l’Unità 9.5.12
Sindacati uniti in piazza per la festa della Repubblica
«Per la prima volta il sindacato festeggia il 2 giugno, parlando di lavoro»
Manifestazione in piazza del Popolo
di Massimo Franchi
«Due giugno, festa della Repubblica fondata sul lavoro». Per la prima volta i sindacati decidono di manifestare in una giornata di festività nazionale e di portare i lavoratori a Roma. Lo faranno al pomeriggio, dopo la tradizionale parata militare ai Fori imperiali, con un corteo e con comizio finale (Alemanno permettendo) a piazza del Popolo. L’obiettivo dell’ormai ricostruita triplice è quello di «far cambiar politica economica al governo». L’ultima manifestazione unitaria di questo tipo risale all’epoca Epifani.
A giorni poi Cgil-Cisl-Uil presenteranno una piattaforma unitaria sui temi del fisco e della crescita, in cui metteranno nero su bianco le coperture possibili per abbassare, in primis, il cuneo fiscale sul lavoro dipendente. L’annuncio della manifestazione arriva dopo settimane di incontri e discussioni per mettere a punto la strategia comune e trovare la data («abbiamo tante mobilitazioni in corso, l’agenda è fitta»), ma non arriva per riposizionare i sindacati dopo lo tsunami elettorale («la data l’avevamo già decisa la settimana scorsa»).
A fare gli onori di casa è stato Luigi Angeletti, che ha illustrato i motivi della scelta del 2 giugno: «Vogliamo far festeggiare la Repubblica dai lavoratori, da coloro che sono più sacrificati e la cui importanza economica e sociale è più sottovalutata». Il segretario generale della Uil vede nero: «La disoccupazione arriverà presto in doppia cifra, un livello che non toccavamo dal secolo scorso, con una riforma del mercato del lavoro che temiamo avrà un impatto tutt’altro che positivo». Un quadro a tinte fosche nel quale rientrano «anche i suicidi di imprenditori ed artigiani, persone che di lavoro vivono, allo stesso modo dei dipendenti che rappresentiamo», tanto da arrivare «ad invitarli a manifestare con noi e a condividere la nostra piattaforma». L’obiettivo della mobilitazione è quindi chiaro e diretto al governo, sebbene venga da «un sindacato responsabile che però non ridursi all’afasia»: «Convincere, e non essere costretti a costringere, il governo a invertire questa tendenza, questa politica fiscale che ha contribuito a distruggere lavoro aumentando il cuneo fiscale, l’iniquità del sistema e ha depresso il mercato interno».
A fargli eco arriva subito dopo Raffaele Bonanni. Per il leader Cisl «bisogna garantire una sterzata alla vicenda fiscale, come diciamo da diverso tempo, perché esistono Paesi che usano la leva fiscale al contrario nostro, favorendo i più deboli e colpendo i ricchi. Noi come sindacato avevamo chiesto la patrimoniale e invece ci siamo trovati la patrimoniale per i poveri: l’Imu che colpisce le prime case». In questo senso Bonanni appoggia «convintamente i sindaci che stanno pensando di sostituirla perché la conseguenza sarà un controllo delle loro spese molto migliore rispetto a quello che farà Bondi con la spending review». Il governo è nel mirino di Bonanni soprattutto per «il tentativo di saltare il confronto con la falsa idea che in questo modo si eviti la consociazione, mentre è esattamente il contrario: in questi mesi le lobby hanno scorrazzato con il governo e invece il confronto con noi porta sempre discussioni trasparenti».
A chiudere arriva una soddisfatta Susanna Camusso. Per il segretario generale della Cgil «nella storia recente di questo Paese non esiste una situazione analoga in cui si è manifestato nel giorno di una festività per chiedere al governo di cambiare politica economica». Tutto ciò è «indice che il punto di rottura per chi lavora è vicino ed è necessario che il governo cambi in fretta strada». Anche perché «la scusa che usa (“l’Europa non ce lo consente”) non tiene più: l’Europa non ci ha chiesto di non fare la patrimoniale, l’Europa non ci ha vietato di fare accordi con la Svizzera sui capitali portati là, come hanno fatto altri Paesi». Servono infatti «risorse per un cambiamento concreto fatto di investimenti in welfare e per i Comuni, di fisco come elemento di equità e non riforme strutturali che daranno frutti fra anni: tutte queste cose si possono fare rispettando i vincoli europei». Il fisco dunque come «strumento per introdurre due parole sempre usate dal governo, ma mai perseguite: equità e crescita».
In chiusura arriva l’avvertimento al governo: «Questa grande manifestazione richiede risposte; se non ci saranno, continueremo a mobilitarsi». La parola “sciopero generale” viene solo evocata. Ma anche questo è un elemento di novità, specie se Bonanni e Angeletti non si dicono contrari a priori.
Repubblica 9.5.12
Il segretario della Cgil: gli stipendi vengono pagati con ritardo e i crediti sono inesigibili, difficile andare avanti
Camusso: "Troppi sacrifici, poche speranze dipendenti e piccoli imprenditori sono stremati"
È saltato il progetto di offrire ai mercati la nostra testa su un piatto d´argento"
di Paolo Griseri
ROMA - Nel manifesto di fronte alla scrivania, la bambina chiede all´adulto: «Papà, perché hai un caporale se non sei un soldato?». Di questi tempi la campagna per la legalità sul lavoro appare purtroppo un lusso. Sul muro alle spalle della scrivania il ritratto di Giuseppe Di Vittorio, testimonia una tradizione sindacale fatta di avanzate e di arretramenti. Ma è lo schermo del computer che attira l´attenzione di Susanna Camusso: «Vede? Mail come questa arrivano sempre più spesso. Gente disperata, che ha smesso anche di arrabbiarsi. In alcuni casi abbiamo contattato gli psicologi. Chi scrive certe cose può davvero rischiare di compiere gesti estremi».
Susanna Camusso, la crisi trasloca dalle pagine di economia a quelle di cronaca. Che cosa ha causato un salto così drammatico?
«Non penso che sia un salto. Penso che molti abbiano cominciato a convincersi che questa crisi non avrà fine. Che i sacrifici di questi quattro anni sono stati inutili. Se alle persone togli l´orizzonte non puoi stupirti dei drammi. I sacrifici senza speranza sono la formula della disperazione».
Di chi è la responsabilità di quei drammi? Di chi governa adesso o di chi è venuto prima?
«Non intendo commentare quella frase di Monti».
Da quando si è perso l´orizzonte?
«E´ quattro anni che il popolo dei lavoratori dipendenti e dei piccoli imprenditori fa sacrifici. Gli stipendi vengono pagati con ritardi di sei, sette, otto mesi. I crediti con i clienti diventano inesigibili. All´inizio uno spende quel che aveva messo da parte negli anni precedenti. Per anni i governi hanno detto che presto ci sarebbe stata la ripresa. Poi l´autunno scorso si è scoperto che non è cosi. Che bisogna fare altri sacrifici. E la gente li ha fatti, sperando che sarebbero serviti a uscire dalla crisi. Invece adesso si scopre che i sacrifici aumenteranno ma la crisi non finirà. Per guarire ti tagli un braccio oggi ma sai già che domani ti taglieranno anche la gamba. E´ questa disillusione che fa nascere i drammi di questi giorni».
Quali sono i gruppi più a rischio?
«Chi ha una famiglia da mantenere e i pensionati soli. I nostri centri fiscali raccontano che molti arrivano allo sportello e confessano di non essere in grado di pagare le tasse. I pensionati che vivono da soli nella casa di famiglia sono atterriti dall´idea che arrivi una Imu più alta della loro pensione. Gli esodati, senza cassa e senza pensione, ci mandano lettere agghiaccianti».
Il 2 giugno farete una manifestazione nazionale unitaria a Roma. Che cosa chiedono Cgil, Cisl e Uil a questo governo?
«Abbiamo scelto il 2 giugno perché vorremmo che si ricordasse che l´Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Questo governo deve cambiare e presto per non arrivare al punto di rottura con il paese. Deve decidere, finalmente, di fare una politica equa. E´ profondamente iniquo tassare sempre e solo i lavoratori dipendenti e rifiutarsi di introdurre la patrimoniale. Chiediamo la riduzione progressiva del peso fiscale sulle buste paga e un´Imu proporzionale ai redditi sulla prima casa. Chiediamo che vengano ridistribuiti i frutti della lotta all´evasione».
E´ più difficile il dialogo con questo governo o con quello precedente?
«Per noi della Cgil il paragone e impossibile perché il governo precedente non ci parlava e lavorava a dividere i sindacati. Qualcuno ha pensato che si potesse replicare anche con questo governo la scena della rottura. Magari immaginando di offrire ai mercati la testa della Cgil su un piatto d´argento. E invece oggi siamo tutti uniti a chiedere a Monti un immediato cambio di rotta e a proporre una piattaforma per la crescita. Senza quel cambio di linea temo che i drammi di questi giorni siano destinati a ripetersi».
Corriere 9.5.12
Immobili, il 5% degli italiani proprietario del 25% delle case
di Mario Sensini
ROMA — I valori di mercato del patrimonio immobiliare italiano sono pari a più del triplo del valore catastale, anche più del quadruplo nel Centro Italia. Nella media, secondo il direttore dell'Agenzia del Territorio, Gabriella Alemanno, gli oltre 26 milioni di immobili residenziali italiani presentano un valore catastale inferiore di 3,73 volte alle quotazioni di mercato. Ed è proprio questa discrasia, nota da tempo, ad aver spinto il governo, al momento dell'introduzione dell'Imu, a indicare un coefficiente di rivalutazione pari a 160 (e non più a 100 come per la vecchia Ici) e poi, ha detto Alemanno ieri in Parlamento, «ad avviare il percorso per la riforma del sistema estimativo catastale finalizzata alla perequazione della fiscalità immobiliare» con la delega per la riforma fiscale.
Il disallineamento dei valori catastali è particolarmente elevato nel Centro Italia, dove la differenza con le quotazioni di mercato è pari a circa il quadruplo, ma spesso tocca punte superiori al quintuplo. I valori più coerenti con quelli di mercato si registrano nel Mezzogiorno, ed in misura leggermente minore nel Nord, anche se in entrambi i casi si resta sotto la media nazionale del 3,7.
Nel corso dell'audizione presso la Commissione di vigilanza sull'anagrafe tributaria il direttore dell'Agenzia ha sottolineato i risultati dati dalla crescente integrazione delle banche dati istituzionali, che hanno permesso tra l'altro di tracciare la mappa della ricchezza immobiliare. Dove, ancora una volta, si è in presenza di una sperequazione: il 5% dei circa 26 milioni di proprietari italiani possiede infatti il 16,7% degli immobili ed il 24,9% del valore complessivo, mente il 50% dei proprietari più poveri (in base all'Irpef) possiede il 18,7% del valore del patrimonio immobiliare. Che sta crescendo con l'emersione degli immobili fantasma. Da quando è iniziata l'operazione sono emersi 2,2 milioni di immobili non accatastati, ai quali è stata attribuita una rendita per la futura tassazione. Con un bel bottino per l'erario e per i Comuni: 356 milioni di Imu, 110 di Irpef e 6 di imposta di registro, per 472 milioni di maggior gettito. Senza contare che sugli immobili fantasma accatastati si dovranno pagare anche le tasse arretrate. E proprio in questi giorni l'Agenzia del Territorio ha consegnato a quella delle Entrate i 2,2 milioni di incartamenti per procedere all'emissione dei ruoli.
l’Unità 9.5.12
La questione sociale conta più della politologia
di Michele Ciliberto
C’È QUALCOSA CHE NON CONVINCE NELLE ANALISI CHE SI STANNO FACENDO IN
QUESTE ORE DEL RISULTATO DELLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE, una specie di
miopia rispetto a quello che è accaduto, e continua ad accadere, nel
fondo della società italiana. Il criterio che in genere si segue è di
carattere essenzialmente politologico, con una conseguente critica
profonda e drastica nei confronti del sistema dei partiti, accomunati in
una sorta di notte in cui tutte le vacche sono nere, senza alcuna
distinzione di responsabilità fra l’uno e l’altro.
Come se in questi pesantissimi anni non ci fossero stati partiti al
governo che si sono serviti del Parlamento come di un propria fortezza
personale, mentre altre forze politiche sono state costrette una dura
opposizione per cercare di fare sentire la propria voce in una
situazione di eccezionale difficoltà.
È una tecnica antica che, in quanto tale, non stupisce: nei momenti di
maggiore difficoltà le classi dominanti e i loro corifei, consapevoli e
inconsapevoli cercano di mettere in uno stesso fascio governanti e
governati, indiscriminatamente. È la stessa tecnica che usano nel loro
lavoro gli «storici» che a loro fanno capo: mettono nello stesso fascio
persecutori e perseguitati, vittime e carnefici, sconfitti e vincitori.
Bisogna reagire a questa impostazione e anzitutto bisogna reagire alla
concezione dei partiti che queste posizioni presuppongono: come se si
trattasse di «sabbia senza acqua», e non di organismi che nascono,
vivono e muoiono nel vivo della vita, e della lotta sociale di cui, in
vari modi e a diversi livelli, sono, e restano, espressione. Ma questa
impostazione non è casuale, anzi: essa si inserisce in un quadro
concettuale, e ideologico, che tende a cancellare dalla scena la
dimensione sociale, la questione sociale, togliendosi in questo modo la
possibilità di capire cosa è accaduto in Italia nell’ultimo decennio e
cosa è necessario fare oggi.
Forse è bene ricordarlo: il berlusconismo non è stato solamente il
dominio delle fiction e il sistematico rovesciamento del rapporto tra
immaginazione e realtà. È stato l’espressione di un potente, robusto,
flessibile sistema sociale nel quale si sono riconosciute e organizzate
le classi dominanti del nostro Paese. «Se perde perde lui, se vince
vinciamo noi», disse nel 1994 il più autorevole rappresentante del
potere capitalistico nel nostro Paese, delineando la strada che avrebbe
percorso in quasi un ventennio. Oggi è quel sistema, per ragioni interne
e internazionali, che si sta disgregando e scomponendo, ed è in questo
quadro che vanno situati il disfacimento in atto del Pdl e anche la
crisi della Lega.
È un passaggio importante e delicatissimo: il berlusconismo ha generato
un modello culturale e politico e sociale che ha inciso profondamente
nella costituzione interiore del Paese, imponendo modelli antropologici
imperniati su un individualismo selvaggio e la rottura delle reti di
solidarietà che avevano caratterizzato a lungo la nostra società. È
stato un processo duro che ha mutato, per molti aspetti il volto del
Paese, e che ha avuto un altissimo costo sociale, come si è visto nel
precipitare della crisi nell’ultimo anno. Essa si è abbattuta, creando
solitudine e anche disperazione, sui più deboli, sui più esposti, su
quelli che avevano già pagato il prezzo più alto: sui giovani, sulle
donne, sul mondo del lavoro, mai così umiliato e tartassato come in
questa lunga crisi in nome della modernizzazione, della
delocalizzazione, della fine del conflitto tra capitale e lavoro.
In Italia conviene dirlo con forza - oggi è aperta una dirompente
questione sociale, ed è in questo quadro che va compreso anche il
risultato di Grillo: fatti che esprimono un disagio sociale
profondissimo, intriso di vecchie e nuove solitudini, di ansia, di
paure, di angoscia da cui può scaturire un incancrenirsi della crisi
della nostra stessa democrazia.
È anche una nostra responsabilità delle forze democratiche e di sinistra
se le cose sono arrivate a questo punto, e se la crisi sociale ha
assunto i caratteri e la forma dell’antipolitica. Ma l’antipolitica non è
un destino obbligato. Si può cercare di percorrere un’altra strada. E
per questo la politica è, e resta indispensabile. Ma se si vuol ridare
dignità, e legittimità, alla politica, è dalla questione sociale che
bisogna partire, e non solo in Italia, anche in Europa. Bisogna riuscire
a voltare pagina, con iniziative concrete se si vuole avviare a una
soluzione la lunga crisi italiana: il tempo delle parole, e delle
retoriche deprecazioni, è finito.
l’Unità 9.5.12
Chi sono i sovversivi
di Alfredo Reichlin
IL MIO VECCHIO CUORE DI SINISTRA HA ESULTATO PER LA VITTORIA DEI SOCIALISTI IN FRANCIA. La coccarda dei giacobini sventola sul pennone dell’Eliseo. Poi questo fatto, unito a molti altri sommovimenti che sono in atto nei Paesi europei, ha suscitato in me altri pensieri. Parlerò più avanti delle amministrative italiane ma dico subito che il dato più duraturo su cui riflettere è il fatto che il campo storico della lotta tra progresso e reazione è cambiato. È diventato europeo, ed è sempre più parte di una rete mondiale. Politica interna e politica estera sono ormai la stessa cosa. «Noi» siamo in loro e «loro» stanno in noi. E se guardiamo le cose oltre la piccola cronaca è questo che ha sfidato il vecchio sistema politico italiano.
E HA TRAVOLTO I SUOI VECCHI AVANSPETTACOLI DA PERIFERIA: BOSSI E IL TROTA, BERLUSCONI IN FESTA ALLA DACIA DI PUTIN. I vincoli e le contraddizioni che soffocano le potenzialità dell’Europa restano tenaci e profondi, non dimentichiamolo. Però finalmente si sta aprendo un varco. Possiamo cominciare a intravedere una via d’uscita per una crisi come quella italiana che sembra priva di sbocchi, avvitata, come è, in un circolo vizioso: austerità tagli ai consumi blocco dello sviluppo quindi nuovi debiti. Con la conseguenza che per sopravvivere stiamo bruciando la vita delle persone e i mobili di famiglia. Qui sta la novità della situazione. Non solo nei mutamenti dell’economia che saranno necessariamente lenti, ma nel fatto che con la rottura di quel varco si può tornare a pensare la politica. La politica coperta di fango ma che, dopotutto, è la sola cosa che può restituire un ruolo decisivo all’iniziativa umana, senza sottostare inesorabilmente alle decisioni dei cosiddetti «mercati».
