degli intervistati, infatti, vede nella "protesta contro i partiti" la principale ragione di successo del Movimento. Una valutazione condivisa anche dal 27% degli elettori del M5S, i quali, però, danno maggiore importanza ad altri argomenti: l´estraneità dei candidati alle logiche di potere e la concretezza dei programmi proposti ai cittadini. Resta, comunque, l´incognita sulla capacità del Movimento di "tenere" la scena politica, oltre a quella elettorale. Soprattutto, oltre i confini locali. Infatti, quasi metà degli italiani (la maggioranza) ritiene il M5S in grado di "amministrare" le città e il territorio. Ma quasi 7 persone (e 4 elettori del M5S) su 10 non lo considerano capace di governare, a livello nazionale.
Da ciò l´impressione di un Paese sospeso. In attesa di un cambiamento ancora incompiuto. A cui Grillo e il M5S hanno offerto una risposta, uno sbocco. Sfruttato da molti elettori che, in un primo tempo, non li avevano presi in considerazione. Non è un caso se, rispetto a un mese fa, l´elettorato del M5S ha modificato sensibilmente il profilo sociopolitico. In particolare, al suo interno sono aumentati: a) gli elettori dei comuni medio-piccoli; b) le persone di età medio-alta; c) le componenti di centro-destra; d) gli elettori provenienti dalla Lega e dal Pdl. In altri termini: il M5S ha intercettato il disagio diffuso fra gli elettori. L´ha canalizzato, dandogli visibilità. Ma senza risolverlo.
La domanda di cambiamento politico, infatti, resta molto estesa, al punto che circa un terzo degli elettori sostiene che, se si presentasse un partito "nuovo", guidato da un leader "nuovo" e "vicino alla gente": lo voterebbe "sicuramente". Si tratta di un orientamento trasversale. Particolarmente accentuato nella base elettorale dei soggetti politici che in precedenza detenevano il monopolio della rappresentanza del "nuovo", come la Lega. Ma anche l´Idv e Sel. Tuttavia, questo orientamento appare ampio anche fra gli elettori dell´Udc, alla ricerca, da tempo, di un modo - e di uno sbocco - per uscire dal "centro", che rischia di trasformarsi in un ghetto. Schiacciato da destra, sinistra e, ora, anche dal M5S.
Siamo, dunque, in una fase fluida. Il "mercato elettorale" è instabile, in cerca di un´offerta politica adeguata. Che stenta a delinearsi. Così cresce la voglia di "nuovo". Anche se per gran parte degli elettori (quasi sette su dieci) il "nuovo" è il "vecchio" rivisto e ri-qualificato. Per cui si traduce, anzitutto, nella domanda di "rinnovamento" degli attuali partiti. Ma il "rinnovamento", per la grande maggioranza degli elettori (il 61%), significa "ricambio e svecchiamento" della classe dirigente.
D´altra parte, fra i motivi che hanno favorito il M5S alle recenti amministrative, un ruolo importante è stato sicuramente giocato dalla figura e dall´immagine dei candidati. Giovani e preparati. Estranei a lobby e interessi. In grado di esprimere opinioni competenti sulla realtà locale. Senza slogan e senza retorica.
Ciò suggerisce che, per rispondere all´insofferenza verso i partiti, che si respira nell´aria, non sarebbero necessarie grandi rivoluzioni - politiche e antipolitiche.
Basterebbe che i principali partiti attualmente presenti sulla scena politica fossero in grado di rinunciare alle logiche oligarchiche e centralizzatrici che li guidano.
Basterebbe che offrissero maggiore spazio e ruolo ai dirigenti e ai militanti giovani, presenti e impegnati sul territorio. (Ce ne sono molti, nonostante tutto, ma vengono puntualmente scoraggiati.)
Basterebbe.
Ma non ne sono capaci. Così, avanza la richiesta del Nuovo-a-ogni-costo. Ormai, un mito, più che una rivendicazione. Travolge tutto. E rende la "nostra" Democrazia: "provvisoria". La Politica e i partiti: inattuali.
l’Unità 3.6.12
Il Pontefice parla a 80mila giovani nello stadio Meazza
Oggi al Parco Nord atteso un milione di persone
Il Papa: «La vera famiglia solo dal matrimonio»
Difende il «diritto alla vita» e ai cardinali ricorda il valore del voto di castità
di Roberto Monteforte
Cita l’esempio di sant’Ambrogio per riaffermare la «sana laicità» del buon politico, papa Benedetto XVI, in visita a Milano. Ricorda l’Ambrogio «capace guida politica e amministrativa« della città, «governatore equilibrato e illuminato» che seppe affrontare «con saggezza, buon senso e autorevolezza le questioni, sapendo superare contrasti e ricomporre divisioni».
Ieri è stata la giornata “politica” della sua visita apostolica a Milano. Nel pomeriggio ha incontrato le autorità politiche, militari e civili della città. Ha richiamato l’insegnamento “laico” del santo patrono per proporlo a chi è chiamato a “reggere” la cosa pubblica. «Nessun potere dell’uomo può considerarsi divino. Quindi nessun uomo è padrone di un altro uomo».
NEL NOME DI AMBROGIO
Del santo caro ai milanesi il Papa ripercorre gli insegnamenti sulla giustizia: «prima qualità di chi governa» a cui va aggiunto «l’amore per la libertà» che fa la differenza «tra il governante buono e quello cattivo». Per delineare la buona laicità. Dove la libertà «non è un privilegio, ma un diritto per tutti che il potere civile deve garantire». Che però non va confuso con «l’arbitrio del singolo». Così Papa Ratzinger arriva alla definizione di laicità dello Stato: assicurare la libertà affinché tutti possano proporre la loro visione della vita comune, ma sempre nel rispetto dell’altro e nel contesto delle leggi che mirano al bene di tutti.
Se questa è la premessa, l’approdo è l’affermazione della supremazia della legge naturale a garanzia della vera dignità della persona. Così anche a Milano Benedetto XVI torna a mettere in guardia dai «rischi del positivismo».
Lo fa ribadendo la difesa del diritto alla vita e la richiesta di una legislazione che tuteli la famiglia fondata sul matrimonio e aperta alla vita, il diritto dei genitori alla libera educazione dei figli. Dati questi paletti, auspica pur nella distinzione dei ruoli e delle finalità una costruttiva collaborazione dello Stato con la Chiesa.
Chiede che le sia riconosciuta l’azione di servizio alla società, in particolare verso gli infermi, gli emarginati e gli ultimi, molto forte nella tradizione dei cristiani lombardi e anche nell’azione presente.
Con una puntualizzazione. L’impegno gratuito di solidarietà e carità non è supplenza all’azione dello Stato, ma un di più di amore cui attingere perché, in questi tempi di crisi, oltre alle «coraggiose scelte tecnico-politiche», sono necessarie scelte di gratuità. È una ricetta antica. Ricorda ancora una volta sant’Ambrogio che chiedeva a chi aveva compiti di governo della cosa pubblica di «farsi amare». «Quello che fa l’amore, non potrà mai farlo la paura». È così che si nobilita la politica.
TEMPI DI CRISI E TERREMOTI
Sono i temi del servizio, dell’attenzione a chi è in difficoltà in questi tempi di crisi, e ancora più la vicinanza e il sostegno alle comunità colpite dal sisma in Emilia e Lombardia che hanno segnato il VII Incontro mondiale delle famiglia in corso a Milano.
Il Family 2012 ha come titolo “Famiglia: lavoro e festa”. Ma anche ieri, con la “Festa delle testimonianze” tenutasi al Parco di Bresso, nella veglia per la messa conclusiva di oggi presieduta da Benedetto XVI sono state le famiglie delle zone terremotate e la solidarietà verso di loro, i veri protagonisti. Il giorno precendente, alle veglia di preghiera in Duomo, sono intervenuti i quattro vescovi delle diocesi colpite: Modena, Ferrara, Mantova e Carpi. Tante famigliesi è sottolineato senza una casa, senza lavoro, senza una chiesa.
Ma festa c’è stata ieri all’incontro del Papa con i giovani cresimandi che in 80 mila hanno riempito lo Stadio Meazza di San Siro. Lo hanno accolto con gioia in una manifestazione suggestiva e curatissima nella coreografia.
Oggi a Milano sono attesi oltre un milione di fedeli.
DAL TESTO DEL DISCORSO: INTIMA AI POLITICI, ESISTA SOLO LA FAMIGLIA “NATURALE”, NO AD ABORTO E EUTANASIA, SI ALLA SCUOLA CONFESSIONALE CATTOLICA...el singolo, ma implica piuttosto la responsabilità di ciascuno. Si trova qui uno dei principali elementi della laicità dello Stato: assicurare la libertà affinché tutti possano proporre la loro visione della vita comune, sempre, però, nel rispetto dell’altro e nel contesto delle leggi che mirano al bene di tutti.
D’altra parte, nella misura in cui viene superata la concezione di uno Stato confessionale, appare chiaro, in ogni caso, che le sue leggi debbono trovare giustificazione e forza nella legge naturale, che è fondamento di un ordine adeguato alla dignità della persona umana, superando una concezione meramente positivista dalla quale non possono derivare indicazioni che siano, in qualche modo, di carattere etico (cfr Discorso al Parlamento Tedesco, 22 settembre 2011). Lo Stato è a servizio e a tutela della persona e del suo «ben essere» nei suoi molteplici aspetti, a cominciare dal diritto alla vita, di cui non può mai essere consentita la deliberata soppressione. Ognuno può allora vedere come la legislazione e l’opera delle istituzioni statuali debbano essere in particolare a servizio della famiglia, fondata sul matrimonio e aperta alla vita, e altresì riconoscere il diritto primario dei genitori alla libera educazione e formazione dei figli, secondo il progetto educativo da loro giudicato valido e pertinente. Non si rende giustizia alla famiglia, se lo Stato non sostiene la libertà di educazione per il bene comune dell’intera società».
NON SI CREDE AI PROPRI OCCHI !!!
http://www.scribd.com/doc/95729332/Corriere-3-6-12-Lo-Speciale-Famiglia-da-collezione
Corriere 3.6.12
Famiglia, teatro del mondo
di Claudio Magris
Le grandi religioni universali, e soprattutto il Cristianesimo, non sono cosa da family day. Cristo è venuto a cambiare la vita degli uomini e a proclamare valori più alti dell'immediata cerchia degli affetti, anzi a sferzare duramente questi ultimi quando essi regressivamente si oppongono a un amore più grande. Perfino il legame più forte, quello tra il figlio e la madre, è trattato bruscamente quando Maria vuole interferire: «Donna, che c'è tra me e te?» le dice. Quando, mentre sta parlando a una folla, gli vengono a dire che sua madre e i suoi fratelli lo stanno cercando, Cristo replica: «Chi è mia madre? E chi sono i miei fratelli?», aggiungendo che è suo fratello chi fa la volontà del Padre. Se c'è conflitto tra il rapporto di parentela e il comandamento, la scelta è chiara: egli afferma di essere venuto a separare, ove sia necessario, «il figlio dal padre, la figlia dalla madre». La sua stessa nascita, del resto, scandalosa rispetto alle regole, non rientra certo nel modello dall'ordine famigliare.
Naturalmente Cristo non intende negare l'amore fra e per gli sposi, i figli, i fratelli, i genitori. Vuole potenziarlo, liberarlo dalla sua così frequente degenerazione egoistica, benpensante e riduttiva che immiserisce quei legami universali-umani in una chiusura pavida e arida, sbarrando la porta alla vita e agli altri, trincerandosi in un piccolo mondo pulito e perbene ma indifferente alla miseria e alla sofferenza, che magari iniziano fuori della porta sbarrata. C'è una colorita espressione veneta che raffigura questa falsa e piccina armonia famigliare basata sul rifiuto degli altri: «far casetta».
«Tengo famiglia» è la scusa migliore per tirarsi indietro dinanzi a un dovere che ci chiama a metterci a rischio. A questo proposito, Noventa — grande poeta cattolico, uno dei grandi poeti del Novecento — replicava nel suo dialetto veneto a chi piega vilmente la testa («son vigliaco») accampando i vecchi genitori, la moglie ancor giovane e i figli da mantenere: «Copé la mare, / Copé el pare, /La mugier zóvene / e i fioi — (…) No' saré più vigliachi».
La famiglia è certo una realtà storica, anche se di particolare durata, e come tale soggetta a trasformazioni e a mutamenti, mai così intensamente e confusamente come oggi, in un groviglio di liberazioni ora giuste ora pacchianamente ideologiche e stupide, conformismi travestiti da trasgressione o da sacri principi, esibizionismi supponenti, in un sommovimento di secolari tradizioni, costumi, valori, forme di aggregazione familiare. La famiglia è stata e difficilmente potrà cessare di essere una cellula primaria dell'universale umano; il Teatro del Mondo in cui l'individuo viene al mondo, le cui voci gli sono giunte già quando era ancora nella prima stazione del suo viaggio, nel ventre della madre; in cui l'individuo scopre il mondo, fa l'esperienza fondante dell'amore o devastante del disamore, impara con i fratelli il gioco, l'avventura, la lotta, l'ambivalenza di affetto e rivalità; in cui il padre e la madre gli trasmettono non solo la vita ma anche il suo senso. Non sbagliava Francesco Ferdinando, l'erede al trono absburgico ucciso a Sarajevo, quando volle che sulla sua tomba venissero incise solo tre date: della nascita, del matrimonio e della morte.
La famiglia può essere l'incantevole scenario della scoperta del mondo, come in Guerra e pace di Tolstoj, e può essere tragedia e abiezione, odio e violenza, Caino e Abele, gli Atridi e la stirpe di Edipo. Può essere luogo di opaca estraneità, di meschini risentimenti, di violenza e di oppressione; violenza di padri o di mariti padroni su figli e su mogli, sordida rivalsa femminile di soffocanti tirannidi domestiche, incombenti clan parentali che hanno trapiantato la tribù nella civitas e risucchiano l'individuo, come scriveva Kafka, nella pappa informe delle origini. Già la parola famiglia è un Giano bifronte: indica il mondo che ci è più caro e può indicare il bestiale legame mafioso. Gide poteva dire: «Famiglie, quanto vi odio». Le nuove forme di famiglia radicalmente diverse da quella tradizionale, che si annunciano pure sbracciandosi con enfasi, possono portare valori o disvalori ma non sono certo al riparo dalle degenerazioni della convivenza.
La liberazione dell'uomo — il senso del Cristianesimo — non può non liberare pure la famiglia; anche da se stessa, se occorre. E allora la famiglia può diventare veramente un Teatro del Mondo e dell'universale-umano: quando, giocando con i propri fratelli e amandoli, facciamo il primo fondamentale passo verso una fraternità più grande, che senza la famiglia non avremmo imparato a sentire così vivamente; quando i genitori ci fanno capire concretamente che cosa significa essere portati per mano nella giungla del mondo, da una mano che continua a sorreggere anche quando non la si stringe più fisicamente. In una famiglia libera e aperta anche l'Eros trova la sua avventura più grande, misteriosa e conturbante; mangiare in pace il proprio pane con la donna amata in giovinezza, come dice un passo biblico spesso citato da Saba, è esperienza di grandi amanti. E i figli, in un universo di rapporti liberati da familismo (ansioso, autoritario, debole, ossessivo, a seconda dei casi) diventano realmente la passione più grande che la vita ci fa conoscere. La civiltà greca ci ha dato Edipo e gli Atridi, ma anche Ettore che, senza preoccuparsi della propria morte, sulle mura di Troia assediata gioca con suo figlio Astianatte e il suo desiderio più grande è che questi cresca migliore e più forte di lui.
il Fatto 3.6.12
Ior e corvi: i porporati stranieri diffidano da quelli nostrani
di Marco Politi
Calano le azioni di un futuro papa italiano, crolla il mito della mano felice dei cardinali d’Italia nella guida della Curia e della Chiesa universale.
L’effetto non previsto del nuovo scandalo Ior e dei Vatileaks è di avere irritato e disorientato i porporati dei cinque continenti. Fino all’inizio del 2012, anche in nome della cosiddetta “secolare esperienza di governo” dei dignitari ecclesiastici italiani, il cardinale Angelo Scola era considerato in prima fila tra i papabili. Poi si è scatenata la guerra dei documenti, percepita nel mondo come uno sgradevole “affaire des Italiens” oppure, nei paesi anglosassoni, “an Italian mess”: dove la parola non sta per messa ma per “pasticcio italiano”.
Il silenzio gelido dei porporati di Curia nei confronti delle lotte tra prelati italici conferma questa presa di distanza. Non è neanche un caso che alla testa della commissione d’indagine cardinalizia, istituita per scoprire le falle nel sistema vaticano, Benedetto XVI abbia posto uno spagnolo dell’Opus Dei, il cardinale Herranz. Che a fronte di problemi epocali per la Chiesa cattolica (la crisi delle vocazioni, l’allontanamento del mondo femminile, lo scivolamento delle nuove generazioni verso l’ignoranza dei fondamenti del cristianesimo) la Curia offra lo spettacolo di una pessima figura mondiale – a motivo di scontri per questioni di soldi e di potere – sta causando forte disagio tra i fedeli e i vescovi di tutto il mondo. Venuta a cadere nella fase finale del pontificato ratzingeriano, la nuova crisi in Vaticano si intreccia inevitabilmente con le manovre silenziose in vista della successione. In queste settimane incandescenti si è silenziosamente rafforzata la candidatura del canadese Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi. Tra i candidati emergenti è certamente in pole position. Ha esperienza di Curia e di governo di diocesi. Conosce il mondo ed è perfettamente consapevole delle difficoltà del cattolicesimo nella stagione attuale.
Chi pensa ad un pontefice sudamericano per aprirsi al Terzo Mondo, trova in lista il dinamico e comunicativo cardinale honduregno Oscar Rodriguez Maradiaga e il riflessivo ed equilibrato porporato argentino Jorge Maria Bergoglio, settantaseienne e già candidato contrapposto dall’ala riformista a Ratzinger nel conclave del 2005. Ma in posizione di outsider dell’America del Sud si staglia dietro le quinte il cardinale brasiliano Joao Braz de Aviz. Ha un approccio molto pastorale, un temperamento da vescovo che non ha dimenticato la sua gavetta di prete, e – cosa che non guasta – un’età perfetta per un papabile: sessantacinque anni, a metà strada fra il troppo giovane Wojtyla (eletto a 58 anni) e il troppo anziano Ratzinger, arrivato sul trono di Pietro a 78 anni.
Improvvisamente si è affacciata sulla scena anche una possibile candidatura statunitense. Impossibile finchè l’America appariva la padrona del mondo, realizzabile nel momento in cui la sfera d’influenza di Washington si sta ridimensionando: si tratta del cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York e presidente della conferenza episcopale degli Usa, grande maneggiatore di Twitter, dove è registrato – con settemilacinquecento followers – come il terzo fra i cardinali più seguiti.
Ma nel frattempo il virus della disgregazione in Vaticano continua a operare. L’imminente comparizione in tribunale di Paolo Gabriele è destinata ad approfondire la crisi. Il Segretario di Stato cardinale Bertone è venuto a scontrarsi con un osso duro. Il cardinale Attilio Nicora, che con il confratello Jean-Louis Tauran nei giorni scorsi obiettato al modo con cui il presidente dello Ior Gotti Tedeschi era stato pubblicamente sfiduciato. Nicora aveva già messo in guardia Benedetto XVI (con una lettera pubblicata dal Fatto) sul danno internazionale che i passi indietro sulla trasparenza dello Ior avrebbero provocato. Nicora è un fedelissimo servitore del potere papale, è stato uno dei negoziatori della riforma del Concordato, l’inventore con Tremonti dell’8 per mille. È un ottimo amministratore. Tutto fuorchè una testa calda. Per di più proviene dalla “classe lombarda”: i prelati di Lombardia di solida fede e solida cultura di governo, formatisi alla scuola di Paolo VI. Ne fanno parte i cardinali Re, Scola e cardinale Tettamanzi. Figure di primo piano della Chiesa italiana, di cui il pontefice non può facilmente non tenere conto.