Adesso tutti citano Einaudi. Ma che c’entra? Una cosa erano i mercati di cui parlava il vecchio professore liberale, quella straordinaria invenzione di regole che consentono lo scambio tra uguali, cioè la convivenza tra le persone e i loro legittimi interessi. Altra cosa è la potenza inaudita di una ristretta oligarchia che governa la ricchezza del mondo in un modo non solo ingiusto ma insensato. E dico insensato non perché ignori le ragioni anche razionali dell’economia finanziaria, ma perché si tratta di un potere che ormai minaccia anche il futuro dell’Europa. L’Europa non è solo un mercato più o meno «efficiente». È un problema non pronunciabile con la sola lingua degli economisti. È potenzialmente una profonda contraddizione per l’oligarchia che domina il mondo. E lo è, appunto, per ragioni non economiche ma perché è una alternativa possibile di valori, di bellezza, di «vivere meglio», di futuri diversi per le nuove generazioni altrimenti ridotte a vite precarie.
Occorre quindi davvero una svolta politica nel senso alto di questa parola, cioè di conoscenza della realtà, di pensiero, di fiducia nelle forze dell’uomo moderno. Di consapevolezza di questa grande novità, cioè del fatto che il luogo storico della politica è cambiato, nel senso che è veramente finito il Novecento ed è per questa ragione che l’attuale sistema politico italiano non regge più alla sfida delle cose.
Sono evidenti i segni di una grave crisi di sfiducia nelle istituzioni e nella politica e i rischi di sbandamento. So bene che il Pd non è fuori dalle difficoltà in questa sfida. Ma è vergognoso l’atteggiamento dei media verso il partito che sta per conquistare il sindaco di quasi tutte le città italiane. E che è il primo partito, il solo degno di questo nome. È grave. Mi fa pensare che di fronte al disfacimento delle forze politiche di destra (questo è il dato più impressionante) qualcuno pensa di cavalcare la protesta alla maniera di Beppe Grillo. Gramsci parlava di «sovversivismo delle classi dirigenti». Io non credo che siamo a questo. È vero però che le classi dirigenti sono sfidate dalla necessità di assumersi nuove responsabilità di governo e, quindi, di creare una loro degna rappresentanza nel quadro democratico e parlamentare. Il Corriere della Sera non ha capito che questa è la lezione del voto? Certo, anche noi siamo sfidati. L’Italia non si sente governata e quindi spetta a noi rappresentare l’alternativa democratica. E a me sembra che la Francia ci indica il modello. È quello di una sinistra che governa sulla base di una alleanza larga che comprende anche forze moderate le quali non possono non essere coinvolte in una operazione che non può essere solo di risanamento ma di ricostruzione.
È veramente finita la vecchia politica. Si ripropone in altri modi e a un livello più complesso il drammatico quesito che si pose alla civiltà europea dopo la grande crisi del ‘29. Il dilemma: uscire da sinistra dalla crisi grazie a un nuovo patto sociale (Roosevelt, il compromesso socialdemocratico, l’incontro tra sinistra e ceti laboriosi, (Hollande insomma) oppure uscire da destra con una svolta autoritaria. Allora le classi dirigenti italiane ci portarono al fascismo. Oggi qualcuno sta accarezzando l’idea di nuove forme di populismo?
È tempo quindi che il Pd alzi il tiro. Noi non siamo affatto pentiti di aver salvato l’Italia dalla catastrofe sostenendo il governo Monti. Anche oggi una crisi sarebbe il caos. È chiaro però che il nostro obiettivo è creare le condizioni per una grande riforma anche morale sulla cui base la sinistra e il centro democratico possano convergere. Non è una piccola cosa. Mi chiedo se sia solo un auspicio oppure se si intravede qualcosa. Io penso che questo «qualcosa» è il fatto che il Pd si colloca là dove si raccolgono in Europa le forze che possono cambiare davvero le cose. Ma se devo essere sincero, io credo che il Pd non ha abbastanza fiducia in se stesso. Non è abbastanza convinto che c’è un solo modo per difendere la democrazia, e questo consiste nel costruire gli strumenti per mezzo dei quali si può organizzare la volontà e si possono difendere gli interessi della gente comune. Altro che partito «liquido». È molto positivo che il Pd comincia ad esser quel partito della nazione di cui abbiamo tanto parlato. Ma troppi di noi sono ancora lontani da una visione delle cose capace di dare certezza a questo ruolo. Abbiamo un bisogno assoluto di giovani perché questo ruolo non può essere dedotto dal ricordo di vecchie passioni ma solo dal sentirsi attori di questo straordinario passaggio storico. La gente non è stupida. Sente, sia pure confusamente, che sono in gioco gli equilibri più di fondo, compreso quel minimo di solidarietà tra ricchi e poveri che consente la tenuta delle società umana.
Se non mostriamo questo che è il nostro vero volto, non lamentiamoci poi se si creano nuovi spazi al populismo.
l’Unità 9.5.12
Bersani: «L’Italia di domani sarà governata dal Pd»
Il segretario riunisce il gruppo dirigente e annuncia un pressing sul premier
Dall’esecutivo servono risposte su esodati, taglio dell’Imu e sui grandi patrimoni
di Simone Collini
Senza il Pd, oggi, l’Italia non può essere governata. E non può che essere costruita attorno al Pd, domani, una credibile proposta di governo. Pier Luigi Bersani riunisce al Nazareno il gruppo dirigente del partito ed è questo il ragionamento che viene fatto alla luce del risultato elettorale.
La strategia pianificata nel corso dell’incontro a porte chiuse prevede ora un pressing su Monti per dare risposte ai temi sociali che, viene detto, sono alla base del disagio emerso dal voto amministrativo, una particolare attenzione ai ballottaggi nelle città del nord e, per il più lungo periodo, la costruzione di un’alleanza tra progressisti e forze moderate che avrà nel Pd il baricentro. O, come dice Bersani aprendo la riunione con gli altri dirigenti del partito, «il perno al servizio della riscossa del Paese». Il voto di domenica e lunedì induce all’ottimismo. Tanto che il segretario del Pd si dice convinto di una cosa: «Oggi nei Comuni, domani vinceremo in Italia».
I dati definitivi arrivati da tutta Italia al Nazareno confermano quello che Bersani aveva detto a spoglio delle schede in corso, e cioè che di fronte al tracollo del Pdl, il calo di consensi per la Lega, Udc fermo al palo («l’alternativa non si fa nei salotti»), il Pd è l’unico partito a uscire rafforzato da questa tornata elettorale. Al punto, viene aggiunto ora a scrutinio concluso, da far registrare un successo anche in regioni tradizionalmente dominate da Pdl e Lega. Gli occhi sono puntati in particolare sulla Lombardia, su città simbolo come Como e Monza, dove la Lega è rimasta fuori dai ballottaggi. E il Pd parte in vantaggio anche ad Alessandria, Asti, Genova. Per questo Bersani è convinto che tra due domeniche il suo partito possa andare alla conquista di un nord che «dopo anni di malgoverno e tradimento di Pdl e Lega ora deve tornare ad essere, in reciprocità col sud, la locomotiva del Paese».
I numeri portati alla riunione del gruppo dirigente dal responsabile Organizzazione Nico Stumpo dicono che il Pd, calcolando le liste civiche direttamente collegate al partito, ha incassato circa il 26% dei consensi (il Pdl dice il 30%, per poter dire che il Pd ha preso soltanto due punti percentuali in più del suo 28%, ma sono dati difficilmente verificabili). Dicono anche che dei 26 Comuni capoluogo tre (La Spezia, Pistoia e Brindisi) sono andati al primo turno al centrosinistra e 2 (Gorizia e Lecce) al Pdl. Nei 20 Comuni che andranno al ballottaggio, il centrosinistra parte in vantaggio in 13 sfide (si partiva da 18 a 8 a favore del centrodestra).
PRESSING SU MONTI
Dati che spingono Bersani a incitare i suoi («Ora lavoriamo pancia a terra per i ballottaggi, domani vinceremo in Italia») ma che non rappresentano l’intero quadro uscito dal voto amministrativo. I consensi incassati da Beppe Grillo non vengono sottovalutati, soprattutto perché sono frutto di un «disagio» con cui il governo deve fare i conti. Bersani è convinto che serva «un po’ di positività» perché «da troppi mesi non c’è qualcosa di positivo in Italia».
Soprattutto, per il leader dei Democratici, Monti deve dare un segnale ascoltando le proposte avanzate in questi mesi dal Pd, dall’attivare subito i pagamenti alle imprese da parte della Pubblica amministrazione all’alleggerimento dell’Imu mettendo un’imposta sui grandi patrimoni, dalla revisione del patto di stabilità interno per consentire ai Comuni di fare investimenti alla necessità di trovare una rapida e certa soluzione alla questione degli esodati. Queste sono le «priorità» che il Pd mette sul tavolo, a cui vanno aggiunte poi misure da sostenere a livello europeo, come i project bond e la tassazione sulle transazioni finanziarie («ribadiamo lealtà al governo e parliamo anche con i progressisti europei», dice Bersani).
Per rispondere al disagio emerso dal voto bisogna però anche realizzare le tante riforme da troppo tempo annunciate senza che sia stato raggiunto l’obiettivo. Per questo il Pd, al Senato, ha chiesto di accelerare l’approvazione della riforma del mercato del lavoro, trovandosi però di fronte a una frenata del Pdl. E per questo ora i deputati del Pd stanno provando a trovare una corsia preferenziale sulla riforma del finanziamento pubblico, per il quale ieri hanno presentato un emendamento che propone di dimezzare (e non di ridurre del 33% come è attualmente scritto nel testo depositato in commissione Affari costituzionali della Camera) la tranche di rimborsi elettorali prevista per la fine di luglio.
Anche sulla legge elettorale a questo punto il Pd pensa di poter proseguire il confronto da una posizione di maggiore forza. Il voto amministrativo ha mostrato tutti i rischi insiti in un sistema elettorale proporzionale. Per questo ora il Pd tornerà ad insistere per arginare la frammentazione e per facilitare l’operazione che punta ad aggregare «contro destra e populismi vari» i progressisti e i moderati sulla necessità di andare verso un sistema di voto che preveda il doppio turno e collegi uninominali.
La Stampa 9.5.12
Appello a Monti: ora più crescita
Bersani batte cassa: investimenti, Imu più leggera, patrimoniale e soluzione esodati. Serve positività
di Carlo Bertini
Le speranze Il segretario del Pd Bersani: «Domani vinceremo» «Oggi vinciamo nei Comuni, domani in Italia», sentenzia Pierluigi Bersani aprendo il summit dei massimi dirigenti del suo partito. Dando così il via a quella che dovrebbe essere la lunga corsa verso il successo alle politiche dell’anno prossimo, ma senza poter dire con quali compagni di avventura; se non ripetendo che resta valida la proposta di un Pd «baricentro di una coalizione aperta alle forze progressiste e moderate».
Due ore prima di sedersi al «caminetto» dei big, il sorriso sornione stampato in volto di Beppe Fioroni, vecchia scuola Dc, è tutto da decifrare quando nel cortile della Camera gela i facili entusiasmi dei suoi compagni di partito che sbandierano come buon risultato il 25% ottenuto in media nei capoluoghi. «Perché di “ABC” si potrebbe dire che A si è dissolto, C è in rianimazione e B combatte per sopravvivere». Tradotto, se il Pdl si dissolve, resta un blocco sociale che vuole essere rappresentato e dato che in politica i vuoti si riempiono sempre, «se i miei pensano di vincere con la foto di Vasto si sbagliano. Il Pd dovrebbe presentarsi al Paese con un’alleanza con Casini tirando dentro magari anche Vendola e forse qualcuno eviterebbe di costruire una nuova offerta per gli elettori moderati... ».
Ecco, questo è solo uno degli effetti indotti da questo voto nel partito di Bersani: alimentare le fibrillazioni dei moderati che non vogliono una riedizione dell’Unione e che vorrebbero stringere all’angolo Casini per fargli risolvere la crisi d’identità. Da una diversa angolazione, anche D’Alema, tra un colloquio e l’altro con Vendola e Di Pietro alla Camera, lancia avvisi ai naviganti. «Senza di noi non si governa, Casini decida cosa vuole fare e Di Pietro la smetta di polemizzare, altrimenti è impossibile collaborare». Il secondo effetto indotto da questa prima tornata delle Comunali è alzare il livello di pressing su Monti da qui ai ballottaggi. Anche se ciò comporta il rischio, per dirla con il liberal Paolo Gentiloni, di fomentare «chi vorrebbe recitare la parte di forza di lotta e di governo facendo diventare contagioso l’atteggiamento del Pdl». E se un moderato come lo stesso Fioroni dice che «votare a ottobre sarebbe una follia ma ora dal governo ci vogliono fatti e meno chiacchiere», è immaginabile che aria tira dalle parti dei pasdaran della sinistra Pd. Dove uno degli slogan è «tirare la corda del governo senza strapparla». Quindi va da sé che Bersani benedica la giornata di lotta unitaria del 2 giugno dei sindacati, che i filo-Cgil come Damiano incalzino il governo a risolvere subito il nodo degli esodati per procedere con la riforma del lavoro.
«Ribadiamo lealtà al governo, ma chiediamo di essere ascoltati perché abbiamo qualcosa da dire», alza la voce Bersani. Che stila l’elenco delle richieste a Monti. «Bisogna pensare ai “project bond”, a una tassa sulle transazioni finanziarie, a sbloccare subito i pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Bisogna alleggerire l’Imu mettendo un’imposta sui grandi patrimoni personali, far ripartire gli investimenti, risolvere la situazione degli esodati». Insomma, «serve un po’ di positività. Da troppi mesi non c’è qualcosa di positivo per l’Italia».
Ma ci sarà un motivo se, dopo la relazione del segretario, il meeting tra i big si sia sciolto con una «mozione d’ordine» proposta da Fassino e accolta all’unanimità: «Aggiornare il dibattito sugli scenari futuri, sulle alleanze e sulla legge elettorale a dopo i ballottaggi» vuol dire evitare polemiche perniciose in giorni in cui deve essere la propaganda a trionfare. «Che serietà può avere un gruppo dirigente che dalla sera alla mattina cambia idea su monarchia o repubblica? », si infervora Arturo Parisi al solo sentir pronunciare la formula doppio turno, peraltro cara ai bipolaristi. «Se c’è una cosa buona di questo voto è che ci siamo tolti dai piedi la bozza Violante», commentava la Bindi in Transatlantico. Dibattito bollente, difficile da rinviare...
Corriere 9.5.12
Il Pd al premier: «Più positività» E prepara intese con Idv e Casini
Bersani lavora a un «patto di legislatura» con l'Udc e vedrà Di Pietro
di M. Gu.
ROMA — C'è aria di campagna elettorale al quartier generale del Pd e hai voglia a spiegare ai giornalisti che l'accelerazione è nelle cose, perché «il 2013 è dopodomani» e, a settembre, la macchina del voto sarà già a pieno regime... Per votare in autunno? Ma no, tranquillizzano al vertice del Pd, Monti deve arrivare a fine legislatura «per il bene del Paese». La lealtà dei democratici dunque «non è in discussione», conferma Pier Luigi Bersani al coordinamento del partito, dopo aver sentito in mattinata al telefono Monti e Napolitano. Ma ora il Pd vuole «essere ascoltato» dal capo del governo, perché è convinto di avere «qualcosa da dire».
Il segretario sfuma gli accenti, ma avverte che l'esecutivo deve cambiare rotta, perché «da troppi mesi non c'è qualcosa di positivo per l'Italia». Serve una svolta e il Pd ha pronto un pacchetto di proposte per allentare la morsa del rigore e ridistribuire la ricchezza. Ora tocca anche ai ricchi pagare il prezzo della crisi, è il ragionamento del segretario, è ora di imporre «un'imposta sui grandi patrimoni», pensare ai Project Bond e alleggerire l'Imu, senza dimenticare i pagamenti alle imprese. «L'altare di Monti non è immutabile — sintetizza il responsabile economico, Stefano Fassina —. Il premier non deve guardare a sinistra, ma al buonsenso. La prima politica da fare per la crescita è allentare la morsa dell'austerità distruttiva, in Italia e in Europa». Stasera alle 18 Bersani sarà al Pantheon per festeggiare «il successo del Pd» alle Amministrative e la vittoria di Hollande in Francia, ma lo stato d'animo, ai piani alti di via del Nazareno, è che non ci sia poi molto da festeggiare. Il voto ha dimostrato la sofferenza del Paese, dopo i sacrifici occorre seminare «un po' di positività».
Coordinamento lampo, con la relazione del leader approvata in gran fretta e Piero Fassino che propone di rimandare a dopo i ballottaggi la riflessione su alleanze, legge elettorale e scenari futuri. «Mozione d'ordine» accolta e tutti a casa. «Oggi nei Comuni, domani vinceremo in Italia», guarda già alle politiche Bersani, che ha chiesto ai suoi di buttarsi «pancia a terra per vincere i ballottaggi» e conquistare i capoluoghi contesi. Il risultato del Pd, scremato dagli entusiasmi della primissima ora, si aggira in media attorno al 26 per cento. «Una vittoria senza se e senza ma», a sentire Bersani. E Massimo D'Alema: «Il Pd vuole governare il Paese e senza il Pd l'Italia non può essere governata». Stando ai conti dell'istituto Cattaneo il Pd avrebbe perso qualcosa come 91 mila voti rispetto alle Regionali del 2010, ma è pur vero che in confronto al Pdl e al Terzo polo è il partito che ha retto meglio all'onda d'urto della protesta anticasta.
Il voto ha messo in moto una rivoluzione di cui presto si vedranno gli effetti, sul piano del governo e delle future alleanze. Subito dopo i ballottaggi Bersani comincerà a stringere sulla piattaforma programmatica. Tavoli di lavoro sono già aperti con Sinistra e libertà, il partito di Nichi Vendola. E con Di Pietro il leader del Pd ha intenzione di verificare in fretta se è possibile o no stringere un «solido patto di governo». Il piano di fondo non cambia. Il Pd, che per Bersani è «il perno della ricostruzione», proporrà a Casini e a quel che resta del Terzo polo un «patto di legislatura». Il segretario è determinato a incalzare i centristi, perché scelgano se stare a destra oppure a sinistra. Sbaglia Casini, ammonisce Bersani parlando con i suoi, se pensa di costruire l'alternativa a Berlusconi «nei salotti» o con «le alchimie di palazzo». A che serve un nuovo partito dei moderati? Lo schema di Bersani, che ha ripreso a ragionare di doppio turno di collegio, punta a una solida alleanza tra progressisti e moderati. E se per scegliere il candidato premier gli alleati chiederanno le primarie, lui non si tirerà certo indietro.
Corriere 9.5.12
Orfini: segua Hollande o si può votare E l'ex ppi Fioroni: più fatti, meno parole D'Alema, lungo colloquio con Vendola
di Monica Guerzoni
qui
Repubblica 9.5.12
Bersani apre il pressing sul governo "Ora la fase due con la patrimoniale"
"Grillo? Abituiamoci al suo partito. Pd perno della riscossa"
Il Pd non vuole più una legge elettorale proporzionale e torna al doppio turno di collegio
di Giovanna Casadio
ROMA - Il primo bilancio sulle amministrative l´ha fatto in una telefonata con Monti. Ma la giornata di Pier Luigi Bersani si è conclusa con un coordinamento-lampo, nel quale il segretario del Pd ha chiesto al governo di fare il "tagliando". Lealtà a Monti certo, però ci vuole una vera "fase due". E qui, in mezz´ora di relazione, Bersani ha elencato le cose indispensabili che il Pd vuole siano messe in agenda: richieste sostenute ora dai risultati elettorali. Il Pdl si è disfatto, i Democratici hanno tenuto. Vero è che bisogna aspettare i ballottaggi («Lavorare per questi pancia a terra»), però il Pd «è il perno al servizio della riscossa del paese». L´elenco delle condizioni che Bersani pone non è lungo, tuttavia ci sono misure indispensabili perché «serve un po´ di positività, da troppi mesi non c´è qualcosa di positivo per l´Italia». Quindi, pensare a project bond, alla tassa sulle transazioni finanziarie, subito ai pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese, soprattutto alleggerire l´Imu mettendo l´imposta ai grandi patrimoni personali, risolvere la questione esodati. La patrimoniale è il leit motiv, ora chiesta con maggiore forza.
Da un lato il pressing sul governo, dall´altro il Pd non può usare toni trionfalistici. Punge la spina nel fianco rappresentata dal boom di Grillo. Qualsiasi sia l´opinione di Napolitano (Bersani ieri ha sentito anche il Colle), il MoVimento 5 Stelle è il convitato di pietra della cosiddetta foto di Vasto, di quell´alleanza cioè tra il Pd, Vendola e Di Pietro. «D´ora in poi abituiamoci a chiamarlo partito 5 Stelle», afferma nella riunione di "caminetto". Come dire, benvenuto caro Grillo nel club dei partiti. Però, sostiene il segretario, Grillo ha raccolto una protesta che è anche domanda di rigenerazione, di moralizzazione della politica, a cui va data una risposta. Niente demonizzazione dei grillini. Dirà più tardi in tv Piero Fassino: «Il M5S ha raccolto un disagio e un malanimo nei confronti delle istituzioni e della politica, alimentato dalla crisi. Grillo ha beneficiato di questo, anche svuotando partiti nati con meccanismi simili, penso alla Lega Nord, che in Emilia Romagna è sparita».
Ci sono tanti temi sul tappeto della discussione democratica, dalle questioni internazionali a cominciare dall´approvazione del fiscal compact («Parliamo anche ai progressisti europei»), alla riforma elettorale. Il Pd torna all´antico. Di fatto è stata strappata la bozza della legge proporzionale elaborata da Violante sulla quale si stava per siglare l´intesa ABC (Alfano, Bersani, Casini). Oggi il Pd e Bersani chiedono il doppio turno di collegio, il solo che - come la Francia dimostra - «può garantire la governabilità». Anche Beppe Fioroni, filo-proporzionale, ammette che è il momento di evitare balcanizzazioni. L´esempio greco spaventa. Bersani parla della manifestazione sindacale unitaria del 2 giugno. I democratici andranno. Non è tempo di dibattiti: passa la mozione di Fassino, che consiglia di rimandarli a dopo i ballottaggi. C´è la tegola-Palermo e le primarie da ripensare, poiché riservano frutti avvelenati. Ferrandelli ha vinto su Rita Borsellino e da lì è partito il circolo vizioso che vede ora il dipietrista Orlando al ballottaggio con il pd Ferrandelli. «Rimane il rimpianto per un centrosinistra unito che a quest´ora a Palermo avrebbe già vinto», dice Bersani. I numeri delle amministrative: 4 capoluoghi al centrosinistra, ma su 19 al ballottaggio il Pd è in vantaggio in 13.
il Fatto 9.5.12
L’analisi del voto
5 stelle e astensione: ecco dove vanno gli elettori
di Wanda Marra
Perdono tutti e in maniera non solo netta, ma pesantissima.Vince a man bassa il Movimento 5 stelle. Tiene, sebbene di pochissimo, a dispetto di quel che era sembrato in un primo momento, l’Udc. Le Comunali del 2012 fotografano un’Italia che non ne può più dei partiti tradizionali, e che spesso e volentieri non va a votare. Alto e significativo, prima di tutto, il dato dell’astensionismo: i votanti rispetto alle precedenti Comunali del 2007, passano dal 73,7 per cento al 66,9 per cento. Quasi 7 punti percentuali in meno, secondo quanto registrato dall’Istituto Cattaneo. Dati che nel dettaglio sono forse ancor più significativi: la regione dove si registra il minor numero di votanti è la Liguria con il 57 per cento. In coda alla classifica anche Toscana (60,8 per cento) ed Emilia Romagna (64,6 per cento). E la Lombardia si ferma al 63,6 per cento, facendo registrare un meno 9. “Il calo della partecipazione al Nord si può presumibilmente spiegare con il collasso del Pdl e della Lega nelle aree di tradizionale radicamento”, scrive il Cattaneo. E qui si arriva ai dati dei partiti, che sono pressoché disastrosi. Il Pd prende il 19,2 per cento (8,6 punti in meno rispetto al 27,8 per cento delle Regionali del 2010, l’ultimo test importante). Il Pdl sta intorno al 14 per cento (circa 14 punti in meno rispetto al 28,8 del 2010). Se è per la Lega, prende un terzo dei voti nei capoluoghi e la metà in generale. Anche l’Idv si attesta su meno della metà. Guadagnano qualcosa Sel e Udc. I voti assoluti rispecchiano questa situazione: meno 91mila nei capoluoghi di provincia quelli del Pd, meno175mila quelli del Pdl, meno 75mila quelli della Lega, meno 55mila quelli dell’Idv. “Oltre all’astensionismo, che dice in parte dove sono finiti questi voti spiega Gianluca Passarelli dell’Istituto Cattaneo molti sono andati a finire nel Movimento 5 Stelle. Dal Pd, ma anche dal Pdl. Come dall’Idv”. Un discorso diverso per la Lega: “A Parma in buona parte i leghisti hanno scelto i grillini, ma in generale dove non hanno votato il Carroccio, i suoi elettori non hanno votato affatto”. “Ci sono da tener presenti due aspetti spiega il sondaggista Nicola Piepoli intanto che moltissimi hanno scelto le liste civiche. In questo senso, per dire, il risultato di Tosi va più a influire su quello della sua civica che sul Carroccio. Non a caso, a vincere sono stati i candidati più dei partiti”. E poi, l’aggregazione: “Pdl e Lega si sono polverizzati anche perché si sono presentati divisi ovunque. Tanto è vero che a Gorizia, dove erano in coalizione, il loro candidato ha vinto. Allo stesso modo, se i singoli partiti del centrosinistra hanno perso, insieme hanno tenuto”.
La Stampa 9.5.12
Dossier. L’Italia che cambia
Il terremoto parte dal Nord
Anche se si trattava di un test limitato, dalle urne esce un quadro politico rivoluzionato Le più investite sono state le Regioni governate dal centro-destra: Veneto, Lombardia e Piemonte
di Marco Castelnuovo
Cos’è successo? Chi ha vinto le elezioni? Come si sono spostati gli equilibri? Il giorno dopo il voto tutti gli studiosi hanno preso in esame i flussi. L’analisi del voto dell’Istituto Cattaneo di Bologna rappresenta la fonte più autorevole per capire cos’è successo nel voto di domenica e lunedì.
Primo dato: sia il centrosinistra che il centrodestra hanno perso consensi. È difficile calcolare quanti dei voti di Pdl e Pd siano finiti alle numerose liste civiche, ma il calo è assodato per le coalizioni nel loro complesso.
I partiti a sostegno di Monti L’Istituto Cattaneo ha preso in considerazione 24 dei 26 Comuni capoluoghi al voto (i valori assoluti di Agrigento e Catanzaro non erano disponibili al momento dell’analisi) e ha calcolato che «il Partito Democratico ha subito una contrazione pari al 29 per cento dell’elettorato che lo aveva scelto nel 2010 (pari a un decremento di 91.000 voti) ». Tuttavia esistono forti differenze territoriali. Al Nord (rappresentato da Alessandria, Asti, Cuneo, Como, Monza, Verona, Belluno, Gorizia, Genova, La Spezia) «la perdita si attesta attorno al 30 per cento (-60.000 voti) e in quelle della Zona rossa (Parma, Piacenza, Lucca, Pistoia) il calo è di 19.000 voti». Al CentroSud (Frosinone, Rieti, L'Aquila, Isernia, Brindisi, Lecce, Taranto, Trani, Agrigento, Trapani) invece, il Pd perde circa dodicimila consensi, ma il centrosinistra nel complesso «avanza significamente»: più ventimila voti.
Il Popolo della Libertà perde 175.000 voti rispetto alle regionali del 2010. «Se il calo riguarda soprattutto il Nord (-61 per cento, pari a -101.000) e la zona rossa (-60 per cento, ossia -33.000 voti), nel Centro-Sud l’arretramento è comunque consistente (40 per cento in meno) », spiegano i curatori della ricerca, Gianluca Passarelli e Andrea Pedrazzani, ricercatori del Cattaneo.
E infine l’Udc, che sostanzialmente tiene, «contenendo le perdite al 6,5 per cento a livello nazionale rispetto alle regionali del 2010». Va detto però che mentre l’Udc alle regionali 2010 si presentava da sola, ora si presenta come Terzo Polo insieme all’Api di Rutelli e al Fli di Gianfranco Fini.
La Lega Nord Il partito di Bossi è il vero sconfitto di queste elezioni. Il Carroccio arretra più di tutti (-67 per cento). «Le sue perdite sono molto forti nelle città del Nord, ma sono ancora più consistenti nella Zona rossa, con una perdita di quasi l’80 per cento dei voti conquistati nel 2010», spiegano i ricercatori. In effetti due anni fa la Lega ebbe un grande successo alle regionali in Emilia: prese oltre il 13% a livello regionale con punte del 17% in provincia di Parma o del 22% nel Piacentino. Che fosse un voto più legato alla protesta che alla proposta leghista lo si evince dal fatto che a Parma e Piacenza la Lega è decimata: circa 5% a Piacenza città e meno del 3% a Parma dove quasi due elettori su cinque della Lega hanno votato il candidato grillino Pizzarotti.
Per il resto, la Lega non solo inverte la tendenza sempre in crescita in tutte le consultazioni dal 2008 al 2011 ma crolla decisamente in molte Regioni. Nei Comuni (grandi e piccoli) in cui si è votato domenica e lunedì, il Carroccio ha preso in totale 145 mila voti. Negli stessi Comuni alle politiche 2008 prese 331.000 suffragi, alle Europee 2009 308.000 e alle regionali di due anni fa 311.000. «Il calo è stato quindi assai marcato, superiore al 50%», mettono nero su bianco Gianluca Passarelli e Dario Tuorto: «La Lega spiegano i ricercatori perde in termini percentuali meno (circa il 50%) in Lombardia e Veneto. La sconfitta è invece più ampia (fino al 70% in meno) in Piemonte e, soprattutto, in Emilia-Romagna, Regione dove il partito era cresciuto maggiormente negli ultimi anni».
Ma c’è un importante dato da sottolineare: il calo è inferiore circa del 30% nei piccoli Comuni, quelli sotto i 15 mila abitanti, mentre nelle grandi città il calo supera il 60%.
Il Movimento 5 stelle Il Movimento di Beppe Grillo ha conquistato un Comune (Sarego in provincia di Vicenza) ed è arrivato al ballottaggio in altri tre, fra cui un capoluogo di provincia (Parma, Budrio e Comacchio). Sempre riferendosi ai voti assoluti, l’analisi del voto e dei flussi svolta da Luca Pinto e Rinaldo Vignati segnala che, complessivamente, «il movimento ha presentato liste in 101 Comuni, conquistando quasi 200.000 voti, che rappresentano poco meno del 9% dei voti validi (per la precisione, l’8,74%) ». 101 su 941, che è il totale dei Comuni al voto, ma che rappresentano circa il 30% della popolazione chiamata alle urne. In molti Comuni il Movimento 5 Stelle si presentava per la prima volta. Si può però fare un raffronto dove invece si era già presentato (alle regionali del 2010). Ad Alessandria ha preso l’8,5% in più rispetto al 2010, ad Asti +3,4%, a Belluno +5,5%, a Como + 2,5%, a Cuneo + 4,2%, a Monza +6,5%, a Palermo +1,7%, a Parma +13%, a Piacenza +5,1%, a Verona +6,2%.
Però gli studiosi sottolineano che «considerando i soli Comuni al di sopra dei 15.000 abitanti e ripartendo il territorio italiano nelle tre zone geopolitiche (Nord, «Zona rossa», e Centro-Sud), si può osservare che nelle prime due zone i risultati delle liste Movimento 5 Stelle sono stati di gran lunga più positivi».
In effetti se nel Centro-Nord si va da un minimo del 5% preso a Como a un massimo del 21% a Budrio, nel Bolognese, nel Centro-Sud i risultati sono molto più bassi. Il minimo è lo 0,9% di Nocera Inferiore, il massimo il 7,1% preso a Spoltore, in provincia di Pescara. «Le differenze fra le tre zone balzano ancor più all’occhio spiegano Pinto e Vignati -, qualora si considerino i valori medi: al Nord il Movimento ha ottenuto un risultato medio pari al 10,75%, nella zona rossa il risultato medio è pari al 12,7% mentre al Sud il risultato medio si ferma al 3,6%».
Questo è dovuto essenzialmente al fatto che la penetrazione di Grillo e del movimento che a lui si ispira è di molto inferiore nella parte meridionale del Paese. In Piemonte, per esempio, la lista è stata presente in 15 dei 16 Comuni in cui si è votato. Ma vi sono alcune Regioni del Sud – Molise, Basilicata, Calabria – in cui il Movimento cinque stelle non è riuscito a presentare liste in nessuno dei comuni in cui si è votato (21 in Molise, 26 in Basilicata, 84 in Calabria).
La Stampa 9.5.12
Paolo Natale (Ipsos)
“Chi ha scelto Grillo in passato si asteneva o votava a sinistra”
di M. Cast.
Il Professor Paolo Natale insegna a Milano Sociologia politica, analizza i flussi elettorali ed è consulente di Ipsos di Nando Pagnoncelli. Ha studiato a lungo il fenomeno dei «grillini».
Professore, visto il calo dei voti per Pdl e Lega è possibile ritenere che i voti di Grillo vengono dal centrodestra?
«No, se non in minima parte. In base agli studi che abbiamo fatto, il forte incremento del Movimento di Beppe Grillo è dovuto per una quota consistente a ex astensionisti e a ex elettori del centrosinistra».
Si possono quantificare?
«Ritengo che un 10% di ex elettori del Pd abbiano votato per Grillo. E un 20% di chi nel passato ha votato per Di Pietro e per l’area a sinistra del Partito democratico».
Ma chi non votava e ha scelto Grillo, l’ha fatto perché il voto al Movimento Cinque Stelle è un’altra forma di protesta?
«No. È un’offerta politica nuova. Ci siamo concentrati sul dato dell’astensione che è in aumento rispetto alle comunali di cinque anni fa. Ma va detto c’è un’inversione di tendenza rispetto alle regionali del 2010. E questo è dovuto essenzialmente a chi poi ha votato per Grillo».
Come mai il Movimento cinque stelle va meglio al Nord?
«Perché la nascita e la proliferazione del movimento sono avvenute principalmente sulla Rete e al Nord ci sono più fruitori di internet, mentre al Sud nella scelta del voto persiste il passaparola».
E perché conquista più voti nelle città intermedie e non nelle metropoli?
«Grillo non penetra allo stesso modo in tutto il Nord. I maggiori successi li ha ottenuti nelle città medio-grandi di Liguria, Emilia, Veneto e parte del Piemonte. Per ora non ha funzionato in Lombardia».
Per via della Lega?
«Probabile. È infatti possibile che un ipotetico tramonto dell’appeal leghista possa finire ai “grillini”. Ma per ora solo il 3-4% di chi ha votato Lega è passato Grillo. In fondo circa il 70% di chi dichiara di votare Grillo dice di essere di sinistra».
La Stampa 9.5.12
Alessandra Ghisleri (Euromedia)
“Il 40% degli elettori Pdl ha disertato il voto: non c’erano candidati validi”
di M. Cast.
Alessandra Ghisleri è il faro di Silvio Berlusconi. I sondaggi della sua Euromedia Research da sempre orientano e consigliano la politica del Cavaliere.
Si aspettava l’implosione del Pdl?
«Così come rappresentati, i risultati possono indurre in un errore. Non si tiene conto delle numerose liste civiche che hanno inciso sull’esito finale».
Però è indubbio che il Pdl abbia subito una sconfitta.
«Sì, ma se facciamo delle proiezioni su un voto per le politiche con questo tasso di affluenza alle urne tra il 65 e il 68% ci risulta che il Pdl si assesterebbe attorno al 24%. Ce lo aspettavamo».
Cos’è successo, l’avete capito?
«In questa tornata elettorale è andato a votare meno del 20% dell’elettorato totale. Il 40% degli elettori Pdl di questo 20% non è andato alle urne».
«Quasi la metà. Come mai?