Benchè ieri la commissione cardinalizia di sorveglianza dello Ior (compreso Nicora) abbia alla fine “preso atto” dello sfiduciamento di Gotti Tedeschi e gli abbia comunicato la sostituzione ad interim con il tedesco Ronaldo Hermann Schmitz, resta tra i “lombardi” in Curia una sacca di profondo malumore.
Come ha documentato il Fatto, Bertone si è già scontrato una volta con un lombardo, il cardinale Tettamanzi. Il motivo: la presidenza dell’Istituto Toniolo, cassaforte dell’università Cattolica e del policlinico Gemelli. Bertone voleva destituirlo. Tettamanzi si oppose e il Papa gli dette ragione.
il Fatto 3.6.12
Vaticano e Italia, mali comuni
di Furio Colombo
La domanda è questa: la turbolenta spaccatura che sta attraversando il Vaticano e – come in un film dell’orrore – arriva fino alle stanze del Papa, è la stessa spaccatura di profondità sconosciuta, che tormenta l’Italia? La risposta è sì. È una brutta risposta, perché dice che il Vaticano – il papa, il governo della Chiesa, la Istituzione – dovranno confrontarsi con uno sforzo immane per uscire dalla palude. Dovranno, soprattutto, dimostrare una decisa volontà di farlo, senza sotterfugi, autocelebrazioni e finzioni. Qualcosa che in Italia non è ancora accaduto.
Che cosa hanno in comune la storia italiana contemporanea e quella del Vaticano, che cosa può dimostrare la stessa natura del male (corvi, complotti, spionaggi, agguati, tradimenti e misteriosi tornaconti, in cui spesso restano ignoti mandante e beneficiario)? Prima di produrre le prove di quello che sto scrivendo, devo tentare di definire questo "male comune" che mette in pericolo l'equilibrio e persino la continuità di due Stati. Lo descriverei così. È la decisione, abile e pericolosa di affidare immagine e auto-definizione a principi e programmi alti e nobili sempre più lontani dalla realtà che invece peggiora sotto gli occhi di tutti. In questo modo si evita ogni spietata e coraggiosa verifica dei fatti, accusando più o meno oscuri nemici di essere l'unica causa del male (malareligione o malapolitica). Proverò a produrre alcune prove della situazione inaffidabile che scuote e tormenta tanto l'Italia quanto il Vaticano e la Chiesa, precisando che di questi due ultimi protagonisti parlerò a partire da ciò che vede e constata un osservatore estraneo, dunque dalle manifestazioni sociali, organizzative, di governo, non di fede e di religione, che in questa riflessione non entrano mai.
COMINCIO da uno spunto che mi pare molto utile perché fa da ponte fra politica vaticana e politica italiana (istituzioni e leggi) e dunque chiama apertamente in causa quei cittadini che sono allo stesso tempo attivi nelle istituzioni italiane e vincolati all'ubbidienza di Vaticano-Stato e di Vaticano-Chiesa. Intendo riferirmi al finto culto della famiglia, che viene visto come strumento di aggregazione (ma anche di espulsione, se non si tratta della famiglia giusta) e come fondamento dell'edificio politico conservatore (di nuovo inteso come argine e frontiera contro ogni mutamento di aggregazione sociale, visto come turbamento della conservazione politica). Ho appena scritto "finto culto della famiglia" perché nessun gruppo sociale è più solo, abbandonato, privo di sostegno morale e sociale, da parte di entrambi i celebranti di questo culto, la Chiesa e la politica. È vero, non tutta la Chiesa e non tutta la politica. Ma qui interessa individuare i percorsi da cui entra con impeto il disordine, il distacco, l’apparente sottomissione e il profondo cinismo di cui stiamo parlando. Quando si spengono le luci su eventi e giornate organizzate per celebrare la famiglia, non resta né un asilo né una scuola né un sostegno per le madri che lavorano, né un progetto, per quanto austero, per le famiglie troppo povere, per esempio Rom e immigrati, dove la presenza di mamme e bambini non ha mai fatto differenza. Pensate alla distruzione di un campo nomadi (e agli animaletti di peluche che restano fra i denti delle ruspe). Pensate ai pasti scolastici negati ai bambini se le famiglie non possono pagare. O all'internamento delle donne dette “clandestine” nei “Centri di identificazione”, improvvisamente e brutalmente separate dai loro bambini a causa di un arresto arbitrario (parlo di eventi vissuti e constatati). E, come se non bastasse, aggiungete la risoluta e congiunta condanna (Stato-Chiesa) delle famiglie “diverse”, definite “una minaccia”. Ecco, in questa finzione, che è forse la madre di tutte le finzioni di atti e fatti che hanno solo un fine politico (impedire che esistano altri tipi di famiglia, di amore, di figli), sta il deposito di cinismo, tradimento, rincorsa del potere, distacco da ogni valore, di patria o di fede, che constatiamo nel doppio dramma, dell'Italia e del Vaticano. Appartengono alla galleria delle finzioni (che si trasformano in veri inganni) le folle di autorevoli finti credenti, pronti a ricevere i sacramenti, purché in presenza di telecamere e di pubblico, o alla gara dei medici che si dichiarano obiettori di coscienza negli ospedali dove essere obiettori “fa curriculum” per i medici, qualunque sia la condizione della donna che chiede aiuto.
IL FINTO credente, che trova Dio solo se la cerimonia è ben frequentata e notata da chi deve notare, corrisponde al finto amor di patria di chi – specialmente fra i politici – cerca la benevolenza delle Forze Armate e “dei nostri ragazzi in armi”, ma si infastidisce se quei ragazzi sono in tuta da operaio, magari iscritti a un sindacato, specialmente se quei ragazzi insistono nel pretendere i diritti che legge e Costituzione garantiscono. Intorno, nell'una e nell'altra chiesa, c'è un deserto di solidarietà. In Europa nessuno è più solo e più abbandonato dei disabili italiani. In quel vuoto entrano i rapitori di Emanuela Orlandi, i maggiordomi con doppio e misterioso lavoro, i banchieri improvvisamente cacciati per ragioni non dette, i tesorieri di partito, gestori di ricchezze comunque illecite che dividono diamanti e spese indecenti con strani infiltrati nella vita pubblica, tutti molto simili, per coraggio e mancanza di scrupoli, a certi cardinali.
La Repubblica italiana come istituzione politica, e il Vaticano come governo dell'omonimo Stato e della Chiesa, sono contenitori di società segrete, intente a un sommerso, ininterrotto lavorìo di promozione (il mio uomo contro il tuo) e di eliminazione reciproca, in una infinita variazione di casi Boffo. I maggiordomi, con o senza la severa uniforme vaticana, avranno ancora molto da fare. Ai credenti nella fede e nella patria toccano tempi duri.
La Stampa 3.6.12
Retroscena
Per la presidenza dello Ior è scontro tra i cardinali La vicenda
Ratificata la destituzione di Gotti Tedeschi, resta la tensione
di Giacomo Galeazzi
Bertone vince (per ora) la guerra nella banca papale. Il cardinale piemontese incassa la ratifica della destituzione di Ettore Gotti Tedeschi, l'ex presidente dello Ior con il quale era entrato in rotta di collisione sul salvataggio dell'ospedale San Raffaele. Due riunioni in una settimana sono servite alla commissione cardinalizia di vigilanza per ufficializzare l'uscita di scena di Gotti, ma non sono bastate per pacificare la «cassaforte di Dio». I porporati di Curia Attilio Nicora e Jean-Louis Tauran contestano, infatti, la gestione delle «sacre finanze» da parte del segretario di Stato, Tarcisio Bertone che ha chiamato nel 2009 e ora defenestrato Gotti e ha piazzato cardinali della sua cordata alla guida dei dicasteri economici della Santa Sede (Calcagno all'Apsa, Versaldi alla Prefettura Affari economici, Bertello al Governatorato). La vittoria di Bertone sui dissidenti in commissione potrebbe essere temporanea se Nicora e Tauran riusciranno a determinare l'elezione del nuovo presidente.
L'incarico al tedesco Schmitz è una tappa intermedia verso la scelta di «un nuovo ed eccellente presidente che aiuterà a ripristinare efficaci ed ampie relazioni fra l’Istituto e la comunità finanziaria, basate sul mutuo rispetto di standard bancari internazionalmente accettati», è la versione ufficiale nei Sacri Palazzi. «L'adeguamento alla trasparenza prosegue senza intoppi», assicura a La Stampa un banchiere vicino a Bertone. Intanto però in Vaticano affiorano dubbi sulle effettive possibilità e opportunità di entrare nella «white list» dei paesi virtuosi. Un prelato esperto di finanza ha fatto presente in Curia che l’adeguamento alle norme internazionali antiriciclaggio impedirebbe alla «cassaforte del Papa» di movimentare con la tradizionale riservatezza le risorse di episcopati perseguitati in regimi totalitari e di incamerare i fondi che da sempre affluiscono da quanti vogliono o debbono conservare l’anonimato.
All’ingresso nella «white list», consigliato soprattutto dall’allora ministro Tremonti e dal suo consigliere Gotti Tedeschi, si oppongono le ragioni di quanti temono che ne verrebbe limitata l’operatività dello Ior. Dunque da una parte Bertone (con il suo controllo sulla troika economica d'Oltretevere), dall'altra NiIl presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi è stato destituito dal board dell’istituto vaticano. La sfiducia è maturata per diversi inadempimenti addebitati a Gotti oltre che per l'accusa di non aver affatto traghettato l'istituto verso una maggior trasparenza. cora e Tauran. Le due fazioni si fronteggiano nella gestione delle finanze vaticane: uno scontro che ha avuto Gotti Tedeschi come vittima illustre. Da una parte coloro che ritengono che la trasparenza, la necessità di adeguarsi agli standard internazionali per entrare nel club dei più virtuosi, sia per il Vaticano un obbligo da non disattendere; dall’altra quella di coloro che ritengono (Bertone, Toppo e Scherer tra questi) che questa stessa linea sia sì da perseguire ma con moderazione, avendo ben presente che il Vaticano ha una sua specificità che lo rende non del tutto paragonabile agli altri Stati sovrani.
«Non c'è nessuna divisione all' interno della Commissione cardinalizia», getta acqua sul fuoco delle polemiche il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. La comunicazione per iscritto a Gotti Tedeschi equivale alla «ratifica» della sfiducia votata all'unanimità dal «board».
Repubblica 3.6.12
Vaticano, il corvo colpisce ancora, lettere contro Bertone e Gaenswein
di Marco Ansaldo
«Cacciate i veri responsabili dal Vaticano. Ancora una volta a pagare è il solito capro espiatorio. Quale migliore vittima del maggiordomo del Santo Padre. La verità va ricercata nel potere centrale». Il corvo vola ancora in Vaticano.
Volteggia, osserva e colpisce, mentre Benedetto XVI si trova in visita ufficiale per tre giorni a Milano cercando qualche momento di serenità dai veleni che lo assediano. Il corvo sforna a sorpresa nuovi documenti. Tre, per la precisione, di cui Repubblica è in possesso e che oggi presenta. Ma, avverte subito la fonte, di carte come queste ne abbiamo «centinaia». Lo scrive in una lettera - che prelude ai tre documenti - battuta sul computer. Dimostrando, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che il maggiordomo del Papa accusato di essere il postino delle missive fuoriuscite in passato dalla Santa Sede, «il capro espiatorio» come lo definisce la lettera, non è per niente il solo. Perché il corvo, in realtà, è ancora attivo. «La verità - denuncia - va ricercata nel potere centrale». E spiega: «Ovverossia, nell´archivio privato di mons. Georg Gaenswein segretario particolare del Santo Padre, dal quale fuoriescono di continuo innumerevoli documenti riservati a favore del Segretario di Stato Cardinale Tarcisio Bertone».
Un´accusa forte, che la fonte fa propria, al segretario particolare di Benedetto XVI, uomo in cui il Papa ripone invece la massima fiducia, e che da molti anni rappresenta la persona cui affidarsi per le questioni non solo di carattere personale, ma anche spirituali e politiche. Negli ultimi anni, infatti, monsignor Gaenswein ha accresciuto notevolmente la sua influenza all´interno dell´Appartamento, maturando un ruolo di certo del tutto informale, eppure tangibile e chiaro a tutti, di consigliere di Joseph Ratzinger, del quale è anche connazionale. Aggiunge il corvo nella sua missiva preliminare alle tre carte: «Non sempre le cose vanno per il verso giusto e tra Mons. Georg ed il Cardinale ci sono passaggi incontrollati di documenti ed atti riservatissimi». Come a dire: i documenti e gli atti interni che transitano dall´Appartamento papale all´ufficio del Segretario di Stato, e viceversa, talvolta prendono anche altre strade. E il loro controllo si perde.
Il corvo presenta così «tre delle centinaia di documenti in nostro possesso». La prima è una «lettera riservatissima» indirizzata a Bertone dal cardinale prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica, e che riguarda quella che bolla come «la vergognosa vicenda dei neocatecumenali, sulla quale vi è un lungo appunto scritto a mano dallo stesso Benedetto XVI». Le altre sono due lettere con la firma, in apparenza, di monsignor Gaenswein. E che riguardano, vi si dice, «alcune incresciose, nonché vergognose vicende all´interno del Vaticano». I due scritti portano in alto lo stemma della Santa Sede con l´intestazione "Città del Vaticano". E in calce la firma estesa, a mano, di «don Georg Gaenswein». Sotto, la dicitura stampata «Segretario Particolare di Sua Santità Benedetto XVI». Una delle due è datata 19 febbraio 2009. Il testo delle lettere è stato omesso. Spiega il corvo: «Non pubblichiamo in modo integrale per non offendere la Persona del Santo Padre, già molto provata dai suoi inetti collaboratori». E avverte: «Per correttezza ci riserviamo di pubblicare i testi integrali nel caso ci si ostini a nascondere la verità dei fatti». Conclude poi: «Cacciate dal Vaticano i veri responsabili di questo scandalo: Mons. Gaenswein ed il Card. Bertone». Accuse durissime, non provate, e qui non circostanziate.
La lettera invece indirizzata a Bertone, presso la Segreteria di Stato, porta la firma del cardinale Leo Raymond Burke. È datata 14 gennaio 2012 e risulta pervenuta, come si evince dal timbro, il 16 gennaio. Nel testo il numero uno del Supremo Tribunale della Santa Sede scrive di aver trovato sulla sua scrivania un invito a una celebrazione del Papa prevista sei giorni più tardi, «in occasione dell´approvazione della liturgia del Cammino Neocatecumenale». L´alto prelato appare molto turbato in proposito, arrabbiato. «Non posso - si legge - come Cardinale e membro della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, non esprimere a Vostra Eminenza la meraviglia che l´invito mi ha causato. Non ricordo di aver sentito di una consultazione a riguardo dell´approvazione di una liturgia propria di questo movimento ecclesiale. Ho ricevuto, negli ultimi giorni, da varie persone, anche da uno stimato Vescovo statunitense, espressioni di preoccupazione riguardo ad una tale approvazione papale, della quale essi avevano già saputo. Tale notizia era per me una pura diceria o speculazione. Adesso ho scoperto che essi avevano ragione». Termina così il cardinale Burke la sua lettera a Bertone: «Come fedele conoscitore dell´insegnamento del Santo Padre sulla riforma liturgica che è fondamentale per la nuova evangelizzazione, ritengo che l´approvazione di tali innovazioni liturgiche, anche dopo la correzione delle medesime da parte del Prefetto della Congregazione per il Culto Divino a la Disciplina dei sacramenti, non sembra coerente con il magistero liturgico del Papa». L´argomento è di primaria importanza per gli addetti ai lavori. Proprio all´inizio di quest´anno infatti la Santa Sede aveva approvato, dopo 15 anni di studio da parte della Congregazione per il Culto, la liturgia proposta dal Cammino neocatecumenale. Organismo nato in Spagna verso la metà degli anni Sessanta su iniziativa del pittore Kiko Arguello, il movimento ha l´obiettivo di formare i suoi membri nel cattolicesimo e la riscoperta del battesimo. Il loro modo di celebrare è stato oggetto di diverse discussioni. I neocatecumenali, in estrema sintesi, svolgono le celebrazioni in piccole comunità il sabato sera, e ricevono la comunione al proprio posto, ma in piedi e non seduti.
Le nuove lettere del corvo sono, in ogni caso, il segno che la battaglia dentro il Vaticano è tuttora in corso. E dimostrano che "Paoletto", il cameriere di Benedetto XVI arrestato dieci giorni fa dalla Gendarmeria vaticana con l´accusa di aver fatto uscire documenti riservati dell´Appartamento papale, anche se fosse colpevole, è solo un pesce piccolo. Il corvo è tornato. E, come è stato chiaro fin dal principio di questa vicenda, non si incarna in una sola persona. Appena mercoledì scorso, durante l´udienza generale in Piazza san Pietro, il Pontefice aveva voluto ribadire la sua piena fiducia «a tutti i miei collaboratori». Proprio i principali collaboratori del Papa sono citati in questi scritti: il cardinale Bertone e don Georg. Una battaglia dunque che continua. E che fa apparire questa partita come solo alle prime battute, presagendo l´ombra di nuovi colpi di scena.
La Stampa 3.6.12
Intervista
Lo scrittore Messori “Meglio ripristinare le nozze combinate”
«I cattolici devono dichiarare guerra all’amore romantico»
di Mauro Pianta
Un modo per salvare la famiglia tradizionale? «Ritornare ai matrimoni combinati». Il compito dei cattolici? «Dichiarare guerra all'amore romantico». Il divorzio? «Ai tempi del referendum, quando già ero convertito al cattolicesimo, ho votato per il suo mantenimento, dunque contro le indicazioni clericali». Vittorio Messori, lo scrittore cattolico più letto al mondo, l'unico che può sfoggiare il record di libriinterviste ai Papi (Wojtyla e Ratzinger quando era cardinale), se ne infischia allegramente del politicamente e clericalmente corretto.
Scusi, Messori, a Milano la Chiesa celebra l'incontro mondiale delle famiglie con il Papa. Lei, invece, parla di matrimoni combinati e fa un (quasi) elogio del divorzio?
«I cattolici devono essere consapevoli di un fatto: il matrimonio monogamico e indissolubile ce l'abbiamo solo noi, è una specie di esclusiva. Nelle altre religioni, così come nella versione protestante e ortodossa del cristianesimo, il divorzio, in modo più o meno mascherato, è ammesso. Ora, sul piano solo umano difendere questo tipo di famiglia è impossibile: per natura è difficile che un uomo sia fedele alla stessa donna sino alla morte. Solo la fede in Gesù, che per il nostro bene ci ha “comandato” questo tipo di rapporto, può giustificare tale unione indissolubile. La nostra è una scommessa sulla fede che agli occhi dei non credenti appare giustamente “folle”».
Che c'entrano, però, le unioni combinate?
«È una sana provocazione. Se il matrimonio non è solo un continuo cinguettio emotivo, ma è anche un patto di vita, tanto vale rivalutare la saggezza di un passato nel quale i genitori sceglievano il marito alle ragazze. Tante mie amiche quarantenni single o separate me lo hanno sussurrato: quella pratica sarebbe da riscoprire. Piuttosto che lasciare fare al caso meglio affidarsi all'esperienza di chi ha già vissuto e sa valutare non solo in base all'emotività, ma tiene presenti fattori quali l'età, la solidità e, perché no, il patrimonio…».