«Tanti motivi: su tutti il fatto che non c’erano candidati validi, in fondo nelle elezioni comunali è l’uomo che conta».
Marcello Sorgi ha scritto ieri su La Stampa che, senza Berlusconi, il Pdl è inesistente. Concorda?
«Il fatto che Berlusconi non abbia partecipato alla campagna elettorale indubitabilmente ha pesato. Se mi passa il paragone, Berlusconi è la Belen della politica, quando c’è lui si alza l’attenzione. È una macchina da guerra. Lui è in grado di alzare la palla, ma poi ci dev’essere uno che sappia schiacciarla».
Qual è il motivo della disaffezione verso i partiti?
«La gente si sente vessata e ha paura. Rimane attonita e fredda di fronte a certi fatti Belsito, Lusi ma dentro a ciascuno monta la rabbia. Per questo, il voto non va sottovalutato: non è un voto solo di pancia, ma è meditato».
Come se ne esce?
«Con una profonda e totale riforma di tutto il sistema politico italiano. È difficile, ma è questo che il cittadino vuole. E il cittadino va ascoltato: perché altrimenti la disaffezione crescerà ancora».
Corriere 9.5.12
Pdl, Lega e Idv «dimezzati» Perdono anche i Democratici Approfondimenti
I dati dell'Istituto Cattaneo: stravincono i grillini e «tiene» l'Udc
di Dino Martirano
ROMA — Chi più chi meno, rispetto al 2010 hanno perso tutti i partiti. Che però, va detto, si sono in parte dissanguanti a vantaggio delle liste civiche difficilmente catalogabili nel meccanismo dei flussi elettorali. La botta, comunque, è stata forte. La Lega ha lasciato sul campo 145 mila voti (-67%), l'Idv 55 mila (-58%), il Pdl 175 mila (-44,8%), il Pd 91 mila (-33%), Sel e federazione della sinistra 12 mila (-16%). Mentre l'Udc, nella difficoltà del Terzo polo, ci rimette solo lo 0,2% e addirittura migliora (+0,4%) dove non si allea con i grandi partiti. Stravince, invece, il Movimento 5 stelle che porta casa 200 mila voti (l'8,74%) pur presentandosi soltanto in 101 comuni su 941 in cui si è votato (dato contestato dal Pdl che accredita i grillini al 4,9% su base nazionale). L'astensionismo ha colpito duro al Nord e può «presumibilmente spiegare il collasso del Pdl e della Lega» ma si può ritenere che «almeno in parte questa dinamica abbia investito anche le regioni della zona rossa» (Toscana ed Emilia in prima fila).
L'analisi dei flussi dell'Istituto Cattaneo di Bologna — curata da Luca Pinto e Rinaldo Vignati e basata sui dati di 24 capoluoghi: 10 al Nord, 4 nella zona rossa, 10 al centro sud — risulta impietosa nei confronti di tutti i partiti anche se, ora, i segretari delle forze politiche si aggrappano ai distinguo, alle liste civiche che hanno succhiato il sangue a destra come a sinistra, alle alleanze sbagliate.
La Lega risulta più che dimezzata in Piemonte e in Emilia Romagna, regione dove il Carroccio era cresciuto maggiormente negli ultimi anni, e va malissimo nei Comuni con più di 15 mila abitanti: i record delle politiche del 2008 (331 mila voti), delle europee del 2009 (308 mila), delle regionali del 2010 (311 mila) sono praticamente svaniti. Unica consolazione per il Carroccio l'aver limitato i danni nella roccaforte del lombardo-veneto e nei Comuni più piccoli dove il calo si attesta intorno al 30% grazie a una «presenza fidelizzata».
A Parma i grillini hanno cannibalizzato anche lo zoccolo duro della Lega. Va detto — sottolineano i ricercatori del Cattaneo — che «le analisi sono effettuate su "elettori" e non su "voti validi" al fine di poter includere nel computo anche gli interscambi con l'area del non voto (astenuti, voti non validi, schede bianche)». Bene, a Parma si è assistito alla «diaspora degli elettori del Pdl che si sono sparpagliati un po' in tutte le direzioni... anche considerando la pesante eredità dell'amministrazione uscente di centro destra travolta dagli scandali...». Inoltre, qui si è ingigantita la crisi del centrodestra «i cui elettori, abbandonando il candidato ufficiale, si sono orientati in prevalenza verso Pizzarotti (5 Stelle) e Ubaldi (Udc e liste civiche) non tralasciando anche il candidato di centrosinistra (Bernazzoli)». Ma c'è di più: «Il 38% di coloro che avevano votato Lega Nord nel 2010 è passato al candidato Pizzarotti (5 stelle). Una conferma di una certa matrice comune (anti-establishment politico) fra l'iniziale spinta leghista (quella di "Roma Ladrona") e la nuova proposta grillina...». Eppure, a Parma «il Movimento 5 stelle ha preso voti, oltre che dalla Lega, anche dall'Idv (e in parte pure dal Pd)».
Se a Parma i grillini hanno ottenuto un incremento di 13 punti percentuali (dal 6,9% al 19,95), ad Alessandria i voti si sono quadruplicati (da 1.248 a 4.687), a Verona triplicati, a Monza, Cuneo e a Belluno più che raddoppiati. Resta da vedere come sarebbe andata se il Movimento 5 stelle si fosse presentato in tutti i Comuni in cui si votava. In ogni caso Grillo marcia a tre velocità: «Al Nord il risultato medio è del 10,75%, nella zona rossa del 12,7%, al Sud del 3,6%». Perché queste differenze così rilevanti, si sono chiesti al Cattaneo? Un tale andamento è dovuto, tra l'altro, «alla maggiore incidenza del "voto di opinione" al Centro Nord e alla maggiore incidenza del "voto di scambio" in quelle del Sud». Va detto, però, che la capacità di penetrazione dei grillini è in forte crescita: nel 2010 erano presenti in 10 Comuni, nel 2011 in 78, nel 2012 in 101.
Nelle 24 città analizzate, rispetto al 2010, il centro destra ha perso 46 mila voti nella «zona rossa» (-58%) e 123 mila al Nord (-41%). Il Pdl paga un prezzo altissimo con punte al Nord (-61%, pari a 101 mila voti in meno) e nella «zona rossa» (60 per cento, 33 mila voti in meno) ma anche al Centro Sud (-40%).
Nelle medesime 24 città il centro sinistra ha perso 40 mila voti pari al 7% dei consensi ottenuti nel 2010: una limitazione del danno, puntualizza l'istituto Cattaneo, dovuta anche a una «significativa avanzata al Centro Sud (20 mila voti in più). Eppure — nonostante questa asserita tenuta dello schieramento — il pilastro principale del centro sinistra mostra alcune crepe non trascurabili: il Pd «ha subito una contrazione pari al 29 per cento dell'elettorato che lo aveva scelto nel 2010 (con un decremento di 91 mila voti). Una perdita che si attesta attorno al 30 per cento al Nord (-60 mila voti) e nella zona rossa (-19 mila), a fronte di una riduzione di consensi del 20% circa nei capoluoghi del Centro Sud (-12 mila voti).
Sul risultato dell'Udc, infine, l'istituto Cattaneo è un po' avaro nel fornire cifre assolute e propone una lettura legata al tipo di alleanze scelte da Cesa e da Casini: rispetto al 2010 la lista dello scudocrociato perde lo 0,2% (scende dal 6,8% al 6,6%) nei 26 capoluoghi in cui si è votato. Ma «nei 17 Comuni in cui si è presentata svincolata dai partiti maggiori, presentandosi da sola o insieme a liste minori, guadagna mediamente lo 0,4%. Mentre nei Comuni in cui si è alleata con il Pd o con il Pdl ha perso, in entrambi i casi, lo 0,4%». Emerge, dunque, «la preferenza dell'elettorato dell'Udc per una strategia svincolata dalle maggiori coalizioni».
Corriere 9.5.12
Un terzo degli astenuti votava centrodestra
Cinque stelle pesca soprattutto a sinistra: un quarto dal Pd e il 10% dalle altre sigle
di Renato Mannheimer
Uno dei fenomeni caratterizzanti i risultati delle amministrative di domenica e lunedì è stata, insieme all'exploit del Movimento 5 stelle di Grillo e al tracollo del Pdl, la crescita delle astensioni. Si tratta di un evento previsto, già indicato dai numerosi sondaggi apparsi nelle ultime settimane. Anzi, rispetto ai dati di questi ultimi, l'entità della diserzione dalle urne è stata inferiore a quanto alcuni osservatori avevano previsto. In confronto alle amministrative precedenti, l'astensione si è accresciuta di circa 8 punti, mentre da più parti si temeva un deficit di partecipazione superiore al 10%. Ciò è dovuto al fatto che in alcuni contesti, specie al Sud, l'allontanamento dal voto è stato temperato dalla presenza di liste e candidati locali, più o meno «civici», conosciuti direttamente dall'elettore e vissuti spesso come «alternativi» agli schieramenti tradizionali.
Resta il fatto che l'incremento delle astensioni è una circostanza assai significativa, sulla quale conviene riflettere, anche in vista delle politiche previste per il prossimo anno. Essa dipende, come si sa, soprattutto dalla delusione dei cittadini nei confronti dei partiti tradizionali, dalla sensazione, spesso giustificata dalla realtà dei fatti, che questi ultimi non abbiamo saputo o voluto rispondere alle esigenze concrete degli italiani, finendo col portare il Paese nella situazione critica che tutti conosciamo. A ciò si è aggiunto, nell'ultimo periodo, il succedersi degli scandali finanziari che hanno coinvolto diverse forze politiche, cui si accompagna il persistere di privilegi (non ultima la rilevante entità del finanziamento pubblico, per di più mascherata da rimborso per le spese elettorali) che molti leader politici continuano a mantenere e a difendere.
La sfiducia che questo stato di cose ha provocato porta, tra gli altri, a due comportamenti molto diversi tra loro, sebbene accomunati da motivazioni non tanto distanti. Il primo, come si è detto, è costituito dall'accentuarsi dell'astensione. Le ricerche più recenti mostrano come quest'ultima provenga da elettori di tutte le forze politiche, con una accentuazione, tuttavia, per quelli del Pdl, che è il partito più toccato dalla diserzione alle urne. Almeno un terzo degli astenuti a queste ultime elezioni proviene da individui che alle politiche del 2008 avevano votato per il partito di Berlusconi e Alfano. La quota di astensionisti presenti nell'elettorato passato di altri partiti è invece sostanzialmente minore.
L'altro comportamento derivato dalla rilevante crisi di fiducia che caratterizza sempre più l'elettorato italiano è costituito, come si è visto, dal voto verso movimenti di protesta, prima fra tutti la forza di Grillo che, come si sa, ha avuto molti più consensi al Nord. Ma i connotati di quanti danno un'opzione al comico genovese sono assai diversi da quelli degli astenuti. Si tratta, come si è già accennato, di persone più giovani e più interessate alla politica, anche se avverse ai partiti tradizionali. Tuttavia la provenienza è differente: hanno votato per Grillo molte persone che si erano astenute nel 2008, ma anche tanti elettori di sinistra: quasi un quarto dei votanti per il Movimento 5 stelle proviene dal Pd. Un altro 10% dichiara di aver votato nel 2008 l'Idv o la Sinistra Arcobaleno. Ma il 14% aveva scelto in passato il Pdl, mentre il 16% circa aveva votato la Lega.
I due trend, il consenso per Grillo e l'incremento delle astensioni, pur coinvolgendo persone molto differenti tra loro, presentano, come si è detto, un tratto comune. Sono entrambi derivati dallo scontento crescente per le forze tradizionali. Del quale queste ultime dovranno tenere conto per evitare una débacle ancora maggiore l'anno prossimo.
Repubblica 9.5.12
L’analisi dell’istituto Cattaneo paragona i voti nei 24 comuni capoluogo con quelli delle regionali, delle europee e delle politiche
Perdono tutti i partiti, Carroccio meno 67% Grillo trionfa solo al nord, l’Udc tiene
di Silvio Buzzanca
ROMA - I vincitori delle amministrative sono Beppe Grillo e il suo movimento 5 Stelle. Sconfitti, in modo e gradazioni diverse, tutti gli altri partiti. Con la parziale eccezione dell´Udc. Il giudizio netto, basato su schede scrutinate e voti veri, arriva dall´Istituto Cattaneo di Bologna che è andato a guardare nelle pieghe del voto di domenica. L´analisi riguarda 24 comuni capoluogo, i dati di Palermo e Catanzaro non erano ancora disponibili, ed è stata condotta paragonando i voti, non le percentuali, delle amministrative 2012 con le Regionali 2010, le Europee 2009 e le Politiche del 2008.
Il primo dato è sicuramente il trionfo di Grillo. Il suo movimento si è presentato in 101 comuni su 941 e ha ottenuto quasi 200 mila voti per una percentuale nazionale, con tutte le avvertenze del caso, dell´8,74 per cento. Ma nel Nord, in termini assoluti, si registra la quadruplicazione dei voti ad Alessandria rispetto al 2010. A Verona i voti si sono triplicati, a Parma, Monza, Cuneo e Belluno sono più che raddoppiati. Un fenomeno che però non si è verificato nel Mezzogiorno, dove, secondo il Cattaneo, ha pesato di più l´effetto del voto di scambio e meno la propensione all´innovazione e al voto di opinione del Nord.
Negli altri accampamenti regna invece lo sconforto. Specie nel centrodestra, travolto da una valanga elettorale. Piangono soprattutto i leghisti. Alle elezioni del 2008 avevano avuto nelle 24 città esaminate 331 mila voti, nel 2009 alle Europee 308 mila voti , 311 mila alle Regionali del 2010. Domenica il bottino si è fermato a quota 145 mila voti con una perdita secca del 67 per cento. Un risultato che è più marcato in Piemonte ed Emilia Romagna e un po´ meno in Lombardia e Veneto. Nel tracollo i leghisti riescono a mantenere al 30 per cento il calo in valori assoluti nei comuni sotto i 15 mila abitanti.
Un dato molto negativo segna anche il risultato del Pdl. Secondo l´Istituto bolognese perde 175.000 voti rispetto alle precedenti Regionali. Un calo che riguarda soprattutto il Nord e le regioni rosse ma che non risparmia il Centro-Sud, dove Berlusconi vede sparire il 40 per cento dei voti avuti nel 2010.
Non ha però ragione di gioire di queste cifre il centrosinistra. A partire dal Partito democratico che ha perso 91 mila voti che rappresentano il 29 per cento del preferenze raccolte nel 2010. Risultato frutto di una perdita di 60 mila voti al Nord, 19 mila nella zona rossa e di 19 mila nel Centro sud. Anche l´Idv perde consensi: meno 55 mila voti distribuiti in maniera omogenea sul territorio nazionale che rappresentano il 58 per cento dell´elettorato del 2010. Perdono voti anche Sel e la Federazione della Sinistra: meno 12 mila voti pari al 16 per cento dei consensi del 2010.
Infine rimane il voto dell´Udc. Secondo i ricercatori del Cattaneo il partito di Casini «tutto sommato tiene, contenendo le perdite al 6,5 per cento a livello nazionale rispetto alle Regionali del 2010». Ma il risultato nasconde un´avanzata nelle zone rosse, più 13 per cento, e nel Centro-Sud più 32 per cento e un forte arretramento nel Nord: meno 44 per cento.
Repubblica 9.5.12
La Terza Repubblica che non sa dove andare
Pdl e Lega senza leader e identità il Pd tiene, Grillo forte sul territorio
Nell´analisi elaborata dall´Osservatorio elettorale LaPolis-Demos la valenza "politica" del Movimento a 5 Stelle
Il Carroccio resiste ma a fatica. Il risultato di Verona si deve esclusivamente al sindaco Tosi È un voto "personale"
di Ilvo Diamanti
Si tratta solo di amministrative. Elezioni che hanno coinvolto una quota ridotta di popolazione e di Comuni. Un test, in fondo, limitato. Peraltro, molti giochi sono ancora aperti, visto che in tre quarti dei Comuni maggiori si andrà al ballottaggio. Eppure, i risultati del primo turno sono destinati a produrre effetti politici significativi sul piano nazionale.
Le prime elezioni nell´era del Montismo hanno, anzitutto, suggerito che, insieme a Berlusconi, stia uscendo di scena anche il suo "partito personale". Quasi per conseguenza automatica e naturale. Il Pdl. In caduta, dovunque. Da Nord a Sud passando per il Centro. Non è facile decifrare i dati di elezioni specifiche, come quelle amministrative. Caratterizzate dalla presenza di molte liste civiche. Tuttavia, nei Comuni capoluogo, rispetto alle elezioni amministrative precedenti, il Pdl ha dimezzato il suo peso elettorale: è passato dal 30% al 14% (media delle medie). Governava in 95 Comuni (maggiori), insieme alla Lega. Al primo turno ne ha perduti 45 (inclusi quelli in cui è escluso dal ballottaggio). Ne ha mantenuti 5, conquistandone uno solo di nuovo. Negli altri 45 andrà al ballottaggio. In 16 Comuni, però, è in sensibile svantaggio.
A livello locale, peraltro, il Pdl non aveva mai avuto basi solide e radicate. Ma senza Berlusconi ha perduto identità, senso. In qualche misura, speranza. Così ha travolto, nella slavina, anche il retroterra di An. Che, invece, fino a ieri, disponeva di una presenza diffusa in molti contesti. Soprattutto nel Sud.
2. La Lega resiste. Ma a fatica. Il risultato di Verona si deve, esclusivamente, a Tosi. È un voto "personale". Per molti versi, espresso "contro" la Lega di Bossi. Tosi, infatti, è il principale alleato di Maroni, come ha ribadito anche in questi giorni. Verona, d´altronde, non è una roccaforte storica della Lega, che si è insediata in città (e nell´area) solo nell´ultimo decennio. Prima era una zona di forza della Destra, da cui Tosi ha attinto molti consensi. Allargandoli in misura ampia, con la sua azione. E amministrazione. Altrove, però, la Lega non ha fatto bene. Complessivamente, nei Comuni dov´era presente, la Lega ha perduto poco rispetto alle amministrative del 2007, ma ha dimezzato la percentuale del voto rispetto alle politiche del 2008 e le europee del 2009. Fra le 12 città maggiori al voto dove il sindaco uscente era leghista, la Lega ha perduto in 5 e in altrettante è al ballottaggio. Oltre a Verona, al primo turno ha vinto solo a Cittadella. Una roccaforte nel cuore del Veneto. Luogo quasi simbolico. Evoca la Lega che non è scomparsa, come alcuni ipotizzavano (e auspicavano). Ma "resiste" all´assedio. Ha reagito meglio nei Comuni più piccoli, inferiori a 15 mila abitanti (secondo l´analisi dell´Istituto C. Cattaneo).
Tuttavia, le sarà difficile, su queste basi, riproporsi come "partito del Nord". Tanto più perché perdere sindaci e peso nelle amministrazioni locali significa perdere radicamento nella società e nel (suo) territorio.
Dove oggi appare un soggetto politico minoritario.
3. Ne deriva che il Pdl e la Lega, al di fuori dell´alleanza di centrodestra, risultino perdenti. Su base locale e non solo. D´altronde, anche un anno fa, alle amministrative, anche se alleati, avevano subito un notevole arretramento e alcune sconfitte pesanti. Per prima: Milano. Ma oggi, che Pdl e Lega corrono ciascuno per conto proprio, e anzi, uno contro l´altro, il loro futuro appare quanto meno difficile. D´altronde, solo Berlusconi era riuscito a coalizzarli, a farli stare insieme. Con argomenti efficaci. Per forza e/o per interesse. Il rapporto fra i due partiti, peraltro, era molto "personalizzato". Fondato sulle relazioni dirette fra Berlusconi e Bossi. Ma oggi il ruolo dei due leader si è ridimensionato e anche il legame fra i partiti si è sensibilmente allentato.
In concreto, nel centrodestra si è aperto un vuoto di rappresentanza politica che non è chiaro come e da chi possa venire colmato.
4. Nel centrosinistra la situazione appare migliore. Soprattutto perché i partiti che ne fanno parte hanno, perlopiù, confermato l´alleanza. Anche se con geometrie variabili. Punto fisso: il Pd, che ha costruito intorno a sé diverse intese. In prevalenza, con la sinistra, ma anche insieme all´Udc. Al primo turno, nei capoluoghi di provincia ha tenuto, passando (in media) dal 19% al 17%: 2 punti in meno. Inoltre, nei 53 Comuni dov´era al governo, prima di queste elezioni, dopo il primo turno ne ha riconquistati 14 e altri 11 li ha strappati al Centrodestra. Eppure è indubbio che anche in quest´area emergano segni di sofferenza. Nel Pd - ma anche nel centrosinistra. Il quale non riesce a capitalizzare il crollo del centrodestra.
Subisce, nelle sue aree, il peso dell´astensione. Che raggiunge non a caso il massimo nelle zone rosse: in Toscana, in Emilia Romagna, nelle Marche.
E, ancor di più, è incalzato dalla concorrenza del Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo. La sorpresa di questa consultazione. Dove i suoi candidati sono al ballottaggio in 5 Comuni oltre 15 mila abitanti (tra cui Parma). A Sarego, piccolo comune in provincia di Vicenza, è riuscito a fare eleggere il suo candidato sindaco. Il risultato del Movimento 5 Stelle, però, appare rilevante soprattutto per il livello dei consensi ottenuti un po´ dovunque. Oltre il 10%, in media, nei Comuni capoluogo. Il 9% nell´insieme dei Comuni dove è presente. In alcuni contesti, peraltro, ha ottenuto performance importanti. Intorno al 20%.
5. La tendenza - e la tentazione - diffusa è di etichettarlo come un fenomeno "antipolitico". Equivalente e alternativo rispetto all´astensione. Una valutazione che mi sembra poco convincente.
A) Perché è comunque un soggetto "politico" che ha partecipato a una competizione democratica chiedendo e ottenendo voti. Facendo eleggere i propri candidati. B) Poi perché il suo successo deriva, sicuramente, dalla critica contro il sistema di Grillo, ma anche dal fatto che il Movimento ha coagulato gruppi e leader attivi a livello locale. Impegnati su questioni e temi coerenti con quelli affrontati nel referendum di un anno fa. Collegati alla tutela dell´ambiente, ai beni pubblici. Alla lotta contro gli abusi. Progetti di "politica locale" promossi da persone a interessi privati e a lobby. Per questo credibili, in tempi scossi da scandali e polemiche sulla corruzione politica. C) Infine, perché i loro elettori sono tutto fuor che "impolitici". Mostrano un alto grado di interesse per la politica (sondaggio Demos, aprile 2012). Certo, un terzo di essi, alle elezioni politiche del 2008, si è astenuto. Ma il 25% ha votato per il Pd e il 16% per l´Idv. Il Movimento 5 Stelle, per questo, rivela il disagio verso i partiti. Soprattutto fra gli elettori dell´area di centrosinistra. Ma non solo: un´analisi dei flussi elettorali condotta dall´Istituto Cattaneo sul voto di Parma, infatti, rileva una componente di elettori sottratti alla Lega (3% sul totale, rispetto alle regionali del 2010). Il Movimento 5 Stelle, dunque, offre a una quota di elettori significativa una rappresentanza, che può non piacere, ma è "politica".
Io, comunque, sono sempre convinto che sia meglio un voto, qualsiasi voto, del vuoto. Politico.
Nell´insieme, questi risultati rafforzano l´impressione che il Paese sia ormai oltre la Terza Repubblica, fondata da - e su - Berlusconi e il Berlusconismo. Ma non sappia dove andare.
Con questi partiti, questi leader, questi schieramenti, queste leggi elettorali e con questo sistema istituzionale: temo che passeremo ancora molto tempo a discutere di antipolitica. Per mascherare la miseria della politica.
Repubblica 9.5.12
Le macerie dopo il miracolo
di Guido Crainz
L´Italia delineata dal voto non alimenta illusioni ma pone problemi di grande rilievo. La stagione di Berlusconi si è definitivamente conclusa ma lascia segni profondi e il terreno è ingombro di macerie.
Lo stesso voto del resto ci ricorda che ad essa non ha posto fine un´opposizione efficace e lungimirante, pronta ora a governare. Ci ricorda che la alternativa riformatrice non è limpidamente all´orizzonte. Per comprendere meglio l´entità del tracollo della ex maggioranza occorre ricordare che le elezioni regionali di due anni fa avevano segnato ancora una sua significativa vittoria, in parte trainata da una Lega in espansione persino nelle "regioni rosse". E il Pdl era dilagato anche a L´Aquila e in altri centri abruzzesi, sull´onda della promessa e illusionistica "politica del fare" del Cavaliere: ora a L´Aquila non è ammesso neppure al ballottaggio. Una tenuta del centrodestra che aveva sfidato ogni previsione si è dunque dissolta con rapidità estrema, ed entrambi questi aspetti impongono riflessioni non contingenti: non riducibili cioè al succedersi di scandali dell´ex premier o a casi di corruzione sempre più gravi, estesi e clamorosi (da cui peraltro il centrosinistra non è stato esente). Non è per essi che Berlusconi si era dovuto dimettere, ma per l´infuriare della crisi economica e per la sua totale inadeguatezza a farvi fronte. Anche in precedenza, del resto, era stata la crisi economica in tutta la sua ampiezza e in tutte le sue conseguenze a rivelare la natura e la miseria del "patto con gli italiani" del Cavaliere. Quel patto si era basato sulle sinergie non di virtù ma di accondiscendenze, e su distorsioni trasformate in normalità. Aveva avuto a propria bussola l´attenuarsi di regole e vincoli per governanti e governati, e la garanzia per entrambi di una "protezione" basata sull´uso dissennato delle risorse pubbliche. La nave va, diceva ai suoi tempi il Craxi trionfante, e ne condivise poi l´affondare. Berlusconi aveva riproposto in nuove e differenti forme le stesse illusioni, e con esse una ideologia che ha alimentato alcuni dei modi peggiori di essere italiani. Tutto questo ha iniziato a dissolversi quando parti crescenti del Paese hanno dovuto abbandonare un ottimismo infondato e irresponsabile. Quando la crisi, appunto, ha reso sempre più evidente che l´assenza di regole non è un´opportunità per nessuno ma la premessa di una comune rovina. Quando la "protezione paternalistica" che aveva retto sin lì è andata in frantumi: con un premier isolato nel bunker dei propri processi e dei propri privati interessi, sempre più privo di prestigio all´interno stesso della propria miserevole corte. E con un Paese sempre più esposto ad una bufera internazionale che ne minacciava e ne intaccava il vissuto quotidiano, proiettandovi angustie e inquietudini. È per questa via che quel patto è giunto a lacerarsi irrimediabilmente, lasciando "orfani" ampi strati sociali: esposti ora al disincanto, se non al rancore, e alla ulteriore chiusura negli egoismi individuali e di ceto. Non è stata, o non è stata solo, una virtuosa società civile a insorgere contro un centrodestra e un sistema politico screditato: l´abbaglio dei primi anni Novanta non può oggi ingannare nessuno, e già allora la disillusione fu molto amara.
Che Italia ci lascia dunque la fine di questa stagione? Nel dicembre del 1994, nella crisi del primo governo guidato da Berlusconi, Sandro Viola scriveva lucidamente su questo giornale: "Quando il governo prima o dopo cadrà, sul Paese non sorgerà un´alba radiosa. Vi stagneranno invece i fumi tossici, i miasmi del degrado politico di questi mesi". I mesi sono diventati anni, molti e lunghi anni, e i sintomi di una crescente involuzione sono stati evocati sempre più spesso da molte e preoccupate voci. Concordi nel segnalare il diffondersi di forme di "società incivile" poco rispettose dei beni pubblici e della legalità. Concordi anche nel tracciare i contorni di un Paese sfibrato e sfiduciato: un Paese che, per dirla con Raffaele Simone, considera le questioni ideali "come il fumo che gli impedisce di mordere l´arrosto delle proprie urgenze quotidiane". Una Italia che ha visto nuove forme di "plebeismo" insinuarsi sin "nel cuore ansioso dei nuovi ceti medi", sempre meno attivi nel promuovere e attivare "processi di civilizzazione" (vi si è soffermato Carlo Donolo in un suggestivo libro recente, Italia sperduta). Anche l´ultimo rapporto del Censis, del resto, ha analizzato con attenzione questi processi e ha indicato però al tempo stesso le risorse positive pur presenti nella società italiana: ad esempio una responsabilità collettiva pronta ad entrare in gioco, già decisiva in passaggi chiave della nostra storia nazionale. Non mancano certo forze vitali nell´economia e nella cultura, e vi è un´ampia area di cittadini non travolti dall´antipolitica ma legati ancora alla speranza di una politica migliore, basata su trasparenza, efficacia, eticità e legalità.
Le energie per avviare un´inversione di tendenza sembrano dunque esserci, anche se non è ancora riconoscibile il progetto in grado di metterle in moto e di farle interagire. In grado di sorreggere un´opera di Ricostruzione, economica e morale, pari a quella che pur fu compiuta in altri e più drammatici momenti. È questo il compito che attende i partiti, ove siano capaci di rigenerarsi e di rifondarsi. Partiti "obbligati" anche da questo voto a decidere nelle prossime ore, non nei prossimi mesi, quelle misure drastiche e limpide sul modo di essere della politica che sono state invocate da più parti. Oggi il tempo è scaduto, nessuno può nasconderselo. Sarà altrettanto importante in questo scenario l´operare del governo, chiamato più che mai a delineare il futuro. A dare risposte, prospettive e fiducia a un Paese smarrito. E sarà importante il contributo stesso dei cittadini.
La Stampa 9.5.12
Fra moglie e partito
di Massimo Gramellini
Dice di scrivere da Parma e di chiamarsi Emanuele. Sposato da vent’anni con la stessa persona, e con lo stesso partito il Pci-Pds-Ds-Pd da quasi trenta, domenica aveva due appuntamenti con l’adulterio. Uno a un’ora di macchina, in un ristorante vicino al mare, dove lo attendeva la nuova collega dai capelli nero-tizzone che gli fa il filo in modo sfacciato. L’altro in cabina elettorale con la lista di Grillo. La vita gli stava offrendo la possibilità di tradire in un giorno solo i suoi due spenti amori. Prima di partire per il mare è andato a votare: «Il Pd non è più neppure l’ombra del partito nel quale da ragazzo avevo creduto e che, pur con tutti gli errori che la Storia ci ha poi rivelato, mi aveva trasmesso un pizzico di passione e una speranza di futuro». Ma al momento di mettere la crocetta sui grillini è stato colto dal panico. «Credo sia stata la paura dell’ignoto a farmi tremare la matita e a indirizzarla verso il solito simbolo». Uscito dall’urna era così depresso e confuso che è tornato a casa, rinunciando alla scappatella marina. «Mia moglie è come il Pd. Non mi dimostra più attenzione né passione. Io ne soffro, eppure non so fare a meno di lei. Sono attaccato a qualcosa che non c’è più, ma che sento parte della mia vita. Così continuo a sperare che lei torni quella di un tempo e non vado via. Lo stesso faccio con il Pd. Ma il partito non è una persona. Con un partito temo di avere ancora meno speranze».
Se fossi la moglie, mi sentirei relativamente tranquilla. Se fossi Bersani, per niente. Di questo passo mi sa che le prime corna Emanuele le metterà a lui.
l’Unità 9.5.12
Vendola: «Ma quale linea Hollande È il solito club del rigore»
di Andrea Carugati
«Nonostante il tracollo del centrodestra, il centrosinistra non decolla. E lo vuol sapere perché? Tutti gioiamo per Hollande, io sono pronto a firmare subito un programma come quello, ma qui in Italia la politica “alla Hollande” non c’è, non si vede quella forza nel capovolgere gli idoli pagani del liberismo». Nichi Vendola, leader di Sel, non nasconde l’effetto dirompente del voto amministrativo. E le tante domande che le urne pongono al centrosinistra.
In Italia i più stretti parenti del Ps francese sono il Pd e i suoi alleati. Siete voi. «Sovrapporre Hollande al sostegno al governo Monti è impossibile, è un falso. Il premier è uno dei protagonisti del “club dell’austerity” che sta facendo sprofondare l’Europa nella recessione».
Dopo il cambio all’Eliseo anche la politica del governo italiano potrebbe cambiare...
«Ogni giorno che passa si aggrava la crisi sociale e democratica, e si acuisce la distanza tra società e politica. Temo che dopo l’estate arriveremo a una miscela micidiale. Diciamolo pure: il sostegno a Monti è stato piombo nelle ali per il centrosinistra nelle urne».
Insisto, la politica del governo potrebbe puntare di più sulla crescita, come chiede il Pd.
«Credo che il tentativo di risanamento finanziario sia fallito, e così anche il tentativo del Pd di provare a condizionare da sinistra il governo di un tecnocrate liberista. Il dibattito sulla crescita mi pare tanto vacuo quanto retorico. All’inizio sono stato più prudente, per evitare l’ennesima rottura a sinistra e per ossequio al Capo dello Stato. Ma ora bisogna dire parole chiare, perché ogni giorno che passa è un regalo a chi investe sul rancore sociale, all’antipolitica più torbida. Non possiamo sottovalutare i rischi di questo passaggio».
Non crede che la legislatura arriverà al termine?
«Sono pochi mesi, ma a me pare un tempo eccessivo. Il binomio tra bulimia fiscale e anoressia delle politiche sociali può scatenare rabbia nel Paese. Se vogliamo costruire l’alternativa, non si può tenere in vita il governo Monti, che è in continuità con Berlusconi, a partire dalle politiche sul lavoro».
Voi di Sel, pur se oppositori di Monti, non siete andati molto bene alle urne.
«I nostri candidati erano dispersi in molte civiche, liste dei sindaci, è difficile fare una stima precisa. Ma se guardiamo il voto dei quartieri a Genova, dove c’era il simbolo di Sel, siamo al 10%. Complessivamente, a livello nazionale, siamo tra il 4 e il 5%, un dato incoraggiante, anche perché nei voti amministrativi noi siamo più deboli».
Eppure molti voti di delusi di sinistra sono andati a Grillo e non a voi...
«Certo, ha intercettato anche voti di sinistra che volevano punire il centrosinistra. Il suo successo deriva anche dal fatto che è stato un protagonista costante della giostra mediatica. Noi di Sel abbiamo fatto una scelta unitaria nel centrosinistra e questo forse ha un po’ appannato il senso della nostra autonomia e della nostra proposta, ha reso la nostra strada più in salita. Ma non mi pento, perché quella dell’unità è la strada giusta».
Vuole dire che ha pagato l’alleanza col Pd?
«Ho pagato a caro prezzo il rispetto delle regole, soprattutto a Palermo. Abbiamo scelto di rispettare il risultato delle primarie, ma gli elettori palermitani hanno mandato un segnale chiarissimo al Pd, contro il trasformismo e il gattopardismo. Non hanno bocciato tanto Ferrandelli, quanto i suoi sponsor e i loro rapporti col governatore Lombardo. Questa vicenda ci insegna molto». Cosa?
«Che alzando una bandiera chiara si può vincere persino in terre considerate inespugnabili come la Sicilia. A Palermo la domanda degli elettori era chiara e conteneva un giudizio durissimo sul centrodestra. L’offerta è apparsa appannata, per non dire opaca. E abbiamo perso. A partire dal Pd che è schiantato al 6%».
Di Pietro si è confermato come un partner inaffidabile. È d’accordo?
«Hanno sempre ragione gli elettori che chiedono il cambiamento. Così è stato a Napoli e così a Palermo».
Dunque niente critiche a Di Pietro?
«L’Idv è una forza viva, capace di evocare quella buona politica di cui gli elettori si sentono orfani. Per me è un alleato prezioso, indispensabile. In fondo, tutti i nostri partiti sono pieni di difetti. E non capisco chi insiste con le radiografie verso i partner di centrosinistra, mentre verso le forze di centro si è molto più tolleranti...».
Il Terzo Polo è andato piuttosto male...
«Ha brillato per la sua irrilevanza elettorale».
Una buona notizia, per lei.