E il sentimento dove lo mettiamo?
«Ma è proprio questa concezione romantica dell'amore, figlia dell'Ottocento, tutta intrisa di retorica da libro Cuore, di " angeli del focolare", che ha rovinato la famiglia cattolicamente intesa. Oggi, semmai, il compito dei cattolici è quello di combattere l'amore romantico. Il matrimonio, lo ripeto, non può basarsi soltanto sul sentimento, perché il sentimento è per sua natura mutevole. Senza la fede in Gesù, il " per sempre" fra un uomo e una donna è irragionevole».
il Fatto 3.6.12
Banche, nobili e Vaticano non pagano l’Imu. Noi sì
L’ultima beffa: niente tasse sui 50 mila edifici “storici”, anche se affittati a peso d’oro a Bulgari o Vuitton. Intanto milioni di cittadini fanno i conti con la stangata sulla casa. Possibile che a svenarsi siano sempre gli stessi?
di Daniele Martini
Che bello possedere un palazzo dove la Storia ha lasciato la sua impronta e ogni pietra parla del passato. Che pacchia, poi, poter concedere qualche ala della prestigiosa dimora ad alberghi a 5 stelle e boutique superlusso e a fine mese passare all’incasso.
PIÙ VALGONO, MENO PAGANO: ESENTATI 50 MILA PALAZZI (RUSPOLI, TORLONIA...) Nessuna tassa sugli edifici storici affittati a peso d’oro a Bulgari o Vuitton di Daniele Martini Che bello possedere un palazzo dove la Storia ha lasciato la sua impronta e ogni pietra parla del passato. Che pacchia, poi, poter concedere qualche ala della prestigiosa dimora ad alberghi a 5 stelle e boutique super-lusso e a fine mese passare all’incasso incamerando decine di migliaia di euro d’affitto e in qualche caso addirittura centinaia di migliaia. E che goduria, infine, fare marameo al fisco e pagare un obolo poco più che simbolico di tasse. Succede anche questo nel pittoresco paese chiamato Italia.
CAPITA che mentre la gente comune aspetta la campagna di primavera del fisco con la stessa trepidazione con cui nel Medioevo gli abitanti delle città aspettavano i Lanzichenecchi, ci siano privilegiati proprietari di palazzi da mille e una notte omaggiati con l’esenzione, di fatto, da qualsiasi gravame fiscale. Nelle vie intorno a piazza di Spagna a Roma, per esempio, sono più le dimore artistiche e di rilevanza storica di quelle normali. E basta una passeggiata per constatare che quasi tutte hanno affittato pezzi interi del pianterreno alle griffe della moda e del lusso.
Da palazzo Ruspoli che fu la dimora romana dell’imperatore Napoleone III e che ora in un’ala che dà su piazza San Lorenzo in Lucina ospita un lussuosissimo negozio di Louis Vuitton, a palazzo Torlonia in via Bocca di Leone in cui si affacciano Max Mara e Valentino. Da palazzo Bezzi Scala che fu casa di Guglielmo Marconi e che fino a poco tempo fa era sede di Zegna e ora si appresta a fare posto a Balenciaga, a palazzo Caffarelli dalle cui vetrine scintillano gli ori di Bulgari. Basta chiedere a chi sa per sentirsi dire che per quelle bomboniere del lusso gli esercenti pagano di affitto cifre da urlo. Cifre su cui i proprietari per anni non hanno sborsato, appunto, praticamente niente di tasse. Chiariamo subito: per una volta tanto non si tratta né di evasione né di elusione fiscale. A questi signori il privilegio è stato consegnato dalla legge su un piatto d’argento. Una norma risalente a 21 anni fa stabilisce che agli immobili di interesse storico e artistico viene applicata “la minore delle tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato”. In pratica le similregge dei centri storici di Roma, Firenze e Venezia pagano di tasse quanto l’ultima bicocca attigua.
l’Unità 3.6.12
Cittadinanza, una legge possibile
di Livia Turco
È UNA BUONA NOTIZIA LA CALENDARIZZAZIONE IN AULA SU PROPOSTA DEL PD PER LA FINE DI GIUGNO DELLA LEGGE SULla cittadinanza. «Chi nasce e cresce in Italia è italiano» è una battaglia che il Pd ha condotto con grande determinazione e che intende perseguire fino al traguardo della modifica legislativa. La nostra è una battaglia che viene da lontano, il primo testo di legge di modifica (Turco, Violante, Montecchi) lo depositai personalmente nell’agosto del 2000 e raccoglieva l’elaborazione della Commissione per le politiche d’integrazione della Presidenza del consiglio dei ministri che il governo Prodi aveva insediato sulla base della Legge 40/98. Tale Commissione, presieduta dalla professoressa Giovanna Zincone, aveva promosso un’accurata ricerca e svolto un importante convegno (Febbraio 1999) che aveva riunito esperti, personalità politiche e religiose per discutere del tema della cittadinanza, con centrandosi in particolare sulla condizione dei minori.
Negli anni successivi, prima l’Ulivo poi il Pd, hanno sempre rinvenuto in questo tema una priorità. In questa legislatura, fin dai primi mesi, l’iniziativa di Claudio Bressa, Roberto Zaccaria, Sesa Amici, Jean-Leonard Touadì e Andrea Sarubbi nella Commissione affari costituzionali è stata incalzante. Si è arrivati al testo unificato elaborato dalla relatrice Isabella Bertolini, che noi abbiamo criticato perché non comporta nessun miglioramento significativo rispetto alla situazione attuale. Quest’iniziativa legislativa, è stata accompagnata da una mobilitazione dei «nuovi italiani» del Forum del Pd. La novità di cui il Parlamento nel suo insieme, e dunque anche i colleghi del centrodestra, devono tenere in considerazione, è il clima culturale nuovo che si è determinato nel Paese. La campagna «L’Italia sono anch’io», promossa da un cartello di sindaci ed associazioni, che prese le mosse due anni fa a Reggio Emilia, ha coinvolto numerosissime persone raccogliendo migliaia di firme. Un fatto importante e non scontato in momento difficile nella vita del nostro Paese che ha avuto il merito di sollecitare ciascuno di noi a guardare oltre se stesso, accorgersi per la prima volta che questi ragazzi e ragazze, nonostante siano come noi, non possono declinare la loro identità, non possono dirsi italiani e sono al contempo vittime di discriminazioni. Stranieri nel Paese dove sono nati e cresciuti. Insomma, quella raccolta di firme, è stata un’occasione di crescita culturale e civile del nostro Paese, sostenuta dalle parole importanti del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dalle iniziative di tanti sindaci che hanno conferito la cittadinanza onoraria ai giovani nuovi italiani. Dunque occorre stringere. Il Parlamento e tutte le forze politiche possono rapidamente trovare un accordo e compiere un gesto di saggezza verso il Paese, un gesto di speranza e di umanità che guarda al futuro dell’Italia e dell’Europa. Perché questo concetto è in gioco quando ci si pone la domanda «Chi è il cittadino italiano in questo terzo millennio?». Non è un omaggio agli immigrati o ai figli degli immigrati. È un tratto di identità culturale del nostro Paese. Noi legislatori, dobbiamo guardare all’Italia e al suo bene comune.
Ciò richiede che ciascuno deponga le armi, rinunci al suo progetto originario e si metta a disposizione per la costruzione di una soluzione condivisa, si individui un punto di incontro. Non è difficile. Bisogna innanzitutto rimuovere quel «risiedere ininterrottamente per 18 anni in Italia» come condizione per rivolgere domanda di cittadinanza. È l’aspetto più odioso della nostra legge che non ha eguali in Europa. Nella proposta del Pd si prevedono due ipotesi. Quando il figlio nasce in Italia da genitori stranieri che sono in Italia da 5 anni e dunque hanno un progetto d’integrazione, i genitori stessi possono chiedere la cittadinanza per il figlio che sarà poi confermata dal diretto interessato al compimento del 18esimo anno. Per i ragazzi/ragazze che arrivano in età scolare in Italia, la domanda di cittadinanza può essere presentata al termine del ciclo di studi.
Credo che una buona mediazione possa essere costruita valorizzando i percorsi di formazione e inclusione per fare sì che l’acquisizione della cittadinanza italiana ne sia espressione oltre che motore. L’ipotesi potrebbe essere quella di prevedere, anche per chi nasce in Italia, il legame tra frequenza scolastica e domanda al riconoscimento della cittadinanza per esempio prevedendo che i genitori stranieri, che vivono in Italia da cinque anni, possono rivolgere domanda di cittadinanza al momento del compimento del quinto anno di età, cioè al momento di inizio della scuola primaria. La scuola, come sappiamo, è il laboratorio di una nuova cittadinanza culturale attraverso l’esperienza quotidiana della convivenza tra ragazzi e ragazze provenienti da diverse origini e attraverso l’educazione interculturale. Quest’ultima dovrebbe diventare parte integrante nella programmazione e nello sviluppo dell’attività didattica di tutte le scuole italiane. Per chi arriva in Italia in età scolare la domanda di acquisizione della cittadinanza dovrebbe avvenire al compimento del primo ciclo scolastico. La scuola di oggi è lo specchio della società di domani, per ciò occorre rendere stringente il legame tra scuola e cittadinanza. Crediamo sia questa la chiave per una soluzione equilibrata. È importante che questa battaglia ricominci a vivere nel nostro Parlamento, così come in Europa, anche grazie alla mobilitazione promossa dal capogruppo Pd nel Parlamento europeo David Sassoli insieme a tutto il gruppo dei Socialisti e Democratici europei.
l’Unità 3.6.12
«Acqua pubblica, rispettate i referendum»
Migliaia di persone in corteo a Roma in difesa dei beni comuni
Per i comitati è stato violato il risultato della consultazione
di Salvatore Maria Righi
«La Repubblica siamo noi», c’è scritto sui quindici metri di tir che porta a San Giovanni un pezzo di Italia che si ribella. Sfilano poche ore dopo e a poca distanza dalla parata del 2 giugno. Sfilano sotto al sole con gli striscioni e i bambini per mano, o in bicicletta. Sono una rappresentanza di quegli italiani che un anno fa hanno detto no alla privatizzazione dell’acqua. Il corteo del Forum italiano dei Movimenti per l’acqua è diventato un’altra occasione per dirsi di non mollare, e non solo su due atomi di idrogeno e uno di ossigeno che fanno la molecola più preziosa che c’è. «Si scrive H2O si legge democrazia». «L’H2O non si vende». «Noi siamo H2O». «H2O cielo terra: riprendiamoci il futuro». La sequenza degli striscioni ricorda a tutti, anche ai turisti che sfilano verso la basilica e si fermano incuriositi, quale sia la posta in gioco.
VOCI LONTANE
Il titolo del pomeriggio in piazza, secondo i movimenti organizzatori, chiede l’«attuazione del risultato referendario e la riappropriazione sociale dell’acqua, dei beni comuni, della democrazia, per un’alternativa alle politiche d’austerità del governo e dell’Europa». In realtà, si fa presto a capire che con voci diverse, da Regioni anche lontane e con l’acqua come denominatore, sono venuti tutti a dare una testimonianza contro ciò che si ritiene speculazione, profitto sfrenato e violenza sul territorio. Come il Comitato Amiata che racconta cosa stiano combinando nel sud della Toscana, alle pendici dell’antico monte sacro agli Etruschi, con l’ecosistema della zona già a rischio per i piani di una multinazionale. Ci va ancora più pesante il collega di Bologna che si porta dall’Emilia il dolore nel cuore per una terra ferita: «Una disgrazia, il terremoto, che dimostra una volta di più il saccheggio del territorio con quei capannoni costruiti con lo sputo e i lego, tirati su in cinque minuti e pronti all’occorrenza per essere smontati e trasferiti altrettanto velocemente. Una logica da rapina che a Bologna come dappertutto vale per l’acqua ma anche per i trasporti o l’istruzione». Poi la ricetta che tutto il prato davanti a lui, e sotto alle statue che tante ne hanno viste e chissà quante ne dovranno ancora vedere, applaude e condivide: «L’unica soluzione possibile per il futuro è l’autorganizzazione, perché nessuna mediazione politica è possibile per portare i beni comuni al di fuori della logica di mercato».
CHILOMETRI DI GAS
Molto applaudito anche Renato, dal forum dell’Abruzzo che ha invitato tutti a partecipare alla pars costruens, mentre la battaglia è ancora in corso: «Dopo la protesta ci vogliono le proposte, perché la classe dirigente non è più in grado di fare assolutamente niente in questo paese. E perché o la cambiamo noi la realtà del nostro territorio, o non lo farà nessuno». Sono venuti in nome di un’acqua per tutti che, lo dicono tutti, tra poco sarà il vero petrolio di questo sciagurato mondo, ma si finisce a parlare, e a farsi increspare la voce per la rabbia, di sindaci che vogliono privatizzare tutta una città, come ricorda Fulvio Pesce a nome di una capitale che non si sente di Alemanno, «Roma non si vende». Sul nodo Acea è intervenuto con una nota anche Umberto Marroni, capogruppo Pd in Campidoglio: «Il 12 e 13 giugno 2011 un milione e duecentomila romani si sono recati alle urne per ribadire il no della Capitale alla privatizzazione dell'acqua. Un dato di affluenza superiore alla ben già alta media nazionale che pone paletti chiari all'amministrazione capitolina, socio di maggioranza in Acea che con la cessione del 21% andrebbe di fatto incontro al rischio di perdita del controllo pubblico dell'azienda, facendo peraltro venir meno la caratteristica di società a prevalente capitale pubblico di Acea Ato2 Spa. L'infausto progetto di svendita di Acea targato Alemanno è quindi in palese contrasto con il referendum popolare, anche anche alla luce di ciò ribadiamo al Sindaco la richiesta di accantonare l'illegittima delibera 32». «La lotta continua e non si torna indietro», saluta tutti la coordinatrice dal palco, quando il sabato pomeriggio è ancora tutto da vivere.
La Stampa 3.6.12
Napoli, così è affondato il sogno del riscatto
In un libro di Isaia Sales il fallimento dell’esperienza di Bassolino. Ma le colpe maggiori sono del Pci-Pds romano
Il patto con Mastella era destinato a smorzare ogni slancio di rinnovamento nella palude del trasformismo
di Giovanni De Luna
L’emergenza rifiuti, scoppiata a Napoli tra il 2007 e il 2008, ha sepolto le speranze legate a Bassolino
Negli ultimi venti anni la «questione meridionale» ha cambiato faccia. Non più una «questione nazionale», ma un problema di lotta alla mafia o il terreno privilegiato per attaccare l’assistenzialismo e gli sprechi della spesa pubblica. Eppure, proprio nel 1993, nella prima stagione dei sindaci eletti direttamente, il Sud era parso il motore di un insperato rinnovamento, con al centro Napoli e il suo nuovo sindaco, Antonio Bassolino: nel 1995 Datamedia gli attribuiva un indice di gradimento dell’88,2%. Alla rielezione, ebbe il 72% dei voti (la più alta percentuale per un sindaco in una metropoli dell’Occidente). L’emergenza rifiuti scoppiata a Napoli tra il 2007 e il 2008 ha sepolto quella speranza, confinando Napoli nella vergogna e Bassolino prima nel discredito, poi in un oblio imbarazzato.
Cosa è successo, e come è potuto succedere? A questi due interrogativi risponde l’ultimo libro ( Napoli non è Berlino. Ascesa e declino di Bassolino e del sogno del riscatto del Sud, Dalai, pp. 367, € 16,50) di Isaia Sales, uno dei più partecipi osservatori della realtà napoletana. Quali che siano le colpe di Bassolino e del Sud ( e Sales non fa sconti), il libro sottolinea però prevalentemente gli aspetti nazionali del «problema Napoli», a cominciare da quelli politici. Sotto accusa è il gruppo dirigente che ha gestito il passaggio dal Pci al Pds (e via di seguito). D’Alema, Veltroni, Fassino sono oggetto di una requisitoria impietosa. Se si prescinde però da questi aspetti «viscerali», il libro di Sales ha alcune pagine davvero efficaci, in particolare, quelle che ruotano intorno alla domanda (retorica), «si poteva cambiare il Sud alleandosi con Mastella? ».
La risposta è ovviamente negativa.
Eppure, per ben due volte, nel 1998, quando Mastella appoggiò un governo di centro-sinistra orfano di Rifondazione comunista, e nel 2005, alla vigilia delle elezioni del 2006 che diedero a Prodi una esigua maggioranza, gli eredi del Pci puntarono sull’Udeur, sacrificando sull’altare della governabilità le più elementari ragioni di coerenza con il loro passato e, soprattutto, strangolando Napoli in un patto (la garanzia di due consiglieri regionali e la presidenza del Consiglio regionale alla moglie di Mastella) destinato a smorzare ogni slancio di rinnovamento nella palude delle clientele e del trasformismo.
Napoli e il Mezzogiorno sono state coinvolte nell’insuccesso di un riformismo debole, incapace di sottrarsi alla logica dei compromessi, intriso dei miasmi delle alleanze «romane», sdraiatosi sul più ovvio dei «centralismi» (quello delle segreterie nazionali dei partiti) proprio mentre il discorso pubblico sulla riforme era egemonizzato dal federalismo fiscale.
Ma quanto tempo si è perso, inseguendo il federalismo fiscale, lasciandosi abbagliare dalla sua retorica, sprofondando in uno dei tanti slogan e luoghi comuni di cui la destra si è servita per annichilire ogni senso critico nel paese? La colpa di tutti i nostri mali è stata data ai deboli, agli sconfitti. I pensionati vivono troppo a lungo, gli operai non possono essere licenziati, lo Stato sociale costa troppo. E mettiamoci, nell’ottica di Sales, il Sud è una sanguisuga, l’intervento statale per il Mezzogiorno uno spreco. Destra e sinistra, insieme. Nicola Rossi, ora con Montezemolo e allora esponente di spicco dei Ds, si impegnò perché le risorse disponibili per il Sud andassero a sostenere incentivi automatici alle imprese private, tagliando fuori Comuni e Regioni, considerate zone infette. Ma il privato non era meglio del pubblico. Tra il 1993 e il 2000, nel momento del massimo slancio della società civile meridionale per un drastico cambio di rotta, il Sud visse in un sostanziale isolamento, in condizioni economiche finanziarie disastrose. Solo tra il 1990 e il 1996 si persero 10 miliardi di investimenti e centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Al «rancore del Nord» e agli stereotipi, anche razzisti, che hanno affollato il dibattito pubblico della Seconda Repubblica, questo paese ha pagato un prezzo altissimo. Ora si parla di crescita. Ma una crescita è possibile soprattutto laddove i livelli di partenza sono più bassi, dove il mercato è meno saturo. Al Sud.
Corriere 3.6.12
Brindisi
Sentirsi collettività anche nel dolore
di Giorgio Montefoschi
All'indomani dell'orrendo episodio della scuola «Morvillo Falcone» di Brindisi, quando ancora non si sapeva niente sugli autori dell'omicidio della ragazza sedicenne che avrebbe potuto trasformarsi in una strage, e si facevano ipotesi che viaggiavano nel buio fra terrorismo e mafia, a Roma hanno abolito la Notte dei Musei — dimenticando clamorosamente che all'epoca dello stragismo fu la mafia a colpire proprio un museo, quello fiorentino degli Uffizi, quale simbolo italiano della cultura. I musei non devono chiudere perché un Paese riceve un insulto bestiale. La Cultura non deve chiudere. Il 29 sera, all'Opera di Roma, Riccardo Muti ha preso il microfono e, in sintesi, ha detto questo: stasera è difficile fare musica pensando a quello che è successo, ma noi non siamo qui per un intrattenimento, siamo qui per fare musica, e fare musica è fare cultura. Intanto, in seguito alle due scosse mortali che hanno messo in ginocchio l'Emilia, non mancavano le polemiche sulla Festa della Repubblica del 2 giugno. Bisognava abolire la parata, oppure no? Bisognava fare una parata più sobria? E il tradizionale ricevimento nei giardini del Quirinale, quello pure doveva essere abolito, o doveva farsi ma sobrio (come è stato in realtà)? No, non mancavano i soliti corrucciati siparietti, e anche quelli spiritosi, che, come sempre, al di là del dolore sincero, servivano a mettersi in mostra e a consumare velocemente, e senza troppa fatica, la dose giornaliera di indignazione.