«C’è stata per anni una vera ossessione per l’incontro con un Polo che si è rivelato un bluff nelle urne. Ora abbiamo un’altra urgenza: ridefinire il profilo programmatico e ideale del centrosinistra. E per questo dobbiamo convocare urgentemente gli Stati generali del futuro per mettere a fuoco un percorso di costruzione di una proposta di salvezza del Paese e di rilancio della nostra idea di Europa. A partire da un programma che sappia evocare un cambiamento reale della qualità della vita. Prima ci muoviamo, prima potremo capire quali altri alleati possono camminare con noi».
Come giudica l’exploit di Grillo?
«Un conto è Grillo, un altro i candidati del Movimento 5 stelle: non sono aggressivi, mostrano cura per il territorio, impegno per battaglie civili degne di attenzione. Vorrei capire con rispetto questo movimento, senza snobismi. Dove possibile, anche aprire un’interlocuzione. Non sono alieni... ».
il Fatto 9.5.12
Il neo Savonarola dai socialisti in Cina ai comizi anti-casta
La Porsche, Sanremo e la tv, poi le svolte “politiche”
di Andrea Scanzi
La prima scintilla è forse occasionale, l’approdo attuale lungamente inseguito. Quando Giuseppe Piero Grillo pronuncia la battuta sui socialisti ha 38 anni e un presente nazionalpopolare. Fantastico 7, 15 novembre 1986. Presenta Pippo Baudo, che lo ha scoperto dieci anni prima in un teatro semivuoto milanese, La bullona. “La cena in Cina... Martelli ha chiamato Craxi ehadetto: ‘Masentiunpo', quace n'è un miliardo e son tutti socialisti? ’. E Craxi ha detto: ‘Sì, perché? ’. ‘Ma allora se son tutti socialisti, a chi rubano? ’”. Tangentopoli è lontana, la censura no. Craxi chiama Baudo, che eroicamente scarica Grillo e ne benedice la cacciata. È la prima svolta in un percorso che sembrava quello di un Benigni meno cinematografico (l’ultimo Dino Risi chiosò: “Grillo è più attore adesso di prima”).
Una roba pazzesca
Nato a Genova il 21 luglio 1948. A trent’anni è già presentatore al Festival di Sanremo. Te la do io l’America, Te lo do io il Brasile, Cercasi Gesù. I capelli ricci, “una roba pazzesca”. Vittorio Sgarbi lo conosceva già: “Uno scemo patentato”, che “viaggiava con una Porsche bianca come un bullo di periferia” e “frequentava casa per vedere mia sorella 15enne”. Nel 1988 è condannato per omicidio colposo plurimo, poiché responsabile della morte di due coniugi e del loro figlio di 8 anni. Il fuoristrada guidato da Grillo scivolò su una lastra di ghiaccio, non distante da Limone Piemonte, e finì in un burrone. Grillo si gettò fuori dall’abitacolo prima di precipitare. Non l’ha mai nascosto, specificando che quella condanna gli impedisce una candidatura peraltro mai desiderata. Così il 16 settembre 2005 nel blog: “Ho avuto un incidente di macchina nel 1980, guidavo io, mi sono salvato per miracolo, ma sono morte tre persone che erano con me e sono stato condannato per omicidio colposo a un anno e tre mesi. Non mi candiderò al Parlamento”. La seconda svolta, più deliberata della prima, è l’approdo a una satira che inventa: quella “ecologico-economica-politica”. Colpire soltanto i politici non basta. A terrorizzare è altro: finanza, stupri ambientali, dittatura del mercato, onnipresenza della pubblicità (che ha fatto: per la Yomo). Dopo l’esilio forzato, Grillo gravita come superospite a Sanremo. Record di ascolti e battute eternate (Jovanotti “cureggina”). Buone notizie (1991) dà inizio alla sistematica opera di controinformazione che lo rende credibile agli occhi del suo pubblico. Testi di Michele Serra, oggi in prima fila a dargli del “qualunquista demagogo populista” con Eugenio Scalfari e altri maître à penser. Regia di Giorgio Gaber, con cui condivide la scelta di abbandonare la tv per coltivarsi una tribù di carbonari in teatri e palazzetti. Il Beppe Grillo Show del 92/93 è l’unico Grillo savonaroliano trasmesso in Rai. Propaggini catodiche si verificano a fine anni Novanta su Tele+, con i Discorsi all’Umanità. Poi arriva Murdoch, che lui chiama “Merdoch” per quel vezzo bambinesco di storpiare i cognomi come Guglielmo Giannini. Da allora solo teatro. Grillo non si improvvisa politico: lo è da vent’anni. Prima nei Palasport, ora in Rete. Visceralmente incapace di dialogare, feticisticamente legato al monologo. Grillo non frequenta i talkshow perché li odia (la teoria) e perché non sa condensare un pensiero in pochi secondi (la pratica ). Vive il paradosso semantico di fare politica con gergo da comico, da qui i molti cortocircuiti linguistici (mafia, evasione, Ius Soli). Generalizzatore per strategia, sa incassare la risata e il consenso di pancia. Quando nel 2005 lo ricercò l’Espresso, si premurò che “l’intervista uscisse bene: ci tengo”. Di fronte all’idea di dedicargli pagine, il capocultura si stupì: “Scusate, ma Grillo fa ancora qualcosa? ”. L’attenzione dei media era quella (poco dopo sarebbero arrivate le sportellate con un’altra firma del settimanale, Alessandro Gilioli). Carattere spigoloso.
Da Moana all’Apocalisse
Il voto (“7”) da amatore che gli dedicò Moana Pozzi, le lacrime per Fabrizio De Andrè di cui fu testimone di nozze (“Dio non poteva prendersi Toto Cutugno? ”). L’amicizia con Mina, Benni, Crozza. La vicinanza con Antonio Ricci, che lo ritiene uno straordinario centravanti di sfondamento con problemi nell’argomentare. Il conflitto con Daniele Luttazzi, che gli ha dedicato lucide pagine di critica e che anni fa si lamentò per una battuta rubata su Papa Woytjla e Parkinson. “Gli telefonai e mi rispose il suo manager. Grillo ripeteva: ‘Dì a Luttazzi che gliele rubo tutte, sono troppo belle’”. Grillo non ha mai amato il collega (“Va sempre in giro col leggìo? ”, chiedeva sarcasticamente nei camerini), che è nel frattempo inciampato in un caso-plagio appena più ingombrante. Il miglior Grillo ha usato i palazzetti per dare notizie che giornali e tivù dimenticavano. Lì si è cementata la credibilità: 1991-2005. Le premonizioni (Parmalat), le querele (una, persa, perché chiamò “vecchia puttana” Rita Levi Montalcini). Verde sui generis, sinistrorso sui generis, satirico sui generis. Genera appartenenza per contrasto. Le citazioni di Glenn Gould, la presenza scenica, il sudore copioso. Le battute ripetute. Il blog, nato il 26 gennaio 2005 per volere dell’alter ego Gianroberto Casaleggio (in grado secondo alcuni di plagiarlo) è lo sfogo naturale di una vita urlata. Cantonate, testacoda (i computer spaccati sul palco nel 2000), vaffanculo seriali. Del Movimento 5 Stelle è “semplice megafono” di una “democrazia dal basso”, ma il suo predominio è innegabile. Mal tollera il dissenso, tende a scomunicare i grillini poco osservanti. Ha catalizzato anzitutto gli orfani di sinistra perché, oltre a parlare di acqua pubblica e delitti sottaciuti (Federico Aldrovandi), ne ha incarnato la parabola. Nel 2006, stremato da Berlusconi, votò “un partito minore legato alla coalizione Prodi”. Poi vide Mastella alla Giustizia e l’indulto. Netta la rottura: “Meglio un nemico vero di un amico finto”. Ecco perché è molto duro con il Pd (ampiamente ricambiato). Più lo attaccano e più cresce: è la sua tazza di tè. Manicheo, cocciuto, paraleghista più che paraculo. Padre un po’ padrone di ragazzi mossi da sincera passione. Per nulla antipolitico, casomai anti-casta. Ieri erano spettacoli da ricordare e ora comizi non sempre memorabili, ma il porto su cui ha attraccato il marinaio Grillo era l’unico possibile. Apocalisse morbida di un iconoclasta coerente.
il Fatto 9.5.12
Le giravolte per farsi riconoscere il titolo in Italia
Il Trota, prima laureato e poi diplomato
di Antonella Mascali
Non solo ha conseguito una laurea in un anno a Tirana, senza a quanto pare aver mai messo piede nella capitale albanese, ma Renzo Bossi ha fatto di tutto, fino a poche settimane fa, per ottenere il riconoscimento del titolo in Italia e potersi giocare la carta del “dottore in economia aziendale”. Solo le indagini delle procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria lo hanno fermato. Di mezzo anche un tentativo, attraverso documenti, di confondere le idee all'Ambasciata italiana a Tirana che, prima delle inchieste, a onor del vero aveva fiutato l’imbroglio. Ed è proprio l’ambasciata, “per opportuna conoscenza”, a inviare lunedì al procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo e ai pm Paolo Filippini e Roberto Pellicano una relazione su quanto accaduto fino al mese scorso. Nei giorni precedenti aveva appreso dai giornali che nella cassaforte romana dell'ex tesoriere Francesco Belsito erano custodite le lauree albanesi ottenute all'università privata Kristall sia da Renzo Bossi che da Pier Moscagiuro, il poliziotto-guardia del corpo della vicepresidente del Senato, Rosi Mauro. L’agente, però, non ha potuto avviare le pratiche per la convalida in Italia del titolo conseguito nel luglio 2011: ha scoperto che la facoltà di scienze politiche della Kristall presso cui risulta essersi laureato l’anno scorso non era accreditata dal ministero dell'Istruzione albanese.
Chi si muove, invece, fino ad aprile è Renzo Bossi, il Trota. Nel documento che ha ricevuto la procura di Milano si ricostruisce che nel luglio 2011, quindi l’anno dopo che Renzo Bossi ottiene l'attestato di laurea dalla Kristall, un cittadino albanese si presenta all' Ambasciata italiana di Tirana con in mano la laurea del Trota in “Menaxhim biznei”, in economia aziendale, e chiede il rilascio dell'attestazione di valore, in modo da poter usare il titolo anche in Italia.
Gli addetti ai lavori dell’Ambasciata, però, leggendo le date, si sono molto “stupiti”. Da una semplice verifica su internet scoprono che il figlio di Umberto Bossi, consigliere regionale in Lombardia, si è diplomato nel luglio 2009. Quindi la domanda è sorta loro spontanea: com'è possibile che l'anno dopo si sia laureato, dopo aver dato 29 esami? Qualcosa non torna si sono detti coloro che dovevano seguire la pratica. E dunque non consegnano a Renzo Bossi l'agognata dichiarazione di valore. Passano tre mesi e il Trota torna all'attacco. Non personal-mente, lui a Tirana non va.
NELL'OTTOBRE 2011 manda all'ambasciata italiana un’avvocata albanese Anoia Dragoj. Porta con sé la delega di Renzo Bossi e un certificato di ammissione alla maturità scientifica con 6,10 (aveva appena la sufficienza in tutte le materie, eccetto il 7 in educazione fisica) del liceo scientifico Enrico Fermi di Bergamo datato 18 maggio 2007. Un certificato di ammissione e non il diploma. Quell'anno il figlio del Senatur fu bocciato. Quindi, quel certificato vecchio di 4 anni presentato all’ambasciata sembra un tentativo maldestro per rendere credibile una laurea conseguita in un anno, nonostante il corso fosse di 3. Ma i diplomatici non ci cascano. Il consigliere Bossi, però, è ostinato. Ci riprova per la terza volta a chiedere il certificato. L’avvocata il 19 marzo 2012 presenta una nuova richiesta. A quel punto il personale italiano competente chiede all’università Kristall la veridicità della laurea di Bossi jr. Il 4 aprile 2012, però, l'avvocata Dragoj prova a bloccare la pratica. Inaspettatamente dice che il suo cliente non è più interessato ad avere l'attestazione di valore in Italia. Il 4 aprile non è un giorno qualsiasi. È il “day after” giudiziario per la Lega. Il 3 aprile c'erano state le prime perquisizioni della Guardia di finanza di Milano anche nella sede del Carroccio in via Bellerio. Ma nonostante il dietrofront dell’avvocata, la pratica ormai avviata procede: il professor Skender Kercuku, come decano della facoltà di economia della Kristall conferma che Renzo ha conseguito la laurea nel luglio 2011. L’ambasciata italiana, comunque non concede l'attestazione di validità internazionale di quel titolo ottenuto in tempo record. Nonostante ciò l'università Kristall, sconosciuta alle classifiche albanesi sulla qualità degli atenei, ha fatto sapere ai giornali locali che ha accettato l'iscrizione di Bossi jr. alla facoltà di economia nell'anno 2007-2008. Cioè quando il Trota era ancora un liceale ripetente. Mentre il poliziotto Moscagiuro, con una laurea non riconosciuta neppure in Albania, secondo la Kristall, si è iscritto nel 2008-2009.
Corriere 9.5.12
In arrivo la riforma dell'editoria
ROMA — Il governo Monti accelera sulla riforma dell'editoria. Sarebbe, infatti, pronta la riforma dei contributi pubblici che porterà a una riduzione generalizzata dei finanziamenti. Ieri si è svolto a palazzo Chigi un pre Consiglio dei ministri durante il quale è stato analizzato il testo di riforma. Secondo gli ultimi rumors, il provvedimento approderà al prossimo Consiglio dei ministri ed è più probabile che assumerà la forma di un decreto legge che non quella di un disegno di legge delega.
Corriere 9.5.12
De Benedetti: io, Berlusconi, l'Avvocato «Passera? Cura molto l'immagine»
di Aldo Cazzullo
È un fiume in piena, Carlo De Benedetti, nella lunga intervista-tv che domani sera su Rai2 inaugura la nuova serie di «Fratelli d'Italia», il programma ideato e condotto da Annalisa Bruchi e prodotto da Giovanni Minoli. Incalzato dalle domande della conduttrice, l'Ingegnere racconta l'esperienza in Olivetti ed esprime sui protagonisti della vita italiana giudizi che il Corriere è in grado di anticipare.
Passera «E' uno che cura più l'immagine della sostanza. Uno che tende ad essere molto conciliatore e a non prendere mai posizioni molto definite. L'ho sempre considerato un eccellente assistente, e penso che quella fosse la sua vera e grande capacità. Poi ha fatto una carriera che mi fa piacere abbia fatto, ora ha scelto anche di andare in politica, perché mi pare che più che il ministro sia l'aspirante... l'aspirante di qualcosa che viene dopo. Lui è anche ministro delle Infrastrutture. E l'unica infrastruttura importante che si fa in Italia è la Tav. Ma io non ho visto Passera apparire a Torino. Allora mi chiedo se si studia il dossier a Roma o cosa fa. Penso che desideri non accoppiare la sua immagine a un elemento negativo».
Regina Coeli. Alla domanda sui ricordi delle ore passate a Regina Coeli ai tempi di Mani Pulite, De Benedetti risponde: “L'ispezione anale. E' stata la cosa più umiliante. Una cosa che ti rimane nella vita. Un senso di violenza fisica”.
Agnelli. «L'Avvocato ha rappresentato un incredibile esempio di eleganza, di curiosità, di senso della bellezza, del gusto, e anche di arguzia, di spirito, di battute. Questi sono i lati belli. I lati brutti sono una certa superficialità, una certa “volagerie”: l'Avvocato non si è mai fermato un momento su una cosa, ma questa era la contropartita di tante altre doti. Non si può essere tutte le cose insieme».
Anita Ekberg. «A Torino con l'Avvocato abitavamo nello stesso palazzo. Ero un ragazzino, avrò avuto 14-15 anni. Una sera rientravo a casa, saranno state le 10 o le 11 di sera. Lo vidi entrare con Anita Ekberg. Sgranai gli occhi, perché era una donna straordinariamente bella, rimasi imbambolato e lui mi diede un consiglio, con un buffetto, i consigli che si danno ai ragazzi di quell'età, ecco... di aggiustarmi, insomma».
Berlusconi. «Credo che gli italiani ne abbiano avuto abbastanza». E i 564 milioni di euro? «Ho avuto la riparazione di un danno drammatico, non è che ho ricevuto un premio. La Mondadori era nostra e ci è stata portata via corrompendo un giudice. La difesa di Berlusconi dice che anziché averne corrotti tre ne ha corrotto solo uno. Va bene, vediamo cosa deciderà la Cassazione. Siamo assolutamente fiduciosi».
Bernabè. Ingegnere, vuole comprare La7? «No, innanzitutto per comprare una roba bisogna che ci sia qualcuno che la vende, e per adesso mi sembra che Bernabè sia ancora innamorato del giocattolo. Poi però sarà costretto a vendere. Non c'è problema».
Scalfari. Nell'Editoriale L'Espresso «io sono entrato come azionista di minoranza quando gli azionisti di maggioranza erano Caracciolo e Scalfari. L'azienda stava andando veramente male, per non dire che era quasi sull'orlo del fallimento. La salvai. Poi Scalfari e Caracciolo vendettero». «Nei contenuti dei giornali entro zero, nelle scelte dei direttori totalmente. Io ho scelto Ezio Mauro. Devo dire onestamente che l'ho concordato con Eugenio. Nel senso che gli ho detto: “Guarda, io voglio essere sicuro di avere in mano un giornale vero. Questo giornale sei tu, e il giorno che tu non ce la fai più io non vorrei trovarmi con in mano un oggetto che non è più un giornale. Per cui, mentre tu sei ancora vivo e vivace, voglio cambiare direttore". Eugenio era perfettamente d'accordo».
Rossella. «D'altronde Mauro aveva lavorato a Repubblica con Scalfari e in quel momento era direttore della Stampa, ed è la cosa per cui Agnelli me ne ha voluto di più. Perché è rimasto senza direttore per tre giorni, e poi si è dovuto ciucciare Rossella. Romiti a un certo punto ha trovato, nelle sue frequentazioni romane, che l'unico direttore in quel momento era lui. Quindi Agnelli si è trovato senza direttore, e per giunta con Rossella. Insomma, non era il massimo per l'Avvocato, no».
Jobs. «Con lui feci la più grande stupidaggine della mia vita. Ero in California, dove lavoravano 300 ingegneri della Olivetti. Ero con Elserino Piol, che mi disse: "Ci sono due ragazzi in un garage che stanno facendo progetti, passiamo un attimo…". Vidi ‘sti due, erano Wozniak e Jobs, che trafficavano con delle piastre elettroniche. Steve Jobs mi chiese se ero disposto a mettere un milione di dollari di allora, 1980, per avere il 20% dell'azienda. Io dissi a Piol: "Ma non stiamo a perdere tempo con questi due ragazzi, abbiamo cose più serie da fare". Da mangiarsi le mani. Anzi, le mani non bastano...».
Cuccia. «Le banche, e in particolare Mediobanca, e in particolare Cuccia, non credevano nella telefonia mobile. Cuccia era rimasto all'hardware, per lui l'elettronica manco a parlarne. Quando gli parlai dell'idea di entrare nella telefonia mobile, lui rispose: "Ma lei pensa di fare concorrenza alla Stet! Lei è pazzo!" Dissi: "E' possibile, e io lo faccio". E Cuccia: "I suoi soldi se li va a trovare da un'altra parte, perché noi non glieli diamo". Infatti li andammo a trovare per il mondo».
La crisi. «Le cose peggioreranno ancora. La crisi si aggraverà e sarà molto lunga. L'Italia ne uscirà, perché poi i Paesi ne escono sempre: si tratta di vedere quanto impoverita uscirà l'Italia da questa crisi. Io penso fortemente impoverita».
Repubblica 9.5.12
"Perché dobbiamo fermare l’odio che uccide le donne"
di Clio Napolitano
CARO direttore, i fatti di cronaca di queste settimane hanno riportato al centro dell´attenzione il tema della violenza sulle donne, tema che può essere analizzato da tanti punti di vista: sociologico, psicologico, pedagogico e statistico. In ciascuno di questi campi si possono fare analisi diverse anche tra specialisti di ciascuna di queste discipline.
Ma ritengo importante che di tali problemi si possa discutere anche tra non specialisti. Ad esempio quando si legge che nel nostro Paese gli atti di violenza sulle donne sono drammaticamente aumentati, io mi chiedo se in termini statistici ciò non sia dovuto al fatto che le norme introdotte nel nostro ordinamento abbiano incoraggiato la denuncia da parte delle vittime di tali reati, tenuto conto che la maggior parte di essi vengono commessi nell´ambito familiare, il più difficile da penetrare.
Tenuto conto che già esistono nel nostro ordinamento leggi abbastanza severe in materia e che gli atti di violenza sulle donne assumono tante modalità diverse e vengono attuati i tanti diversi contesti, mi chiedo se sia necessario pensare a nuove fattispecie di reato o ad aggravanti.
A mio parere sarebbe forse più incisivo accelerare le procedure relative alla condanna del colpevole o dei colpevoli, una volta che la donna abbia trovato il coraggio di denunciare il reato e di affrontare il processo la cui lentezza è cosa nota.
Un´ultima considerazione: mi ha colpito sempre in relazione ai recenti fatti di cronaca l´uso della parola "femminicidio" per indicare una insana concezione del genere femminile come presupposto dell´atto di violenza, diverso dal reato di omicidio.
Non ho dubbi che questo tipo di violenza affondi le sue radici nella discriminazione di genere, in una concezione proprietaria della donna, in un certo maschilismo presente nella nostra società.
Tuttavia mi chiedo: le donne che tra tanti innumerevoli pregi hanno anche quello della fantasia, non potrebbero inventare un´altra parola, avendo istintivamente colto in "femminicidio" una intonazione di disprezzo? Oppure si tratta di una diversa sensibilità generazionale?
l’Unità 9.5.12
Ma «Merkollande» non ci sarà mai. Ecco perché
Per il nuovo inquilino dell’Eliseo è strategica l’alleanza con la Spd tedesca e con il Pd
di Umberto De Giovannangeli
La Cancelliera rilancia l’intesa franco-tedesca ma l’Europa ormai viaggia lungo i binari della crescita. Lo hanno ribadito nei giorni scorsi all’Unità sia Jean-Marc Ayrault, possibile primo ministro, sia Laurent Fabius probabile ministro degli Esteri. A rendere impossibile un patto di ferro tra Hollande e Merkel è un altro fatto: il nuovo inquilino dell’Eliseo considera strategico il rapporto con Spd e Pd.
«HOLLANDE PUNTA AL RAFFORZAMENTO DELLE RELAZIONI FRANCO-TEDESCHE ma deve essere chiaro che non ha alcuna intenzione di sostituire al “Merkozy” una sorta di “Merkollande». A sostenerlo è l’uomo a cui il neopresidente francese aveva affidato, da candidato all’Eliseo, di curare il rapporto con Berlino: Jean-Marc Ayrault, presidente del gruppo del Ps all’Assemblea Nazionale, colui che tutti gli analisti indicano come il più accreditato alla poltrona di palazzo Matignon, l’ufficio del primo ministro. Nell’intervista a l’Unità, Ayrault ha insistito su un punto strategico: «L’Europa sarà il nostro faro», e Hollande non ha intenzione di sacrificare questa scelta strategica per una riedizione, riveduta e corretta, di patti di ferro a due.
Concetto che, sempre in una intervista a l’Unità, aveva affermato con forza Laurent Fabius, già premier, colui che il totoministri dà per favorito per la guida del Quai D’Orsay. La cancelliera Merkel l’attende a Berlino; il premier britannico David Cameron lo vuole a Londra. L’agenda internazionale di François Hollande si arricchisce di giorno in giorno, ma, fonti vicine al neo presidente, ribadiscono con forza a l’Unità quanto già affermato da Ayrault e Fabius: le relazioni con la Germania non andranno a scapito della crescita di uno schieramento europeo favorevole all’idea di Europa che Hollande ha sostenuto nella sua campagna elettorale. Un’Europa che fa della crescita il perno per un suo rilancio in un mondo globalizzato. Non solo: Fabius, come Ayrault, avevano sostenuto che una vittoria socialista in Francia poteva avere un effetto domini positivo negli altri Paesi dell’Unione chiamati al voto nel 2013: l’Italia e la Germania.
Nell’entourage di Hollande si ricorda lo stretto legame, politico e personale, stabilito dall’allora candidato socialista all’Eliseo con i leader del Pd, Pier Luigi Bersani, e con quello dela Spd, Sigmar Gabriel. Un patto d’azione per una Europa progressista sviluppato nel «manifesto di Parigi». Hollande non ha alcun intenzione, né interesse, a mettere tra parentesi questo patto d’azione nel nome di una realpolitik che finisca per sacrificare l’Europa progressista sull’altare di un riequilibro dell’asse preferenziale franco-tedesco. Collaborazione, sì, ma nessun «Merkollande».
Anche perché i segnali elettorali che giungono dalla Germania raccontano di una cancelliera in difficoltà e di una Spd che vede nel suo futuro come ipotesi minimale quella di una «Grosse Koalition» con una Cdu ridimensionata. Quanto a Cameron, i più stretti collaboratori del neopresidente francese ricordano che Hollande non era stato ricevuto
dal premier britannico nel corso di una sua tappa londinese in campagna elettorale e che Cameron aveva dato il suo appoggio alla rielezione di Nicolas Sarkozy. Un sostegno a «Sarkò» che Cameron aveva condiviso con Angela Merkel. «François ha una memoria lunga dice a l’Unità uno dei suoi consiglieri più fidati ma il fatto più importante è che lui è profondamente convinto che in Europa si confronteranno sempre più due visioni diverse di come uscire dalla crisi: i contenuti determineranno le alleanze, e non viceversa».
La visione di Hollande si fonda sulla crescita come volano del contenimento stesso del deficit pubblico; la crescita contrapposta ad una iperausterità che porta alla recessione o all’ingovernabilità, come testimonia la Grecia. E su questa idea di Europa, Hollande intende trovare un terreno d’intesa, un patto d’azione strategico, con il presidente Usa, Barack Obama: un mutuo sostegno che, nella visione hollandiana, può gettare le basi per una nuova partnership euroatlaintica, non meno significativa di quella da ricercare sul terreno della sicurezza: una partnership per lo sviluppo e la crescita. In altri termini, per una nuova governance mondiale. In questa chiave, il multilateralismo evocato da Hollande richiama quello che Obama ha delineato all’inizio della sua presidenza. Un multilateralismo che il nuovo capo dell’Eliseo intende praticare innanzitutto in Europa, rafforzandone le sue istituzioni politiche ed economiche. È il «manifesto di Parigi»: un investimento sul futuro.
l’Unità 9.5.12
Grecia, la missione impossibile del giovane Tsipras
La sinistra radicale prova a mettere insieme un esecutivo
I numeri sono risicati ma anche Pasok e Nea Demokratia vogliono evitare il ritorno alle urne. Il default incombe
di Teodoro Andreadis
Come previsto, la palla è passata nel campo della sinistra a vocazione eurocomunista, quello di Syriza. Il Presidente della Repubblica, Karolos Paloulias, dopo la rinuncia del conservatore Andònis Samaràs ha conferito ieri mandato di verificare se ci sono le condizioni per formare un nuovo governo al partito di Alexis Tsipras. Ed è apparso subito chiaro che il trentasettenne leader della sinistra, ingegnere, ex comunista ortodosso, intende sfruttare tutto il tempo e le possibilità a sua disposizione. In questo momento per il nuovo aspirante primo ministro l’unica alleanza pressoché certa è quella con il nuovo partito Sinistra Democratica, che ha superato, di poco, il 6% dei voti e si pone, ideologicamente, tra i socialisti del Pasok e lo stesso Syriza.
Ma Tsipras continua a chiedere anche ai comunisti del Kke di entrare in un nuovo «esecutivo delle sinistre». La risposta della segretaria del partito, Aleka Paparriga, rimane negativa, ma una parte della base comincia ad avere seri dubbi, se sia questo l’atteggiamento politicamente coretto da seguire in una situazione di estrema emergenza come questa. Anche nel Pasok c’è fermento: il suo presidente ed ex ministro delle Finanze, Evanghelos Venizelos, ha posto a Tsipras solo due condizioni: che la Grecia rimanga in Europa e non esca dall’euro. «Domani (oggi, cioè) avremo un incontro di sostanza e costruttivo con il leader di della sinistra radicale ed ecologista che ha ricevuto l’incarico», ha dichiarato Venizelos.
Il Pasok ripropone la sua idea che la crisi possa essere superata solo con un governo di salvezza nazionale molto allargato (Nuova Democrazia, gli stessi socialisti, Syriza e Sinistra Democratica), ipotesi bocciata da Tsipras. Pare di capire, però, che i socialisti potrebbero spingersi anche a ulteriori concessioni. Anche se la situazione è molto complessa, il messaggio delle urne è arrivato ovunque: anche il centrodestra e il centrosinistra, che hanno votato due mesi fa il secondo Memorandum di tagli e austerità, capiscono ora che, per non subire altri duri colpi e non rischiare di sparire, devono spingere sul pedale della crescita e del sostegno ai redditi, facendo pressione sull’Europa.
Le condizioni poste ieri dal giovane leader della sinistra, certo, non sono di poco conto: ha chiesto al conservatore Samaràs e a Venizelos di spedire, entro oggi, una missiva ai primi ministri europei, in cui mettano in chiaro che non si sentono obbligati ad applicare le misure contenute nei Memorandum e negli accordi sinora firmati con l’Unione e con il Fondo monetario internazionale. Tsipras aggiunge anche che si deve tornare indietro per quanto riguarda la restrizione dei diritti dei lavoratori, che è necessario cambiare la legge elettorale, e che il debito pubblico greco dovrà essere controllato da un comitato internazionale, imponendo, in ogni caso, una moratoria sul suo pagamento. Il gioco politico è molto duro, e nessuno vuole perdere la faccia. Samaràs ha subito risposto che «non intende apporre la sua firma allo sfaldamento del Paese, perché in questo momento non si può giocare col fuoco». Ieri, nel frattempo, la Borsa di Atene ha perso più del 3%, e alcuni osservatori, sono tornati a parlare di una possibile uscita della Grecia dall’Eurozona in tempi relativamente brevi. Una possibilità paventata, in passato, anche dallo stesso Syriza. In questo momento, tuttavia, il partito nato da chi ha visto con occhio critico l’esperienza comunista sovietica, sembra voler mandare un altro messaggio: «Noi vogliamo rimanere in Europa, ma in un Europa politica, sociale, che sappia mettere gli interessi dei cittadini al di sopra di quelli dell’ economia».
L’AIUTO FRANCESE
Ad Atene, specie a sinistra, si spera anche in un aiuto da parte francese e in possibili segnali positivi che potrebbero arrivare dal vertice sulla crescita convocato per il 23 maggio. Un vecchio amico della Grecia, l’ex ministro della Cultura Jack Lang ha già dichiarato che «Hollande si muoverà concretamente per dare una mano ai greci, che sono ormai stremati». Bisogna però vedere il quando e il come tutto ciò potrà avvenire. I tempi sono stretti.
Se si dovesse andare a nuove elezioni, il 10 o il 17 giugno, i partiti greci “anti sacrifici”, puntano ad aumentare ulteriormente i consensi, ad iniziare dalla sinistra. Il centrodestra, a partire da Nuova Democrazia, cerca di ricompattarsi, ma sembra un’impresa quasi impossibile. A luglio, ci si potrebbe trovare di nuovo senza i soldi necessari per poter pagare stipendi e pensioni e a quel punto, il default, e il ritorno alla dracma, sarebbero la via obbligata, a effetto immediato. Ma la gente, malgrado tutto, non ne può più di altri sacrifici, degli ulteriori undici miliardi di euro di tagli che sarebbero dovuti piombare sulle loro teste entro fine 2012. L’Europa politica, se ancora esiste, è ora che batta un colpo. Altrimenti, se la Germania resta sola al comandodicono molti analisti ateniesipotrebbe essere anche l’inizio della fine della costruzione comunitaria, andando ben oltre i confini del “problema greco”.
l’Unità 9.5.12
«Non siamo contro l’Europa. Ma il debito va ricontrattato»
di T. A.
Syriza ha fatto incetta di voto operaio ad Atene, al Pireo, a Salonicco, a Corinto ma «ci siamo resi conto che potevamo avere un grande successo quando abbiamo visto che stavamo aggregando anche tanti impiegati, bancari, piccoli imprenditori e molte persone che avevano votato tradizionalmente per il Pasok e Nuova Democrazia e abbiamo capito che si era rotta la rete di protezione clientelare che garantiva il voto ai socialisti e al centrodestra». A parlare è Nadia Valavani, ateniese d’adozione, nata a Creta, studiosa di Bertolt Brecht, intellettuale di sinistra sempre indipendente che ha scelto di candidarsi con Syriza ed entra in Parlamento per la prima volta nella pattuglia dei 52 deputati.
Un voto anti austerity, si è detto. E quali sono le vostre proposte concrete sull’economia?
«Il nostro punto principale, senza il quale non si può procedere, è richiesta di superare i due Memorandum e quindi gli accordi sui prestiti. Sappiamo bene che le pressioni internazionali sono fortissime. Ma Alexis Tsipras, il nostro presidente, cercherà in tutti i modi, col suo mandato esplorativo, di lavorare per un governo dell’alternativa. La sua proposta è divisa in due parti: la prima, misure urgenti per aiutare l’economia e le famiglie, la seconda, una “road map” per ridiscutere i tagli imposti dall’Fmi e dall’Ue. Non siamo contro l’Europa, siamo contro un’idea sbagliata di Europa, che sta affamando, nel vero senso della parola, i cittadini greci». Quale è il vostro atteggiamento verso il Pasok?
«Il Pasok e il centrodestra dicono che sono disposti a sostenere con un “voto di tolleranza”, un eventuale governo della sinistra. Noi, però, non vogliamo far rientrare dalla finestra chi è stato costretto, dal voto, a uscire dalla porta. Alla prima occasione ci farebbero cadere, non saremmo liberi di fare nessun passo decisivo. Quello a cui puntiamo è un accordo preliminare con le forze della sinistra. In questo caso, in seguito, potremmo chiedere l’appoggio dei deputati del Pasok e di Nuova Democrazia che vogliono credere nell’alternativa. E lo stesso vale anche per il nuovo partito conservatore “Greci indipendenti” di Panos Kammenos».
E se il Kke continuasse a dire “no”?
«Sfrutteremo ogni possibilità. Vogliamo far capire alle persone che è possibile percorrere un’altra strada. Siamo convinti che il processo di forte rinnovamento, di vera liberazione, che è iniziato con le elezioni di domenica, possa continuare ed anche moltiplicarsi. Se dovessimo andare a nuove elezioni a giugno, pensiamo che questa strada porterà a frutti ancora più preziosi, che i greci riprenderanno in mano il proprio destino».
Quanto la preoccupa l’entrata in parlamento dei neonazisti di Alba Dorata? «C’è molta preoccupazione. Ma voglio dire che la maggioranza dei loro elettori non sono neonazi o fascisti. Si tratta, in moltissimi casi, di giovani che frequentano licei di quartieri periferici e vedono un mercato del lavoro completamente chiuso, senza speranza. Alba Dorata gli dice: sono tutti uguali, noi siamo contro il sistema. Ma non è assolutamente vero. Noi pensiamo che questi fascisti siano la parte più oscura del sistema. Molti iniziano a capirlo, e si è visto anche da come hanno trattato i giornalisti, greci e stranieri».
Repubblica 9.5.12
Chi ha paura delle elezioni
di Barbara Spinelli
TUTTI ricordiamo le parole che Roosevelt pronunciò il 4 marzo 1933, appena eletto. La crisi che s´accingeva a fronteggiare era simile alla nostra, e disse: «La sola cosa che dobbiamo temere è la paura stessa: l´indicibile, irragionevole, ingiustificato terrore che paralizza gli sforzi necessari per convertire una ritirata in avanzata». Dopo le elezioni in Francia, Italia, Grecia, potremmo applicare la frase ai timori suscitati in molte capitali dai verdetti delle urne.