Ma siamo proprio sicuri che ai cittadini sgomenti della Puglia importasse granché della Notte dei Musei (se aperti o chiusi)? Siamo sicuri che alle famiglie degli operai morti in Emilia perché tornati subito al lavoro sotto i capannoni, alle migliaia e migliaia di senza tetto, ai bambini impauriti, agli imprenditori muti di fronte agli sforzi e ai risparmi di una vita ridotti in macerie importasse qualcosa delle polemiche sulla parata della Festa della Repubblica e sul connesso ricevimento al Quirinale, con relative proposte di devolvere le spese risparmiate alle popolazioni colpite?
Abbiamo assistito, negli ultimi mesi, in Italia, alle sconvolgenti rivelazioni sui veri sprechi — impuniti — della Politica e dello Stato. Miasmi insopportabili: centinaia di milioni spariti nelle voragini dei partiti, pranzi, cene, vacanze miliardarie, consulenze e stipendi da vergogna. Chi può pensare di rendersi virtuoso con una niente più che simbolica donazione (che peraltro non tocca le sue finanze), a fronte della solidarietà concreta, magari umile, ma non «a chiacchiere», della cosiddetta «gente», delle persone qualunque che aderiscono agli appelli e mettono mano, anonimamente, alle loro tasche?
Basta con queste ipocrisie. Tra l'altro, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, proprio nei giardini del Quirinale, ha detto una cosa giustissima. Ha osservato, cioè, che la celebrazione del 2 giugno non è un «cerimonia esteriore», ma «un segnale importante di coesione nazionale», e che «più che mai oggi esso ci appare tale». Ha ragione, Napolitano. E individua, con le sue parole sobrie, un argomento profondo. Viviamo negli anni della comunicazione globale, infatti: la televisione, la Rete. Siamo travolti dalla comunicazione; drogati di comunicazione. Ma è una comunicazione che ci appaga solo superficialmente e, nella realtà più vera, ci lascia soli e smarriti. Perché quella è una comunicazione che esaurisce certo ogni informazione, ci illude di essere partecipi, ma manca del contatto umano. E, senza il contatto umano, senza il contatto fisico con un'altra persona, senza avere la possibilità di guardare un interlocutore negli occhi, senza la possibilità anche di toccare un'altra persona, di ascoltare il suono della sua voce da vicino, non c'è comunicazione reale. Ecco il motivo per il quale, nell'epoca virtuale, gli incontri nei saloni del libro, nelle giornate di lettura, nei festival del pensiero debole o forte, nei cortei, diventati eventi ai quali la gente accorre in gran numero: per vedersi, ascoltarsi, toccarsi, come un tempo nelle piazze, lungo il corso principale, nei bar. Gli esseri umani — checché se ne dica — hanno voglia di stare insieme. Vogliono stare insieme fisicamente; vogliono commuoversi insieme; essere felici insieme. E sentire, in Italia, di essere italiani e appartenere a una nazione che, nonostante tutto, amano profondamente. Sì, Napolitano ha detto poche parole giuste.
il Fatto 3.6.12
Per Soros l’Europa ha tre mesi di vita
di Stefano Feltri
Da un po' di tempo George Soros è diventato il Cossiga della finanza, grande interprete degli umori dei mercati e feroce critico dei pasticci della politica. Arrivato come ospite a sorpresa del Festival dell'Economia di Trento, ha dato la sua picconata: l'Europa ha tre mesi di vita. Le note in fondo alle mail che manda il suo staff specificano che le parole del finanziere ungherese-americano non sono assolutamente “consigli di investimento o inviti a comprare o vendere alcun titolo”. Ma Soros è pur sempre quello che nel 1992 ha buttato fuori, praticamente da solo, la Gran Bretagna dal sistema monetario europeo, speculando sulla sterlina. E allora prendiamo Soros sul serio: “A mio parere le autorità hanno una finestra di tre mesi in cui cercare di correggere i propri errori e invertire le tendenze attuali”. Dopo l'estate non si potrà piu' tornare indietro. Secondo Soros, alla fine in Grecia vinceranno di poco i partiti che vogliono rimanere nell'euro. Ma la recessione inizierà a contagiare la Germania e, dopo l'estate, Angela Merkel si troverà con un'economia troppo indebolita per potersi permettere politicamente di impegnare Berlino in qualsiasi iniziativa europea che metta a rischio i soldi del contribuente tedesco. E addio euro. Gli errori sono stati i seguenti. Primo: l'Europa “è stata essa stessa una bolla” che esiste soltanto finché tutti credono alla sua necessità. Ma i Paesi creditori dell'eurozona, quelli che hanno beneficiato degli squilibri in parte fisiologici (la Grecia e altri si sono indebitati anche per comprare prodotti tedeschi), ora si sottraggono alle proprie responsabilità scaricando il peso della correzione sui debitori. Hanno fatto scoppiare la bolla. Non solo: la Germania e tutte le istituzioni europee hanno deciso che la crisi dell'euro era una crisi fiscale, soltanto perché il detenotatore è stata la Grecia con i suoi numeri taroccati sulla finanza pubblica. Tutto sbagliato, dice Soros, questa e' una crisi “bancaria e di competitività”. Nell'autunno 2010 la cancelliera Angela Merkel dice che le banche dovranno pagare i danni di una ristrutturazione (default controllato) del debito greco. Gli stati da una parte, le banche dall'altro, ognuno per la sua strada. Così la Germania ha impedito di trovare una soluzione, relativamente indolore, alla crisi di Atene, scatenando anche il panico tra gli investitori che hanno iniziato a fissare nuovi prezzi per i Paesi a rischio di diventare come la Grecia, dal Portogallo all'Italia. La crisi bancaria, però, secondo Soros ha radici più lontane. Le banche hanno gonfiato per anni la bolla dell'Europa, comprando titoli di Paesi periferici considerati però sicuri perché protetti dall'euro per lucrare sui differenziali di redimento (all'epoca bassi) rispetto alla Germania.
I PAESI DEBOLI dell'euro erano ben contenti di avere credito a basso costo e ne hanno approfittato per gonfiare la spesa pubblica. Poi, con le recenti turbolenze, sono diventati “come Paesi del terzo mondo che non controllano la valuta in cui sono indebitati”. E le banche hanno scoperto all'improvviso il rischio nascosto nei titoli di debito in cui avevano investito. Se questo è il problema, affrontare la questione riducendo i deficit è completamente inutile. Si deve risolvere l'intreccio perverso tra banche finanziatrici e Paesi indebitati, ma lo si deve fare a livello comunitario. Altrimenti prevale l'aggiustamento terribile in corso, denunciato da Soros quasi con le stesse parole del governatore di Bankitalia Ignazio Visco: la rinazionalizzazione dei sistemi finanziari. Le banche italiane si ricomprano il debito italiano, quelle francesi il debito francese e così via. Ma invece di ridurre il rischio e far scendere gli spread e i tassi di interesse, questo processo lo concentra, creandodellebombefinanziariedestinateacol-lassare su se stesse. Quindi serve subito una garanzia bancaria europea, senza modificare i trattati (richiederebbe troppo tempo). Così la vede Soros. A noi risparmiatori restano due alternative, se prendiamo per buona la sua analisi: o incrociamo le dita sperando che nei prossimi tre mesi la politica europea faccia quel che non ha fatto per tre anni, oppure svuotiamo i conti correnti e affidiamo i nostri risparmi a una banca americana in grado di speculare sul crac dell'euro.
La Stampa 3.6.12
Sicurezza in tilt per il “Presidente normale”
Francia, le abitudini di Hollande e dei suoi ministri mettono in ansia i servizi segreti
La titolare della Giustizia gira in bicicletta mentre la verde Duflot va al ministero in metrò
di Alberto Mattioli
Il Presidente francese François Hollande ama stare a contatto con i cittadini, mettendo a dura prova il lavoro della sua scorta
C’è un Capo dello Stato che viaggia in macchina senza lampeggianti e fermandosi ai semafori, una ministra che prende la metropolitana e un’altra che gira in bicicletta. Fossimo in qualche civilissima monarchia nordica, tipo Olanda o Danimarca, nessuno batterebbe ciglio. Ma, visto che siamo nella Repubblica francese, quindi in uno degli ultimi Paesi davvero monarchici del mondo, la nouvelle vague di François Hollande e dei suoi ministri provoca, nell’ordine, stupefazione, preoccupazione e polemiche.
È la celebre e celebrata presidenza «normale». Ormai è chiaro che Hollande si è dato una regola di condotta: fare il contrario del suo predecessore. L’«iperpresidente» Nicolas Sarkozy era blindato, i suoi bagni di folla strettamente preparati e gli unici francesi «comuni» che potevano avvicinarlo ultraselezionati. Invece appena vede un gruppo di cittadini superiore ai tre, «medioman» Hollande ci si fionda. È tutto uno stringere mani, baciare pupi, scambiare battute e farsi fotografare.
Meglio (o peggio, a seconda dei punti di vista): i viaggi. All’ultimo vertice europeo di Bruxelles, Hollande c’è andato in treno, non un treno speciale ma un normale Thalys. È andato alla Gare du Nord e, dopo aver baciato-stretto-abbracciato circa metà dei viaggiatori presenti, ha preso il treno come tutti: del resto, con l’alta velocità è un’ora e 20 di viaggio. Poi, visto che le eurodiscussioni, al solito, sono durate molto (e non hanno concluso nulla), nel cuore della notte è rientrato a Parigi in auto, rispettando le regole che lui stesso ha dettato: niente scorta di motociclisti, niente lampeggianti e rispettare il Codice della strada, quindi i limiti di velocità e i semafori rossi.
Sarkò, quando andava a Bruxelles, prendeva l’aereo, anzi due perché la regola vuole che ci sia sempre un’alternativa. E infatti gli veniva rimproverato come ennesimo sintomo della sua presidenza «bling-bling», ostentatoria e sprecona. A Hollande invece rimproverano di mettere nei guai la sicurezza. E l’ex ministro sarkozysta degli Interni, Claude Guéant, anche di aver rinunciato tornando in macchina a due ore di sonno, mentre il Président ha il dovere di essere sempre vispo e ben riposato.
Hollande se ne infischia, almeno finché può, e non vuole nemmeno lasciare il suo appartamento (in affitto) della rue Cauchy, nel XV arrondissement: «Se non ci sono disturbi per la sicurezza e per i vicini, resto lì». Per i vicini non si sa, per la sicurezza certamente sì, visto che il salotto di casa Hollande ha delle grandi finestre che danno sulla strada.
Naturalmente, i nuovi ministri non vogliono essere da meno. Le più insofferenti alla scorta sono le ministre. Quella della Sanità, Marisol Touraine, l’aveva proprio rifiutata, poi le hanno fatto capire che non è cosa. La verde Cécilie Duflot insiste ad andare al ministero con la Rer, il trenino delle banlieue, quindi devono prenderlo anche i flic incaricati di proteggerla (commento di uno, rigorosamente anonimo: «Ma visto che la scorta comunque ci dev’essere, prenda la macchina, no? »). Infine, giorni fa al posto di polizia della place Vendôme è arrivata l’insolita richiesta di procurarsi un paio di biciclette. La ministra della Giustizia, Christiane Taubira, che ha l’ufficio proprio lì, accanto al Ritz, non vuole rinunciare a una sana pedalata.
Insomma, scene da Norvegia per una classe politica che invece pensa da sempre di essere ancora a Versailles. Ma i rischi sono reali, anche se gli ultimi presidenti sono sempre stati presi di mira da squilibrati. Nel 2002, uno sparò a Chirac durante la parata del 14 luglio sugli Champs-Elysées. L’anno scorso, un altro prese per il collo Sarkozy in visita nel suo villaggio. E il primo febbraio scorso, durante un comizio, il candidato Hollande fu infarinato da una matta. Non fece una piega: evidentemente considera «normale» anche questo.
La Stampa 3.6.12
Personaggio
Sophie, la prima donna a capo della scorta Nel 2000 salvò Jospin
di Alberto Mattioli
Tenace Sophie Hatt 44 anni è il nuovo responsabile sicurezza di Hollande Nel 2000 era con Jospin bersaglio di un lancio di pietre in Cisgiordania
Sicurezza, sostantivo femminile. E questa volta è vero anche per chi deve assicurarla al Président. Per la prima volta nella storia della Quinta repubblica, e forse in tutta quella francese, la sicurezza dell’inquilino dell’Eliseo è affidata a una donna. L’ha scelta François Hollande in occasione del recente giro di valzer degli alti papaveri di polizia e servizi, licenziati e rimpiazzati perché considerati troppo amici di Sarkozy.
L’eletta si chiama Sophie Hatt, è un commissario di Polizia, ha 44 anni, una carriera immacolata ed è stata raccomandata a Hollande dall’ultimo premier socialista prima di quello che ha nominato lui, Lionel Jospin. Nel 2000, era madame Hatt che si occupava della sicurezza di Jospin, che nel febbraio di quell’anno se la vide brutta durante un viaggio in Cisgiordania. Un gruppo di studenti palestinesi che non apprezzava la politica mediorientale francese cercò di lapidarlo. Hatt gestì la situazione con encomiabile sangue freddo e ancor più encomiabile moderazione, riuscendo a evitare a Jospin la fine dell’adultera. Ma rimediò una sassata che le ha lasciato una cicatrice alla schiena.
Con l’occasione, e sempre per battere sul tasto della presidenza normale e alla mano, l’Eliseo ha anche annunciato una drastica riduzione degli effettivi del Gspr (Gruppo Sicurezza Presidente della Repubblica): da 93 agenti a 60. Con una novità importante: il ritorno dei gendarmi accanto ai poliziotti. In Francia, la Gendarmeria sta alla Polizia come in Italia i Carabinieri ai poliziotti: combattono dalla stessa parte, ma non si amano. Sarkozy, in particolare, non aveva simpatia per i gendarmi e, appena diventato presidente, li aveva esclusi dalla sua scorta (vendicando così i poliziotti, sbattuti fuori da quella di Mitterrand, che invece privilegiava i gendarmi. Come si vede, dai tempi del Re Sole non è che la gestione del potere, in Francia, sia molto cambiata...).
Adesso il presidente «normale» vuole una scorta normale, quindi meno ipertrofica di quella di Sarkò e composta per due terzi da poliziotti e per un terzo da gendarmi, comandata da una poliziotta ma con un vice gendarme, per la precisione un tenente colonnello. Altro che socialista: Hollande è il perfetto democristiano...
La Stampa 3.6.12
La nuova dottrina strategica del Pentagono
L’America sposta le sue portaerei nel Pacifico
Panetta: nel 2020 il 60 per cento della flotta sarà in Oriente
di Maurizio Molinari
Il Pentagono ridisegna la presenza della Us Navy sui mari e il ministro Leon Panetta sceglie Singapore per farlo sapere. «Entro il 2020 il 60 per cento della flotta degli Stati Uniti sarà dispiegata nell’area Asia-Pacifico» dice il ministro della Difesa Usa all’annuale Shangri-La Dialogue dedicato ai temi della sicurezza, aggiungendo che «se finora la Us Navy è stata in genere divisa 50-50 fra Pacifico e Atlantico, adesso l’equilibrio sarà 60-40» e ciò includerà «lo schieramento in questa regione di sei porterei, la maggioranza di incrociatori, cacciatorpedinieri, navi da guerra e sottomarini».
Questo significa che gli accordi sottoscritti negli ultimi mesi con Australia e Singapore - come quelli in via di definizione con Filippine e India sono solo l’inizio di un network di intese per garantire alla Us Navy di avere accesso a porti e rifornimenti in misura tale da proiettare in maniera stabile nel Pacifico la supremazia navale degli Stati Uniti.
Sebbene Panetta precisi che «non è una decisione per sfidare la Cina» a suggerire il contrario è il fatto che la sua missione di nove giorni in Asia tocca tutti Paesi, dall’India al Vietnam, che hanno contenziosi territoriali o rivalità strategiche con la Cina. «L’aumento della presenza americana in questa regione porterà benefici alla Cina e farà progredire sicurezza e prosperità di entrambi», assicura Panetta ma ciò non toglie che per molte nazioni dell’Estremo Oriente, dalle Filippine al Vietnam, la presenza massiccia dell’Us Navy sia una garanzia di protezione dagli sconfinamenti cinesi nelle acque contese del Mar della Cina Meridionale.
Era stato il presidente americano Barack Obama, durante il viaggio in Asia in novembre, a preannunciare la svolta del Pentagono e la seguente pubblicazione della nuova dottrina strategica l’ha rafforzata spiegando che lo scacchiere Asia-Pacifico include il Medio Oriente e dunque racchiude le aree dove sono più alti i rischi di conflitto.
Entro fine anno sarà Panetta a recarsi a Pechino per discutere i nuovi equilibri militari anche se appare evidente che l’aumento delle unità della Us Navy porterà soprattutto a rafforzare l’intesa con India, Giappone, Corea del Sud e Australia ovvero le quattro grandi democrazie della regione con cui Washington ha già legami di alleanza.
La Stampa 3.6.12
Se Obama diventa un guerriero
di Maurizio Molinari
Il 14 giugno Obama salirà sulla Freedom Tower per celebrare la ricostruzione di Ground Zero e rafforzare la sua immagine di difensore della sicurezza nazionale. Si conferma così la sua nuova strategia elettorale. La Casa Bianca aveva pianificato un finale di campagna basato sull’’economia ma, a 5 mesi dal voto, i numeri del pil e dell’occupazione sono tali da obbligare ad un’inversione di rotta e la priorità ora è valorizzare l’immagine del presidente guerriero. Ifunzionari dell’amministrazione che hanno consentito lasciato trapelare l’esistenza della «Kill List», l’elenco di jihadisti da uccidere, assieme alle indiscrezioni pubblicate dal “Washington Post”sulla cyberguerra contro l’Iran ritagliano a Barack il profilo di un leader all’offensiva contro i nemici dell’America. Puntando a rafforzarne la credibilità sulla sicurezza nazionale che resta il suo maggiore vantaggio rispetto allo sfidante Romney per via del largo consenso popolare riscosso con l’eliminazione di Osama bin Laden, la guerra dei droni, il ritiro dall’Iraq e la «exit strategy» afghana. L’intento del suo team elettorale è di mantenere gli elettori moderati che nel 2008 consentirono a Obama di conquistare Stati conservatori, come Indiana e North Carolina, ora in bilico a causa della crisi. Per essere credibile con questo elettorato Obama ha sfruttato la cerimonia per la consegna dei ritratti di George W. e Laura Bush, riservando al predecessore un omaggio ai meriti per la guerra al terrorismo andato ben oltre l’ospitalità bipartisan.
Corriere 3.6.12
Dalla Siria al Libano il contagio della faida fra Sunniti e Sciiti
di Guido OLimpio
WASHINGTON — Le guerre nel martoriato Libano sono spesso iniziate per un «incidente». Il conflitto civile venne innescato da una sparatoria su un bus il 13 aprile 1975. E per quasi 20 anni non si sono più fermati, trovando sempre un nuovo pretesto. Ecco perché i combattimenti a Tripoli, la più importante città nel nord, non vanno sottovalutati.
Nelle ultime ore sono morte 9 persone, una quarantina i feriti. A incrociare kalashnikov e lanciagranate sono due quartieri. Rab el Tabbaneh è una roccaforte sunnita, gli abitanti odiano il regime siriano e i suoi alleati. A Jabal Mohsen, zona popolata dagli alauiti (come il dittatore Bashar Assad), tifano per Damasco. Settarismo e armi a volontà. Una battaglia che ha seguito altri scontri frenati dall'intervento — a fare da paciere — dell'esercito. Ma è stata solo una tregua. E molti osservatori avvertono: il Libano può essere risucchiato nella guerra siriana. Un contagio forse già avvenuto. Anche perché non mancano gli untori.
Damasco ha sempre usato e considerato il Libano come il cortile di casa. Un posto dove poteva fare ciò che voleva. Il regime ha finanziato movimenti, sette, partitini, intrighi. La sponda più solida è quella degli sciiti, con l'Hezbollah in testa, legato alla Siria dall'ostilità contro Israele. Ma non ha interesse, per ora, a farsi coinvolgere. I siriani, allora, si sono «inventati» la milizia di turno: il partito del movimento arabo di Shakir Al Barjawi. Veterano delle faide degli anni 80, ha cambiato spesso casacca per poi riemergere al fianco di Bashar. E ne difende la bandiera.
Sull'altra barricata le formazioni sunnite sostenute dai sauditi, dal Qatar e dalle forze politiche locali. Realtà nella quale tentano di inserirsi anche elementi radicali che pensano di imitare i qaedisti. Così avviene che nelle aree al confine con la Siria nascono piccoli campi d'addestramento per volontari che si uniscono agli insorti siriani. Movimenti che si sviluppano in parallelo al traffico di armi.
L'ostilità tra i due schieramenti è segnata da agguati, scaramucce e anche rapimenti, alcuni dei quali oscuri. Compreso quello di una colonna di pellegrini sciiti libanesi avvenuto in Siria. È quell'area grigia dove tanti si possono mimetizzare. E chi diffida di Damasco ritiene che Assad potrebbe incendiare il Libano con obiettivi diversi: 1) Stroncare il network di supporto agli insorti. 2) Alleggerire la pressione interna. 3) Spaventare una diplomazia internazionale non troppo convinta della coesione dei ribelli. Vedete — sarebbe il messaggio — cosa succede ad appoggiare la rivolta?
All'estero osservano con inquietudine ma restano concentrati su quanto avviene in Siria. L'inviato dell'Onu Kofi Annan ha messo in guardia: il Paese sta scivolando nella guerra civile. Un appello a una svolta vera sperando che Assad applichi il piano fissato dalle Nazioni Unite. Pochi si fanno illusioni. E il Qatar, da sempre capofila nel sostegno alle ribellioni regionali, è tornato a premere per iniziative più decise: il regime deve rispettare un preciso calendario e seguire il piano Onu. In caso contrario — secondo i qatarioti — l'Onu può autorizzare un intervento armato.
il Fatto 3.6.12
Zar Putin, ventisei residenze e impunità
In una delle dimore c’è addirittura un allevamento di grandi cervi siberiani
di Yulia Latynina
Mosca. Se mi chiedessero di raccontare la storia che a mio giudizio caratterizza nel modo più preciso la personalità e gli scopi del presidente Vladimir Putin, menzionerei quella che conosciamo dalle parole dell’uomo d’affari pietroburghese Sergej Kolesnikov. Secondo quanto riferisce Kolesnikov, nel 2000 il neoeletto presidente Putin s’incontrò con Nikolaj Shamalov – suo caro amico e capo di Kolesnikov – proponendogli un piano d’affari. Nikolaj Shamalov era il padrone della compagnia Petromed, che forniva apparecchiature mediche in cambio di denaro pubblico. Secondo il piano diversi oligarchi russi avrebbero trasferito denaro alla Petromed per l’acquisto di apparecchiature. Il 35% del denaro sarebbe andato subito all’estero su un conto offshore e il resto sarebbe stato utilizzato per l’acquisto delle attrezzature.
IL PROGETTO cominciò con il trasferimento a Petromed di 203 milioni di dollari da parte di Roman Abramovich (il padrone del Chelsea campione d’europa, ndt). La conseguenza di questo progetto fu la costruzione di un palazzo del valore di un miliardo di dollari vicino a Gelendzhik, sulla costa del Mar Nero, palazzo che secondo Kolesnikov appartiene a Putin. Questa storia è emblematica proprio perché ha avuto inizio nel 2000, subito dopo l’avvento al potere di Putin. Era proprio questo il concetto che Putin aveva del “rafforzamento della verticale del potere”: gli oligarchi trasferiranno denaro alla compagnia dei miei amici, io riceverò una tangente del 35% e costruirò un palazzo.
Gelendzhik non è l’unica residenza di Putin. Un’altra residenza, per esempio, è stata costruita dalla compagnia Gazprom sui monti Altaj. Solo i 21 chilometri di strada che portano alla residenza sono costati 4 miliardi di rubli (100 milioni di euro), e questo quando il reddito della repubblica dell’Altaj ammonta soltanto a 2,2 miliardi di rubli. La particolarità di questa residenza è la comunicazione ufficiale sulla presenza sul suo territorio di un allevamento di maral, i grandi cervi siberiani. Il giornale Kommersant ha contato in tutto ventisei residenze di Putin, senza considerare le voci non verificate. Per numero di residenze presidenziali la Russia è seconda solo alla Corea del Nord. Per un confronto: il presidente americano ha solo due residenze ufficiali, la Casa Bianca e Camp David. Da questo punto di vista la Russia supera l’America. Ricca di residenze, ma povera di strade. Dal 2000 al 2012 il Paese ha ricavato oltre 1500 miliardi di dollari di entrate dall’esportazione del petrolio e del gas. In tutto questo tempo di fatto non è stata costruita neppure una strada che rispondesse al concetto di autostrada interstatale. In Russia, a tutt’oggi, non esiste una strada completamente asfaltata fra Mosca e Vladivostok, sull’Oceano Pacifico.
In compenso con le residenze va tutto a meraviglia. Nello stesso periodo preso in considerazione la Cina ha costruito 5-6 mila chilometri di strade all’anno e oggi dispone della seconda rete stradale al mondo dopo quella degli Stati Uniti. In molti all’estero ritengono che Putin governi la Russia con pugno di ferro, che sia temuto, che abbia rafforzato il potere nel Paese. Sono tutte fandonie dell’agenzia di relazioni pubbliche Ketchum. Governare è una cosa, rubare è tutt’altra. Le ruberie in Russia hanno raggiunto proporzioni mai viste, ma il Paese non ha praticamente nessuno che lo amministri. Se mi proponessero di raccontare un altro episodio in grado di caratterizzare l’essenza stessa del governo di Putin, riferirei di uno qualsiasi dei numerosi incidenti mortali che vedono protagonisti degli alti funzionari. Le strade russe si sono trasformate in autentiche strade della morte: non passa mese che i mass media non riportino la notizia dell’ennesimo ministro o governatore che ha ucciso una persona sulla strada e, ogni volta, il ministro o il governatore che correva contromano alla velocità di 150 km orari, sotto gli occhi di testimoni e telecamere, viene subito dichiarato innocente, mentre la colpa dell’incidente viene attribuita alla vittima.
ECCO solo un breve elenco: il 10 settembre 2007 il corteo del capo della Corte suprema, viaggiando contromano, ha ucciso una persona e ne ha ferite gravemente altre due. Il 7 giugno 2010 una Cadillac con la moglie del viceministro degli Interni Michail Suchodol’skij è andata a sbattere contro con un’altra macchina al km 31 dell’autostrada di Kaluga. Un mese dopo, il 31 luglio 2010, il corteo della moglie del ministro degli Interni Rashid Nurgaliev ha ucciso due operai al km 44 della stessa autostrada. L’ultima storia ha del comico: la mattina del 3 maggio l’automobile del viceministro per la Sicurezza dei trasporti (!) Nikolaj Kir’janov, correndo contromano nel centro di Mosca, ha strappato lo specchietto e squarciato la fiancata alla sua vittima. L’agente della polizia stradale, senza batter ciglio, ha comunicato che l’incidente era stato causato da “un’automobile non identificata” e ha promesso di prendere misure per la sua identificazione. Ecco, forse sono questi i due poli che caratterizzano l’organizzazione dello Stato nella Russia contemporanea. Corruzione illimitata – il potere stesso inteso come autorizzazione a rubare – e impunità illimitata, anche quando si tratta di un incidente automobilistico, compiuto sotto gli occhi di testimoni e telecamere nel centro della città. In Russia un funzionario ha diritto a delinquere, come un signore feudale aveva lo ius primae noctis. La possibilità di commettere reati è un privilegio inalienabile del funzionario e la protesta contro questo reato è equiparata a un attentato contro il potere.
Corriere La Lettura 3.6.12
Quello che le donne cinesi non dicono
Lo scrittore Su Tong: nelle campagne la condizione femminile resta molto pesante e in politica ci sono solo «quote rosa» per mascherare la discriminazione sessuale
di Marco Del Corona
La Cina non è femmina. La Cina è maschio, e tale resterà. «Lungo la costa orientale, nel Sud, nelle aree sviluppate, le donne non sono poi così diverse da quelle occidentali. Ma nell'entroterra profondo le cinesi restano le macchine da parto che sono sempre state». Legge del figlio unico o meno, deroghe incluse (e ce ne sono parecchie), nulla è cambiato. «L'antropologia femminile rispecchia la geografia della Cina». Su Tong ha saputo costruirsi la fama di autore capace di insinuare la propria scrittura nell'animo delle donne, accreditandosi come narratore «femminile». Cipria, Vite di donne e soprattutto Mogli e concubine, trasformato in un film gelido e feroce da un magistrale Zhang Yimou che oggi non è più così esatto, hanno una cifra che tuttavia non appanna lo sguardo di Su. La seconda economia del mondo continua a restare un Paese per uomini: «È impensabile — dice alla "Lettura" — una leader femminile, in Cina. In Germania c'è Angela Merkel, in Brasile Dilma Rousseff. Da noi le donne sono soltanto una quota. Niente illusioni».
Non sarà al prossimo cambio di leadership e neppure al giro dopo che la Cina avvierà la sua rivoluzione di genere. «Non riesco a immaginare quando possa emergere una donna che segni una svolta». In vista del prossimo Politburo è stato fatto il nome di Liu Yandong, la donna più alta in grado nella gerarchia comunista, di cui qualcuno ipotizza l'ingresso nel comitato permanente. «Anche lei è una quota rosa. Nelle città, fra sette o otto vicesindaci c'è sempre una donna messa lì per non dare l'impressione che la discriminazione sessuale esista. Ma sulla scena della politica non siamo in grado di capire chi valga: mancano gli strumenti per farsi un'idea in questo campo. Non sappiamo giudicare il merito delle donne in politica, mentre invece ormai con cantanti e attrici siamo capaci. Ci vorrà tempo».
Su Tong, 48 anni e una figlia a Toronto, tiene la politica a distanza. La sua casa lo conferma: una villa in un compound costosissimo alla periferia di Nanchino, tutto vialetti in saliscendi, praticelli ben tosati e piante neanche fossero curate da acconciatori, una specie di sobborgo borghese statunitense ricreato in vitro. Su segue il tennis, «uno sport più lento rispetto al calcio», ma amava il football al punto da ricordare una spedizione «a San Siro con i miei amici scrittori Mo Yan, Yu Hua e Wang Shuo a vedere un Milan-Atalanta. Era il 1999».
Non lo scuote neppure la storia di Gu Kailai, moglie dell'alto dirigente comunista Bo Xilai caduto in disgrazia, accusata di aver fatto uccidere un businessman britannico molto intimo. «La storia è piena di donne rovinate. Di Bovary e affini. Ma gli scrittori hanno bisogno di metabolizzare le vicende della politica. Questa di Gu non è una vicenda su cui io scriverò. Lavoro a storie che solo io posso scrivere. E qui non è così. Però è un gran film. Mi colpisce che i cinesi ignorino la vita privata dei politici. Non sanno giudicarli. Bisogna essere capaci di filtrare le informazioni, di interpretarle. Non mi interessano i funzionari né sono invidioso di chi sta al potere: sono invidioso di chi scrive meglio di me. Naturalmente non è che si possa starsene completamente fuori, dalla politica. Ma qual è il tuo diritto di commentare? Il vantaggio di stare a Nanchino è che è lontana sia da Pechino, quindi dalla politica, sia da Shanghai, quindi dal materialismo. Una vita distaccata. Il mio piccolo mondo».
Su Tong non è iscritto al Partito comunista, «e nemmeno a uno degli otto partiti democratici»; è vicepresidente dell'Associazione degli scrittori. A che serve? «A nulla». La moglie corregge sorridendo: «Falso. Paga uno stipendio, fornisce la copertura sanitaria, qualche volta ci dà un autista». In autunno il Partito comunista rinnoverà la leadership. «Ogni tot di anni c'è un congresso. Una ripetizione. Il futuro? Non sono né ottimista né pessimista. I cinesi hanno una gran capacità di sopportare, chiedono pochissimo ai governanti. Una casa, un lavoro, un'auto. Vola l'economia, immobile la politica. Ma l'Occidente dev'essere paziente come siamo pazienti noi. Io stesso lo sono». Ubbidiente, si definiva in una nota autobiografica di vent'anni fa: «Lo sono ancora». Censurato? «Solo per una scena di sesso che poi hanno tolto da Riso».
Un autore cresciuto abbeverandosi al Sogno della camera rossa, al Jing Ping Mei, ai classici cinesi, ma conoscitore anche di Tolstoj e Flaubert, Kafka e Faulkner, e del nostro Italo Calvino, si stupisce di come accada in Cina «una cosa bizzarra» (dice così). «Tanti buoni libri hanno saputo descrivere i cambiamenti nelle campagne. Ma una visione d'insieme delle città non esiste. Molto strano. Manca un affresco sociale alla Guerra e pace della Cina urbana contemporanea, una Commedia umana alla Balzac. Vorrei provarci io, collegando i destini dei personaggi ai cambiamenti del Paese. Come nel libro che completerò in estate. Si svolge dalla fine degli anni Ottanta al 2000: tre personaggi legati da uno stupro, la ragazza vittima, il colpevole che vive libero e impunito, un innocente chiuso in galera per dieci anni, che uscendo trova una Cina trasformata. Diviso in tre parti, racconta la storia da tre punti di vista».
Freddo con la tecnologia («non che non mi piaccia, ma non capisco perché la gente impazzisca per Weibo», il Twitter cinese), a Su non restano che le donne. Che, nei suoi libri, sono capaci di ogni efferatezza: «Non mi era mai piaciuto come le donne venivano descritte nei libri. Prevalevano i protagonisti maschili perché gli scrittori ignoravano come fossero le donne. Io cerco di scoprire le loro debolezze perché le considero persone maiuscole, e per dare alle donne l'uguaglianza che spetta loro, parto dal contrario, dai difetti, dalle debolezze. Ne hanno come gli uomini. E sotto la mia penna sono tutti uguali».
Traduzione di Emanuela Guercetti
Corriere La Lettura 3.6.12
Curarsi con i libri
Consigli dei maestri e pillole di saggezza Ricette alternative per auto-medicarsi
di Mariarosa Mancuso
Non leggere tutti quei libri: rovinano gli occhi e fanno venire la gobba. Non andare troppo al cinema: sono storie e immagini che mettono in testa idee strane. I lettori e gli spettatori seriali con qualche annetto sulle spalle se lo sono sentiti ripetere spesso. Lo stesso effetto deleterio fu attribuito ai fumetti e poi alla tv, prima che i videogiochi fossero considerati l'origine di tutti i mali: perdita di tempo, attenzione a sprazzi, confusione tra realtà e fantasia.
Contrordine: libri e film, se dobbiamo dare retta alla nuova precettistica, sono un toccasana. Non nel senso dilettantesco che ognuno di noi ha sperimentato almeno una volta: sprofondarsi in un romanzo o nel buio della sala distrae dai pensieri cupi (basta evitare i film da festival, o uno di quei romanzi rompicapo che fanno di tutto per ostacolare il piacere). Nel senso che una dieta adeguata di titoli cura i malanni e raddrizza le storture dell'animo. Così sostengono gli esperti, che per la maggior parte si sono autonominati tali.
Già sapevamo, dal libro di Lou Marinoff uscito da Piemme, che Platone è meglio del Prozac (pazienza se poi Platone e compagnia sono ridotti a sagge zie prodighe di consigli). Gli ultimi arrivi sugli scaffali sono più perentori. Ça ne va pas?, a firma di Jean-Joseph Julaud, è il titolo di un volumetto che si propone come «Manuale di terapia poetica» (editore Cherche-midi). Pillole di carta e di celluloide è un libro appena uscito da Franco Angeli, a firma Ferdinando Galassi.
Nell'armadietto di pronto intervento si affiancano a Libroterapia di Miro Silvera, seguito da Cinema & videoterapia (Salani), che non trascura le virtù curative dello schermo casalingo. A Nancy Peske e Beverly West dobbiamo Cinematerapia e Cinematerapia 2 — c'è sempre bisogno di un richiamo, come per le vaccinazioni. Da Feltrinelli, sono accompagnati dall'impegnativa promessa: Un film dopo l'altro verso la felicità. Senza dimenticare il filone Cinema per manager, Letteratura per manager, o Shakespeare per il business (meglio delle settimane di sopravvivenza nella foresta per rafforzare lo spirito imprenditoriale).
Alcuni sono divertimenti letterari: consigli d'autore, tra l'ovvio e il bizzarro, mascherati da scorciatoie per il benessere. Altri cavalcano la fortunata serie Adelphi che propose Schopenhauer come maestro di vita (l'arte di essere felici, l'arte di ottenere ragione, l'arte di farsi rispettare, di conoscere se stessi, perfino di trattare le donne). Troviamo manuali aziendali alla ricerca spasmodica di un fiore all'occhiello culturale e compilation di titoli-medicina alternativi alla psicoterapia e agli psicofarmaci. Cinematerapia® (con il marchio registrato presso il ministero dell'Industria e delle attività produttive) si presenta come sito ufficiale della disciplina.
Una bella fetta della nostra esistenza viene così sottratta al piacere e relegata nel regno delle pratiche salutari. Triste risultato, e del tutto in contrasto con quel che leggiamo nei libri. Nei romanzi, la letteratura non salva la vita, bensì la rovina. Basta pensare al Don Chisciotte di Cervantes o a Madame Bovary di Gustave Flaubert, per non parlare degli effetti nefasti causati alla gioventù del tempo da I dolori del giovane Werther.
«Leggere è una passione esclusiva paragonabile al gioco e al terrorismo» ha scritto in Mutandine di chiffon Carlo Fruttero, che sicuramente aveva letto più libri di noi (e anche di chi compila certe liste da sanatorio). «Vizio impunito», sosteneva Valéry Larbaud: neanche lui credeva alla lettura che guarisce. Bibliofili e collezionisti sono ancora peggio: non esitano a tramare o a uccidere per procurarsi il prezioso volume dei loro sogni. Un bel catalogo, che va dai falsari per dispetto ai lettori bulimici, è in Bibliofollia di Alberto Castoldi (Bruno Mondadori).
«Se una ragazza è in odore di gran leggitrice di romanzi, storna da sé ogni possibilità di matrimonio», scrive Giuseppe Rovani nel suo romanzo Cento anni. Molto prima, nei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, un libro avidamente letto dalla regina di Lilliput alla luce di una candela provoca un incendio nel palazzo (il gigante Gulliver lo spegnerà con una copiosa pisciata).
Per contrappasso, le cineguaritrici Nancy Peske e Beverly West seguono l'agenda delle ragazze sull'orlo di una crisi di nervi: come liberarsi di un uomo insopportabile, come consolarsi dopo essere state scaricate, come superare le crisi adolescenziali, come sopravvivere a una famiglia disastrata. Perlopiù, viene adottata la tecnica del «chiodo scaccia chiodo»: ti racconto problemi più gravi dei tuoi, vedrai che il buonumore torna.
«Quando il medico fa ridere il malato, è già un buon segno» scriveva Molière nel Malato immaginario. Jean-Joseph Julaud adotta la frase per la sua terapia poetica, utile per l'anima e per il corpo. Si va dalle punture di insetti ai morsi dei serpenti, dall'impotenza alla cellulite, dall'insonnia alle malattie veneree, dalle allergie al daltonismo, dalla malinconia alle crisi di fegato, dalla tristezza alla balbuzie. Poeti consigliati: molto Paul Verlaine, un po' di Stephane Mallarmé, Charles Baudelaire quanto basta. Solo di lingua francese, come se i principi attivi andassero perduti in traduzione.
«Libri e film per curare la propria mente» annuncia Ferdinando Galassi, che non proviene dalla letteratura o dal cinema ma dalla scienza psichiatrica. Per prima cosa mette in guardia dai libri e dai film che mettono in cattiva luce la professione. Poiché le serie tv son fuori dal suo orizzonte, dimentica la medaglia assegnata dall'Associazione psicoanalitica americana alla dottoressa Melfi, strizzacervelli di Tony Soprano, come «miglior terapeuta vista in una fiction». E il comportamento poco ortodosso del professionista ingaggiato da Dan Draper in Mad Men: ha in cura la moglie Betty, spiattella tutto al marito che paga il conto. E la seduttiva battuta di Michelle Pfeiffer, alias Catwoman, in Batman Returns: «Noi psicotici siamo da letto e da lettino».
Film e libri sono schedati da Galassi e dalla sua équipe di collaboratori in stile «bugiardino», il foglietto dentro la scatola delle medicine: indicazioni, proprietà, posologia, effetti collaterali perfino. Nei casi urgenti, basta scorrere la lista di disturbi e le relative cure. Scopriamo che le fobie si combattono sia con La coscienza di Zeno di Italo Svevo, sia con Il giorno in più di Fabio Volo, sia con Paulo Coelho, Veronika decide di morire.
Tra i film, ai fobici viene raccomandato Il discorso del re di Tom Hooper (più adatto ai balbuzienti). Lasciano perplessi i consigli anti-depressione: Umberto D. di Vittorio De Sica, Europa 51 di Roberto Rossellini, Repulsion di Roman Polanski: film che non hanno mai migliorato l'umore di nessuno (fanno eccezione i cinefili cronici o incurabili).
Siamo circondati. Urgono controveleni, rimedi casalinghi, strategie dispettose e guastatrici contro la medicalizzazione della lettura o del cinema (e siamo sicuri che prima o poi l'orribile sorte toccherà anche alle serie tv). I libri e il cinema già non fanno ingrassare, non alzano il colesterolo, non rovinano il fegato, non procurano allergie, non mandano in overdose. Lasciateci almeno l'idea che siano un piacere sfrenato, colpevole, anche un po' perverso.
Corriere La Lettura 3.6.12
I gramsciani di Allah
Puntano all'egemonia culturale agitando il Corano
di Giuseppe Sarcina
Forse i gruppi dirigenti dei Fratelli musulmani in Egitto, di Ennahda in Tunisia o di Giustizia e Sviluppo in Marocco non ne sono ancora pienamente consapevoli. Ma sono tutti un po' gramsciani. Certo predicano i valori dell'Islam e non quelli del comunismo. È vero, non concepiscono la storia come un processo «dialettico» scandito dalla lotta di classe, ma piuttosto come una linea retta segnata da un «prima» e da un «dopo» rispetto alla rivelazione del Profeta. Eppure una robusta corrente di studiosi del mondo arabo sta cercando strumenti di analisi e di interpretazione proprio nell'armamentario del pensiero gramsciano, che sembrava relegato da decenni nel deposito dei classici intoccabili, amati dagli studiosi ma ignorati dai politici perché considerati (a torto o a ragione) inattuali.
Nella settimana dal 19 al 23 maggio scorso, filosofi e docenti provenienti da università americane, francesi, italiane, turche e del mondo arabo in generale, si sono ritrovati a Istanbul per la quinta edizione dei «Seminars», organizzata da Reset Doc (Dialogues on civilizations) con l'Università Bilgi. Gli organizzatori, Giancarlo Bosetti e Nina zu Fürstenberg, hanno dettato il tema: «Le promesse della democrazia in tempi difficili». Il confronto ha preso le mosse da Sidi Bouzid, lo sconosciuto villaggio tunisino dove il 17 dicembre 2010 si dava fuoco il venditore ambulante Mohamed Buoazizi, accendendo la rivolta araba. Ma a un certo punto la discussione si è ritrovata nel carcere di Turi, a 30 chilometri da Bari, dove, dal 1928 al 1933, Antonio Gramsci riversava il meglio di se stesso su quaderni da scolaro, contrassegnati dal timbro dell'istituto penitenziario.
Il politico e filosofo comunista pensava in piedi e poi scriveva anche in ginocchio, come raccontava ormai 32 anni fa Laurana Lajolo nella biografia Gramsci, un uomo sconfitto (Rizzoli, 1980). Incrociava lo studio di Benedetto Croce e Niccolò Machiavelli con la dottrina di Karl Marx e Friedrich Engels, specie nella versione leninista. Cercava una via rivoluzionaria adatta per l'Italia, un superamento dell'approccio liberale crociano e, nello stesso tempo, un'alternativa «popolare» al verticismo bolscevico.
Il potere, scriveva Gramsci, va costruito dal basso; il consenso va conquistato con un'azione capillare e pervasiva nella società, diffondendo il verbo comunista tra le masse operaie e tra quelle contadine. Tesi finale: la vera rivoluzione comunista non può impadronirsi dello Stato passando attraverso i meccanismi delle elezioni «borghesi», falsate, per definizione, dagli squilibri sociali sottostanti. Ma, nello stesso tempo, visti i rapporti di forza in Italia, va scartata anche l'opzione leninista, che prevede un colpo violento organizzato da una ristretta avanguardia. Piuttosto «l'intellettuale collettivo», cioè il partito comunista, sarebbe dovuto arrivare sulla vetta del comando come sospinto dall'alta marea popolare e dopo aver consolidato la sua «egemonia» culturale nella società civile. È il primato politico della «coscienza» sul «vuoto formalismo liberale» da una parte e sulla «violenza liberatrice» dall'altra (dal sindacalismo rivoluzionario di George Sorel a Vladimir Lenin).
Certo, visto così, sembra pura archeologia politica. Invece la riscoperta di Gramsci, applicata ai nuovi movimenti di ispirazione islamica, produce risultati sorprendenti. Micheline Ishay, docente a Denver e ora anche ad Abu Dhabi, ha studiato a lungo la strategia politica di Ennahda (la Rinascita), il partito che ha vinto le elezioni nell'ottobre scorso in Tunisia e ora guida il governo. La marcia di avvicinamento al potere è avvenuta senza strappi violenti. Anzi, nei giorni della rivolta e poi nei sit-in dei giovani davanti alla Casbah (sede del primo ministro), i militanti musulmani quasi non si vedevano. L'organizzazione di Ennahda, invece, ha lavorato in modo sotterraneo e capillare nella società, nelle grandi città come nei villaggi. Ha costruito giorno dopo giorno l'«egemonia culturale gramsciana» richiamando il comune valore dell'Islam, con le prediche degli imam nelle moschee, con il dialogo fitto nei raduni o su Facebook.
Da questo punto di vista viene in soccorso anche la cronaca più minuta, che però aiuta a capire di che cosa stiamo parlando. Un esempio: nel corso della campagna elettorale per l'Assemblea Costituente nell'ottobre 2011 i dirigenti di Ennahda coglievano ogni occasione per riportare i riti e le tradizioni della cultura islamica al centro della vita quotidiana dei tunisini, «de-spiritualizzata» prima dal padre fondatore del Paese Habib Bourguiba e poi dal dittatore Zine El Abidine Ben Ali. In quei giorni di ottobre cadeva la vigilia della «Festa del sacrificio», (Eid el-Adha) una delle più importanti ricorrenze per i fedeli musulmani. Nei comizi il leader di Ennahda Rashid Ghannushi promise che nella «nuova Tunisia» ogni famiglia avrebbe avuto il suo montone da sacrificare per celebrare degnamente l'Eid el-Adha e per marcare «islamicamente» il territorio. Peccato che il finale non sia stato all'altezza: due giorni dopo la vittoria elettorale una folla agitata si presentò davanti alla sede del partito di Ghannushi reclamando i montoni promessi, pensando che davvero fossero stati ammassati negli uffici con la moquette e le poltrone di pelle.
Qualcosa del genere, secondo Massimo Campanini, professore di Storia dei Paesi islamici all'Università di Trento, è successo (e continua a succedere) in Egitto. I Fratelli musulmani non sono stati i protagonisti di piazza Tahrir, eppure il loro partito Libertà e Giustizia ha stravinto alle consultazioni legislative e ora, da una posizione «egemonica» nella società», corre per la presidenza contro il candidato di fatto sostenuto dalla giunta militare. Il nuovo modello politico musulmano, L'alternativa islamica per richiamare il libro appena uscito dello stesso Campanini (Bruno Mondadori), nel quale Gramsci è citato addirittura sette volte, si smarca dalle formule occidentali.
Il punto è allora capire se esiste comunque una piattaforma di valori condivisi su cui costruire quel «ponte sul Bosforo» cui lavora, tra gli altri, il gruppo di Reset. A Istanbul, intanto, gli studiosi si sono anche divisi. Asma Barlas, specialista di ermeneutica del Corano, oltre a sostenere la compatibilità tra Islam e femminismo, pensa che la democrazia occidentale sia in piena crisi di legittimità e quindi ci sia spazio per formule costruite su altre prospettive culturali (di nuovo Gramsci). D'accordo, la democrazia rappresentativa sarà pure in crisi di legittimità, con tutte le storture e le manipolazioni della sfera pubblica messe in luce dalla corrente di pensiero che fa capo a Jürgen Habermas (Teoria dell'agire comunicativo 1981). Va bene, il deficit di equità appare una costante dei Paesi occidentali, come svelato ormai quarant'anni fa da John Rawls (Una teoria della giustizia, 1971). Ma quali sono le garanzie e, soprattutto, le credenziali dell'islamismo politico?
Zaid Eyadat, professore di Scienze politiche all'Università di Giordania, ha studiato a lungo il rapporto tra Islam, diritti umani e soluzioni politiche. La sua risposta è netta: «L'Islam è pluralistico per sua natura» e dunque l'Occidente non deve spaventarsi davanti all'avanzata dei partiti (moderati) di ispirazione musulmana. Nessuna forza politica, dice Eyadat, ha intenzione di costruire uno «Stato islamico», che peraltro è solo «un mito», senza realizzazioni storiche concrete. Ma, francamente, l'analisi non convince: e l'Afghanistan dei Talebani? L'Iran di Khomeini? L'Arabia Saudita?
Con un altro approccio Nilüfer Göle, docente di Sociologia a Parigi, liquida l'eurocentrismo e invita a studiare i meccanismi istituzionali e il rapporto tra opinione pubblica e politica del suo Paese, la Turchia. Lo Stato costruito da Ataturk e dai kemalisti nel segno della separazione tra Stato e religione (il laicismo è la quinta delle sei «frecce» del kemalismo) oggi vive una stagione controversa sotto la guida del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) di Recep Tayyip Erdogan. L'Akp, partito «di ispirazione islamica» propone il suo moderatismo politico e il suo pragmatismo economico come un esempio per il mondo arabo postrivoluzionario. Secondo Nilüfer Göle la Turchia dimostra come la contrapposizione tra secolarismo e ispirazione politico-religiosa si possa superare nei fatti. Poi, però, di nuovo, gli avvenimenti degli ultimi mesi invitano alla prudenza. In Tunisia, Egitto, Marocco e anche in Turchia, gli «islamici di governo» non sempre hanno dato prova di apertura e tolleranza verso le minoranze politiche e religiose.
Giuliano Amato, intervenuto come presidente del comitato scientifico di «Istanbul Seminars», ha avuto, quindi, buon gioco a richiamare il pericolo, attuale anche in Turchia, di uno smottamento verso forme di «dittatura della maggioranza». Mostrando di preferire i vecchi principi della democrazia fissati da Alexis de Tocqueville all'«egemonia culturale» di Gramsci. Fosse anche nella versione ayatollah.
Corriere La Lettura 3.6.12
Con Machiavelli Croce e Vico ora il mondo riscopre il pensiero italiano
di Corrado Ocone
Sin dalle prime pagine di Orientalismo, l'opera di Edward Said (1935-2003) che ha rivoluzionato gli studi sul colonialismo, il nome che più ricorre è quello di Antonio Gramsci. In particolare, lo scrittore di origine palestinese mostra come, per capire il rapporto instaurato in età moderna fra Occidente e Oriente, più della categoria di dominio sia utile quella gramsciana di egemonia. Più che sulla forza delle armi, l'Occidente ha fondato il suo potere sulla cultura: ha avvalorato un'immagine di sé e del mondo che ha fatto breccia negli stessi popoli colonizzati, i quali hanno cominciato a vedersi e interpretarsi secondo i valori dei conquistatori. Said si è mosso, in verità, lungo un solco che era stato già tracciato, sin dai primi anni Sessanta del secolo scorso, da Stuart Hall, il fondatore e direttore della «New Left Review», iniziatore di quell'importante filone dei Cultural Studies che va sotto il nome di «Sub Alternative Studies» o «studi post-coloniali». L'analisi delle tradizioni popolari del Sud Italia compiuta da Gramsci può servire da canovaccio teorico, secondo questi autori, per studiare persino le culture dell'Africa subsahariana.
Che Gramsci sia un «pensatore globale», che si sia conquistato un posto di primo piano fra i classici del pensiero, è ormai assodato. E non è solamente una questione politica, di destra o sinistra: lo studio del taylorismo e del fordismo, il concetto di «americanismo», la fine analisi dei rapporti fra potere e cultura, sono considerati oggi strumenti di analisi imprescindibili per chiunque si occupi di filosofia e scienze sociali. D'altronde, era stato Eric Hobsbawm ad introdurre nel mondo anglosassone, sin dagli anni Cinquanta, l'opera del pensatore sardo, da lui considerato il massimo interprete del marxismo occidentale. Sarebbe tuttavia un errore credere che Gramsci sia l'unico pensatore italiano che goda stima e considerazione in campo internazionale. Il discorso è oggi più generale e al nome dell'autore dei Quaderni vanno affiancati quanto meno quelli di Benedetto Croce, Niccolò Machiavelli e Giambattista Vico. È lungo una direttrice che accomuna questi quattro grandi autori che si può infatti tracciare un percorso di rinascita d'interesse nel mondo intero per il nostro pensiero. Conclusasi la vicenda della filosofia della conoscenza, che ha impegnato il pensiero moderno da Cartesio fino a Kant; esauritasi la filosofia del linguaggio, che (fra filosofia analitica ed ermeneutica) è stata la cifra predominante del Novecento, oggi si fa strada l'esigenza di un pensiero più «impuro», meno astratto e più legato alle forze della vita che ci determinano e attraversano: la storia (Vico e Croce) e la politica (Machiavelli e Gramsci). Da questo punto di vista, come dice Roberto Esposito, fiero paladino dell'Italian Theory, la «differenza italiana» consiste nel fatto che «la nostra riflessione si presenta rovesciata, e come estroflessa, nel mondo del reale». La rinascita di interesse per Croce è un ritorno, in qualche modo, ai primi decenni del Novecento, quando il pensatore napoletano era un protagonista del dibattito mondiale e dialogava con i massimi esponenti della filosofia a lui coeva (da Bergson a Ortega, per intenderci). Uno dei più attivi diffusori del suo pensiero (e traduttore delle sue opere) era allora il filosofo di Oxford Robin George Collingwood, autore a sua volta di un «sistema filosofico neoidealistico». La figura di Collingwood, lui morto, era passata in secondo piano, sopraffatta dal successo di altri oxoniensi: gli analitici alla Austin. Esauritasi quella esperienza, oggi Collingwood gode di nuova e straordinaria attenzione nel mondo anglosassone: un interesse che non può non portarsi dietro quello per il suo Maestro italiano. È soprattutto la sua «logica della domanda e risposta», improntata su quella crociana, che viene oggi considerata una valida alternativa al pensiero astratto dei neopositivisti (già Gadamer, d'altronde, richiamandosi esplicitamente a Croce e Collingwood, l'aveva posta a base della sua ermeneutica ontologica). Di fortuna mai dismessa gode anche l'Estetica di Croce, mentre cresce molto negli ultimi tempi l'attenzione per la sua particolare teoria liberale. Fra l'altro, un'opera come la Storia del liberalismo europeo (1924) di Guido De Ruggiero, allievo di Croce e da lui ispirata, tradotta in inglese da Collingwood nel 1925 per la Cambridge University Press, pur essendo quasi dimenticata in Italia, figura ancora nelle principali bibliografie sul tema nel mondo anglosassone. Una logica di tipo storicistico è anche quella di Quentin Skinner, che parla di contestualismo: il suo autore di riferimento è però Niccolò Machiavelli, il cui pensiero è al centro di importanti interessi storici e teorici. Non solo per la sua teorizzazione dell'«autonomia del politico», ma anche perché è alla base di quella rielaborazione del pensiero repubblicano che costituisce una sorta di paradigma egemonico nella filosofia politica contemporanea (oltre a quello di Skinner, vanno fatti i nomi di almeno altri due illustri studiosi: Pocock e Pettit). Quanto infine agli studi vichiani, il massimo centro propulsore è l'Institute for Vico Studies di Atlanta, fondato da Giorgio Tagliacozzo. Mentre da un punto di vista teorico, è stato sicuramente Isaiah Berlin colui che con grande maestria ha costruito una concezione liberale che nella pluralità e relatività delle culture di vichiana memoria trova il suo baricentro ideale. Berlin ha anche insistito sulla modernità dell'idea vichiana che verum et factum convertuntur: solo perché la storia umana è opera degli uomini, altri uomini possono, con la ragione e con il cuore, «penetrarla» e comprenderla. Ed è questa la verità cui possiamo concretamente aspirare. Quanta distanza dalle idee di verità e realtà che emergono nella disputa fra Neo Realisti e Postmodernisti!
La Stampa 3.6.12
Quell’oscuro Gramsci del desiderio
di Angelo D’Orsi
La tempesta gramsciana non accenna a placarsi. Come per tutti i classici, si ritiene generalmente che non occorra essere specialisti per scriverne, e dunque si moltiplicano gli interventi nei quali non è facile districare il grano dal loglio. Quello che è certo è che Gramsci è sempre più un oscuro oggetto del desiderio: tutti vogliono dire la loro, perlopiù in polemica con chi li ha preceduti.
Luciano Canfora, principe dei classicisti, maestro della filologia storica, torna su Gramsci con un intrigante (ma non del tutto persuasivo) libro di assaggi e documenti ( Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno Editrice, pp. 304, € 14). Si tratta di un insieme di contributi dedicati a Gramsci in carcere, o a figure che in vario modo ne hanno intersecato la traiettoria politica (in particolare Ruggero Grieco e Ezio Taddei, aspramente liquidati da Canfora come nemici di Gramsci, all’interno e all’esterno del Pcd’I): saggi accomunati dall’intento di far luce dietro l’apologetica di partito, ma anche di difendere la verità storica contro le denigrazioni antigramsciane.
Questo sembra essere il filo rosso del volume, nel quale Gramsci, anche quando non protagonista, è il centro, ora come pensatore (sul tema della libertà o sul fascismo), ora come dirigente politico, che nella detenzione passa, necessariamente, alla dimensione della riflessione teorico-storica, senza mai abdicare alla «partigianeria» nel senso più nobile: un rivoluzionario sconfitto nell’immediato, il cui lascito ogni giorno di più appare vivificante.
Canfora sottolinea però la trasformazione intellettuale oltre che psicologica che il prigioniero subisce e di cui i Quaderni e le Lettere sono testimonianza. Davanti alla vittoria fascista, convinto di una sua stabilizzazione per un tempo lunghissimo, Gramsci – evidenzia Canfora sottolineando sempre la contiguità con Togliatti – approda alla parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, in grado di dare, quanto meno, all’Italia un assetto di autentica «Repubblica democratica». Che sarà, chiosa l’autore, la soluzione del dopoguerra, e che «appare ormai esaurita».
La Stampa 3.6.12
Il vero eroe lo è suo malgrado
Ama la pace, non la guerra; la vita, non la morte Anche se sa affrontare un destino tragico e ingiusto
di Claudio Magris
Alcuni decenni fa, durante il servizio militare, ho passato alcuni mesi imboscato – assai poco eroicamente – in una sezione dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore, a Roma. C’era un capitano che aveva l’abitudine, a metà mattina, di offrire un caffè a noi tre o quattro soldati semplici, addetti a ricopiare a macchina e a catalogare vecchi documenti o a spostare armadi e scaffali. Uno di noi era un garzone falegname di Bastìa di Rovolòn, in provincia di Padova, un ragazzo alto e sbilenco, dai grandi occhi azzurri sempre sgranati con stupore sul mondo. Il capitano, quando ci offriva il caffè, ci raccontava spesso qualche episodio o aneddoto in cui rifulgeva la gloria militare. Un giorno ci raccontò la storia del «salto del granatiere»: il colonnello comandante di un reggimento di granatieri, attaccato da preponderanti forze nemiche e costretto a ritirarsi, sino a trovarsi con i suoi pochi uomini rimasti sull’orlo di un profondissimo precipizio – più di mille metri, diceva il capitano – all’invito ad arrendersi rispose afferrando la bandiera e gettandosi nell’abisso. Qui, per il capitano, la storia finiva, con un sufficiente materiale di gloria e di morte, senonché il ragazzo di Bastìa di Rovolòn, sgranando preoccupato ancora di più gli occhi, chiese: «Xelo morto, magari? », facendo infuriare il capitano, il quale ripeteva arrabbiato che certo era morto, sfracellato dopo mille metri di caduta; era arrabbiato soprattutto all’idea che un dubbio sulla morte potesse sgonfiare tutto il pathos della storia, facendo sfumare quell’eroismo che aveva bisogno della morte. [... ]
Certamente uno dei caratteri salienti dell’eroe è la capacità di affrontare la morte; la capacità, non il morboso ed esaltato piacere. Gli eroi, certo, spesso muoiono e diventano eroi soprattutto per questa definitiva sconfitta e per il coraggio con cui la vivono. Un coraggio che, a differenza di ogni fallace e sospetto entusiasmo, di ogni «Viva la muerte», conosce la paura ed è coraggio autentico proprio perché la conosce. Ettore, il prototipo dell’eroe per eccellenza, scappa correndo per tre volte intorno alle mura di Troia prima di affrontare Achille ed è lui l’eroe più grande, più del furente Pelìde. Analogamente, nel Mahabharata, Carna, il purissimo eroe dai natali indiscutibili che muore, come Ettore, per una causa invisa all’autore del poema – il quale parteggia per i suoi nemici Panduidi come Omero parteggia per i Greci – è più grande del Panduide Arjuna, l’Achille dell’epopea sanscrita.
Di eroi c’è bisogno, ma averne bisogno è una sventura, come dice una famosa battuta di Brecht, perché è una sventura dover combattere, uccidere, morire, sacrificarsi, rinunciare all’amabile vita di ogni giorno, a vagabondare, giocare, fare all’amore, stare con gli amici, guardare il mare, bersi – come esorta un detto chassidico – qualche buon bicchierino. E tuttavia può capitare di dover vendere il mantello per comprare una spada, come dice il Vangelo, rinunciare alla felicità per opporsi a qualche Leviatano che si appresta a trasformare il mondo in una Auschwitz e impedirglielo anche a costo di sacrificare la vita. È questo che fa, che sa fare l’eroe, quello famoso e quello sconosciuto, i sette fratelli Cervi come i militi ignoti. Ma il vero eroe lo fa controvoglia; non ama maneggiare la spada, anche quando sa farlo e quando ritiene di doverlo fare per difendere qualcuno o qualcosa. Preferirebbe andare a una festa piuttosto che a una guerra ed è questo sentire che rende autenticamente eroico – senza retorica, senza ebbrezze autosacrificali – il suo agire e, quando capita, il suo morire.
Dietrich Bonhoeffer, giovane pastore protestante, salì al patibolo per la sua opposizione al nazismo: non desiderava il martirio, diceva che il suo desiderio non era vedere Dio bensì piuttosto la sua fidanzata, ma non gli venne in mente di tirarsi indietro da una lotta necessaria, che dava senso alla sua vita e anche al suo amore per Dio e per la sua fidanzata. Neppure Tommaso Moro aveva voglia di essere un martire; gli dispiaceva rinunciare ai manicaretti che gli preparava la figlia, ma è stato proprio questo amore per la vita a renderlo capace di sfidare la morte, perché anche per gustare i buoni manicaretti e le gioie più alte occorre essere fedeli a quegli imperativi che rendono la vita degna di essere vissuta e goduta.
Poche vicende fanno capire per esempio cosa sia l’eroismo come la tranquilla calma con cui Franz Jägerstätter – il contadino austriaco che viene giustiziato per il suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito nazista e cooperare alla sua infame conquista del mondo – spiega a chi vuol convincerlo a mollare (parenti, autorità, il vescovo di Linz) che combattere per il nazismo è incompatibile con la sua fede cattolica. Anche Franz Jägerstätter non ha alcuna tentazione di martirio: è un uomo che ha vissuto gagliardamente, molto apprezzato dalle donne; che ha saputo menar le mani quando le squadracce fascistoidi venivano nell’osteria che amava frequentare spesso; che gode di un non disprezzabile benessere economico e soprattutto è felice di vivere con la moglie, molto amata, l’unica che comprende la sua scelta e gli resta vicino, mentre il villaggio lo odia proprio perché il suo tranquillo coraggio mette a nudo il misero livello umano dei suoi compaesani.
Eroi sono il tenente degli alpini Silvio Geuna e il generale Giuseppe Perotti, condannati dal tribunale speciale fascista a Torino nell’aprile 1944, il primo all’ergastolo e il secondo a morte, per la loro opposizione al regime. Il tenente, affermando di aver agito di sua spontanea volontà e non per istigazione del generale Perotti, chiede, visto che lui è scapolo e il generale ha tre figli, di infliggere a lui la pena di morte e l’ergastolo al generale, il quale replica bruscamente che l’altro ha invece agito obbedendo ai suoi ordini. Allo stesso processo, l’avvocato Cornelio Brosio, per il quale viene chiesta la pena capitale, legge con pignoleria la domanda di grazia che la moglie gli chiede di firmare e alla fine, dopo attenta riflessione, restituisce con calma il foglio, dicendo «non posso». Non è vero, come ha scritto Borges, che il nostro tempo abbia perduto il senso dell’eroico, anche se non lo esprime con lo stile delle saghe a lui care.
Questi sono gli eroi. Non necessariamente figli di dèi, come quelli del mito greco, sui quali di recente Giulio Guidorizzi, nella sua introduzione al secondo Meridiano dedicato al Mito greco, ha scritto pagine bellissime cui c’è ben poco da aggiungere. Non sono nemmeno olimpicamente superiori all’umano, come voleva Julius Evola contrapponendoli alla straziata lacerazione dei titani, a Prometeo cui l’aquila divora il fegato. Il vero eroe – comunque quello a noi oggi più vicino – è chi non vorrebbe esserlo ed è costretto a comportarsi come tale suo malgrado; in questo senso è anche e soprattutto un antieroe, non per intento di demistificazione ideologica, ma per la comica, umanissima goffaggine e debolezza con cui affronta un destino anche tragico e spesso enfaticamente stupido ma non perciò meno tragico, perché intriso di violenza, ingiustizia, crudeltà e sofferenze spesso inflitte a innocenti.
Corriere 3.6.12
L'immaginazione al potere nell'universo dei numeri
Perché la matematica attira letterati e cercatori di Dio
di Giorgio Pressburger
Il pensiero pratico sta costruendo un uomo di sola prassi: niente astrazione, niente sogni, niente immaginazione, niente intuizioni. Anche la scienza meno utilitarista, la matematica, viene indirizzata, da decenni, centinaia di anni, verso attività mentali traducibili in atti, come l'economia. Si imparenta con essa fin dai tempi almeno del matematico e mercante fiorentino Fibonacci, cioè dal Trecento, ma forse anche da prima. Nel Novecento geniali matematici come von Neumann («l'uomo più intelligente che in quel momento vivesse sulla Terra», per Wigner) o Nash o Gödel hanno elaborato sistemi di pensiero e teorie per studiare l'economia, le strategie, i giochi, le guerre, i massacri. Ma d'altra parte, la matematica, i matematici s'interessano con altrettanto fervore di filosofia, teologia, logica, letteratura, cioè del pensiero astratto. L'uomo ha bisogno di andare fino in fondo nelle indagini sul senso della sua presenza nell'universo, o meglio, del «multiverso», dato che oggi si ipotizza l'esistenza di infiniti universi.
Quindi, da un lato l'avidità senza fondo: senza limite, la distruzione (le teorie dei giochi possono portare anche a questo); uno dei possibili modelli per «Il dottor Stranamore», il celeberrimo film di Kubrick, era proprio von Neumann, insieme al suo connazionale ungherese Teller. Dall'altro lato la più alta, più astratta speculazione, fino a porsi il problema di Dio e della sua esistenza.
Il grande matematico ceco, Kurt Gödel, si è occupato di tutto lo scibile, dall'informatica alla religione, alla biologia, la pittura, la letteratura. Ha fornito forse qualche utilità immediatamente pratica alla sua epoca? Forse sì, ma poche. La sua ossessiva applicazione a risolvere il problema della metafisica lo ha portato a vere e proprie idee fisse, manie di persecuzione e altre forme autolesive. È morto in una casa di cura, vittima di una forma di anoressia, di rifiuto del cibo. Le sue opere scientifiche, matematiche, e quelle semplicemente speculative (non di speculazione economica, ma proprio l'opposto!) sono un contributo insostituibile allo studio della mente dell'uomo. Allo stesso modo, nella storia del nostro Paese, non si può fare a meno delle scoperte matematiche di Fibonacci, di Galilei o di Peano. Il concetto dello zero che Fibonacci ha importato in Europa, anzi nella civiltà occidentale, dai Paesi arabi e dall'India, pare un puro esercizio mentale e niente altro. Non lo è, ma anche se fosse così, che male ci sarebbe?
Le speculazioni di Platone sull'anima, quelle di Leibnitz sulle monadi, entità chiuse in sé stesse, come l'uomo, quelle di Husserl sulla fenomenologia non sono forse servite a nulla, sono da buttare alle ortiche, di fronte al concetto di spread o di Pil, del quale oggi abbiamo piena la testa? Oppure le maniacali ricerche del matematico Georg Ferdinand Cantor (1845-1918) circa la paternità dei testi teatrali di Shakespeare sono puri atti di follia? Cantor, in base a sue supposizioni, ha cercato per quarant'anni la dimostrazione del fatto che le opere, tutte le opere di Shakespeare, fossero creazione del filosofo e statista del Seicento, Francis Bacon. Una sua ricerca interessantissima è stata ristampata quest'anno nella tipografia di un orfanotrofio tedesco impegnato a ripubblicare edizioni ormai introvabili. Cantor era un matematico geniale. Ha inventato la teoria degli insiemi, che ha rivoluzionato il concetto di matematica. Ha inventato i numeri transfiniti, cioè l'insieme dei quali è più grande dell'insieme (infinito) di tutti i numeri. In un piccolo saggio pubblicato da lui stesso (Trentadue poesie funebri su Francis Bacon) egli si schiera con coloro che attribuiscono a Bacon le opere shakespeariane. Lo fa in base al ritrovamento casuale dell'edizione cinquecentesca di questo libro commemorativo. Anche Cantor ha finito in modo infelice la vita: soffriva di depressione e questo l'ha portato a più riprese in varie case di cura, in una delle quali poi è morto. Anche lui come Gödel si occupava di questioni religiose e di parapsicologia. Questi uomini avevano preso su di sé la responsabilità del destino del genere umano.
Veniamo all'Italia. Odifreddi, matematico contemporaneo, non si accontenta della sua professione. È uscita di recente la ristampa tascabile di un suo libro scritto in forma di lettera a papa Ratzinger, Caro Papa ti scrivo, (Mondadori). Odifreddi però, è un puro ateo pur essendo stato seminarista diligente e impegnato nello studio che lo avrebbe dovuto portare al sacerdozio cattolico. Poi ha lasciato il seminario, e oggi è un convinto ateo. Ora è in uscita sempre da Mondadori il suo Diamo spazio al tempo. Anche qui, i massimi sistemi dell'universo vengono spiegati a noi, a tutti, in modo efficace e diretto. Tutte queste opere non sono puri saggi, lavori divulgativi e basta: sono in qualche modo libri di narrativa, c'è da seguirne le vicende e i personaggi, anche quando questi non sono altri che Dio stesso. Qualcosa di simile accade con i saggi di Freud che possono essere considerati racconti, ritratti tra i più appassionanti della borghesia europea d'inizio Novecento.
La narrativa oggi, da molte case editrici, viene considerata come intrattenimento, spettacolo o spettacolino, o truculento gran guignol. C'è qualche volta l'ombra della matematica (La solitudine dei numeri primi di Giordano) ma è un'ombra pallida. In realtà sono esistiti matematici che hanno creato opere di d'intrattenimento, ma ad altissimo livello, come Lewis Carroll, autore di Alice nel Paese delle meraviglie. Carroll era professore di matematica a Oxford, ma ha scritto Alice per bambini e per adulti insieme. Conosco un drammaturgo — per discrezione non ne faccio il nome — che per costruire i suoi dialoghi segue schemi matematici atti a stabilire la frequenza di interventi dei vari personaggi, il numero delle parole di ciascuna battuta, persino il numero di sillabe dei vari tipi di intervento. E Musil, laureato in matematica e ingegneria, poneva al centro di un suo celebre romanzo (I tormenti del giovane Törless) la questione dei numeri immaginari, di come possano turbare la psiche di un allievo ufficiale.
Ma, anche oggi, nonostante lo strapotere dell'economia, la cultura occidentale, per fortuna, non si limita alla sola prassi quotidiana; arriva spesso ad altezze impensabili, svincolandosi da questioni di pura utilità. Parecchi giovani intraprendono quel tipo di studi che non assicura loro alcun futuro lavoro, almeno all'apparenza, ma grande appagamento della mente. In realtà molti laureati di filosofia oggi vengono chiamati a dirigere aziende e industrie; perché è necessaria la forza dell'elaborazione: in poche parole, del pensiero astratto.
Corriere 3.6.12
L'uomo che credeva di essere morto E altre stranezze della coscienza
Le ricerche dello scienziato considerato il vero erede di Oliver Sacks
di Alice Vigna
Tutti conoscono Oliver Sacks e i suoi racconti su pazienti «speciali», con insolite malattie neurologiche, attraverso cui è stato possibile capire qualcosa di più del nostro cervello. Pochissimi invece sanno chi è Vilayanur Subramanian Ramachandran, forse perché il nome è quasi impronunciabile. Eppure questo neuroscienziato di origine indiana, direttore del Center for Brain and Cognition dell'Università di San Diego in California, è considerato uno dei pionieri delle neuroscienze del ventunesimo secolo o, per dirla con l'etologo evoluzionista Richard Dawkins, «il Marco Polo dei giorni nostri, che viaggia sulla Via della Seta della scienza verso uno strano ed esotico Catai della mente». Ramachandran è sempre stato curioso e brillante: come molti bambini raccoglieva fossili e conchiglie, poi però lui li mandava al Museo di storia naturale di New York e più di una sua «scoperta» è stata accolta nelle sale del museo (tuttora amante della paleontologia, nel 2009 un dinosauro è stato chiamato Minotaurasaurus ramachandrani in suo onore). A quattordici anni ricevette il suo primo microscopio: affascinato dalla chimica prima e dalla biologia poi, aveva già allora la mente piena di mille domande ed era fermamente intenzionato ad andare a fondo di ciò che lo interessava oltre che consapevole di non dover mai dare l'ovvio per scontato. Tanto che a vent'anni, mentre frequentava il secondo anno di medicina, una sua teoria sul modo in cui i segnali provenienti dagli occhi vengono interpretati dal cervello è stata pubblicata su Nature, una delle più prestigiose riviste scientifiche. Insomma uno scienziato decisamente acuto, che ammette di non ricordare mai dove parcheggia la macchina ma ha sfornato ipotesi e teorie fra le più interessanti degli ultimi vent'anni scrivendole in libri che si leggono con piacere perché, come molte menti geniali, Ramachandran non sale in cattedra ed è sempre ironico e divertente.
Come nel suo ultimo libro «L'uomo che credeva di essere morto», un viaggio alla ricerca di ciò che ci rende umani che, alla fine, lascia la sensazione di avere quasi sfiorato la risposta a quella che il neurologo ritiene la domanda più difficile di tutte: in che modo il cervello umano dà origine alla coscienza, che cosa è davvero l'«io»? Un interrogativo «teologico», anche se Ramachandran si tiene ben lontano da concetti come anima o Dio perché, scrive, «come esseri umani dobbiamo accettare il fatto che per quanto possiamo approfondire la nostra conoscenza del cervello e dell'universo che da esso emana, il problema delle origini ultime ci accompagnerà per sempre». Possiamo però chiederci come percepiamo il mondo, come si è evoluto il linguaggio («la più gloriosa di tutte le nostre facoltà intellettive») e che ruolo ha avuto nella trasmissione della cultura, come si forma e si manifesta il pensiero, che cos'è l'arte e come e perché ne godiamo, dove e come nasce la nostra capacità di introspezione e autocoscienza: Ramachandran affronta questi e molti altri temi complessi, poggiando sulle solide fondamenta di prove scientifiche ma anche lasciandosi guidare dall'intuizione verso ipotesi plausibili quando dati empirici non ce ne sono ancora. «Non è cosa di cui vergognarsi (…) In questi casi dobbiamo dar voce perfino alle più strampalate e azzardate supposizioni — scrive — e poi spremerci le meningi per trovare il modo di verificarle». Il «modo» per Ramachandran è fare esperimenti semplici, ai limiti del banale: tecnofobo convinto (fatica tuttora a usare lo smartphone), i suoi test potrebbe farli chiunque. Criticato da alcuni per questo approccio anacronistico in un'era di grandi tecnologie, Ramachandran sorride ancora pensando di aver usato per i suoi primi esperimenti sugli arti fantasma bastoncini di ovatta, bicchieri di acqua calda e fredda e comuni specchi al posto di scanner cerebrali. «Ippocrate o qualsiasi altro medico vissuto tra l'antichità e oggi avrebbe potuto eseguire gli stessi esperimenti di base, eppure nessuno l'ha fatto — osserva con una punta di orgoglio intellettuale —. Non sono un luddista, voglio solo dire che la scienza dovrebbe essere guidata dagli interrogativi, non dalla metodologia». Le domande di Ramachandran nascono spesso dall'osservazione di casi clinici inconsueti: «Persone in cui difetti genetici o lesioni cerebrali localizzate hanno prodotto effetti bizzarri, mentali o comportamentali: da loro si può imparare come funziona un cervello sano e normale». Così il neuroscienziato ci racconta le storie di Francesca, Susan e Mirabelle che vedono i suoni e odono i colori, letteralmente, a causa della sinestesia che «mescola» sensazioni, percezioni ed emozioni; il caso di Steven, un bimbo autistico che ha suggerito a Ramachandran l'ipotesi che la malattia possa essere un deficit del sistema dei neuroni specchio, quelli che si «accendono» quando vediamo espressioni o gesti degli altri; o ancora pazienti con disturbi che diventano «finestre» su precisi aspetti del senso di sé proprio dell'uomo, come Nora che dopo un ictus negava l'evidente infermità o il giovane Ali, epilettico realmente convinto di essere morto.
Ramachandran spiega che cosa sappiamo delle basi neurologiche di queste patologie ma soprattutto le sfrutta per capire qualcosa di più della mente umana, di come ci costruiamo una visione del mondo esterno e di noi stessi, di come e dove nasce la nostra coscienza. Perché «La nostra mente, le ambizioni, l'amore, ciò che riteniamo essere il nostro io, tutto è frutto dell'attività di piccoli ammassi gelatinosi nella nostra testa».
l’Unità 3.6.12
L’archivio della memoria. Spoon River delle donne
Uccise dai clan, dai familiari per essersi ribellate alle mafie
Un libro dell’associazione Dasud racconta la vita terribile delle «Sdisonorate»: ammazzate da bambine, “suicidate” in età adulta. Una storia iniziata alla fine dell’800 e mai finita
di Claudia Fusani
EMANUELA, LA PRIMA, A PALERMO, 1896, PIÙ DI UN SECOLO FA. POI VINCENZINA, MARINA, LUCIANA, FORTUNATA, ANGELA CHE AVEVA SOLO UN ANNO, MARIA CONCETTA CACCIOLA, TITA BOCCAFUSCA E LEA GAROFOLO, donne-boss e donne di boss che dicono basta, si ribellano, denunciano e finiscono sciolte nell’acido. O suicidate.
C’è una Spoon River che parla solo al femminile. È in un non-luogo mai nato, una collina gentile dove 150 donne si chiamano per nome e ricordano, almeno tra di loro, chi sono state: uccise, sparate, suicidate per motivi di mafia da uomini dei clan. Parole e storie da ascoltare sfogliando un documento importante e prezioso che per la prima volta le raccoglie insieme (Sdisonorate) grazie al lavoro delle volontarie della onlus Associazione daSud.
Emanuela aveva solo 17 anni, Palermo, 1896, clan e famiglie sono già una realtà con cui fare i conti: «Mia mamma era la bettoliera del quartiere e aveva denunciato dei mafiosi perché fabbricavano banconote false. Il 27 dicembre mi sparano sotto casa. Mia madre Emanuela ha continuato a collaborare con la giustizia...». Angela Talluto aveva un anno quando gli uomini di Salvatore Giuliano le sparano: «Era il 7 settembre 1945, io non c’entravo nulla, i banditi di Salvatore Giuliano volevano uccidere il militante socialista Giovanni Spiga. Lo aspettano sotto la porta di casa a Montelepre. Lui viene ferito a una gamba Io invece muoio subito». A proposito di mafie e clan e di loro presunti codici d’onore che, secondo recente vulgata, non uccidono per ritorsione bambini e innocenti: Emanuela, appunto, poi Angela, fino a oggi con il piccolo Di Matteo, figlio di un pentito, sciolto nell’acido da Brusca. In mezzo tanti altri, troppi. A Portella della Ginestra, il primo maggio 1947, tra le vittime ci sono Margherita Clesceri, mamma di sei figli e incinta del settimo, Vincenza Spina, Eleonora Moschetto e Vincenzina La Fata che ha solo 8 anni.
È una collina affollata questa Spoon River di donne vittime della mafie. Si cammina in fretta inseguendo voci e memorie di poveri e amabili resti. Si sfogliano a fatica le pagine di un elenco che non è statistica ma dolore e ricordo, che vuol dire riportare al cuore. Rossella Casini è molti posti più in là, 22 febbraio 1981. Fiorentina, 21 anni, bionda, occhi azzurri e di antico casato, scompare in provincia di Palmi, in Calabria, vittima di una faida a cui lei con il suo innamorato calabrese avevano cercato di ribellarsi. «Vivevo a Firenze nel quartiere Santa Croce, avevo 21 anni e studiavo psicologia. Nel 1977 conosco Francesco Frisina, calabrese di Palmi, studente di Economia e Commercio. Un grande amore, ben visto anche dalle nostre famiglie. Ma nel 1978 a Palmi scoppia la faida tra i Gallico e i Carrello-Condello. Il 4 luglio 1979 ammazzano il padre di Francesco, a dicembre feriscono alla testa Francesco che però sopravvive. I miei genitori vorrebbero che chiudessi la storia. Ma io scendo a Palmi e convinco Francesco a parlare». Il giovane racconta, scattano arresti. Ma qualcosa, qualcuno, ferma Francesco.
Per i clan è il massimo dell’affronto, e del pericolo: «Una straniera, come me, che fa leva sull’amore per spingere il suo uomo a tradire. Un precedente pericolosissimo che non può passare». Rossella è a Palmi nel febbraio 1981, mancano pochi giorni all’avvio del processo. Anche lei, per disperazione, prova a ritrattare ma non le credono. La mattina del 22 febbraio telefona al padre per annunciare il suo rientro. Ma scompare. Tredici anni dopo un pentito Vincenzo Lo Vecchio racconterà che «la straniera» (Rossella, ndr) è stata uccisa e fatta a pezzi dai Frisina». Il suo corpo è da qualche parte nel tratto di mare della tonnara di Palmi.
Poco più in là si alza la voce di Palmina Martinelli, uccisa nel 1981. «Avevo 14 anni, sono cresciuta in una quartiere povero di Fasano, provincia di Brindisi, sesta di undici figli. Il fratellastro di Giovanni, ragazzo di cui ero innamorata, voleva farmi prostituire. Mi ribello, non ci sto. Mi danno fuoco. Nei 22 giorni di agonia riesco a raccontare tutto ai magistrati». Ma gli accusati furono tutti assolti per insufficienza di prove.
Mirella Sblocchi, Grazie Scimè, Antonella Oronza Maggio, Anna Forcignano, tante voci, altrettante storie. Agata Azzolina s’impicca il 22 marzo 1997: «Perdonami» lascia scritto alla figlia Chiara. Cinque mesi prima il racket le aveva ucciso il marito e il figlio che, titolari di una gioielleria, si erano rifiutati di consegnare «a credito» due anelli ai fratelli Infuso. Per cinque mesi Agata sarà inseguita a casa e in negozio. Intimidazioni continue, anche fisiche. Ma nessuno, neppure polizia e carabinieri a cui tutto viene puntualmente denunciato, riescono a fare qualcosa. In questa Spoon River colpisce l’assenza, spesso, di colpevoli. E l’incapacità di declinare la parola suicidio in costrizione. Per disperazione. Per solitudine.
Repubblica 3.6.12
Nato nel 1917 l’autore di "Indignatevi!" è diventato una delle bandiere dei movimenti Nella sua ultima autobiografia Hessel spiega come l’esperienza sia un valore fondamentale
Se la nostra memoria da elefanti è un tesoro per le nuove generazioni
Quando ho visto tanti giovani che mi ascoltavano ho provato gioia di vivere
di Stéphane Hessel
Stavo già per mettere il coperchio sulla grossa pentola dove si sono accumulate le esperienze spirituali e intellettuali di otto decenni appassionati e appassionanti, quando un inaspettato concorso di circostanze, stupefacente e imprevedibile, ha trasformato la mia vita di vecchio diplomatico a riposo in una baraonda senza respiro. Un breve testo dal titolo provocatorio (Indignatevi!, ndr), uscito dalla mia penna, è partito come un proiettile attraversando prima i paesi francofoni e poi scavalcando ogni confine, chiedendo ai suoi lettori, ormai innumerevoli, d´indignarsi. Non avevo valutato né il rischio che correvo né l´accoglienza talvolta entusiasta che l´appello avrebbe suscitato. Avevo scatenato un vero uragano! Occorreva cercare di capirne le ragioni e trarne, soprattutto, le conseguenze. Sì, quel testo era arrivato al momento giusto. Uscita da vent´anni di imperialismo del denaro, dal quale i governi non erano stati in grado di preservare i propri cittadini, la società mondiale offriva ai popoli che la compongono un quadro davvero deprimente e incongruo.
Richiamando i valori di libertà e giustizia su cui, all´uscita dal caos spaventoso degli anni Quaranta, la mia generazione aveva inteso costruire un mondo migliore, e sottolineando come quei valori erano stati traditi, quel mio appello a indignarsi arrivava al momento giusto. E io, per parte mia, non potevo fermarmi lì.
Quel successo comporta per me un dovere. Oltre alla sorpresa per aver toccato il tasto giusto mettendo su carta solo alcune semplici idee a mio avviso del tutto evidenti, ho provato naturalmente anche gioia. Una gioia di vivere che si rinnovava ogni volta che un pubblico di giovani ascoltatori mi poneva le sue domande allarmate, alle quali finivo immancabilmente per rispondere recitando delle poesie.
È un momento magico per me. Il vecchio tranquillo ambasciatore si trova di fronte ad aspettative che ha creato egli stesso. È il momento in cui la vecchiaia che mi appartiene mi offre l´occasione di un ultimo rilancio: una nuova finestra sul mondo e sui miei contemporanei. Ciò che dico, infatti, non ha altro significato se non in quanto frutto di una lunga vita, nel corso della quale ho conosciuto, incontrato, scoperto molte cose, e vissuto le esperienze più varie. Un tale accumulo di memoria umana costituisce un tesoro di senso. È il fatto di avere attraversato un secolo pieno di invenzioni, speranze e orrori, di avere pienamente vissuto quell´avventura, che fonda la mia attuale credibilità. Perché forse ho un debito di senso con la vita – e posso permettermi, oggi, di restituirlo tramite la mia testimonianza.
Tra eclisse della durata, rottura del legame generazionale e società dello spettacolo, ai tempi attuali il fattore età ha assunto uno strano valore. Agli occhi dei nostri contemporanei l´esperienza vissuta sembra a volte meno importante delle esperienze che non sono ancora state fatte, non sono ancora state avviate. Nel suo piccolo Essai d´intoxication volontaire, Peter Sloterdijk parla di "diseredità integrale". Vale a dire di «quello strano modo in cui le giovani generazioni si staccano di netto dai loro genitori» – salvo dover poi reimparare tutto da sole. Da qui la domanda: che cosa avrebbe da proporre al mondo un vecchio gentiluomo come me, e perché dovrebbe essere ascoltato? Tra l´altro, non ho davvero la preparazione filosofica indispensabile per essere un pensatore politico. Per cui si avrà ragione di credere che a dare forza alle mie parole sia piuttosto l´esperienza che non la forza del pensiero.
Ma è forse venuto per me il momento di fare i conti. La fine, però, non accenna ad arrivare. Ho varcato, con un certo allarme, la soglia dei novant´anni diventando un sopravvissuto. Uno di quei sopravvissuti, sempre più rari, dotati di una memoria tornata di colpo fondamentale, alla quale va attribuito tutto il significato che essa può avere. A conti fatti? Non tutti i conti sono ancora fatti. Oso sperare che non sia l´ultimo rendiconto.
© Libella, Paris, 2011 © 2012, Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Repubblica 3.6.12
Il pensiero anziano
A 80 anni fanno film o scrivono libri di successo. Ma non solo: sono anche protagonisti di romanzi e fiction tv. Ecco perché la produzione culturale si affida sempre di più ai grandi vecchi
di Stefano Bartezzaghi
Lo scorso lunedì, alle sette del mattino in punto, il sociologo anglo-polacco ZygmuntBauman faceva colazione in una sala di un albergo di Pistoia. Appariva in gran forma, canticchiava persino, a bocca chiusa, prima di attaccare yogurt e caffè. Pochi giorni prima aveva parlato di «Decodificare il mondo in cui viviamo» al Festival Biblico di Vicenza; poi aveva risposto alla domanda «La solidarietà ha un futuro?» agli antropologici Dialoghi sull´uomo pistoiesi (pubblico osannante) e quindi, sempre a Pistoia, ha tenuto per un´ora intera una conferenza stampa, davanti a (tre) giornalisti di testate locali. Bauman è nato nel 1925. Quando non gira per il mondo abita a Leeds, quando viaggia, vola con Ryanair, chiedendo solo il benefit dell´imbarco prioritario. Tuttora, a 87 anni, pubblica un paio di libri all´anno. E non si tratta di minestre riscaldate.
«Vecchio, io?». A chiederselo non era Travis Bickle allo specchio, ma Primo Levi, che, a differenza del famoso taxi driver, si affrettava a rispondere e anzi ad ammettere: «In assoluto, sì: lo dicono l´anagrafe, la presbiopia, le chiome grigie, i figli ormai adulti...». Era il 1982, e di anni Levi ne aveva sessantatré, età che oggi viene considerata "terza" solo da direttori del personale in uzzolo di prepensionamenti. Per chiunque altro, si è "nel pieno", e anzi oggi può capitare che un ottantenne faccia paternalistici buffetti a un sessantenne, mentre i quarantenni sono ancora alla gavetta e i trentenni al gavettone.
In sartoria i laticlavi sarebbero pronti da tempo, ma "per ora" gli ottantenni non ne vogliono sapere. Il regista francese Alain Resnais (89 anni) era in concorso a Cannes, dove ha vinto il film di Michael Haneke (70), sull´Amour fra due ottantenni. Paolo (81) e Vittorio (83) Taviani quest´anno hanno vinto Orso d´Oro e David: come miglior film e come migliori registi, non alla carriera. Longevità prettamente cinematografica, come per il portoghese Manoel de Oliveira (104) che ha diretto il suo ultimo film solo tre anni fa? No, perché il discorso riguarda anche il diplomatico franco-tedesco Stéphane Hessel (95), che tre anni fa ha esortato il mondo a indignarsi con un celebre pamphlet; o anche un amico e coautore di Hessel, il sociologo francese Edgar Morin (91). O il linguista e polemista americano Noam Chomsky (84) e i critici Harold Bloom (82) e George Steiner (83). Per non parlare di Oscar Niemeyer (105), che l´anno scorso ha inaugurato il centro culturale asturiano a lui intitolato e da lui progettato.
No, non è (o non è più) un mondo per gerontofobi. Persino il babau del Grande Vecchio (Bettino Craxi lo inventò per designare burattinai, gestori e manovratori di manine, manone, manopole, manipoli) è poi diventato Buono, e lo abbiamo mandato al Quirinale con Sandro Pertini, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, in una nazionale della terza e quarta età, vigile e carismatica (che ha avuto in Francesco Cossiga il suo Chinaglia).
Ogni discorso generazionale ha certo un fondo irriducibilmente idiota. Ma forse può fare eccezione il discorso che riguarda proprio la generazione degli odierni settantenni e ottantenni. È la più fortunata della storia post-edenica dell´umanità: troppo giovane per la Seconda guerra mondiale, intermedia nel conflitto generazionale del Sessantotto, troppo vecchia (e con diritti acquisitissimi) per subire le conseguenze delle successive crisi, è la generazione che si è presentata invece puntuale alla Dolce Vita, al Boom, alla liberazione sessuale (pre-Aids), al godimento no problem di ogni risorsa naturale, ambientale, economica. Al momento giusto, le hanno persino inventato il Viagra.
I fortunati vegliardi sembrano avvantaggiati anche nell´industria culturale. Sono sul mercato da più tempo e hanno un pubblico ben fidelizzato, essendo il mass-marketing basato su ripetizioni di stilemi e tormentoni. Ma ci deve essere dell´altro, una diversa disinvoltura. I più giovani, al loro confronto, spesso sembrano artisti a partita Iva o a progetto. Per intenderci basterà rimandare agli interventi del compianto Carlo Fruttero a Che tempo che fa. Sarà solo saggezza acquisita? Ricchezza del repertorio aneddotico? Penultime chance per testimonianze di prima mano su fatti remoti? O la squisita crudeltà del superstite, che non ha passato a caso né invano la feroce selezione del tempo?
Per demografia ci sono proprio più ottantenni in condizioni fisiche e cognitive ottimali. Tra gli artisti, Christopher Plummer (82) vince il primo Oscar, battendo Max von Sydow (83). Nel pubblico, settantenni e ottantenni hanno molto tempo libero, non hanno più mutui da pagare e (novità recentissima) non sono più tanto abitudinari e inclini ad accontentarsi di poco, come una volta. Costituiscono quindi un grande, gioioso target consumista a cui strizza l´occhio innanzitutto la tv. Maria De Filippi dedica parte di Uomini e donne a "tronisti" anziani, e vanno in onda serie tv come la britannica Downtown Abbey protagonista Maggie Smith (78) o l´americana Brothers & Sisters (tra i protagonisti, un omosessuale settantenne, che incontra il suo ex, interpretato da Richard Chamberlain, 76). Il cinema offre storie di coppie o combriccole mature (Another Year, di Mike Leigh; Marigold Hotel, di John Madden; l´atteso Hope Springs, con Meryl Streep). La letteratura, dominata in Italia dai bestseller senza età di Andrea Camilleri (87), inventa l´on the road degli ottuagenari con In viaggio contromano di Michael Zadoorian (Marcos y Marcos) e offre titoli come Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve (Bompiani) di Jonas Jonasson. Un senilismo che giova anche ai vecchietti di provincia dei fortunati gialli di Marco Malvaldi (Sellerio) o a quelli di periferia del Marco Presta di Un calcio in bocca fa miracoli (Einaudi).
L´invecchiamento demografico e il marketing non spiegano, però, tutto. Come Malcom Gladwell ha sottolineato (in Avventure nella mente degli altri, Mondadori) per noi il genio è il bambino Mozart ma spesso la realtà ci presenta casi di anciens prodiges. È stato proprio un economista David Galenson (University of Chicago) che con studi come Old masters and young geniuses ha distinto Pablo Picasso da Paul Cézanne: l´artista che sin da ragazzino trova senza cercare e il genio tardivo, sperimentatore e perfezionista, che passa decenni a cercare, prima di trovare.
L´attuale fioritura di un´arte e di un pensiero anziani pare però legata più strettamente al tema contemporaneo dell´assenza dei padri, che ci porta a dare massima fiducia ai nonni. Il loro pensiero ci pare più radicale, la loro voce ci pare più ferma, la loro identità ci pare meno compromessa, meno strizzata dai perimetri dei format, meno modellata dalle convenienze economiche, sociali e editoriali. Nei maggiori, non vediamo pose, conformismo o anticonformismo, ma adesione spontanea a moduli espressivi già sperimentati o nuovi, a seconda delle occasioni, senza intenzione calcolata. Questa è la vera novità: fingiamo di interessarci alla loro saggezza, ma quello che ci affascina è che per loro il percorso non coincide con una carriera. I vecchi ci dicono che i veri limiti con cui siamo a confronto sono dati nel linguaggio, nel corpo, nell´Altro e nella morte e che del resto ci si potrebbe anche preoccupare di meno. Saggezza o non saggezza, con l´ascoltarli ci costruiamo, con gratitudine, l´immagine di una libertà ancora possibile.