«La sola cosa che l´Europa deve temere, oggi, è la paura che i tribunali elettorali suscitano nei governanti, nei partiti classici, in chiunque difenda lo status quo pensando che ogni sentiero che si biforca e tenta il nuovo sia una temibile devianza».
È con grande sospetto infatti che si guarda al nuovo Presidente socialista, e non solo quando in gioco è l´economia. Anche la sua politica estera è temuta: la volontà di uscire fin da quest´anno dall´Afghanistan, il rifiuto opposto nel 2009 quando Sarkozy decise di rientrare nel comando militare integrato della Nato. Ma il mutamento che maggiormente indispone e terrorizza è il rinegoziato del patto fiscale (fiscal compact) approvato a marzo da 25 Stati dell´Unione. È qui il nodo più difficile da sciogliere.
I capi d´Europa non troveranno salvezza che in simili mutamenti, ma cocciutamente rifiutano quel che li può salvare, considerandolo dinamite. Si sentono destabilizzati nelle loro certezze, e poco importa se son certezze empiricamente confutate, se la Merkel dovrà retrocedere comunque, perché senza socialdemocratici il fiscal compact non passerà in Parlamento. Giungono sino a dire che la formidabile spinta a cambiare politica è antipolitica, o conservatrice. In Grecia il partito d´estrema sinistra (Syriza, Coalizione radicale della sinistra) è divenuto il secondo partito, superando i socialisti del vecchio Pasok, e il suo leader, Alexis Tsipras, sta tentando di formare un governo. Anche lui è tacciato di antipolitica, eppure è un europeista che profetizza il precipizio nella povertà e nel risentimento degli anni ‘30, se Angela Merkel non capirà la speranza racchiusa nella rabbie popolari. «L´Europa ha disperatamente bisogno di un New Deal stile Roosevelt»: non è disfattismo quello di Tsipras, ma ardente appello a un´Unione più forte.
Di questa paura del nuovo converrà liberarsi, in Europa e America, perché anch´essa è terrore irragionevole, non già volontà di ripensare gli errori ma, come la chiamava Tommaso d´Aquino, chiusa non-volontà, nolitio perfecta. Non è un magnifico status quo quello che Hollande vuol rimettere in questione, non è una stabilità radiosa, che avrebbe dato chissà quali buoni frutti. Le urne dicono questo: il bisogno di Europa, di una politica che salvi il continente dal naufragio della disperazione sociale e di una guerra di tutti contro tutti. Il continuo accenno alla Grecia come spauracchio - e capro espiatorio - agitato dai nostri governi a ogni piè sospinto, non è altro che ritorno al vecchio bellicoso equilibrio di potenze nazionali, tra Stati egemoni e Stati protettorati.
Hollande ha in mente non solo l´economia, ma anche l´inerte mutismo europeo su pace e guerra. In Afghanistan la guerra iniziata dall´Occidente sta finendo in catastrofe, come ha spiegato con efficacia il generale Fabio Mini sul Corriere della sera: «È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l´hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003, quando dovettero coinvolgere la Nato per l´incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell´etica militare per l´incapacità di gestire l´eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati».
Lo stesso vale per la Nato: strumento che dopo la guerra fredda ha subito modifiche radicali, imposte da Washington e mai seriamente discusse tra europei. Da alleanza difensiva puramente militare, la Nato è divenuta un organo eminentemente politico, che esporta democrazia senza riuscirci, secernendo caos e Stati deboli, dipendenti o riottosi. Non stupisce dunque il fastidio manifestato da Hollande verso la scelta che ha coinvolto Parigi in un comando militare dominato dalla declinante potenza Usa. È bene che un Paese europeo di prima importanza chieda di fermarsi, e si interroghi sul punto cui siamo arrivati: che critichi lo status quo mentale che è dietro le guerre occidentali e dietro alleanze surrettiziamente snaturate. L´Unione, la Nato, i nostri rapporti col nuovo mondo multipolare: la mutazione già è avvenuta; sono la politica e l´Europa a esser sordo-mute, non all´altezza.
Queste battaglie di politica estera, così come le battaglie per un´Europa che sappia resistere alle forze disgregatrici dei mercati, dovranno tuttavia partire da un´unione di forze, da istituzioni comuni che durino più dei governi e diano sicurezza ai cittadini tutti. Che non si limitino più a eseguire gli ordini degli Stati più forti, e di un´ortodossia che non tollera pensieri eretici. Per questo Hollande non va lasciato solo, alle prese con le paure che suscita a Berlino o nelle accademie. Sul tema pace-guerra, come sulle discipline di rigore, occorre che gli Europei si radunino e definiscano senza paura i loro interessi, e le lezioni che vogliono trarre dai voti dei giorni scorsi.
Cosa dicono in ultima istanza le urne, oltre al rifiuto dell´austerità? Dicono che un numero crescente di elettori, a destra e sinistra, cede al richiamo del nazionalismo, della xenofobia, dell´antipolitica perché, pur conoscendo i disastri del richiamo, non vede formarsi uno spazio pubblico, un´agorà europea, in cui vien disegnato un nuovo ordine mondiale. Perché vedono candidati spesso corrotti, oppure governanti ingabbiati in dottrine economiche calamitose e in un ordine mondiale obsoleto, somma caotica di vizi e impotenze nazionali. Non vedono un´Europa ambiziosa, che proponga un modello di pace mondiale e non sia il Leviatano di Hobbes: potere sganciato dalle leggi civili, in assenza del quale (questa la sua propaganda) la vita è destinata a esser «solitaria, povera, incattivita, brutale, e corta». Grillo in Italia non è insensibile a questi richiami, anche se tanti suoi candidati e amministratori non credo siano d´accordo.
La sera della vittoria, alla Bastiglia, Hollande ha annunciato che la Francia vuol divenire un modello in Europa. Ma il grande salto qualitativo lo compirà il giorno in cui, negoziando con i partner, comincerà a esigere che l´Europa in quanto tale divenga modello. Quando dirà: tornerete ad avere fiducia nell´Unione creata nel dopoguerra, perché le abbiamo dato una voce unica e un governo federale dotato di risorse sufficienti a rilanciare l´economia al posto degli Stati costretti al rigore.
La volontà di ripensare la questione pace-guerra ha senso solo se partirà dall´Unione, non da un Paese isolato. L´idea di Kohl, quando nacque l´euro, va ripresa, continuata. La Germania sacrificò il marco sovrano, sperando nell´Europa politica e nella difesa comune. Il no di Mitterrand scatenò nei tedeschi diffidenze che perdurano. Quella stortura va corretta. Non dimentichiamolo: il federalismo europeo è ben più inviso a Parigi che a Berlino.
Lo stesso si dica per le politiche, che non possiamo più delegare agli Usa, verso paesi arabi, Palestina, Russia. Occorre che l´Europa decida se vuol divenire potenza. Una potenza che non getti fuoribordo Atene, trattando i deboli come perdenti in guerra. La fierezza d´esser europei cresce solo così: risuscitando il modello sociale, l´ambizione politica degli inizi. Facendo di tutto perché i presenti tumulti popolari non siano un´occasione di regresso, ma si convertano in ripresa e ricominciamento.
l’Unità 9.5.12
Israele
Netanyahu vara la «coalizione di guerra» insieme a Kadima
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha stretto un accordo a sorpresa alle prime ore di ieri per l’ingresso al governo del partito di opposizione Kadima, guidato da Shaul Mofaz. Il centrista che aveva scalzato Tsipi Livni alle primarie diventerà vicepremier e siederà nel gabinetto ristretto di sicurezza. L’intesa fa cadere l’ipotesi delle elezioni anticipate trapelata in questi giorni. La legislatura proseguirà dunque fino alla data prestabilita del novembre 2013. Con questa mossa l’esecutivo di Tel Aviv avrà l’appoggio di 94 dei 120 deputati in parlamento e a Netanyahu toccherà revisionare la legge che esclude gli ultraortodossi dal servizio militare obbligatorio senza subire ricatti politici dai partiti religiosi. Una maggioranza schiacciante già definita dagli osservatori una «coalizione di guerra»: il riferimento è ai piani d’attacco nei confronti dell’Iran.
Repubblica 9.5.12
Oltre 1500 reclusi nelle prigioni israeliane rifiutano il cibo da settimane:
chiedono l’abolizione degli "arresti preventivi"
Decine le manifestazioni di sostegno nei Territori occupati
Si mobilitano anche le ong e la Croce rossa internazionale
L’Intifada della fame il digiuno dei detenuti diventa una bandiera
di Fabio Scuto
È stato un altro lungo giorno di digiuno per Taher Halahla e Bilal Diab, i due detenuti palestinesi arrivati al settantaduesimo giorno senza cibo. Non sono soli, altri sette detenuti da qualche giorno si sono uniti a loro. Sono pronti ad andare avanti a oltranza fino alle estreme conseguenze, lasciarsi morire di inedia dietro le mura grigie del famigerato carcere di Ofer, l´Incarceration Facility 385 secondo il linguaggio burocratico dell´Amministrazione penitenziaria israeliana. Altri 1600 li stanno seguendo ormai da quasi un mese. Perché lo sciopero della fame è l´unico mezzo che i detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane senza accuse formali - qui li chiamano "arresti amministrativi", si tratta dell´equivalente di una detenzione preventiva - hanno per ottenere la liberazione.
Come i ragazzi dell´Ira a Belfast nel penitenziario di Maze nel 1981, Taher, Diab e gli altri hanno intenzione di andare avanti fino alla fine, come gli otto che seguirono il destino di Bobby Sands, il primo che si lasciò morire scuotendo le coscienze nel maggio del 1981 dopo 66 giorni di digiuno. Se dovesse morire uno di loro questa "Intifada della fame" dietro le sbarre potrebbe scatenare violenze in tutti i Territori palestinesi occupati, dove questa protesta è sentita, sostenuta e appoggiata.
Ieri la Croce rossa internazionale ha chiesto per sei di questi detenuti il ricovero in ospedale per le loro gravi condizioni e ha chiesto anche, per ora invano, che sia consentito loro di ricevere le visite dei parenti in carcere. Dopo la rivolta della rete, le denunce su Facebook e Twitter, sono decine le manifestazioni anche nei paesi più piccoli della Cisgiordania e le marce di sostegno, con la gente che mostra le foto dei parenti incarcerati che partecipano alla protesta nelle celle. Lo scorso 17 aprile in occasione della "giornata del detenuto" tre quarti dei 4700 prigionieri palestinesi hanno rifiutato il cibo.
Non è il primo grande sciopero nelle carceri israeliane - nel 2004 diecimila detenuti rifiutarono il cibo per 17 giorni - ma è la prima volta che un gruppo ha deciso di portare avanti fino alla fine. L´iniziatore di questa protesta è stato un fornaio di 34 anni, Khadnan Adnan, militante della Jihad islamica, che aveva iniziato lo sciopero della fame dopo essere finito in cella lo scorso anno senza imputazioni. In carcere per un "arresto amministrativo" - e senza essere mai stato portato davanti a un giudice - Adnan ha rifiutato il cibo per 73 giorni prima di vincere la sua battaglia ed essere rilasciato.
L´avvocato Jawad Boulos, che rappresenta l´Associazione dei palestinesi detenuti in Israele, spiega a Repubblica che lo sciopero della fame a oltranza nelle prigioni israeliane viene condotto da due gruppi distinti, che hanno obiettivi diversi. Il primo gruppo di sette carcerati ha iniziato lo sciopero della fame circa due mesi fa. Alcuni, come appunto Diab e Halahla, vogliono l´annullamento degli arresti amministrativi decretati da un tribunale militare. Un altro, Muhammed Taj, chiede di essere riconosciuto "prigioniero di guerra". Un altro ancora, catturato a Gaza, chiede di tornare libero nella Striscia. Il secondo gruppo - che conta circa 1.600 prigionieri - lotta per un miglioramento delle condizioni di reclusione. Fra le richieste, l´abolizione dell´isolamento e l´accesso a siti accademici online. Poi ci sono settecento detenuti originari di Gaza - sempre secondo l´avvocato Boulos - che non ricevono visite dei loro congiunti da cinque anni, come ritorsione per il rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit, che però nel frattempo ha riacquistato la libertà.
Il trattamento dei detenuti in Israele è uno dei temi più sentiti tra i palestinesi. I crimini per cui vengono arrestati sono dei più vari, dal semplice lancio di pietre all´organizzazione di attacchi terroristici. Tra i 4700 palestinesi detenuti nelle carceri 302 sono in regime di detenzione amministrativa. Una misura usata prevalentemente nei casi in cui gli indizi disponibili consistono in informazioni ottenute dai servizi segreti (come lo Shin Bet), e nei casi in cui un processo pubblico potrebbe rilevare informazioni ritenute di sicurezza dalle forze israeliane. Ogni comandante dell´esercito locale può diramare un ordine di detenzione amministrativa, che può essere appellato presso la locale Corte militare e, se negato, alla Corte Suprema. Anche in questo caso, l´ordine è valido per sei mesi, ma può essere rinnovato a tempo indefinito dall´autorità. Nel territorio palestinese questa forma di detenzione extra giudiziale esisteva sin dal mandato britannico del 1945. L´ordine militare che legifera la detenzione amministrativa è il n. 1651 del 1970 che nel 1979 è stato ribadito, nonostante il Parlamento israeliano avesse stabilito già nel 1951 che questa misura andava abolita.
Dietro le quinte i contatti fra la direzione del Servizio carcerario israeliano e una rappresentanza di reclusi per trovare uno sbocco alla crisi si sono fatti febbrili. Ieri sera il governo palestinese ha chiesto alle Nazioni Unite e all´Europa di intervenire, ammonendo che «riterrà Israele responsabile della vita dei prigionieri palestinesi». Nessuno vuole un Bobby Sands palestinese.
Corriere 9.5.12
Erdogan: in Siria nessuna speranza
Annan: «Rischio di guerra civile totale». Dall'Italia 17 osservatori
di Maurizio Caprara
ROMA — Nel giorno in cui Kofi Annan ha definito il piano di pace per la Siria del quale è autore «l'unica chance di stabilizzare il Paese», quel progetto è stato dato per fallito dal primo ministro della nazione che con lo Stato di Bashar al Assad in rivolta condivide 911 chilometri di frontiera e che ospita già 23 mila profughi siriani. «Ho perso la speranza. Non so più che cosa augurarmi perché non si riesce ad arrivare al risultato voluto», ha detto del piano Annan il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. Quelle impiegate ieri dal premier di Ankara al fianco di Mario Monti in occasione del secondo vertice bilaterale tra Italia e Turchia sono parole inusuali per un capo di governo, ma il pessimismo della valutazione non va scambiato per sospiro scorato di un uomo arrendevole.
A Villa Madama, Erdogan è parso tutt'altro che incline a disinteressarsi della repressione ordinata alle porte di casa sua da un capo di Stato reso meno stabile da rivolte di piazza e tuttavia ostinato e non a corto di armi. Da Ginevra, l'ex segretario generale dell'Onu Annan ha ammesso di provare «profonda preoccupazione» che la Siria possa «sprofondare in una guerra civile totale». Sui 300 osservatori autorizzati dal Consiglio di sicurezza, il mediatore del Ghana ed ex numero uno al Palazzo di Vetro ha dichiarato: «Saranno sul territorio siriano entro fine maggio». Vicino a Erdogan, Monti a Roma ha anticipato quanto il suo governo avrebbe deciso di lì a poco: una «missione di pace di militari italiani in Siria». Sarà formata da «un massimo di 17» inviati, come specificato in una nota, che agiranno «disarmati» da «osservatori» dell'Onu». I primi cinque arriveranno la settimana prossima.
Il passo ha valore simbolico, politico. La partita in corso, che può determinare nuovi assetti in Medio Oriente, ha però dimensioni assai più vaste. «Che cosa possono fare 50 osservatori?», ha risposto Erdogan a una domanda del Corriere sulla Siria. «Non possono visitare non dico il Paese, ma neppure una piccola parte. Occorrerebbero mille, duemila, forse tremila osservatori», ha continuato il premier turco. Non criticava l'Italia, con la quale giudica «di altissimo livello» i rapporti, bensì l'efficacia del piano Annan che dovrebbe portare fine delle violenze, dialogo tra i siriani in conflitto, possibilità di soccorso ai feriti.
A Monti è stato chiesto se esclude a priori un intervento della Nato in base all'articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico (un attacco in armi a uno Stato membro va considerato contro tutti i membri), come aveva ipotizzato Erdogan nell'intervista pubblicata lunedì dal Corriere. Il presidente del Consiglio ha annunciato la decisione sugli osservatori, ricordato l'invio di un ospedale da campo in Giordania, descritto come «giusta risposta alla crisi siriana» uno «sforzo comune» della comunità internazionale e sostenuto di non vedere «alternative realistiche». Poi: «È quello che in questo momento ci sentiamo di dire».
Erdogan ha definito «non vero» un titolo del Corriere alla sua intervista, se n'è detto «dispiaciuto». Il titolo era: «Erdogan: intervento della Nato in Siria». Nel testo, la sua frase era: «Finora siamo stati pazienti con la Siria ma se il governo commetterà ancora degli errori alla frontiera questo sarà un problema della Nato come recita l'articolo 5».
Repubblica 9.5.12
La Cina è lontana?
Il consumismo autoritario nuova cultura di Pechino
di Giampaolo Visetti
L´anticipazione/ L´introduzione del reportage di Visetti che, attraverso la vita quotidiana, racconta come sta cambiando la superpotenza
La Cina è bella e spaventosa, come una tigre nella foresta. È vasta, conserva luoghi poco accessibili, parla molte lingue e cambia con eccezionale rapidità. Neppure un cinese può dire di conoscerla.
Sintesi di pericolo e opportunità, nella concentrazione massima, la Cina contemporanea è l´universo più studiato e più spiegato. Gli estranei alla Cina hanno impiegato lungo tempo nell´ambizione vana di fornire una risposta profonda alla domanda superficiale, circoscritta tra la valutazione del rischio e il desiderio dell´occasione. Vertici e convegni si rivolgono alla comunità degli affari, che pretende numeri e scommette bilanci: la Cina che produce ricchezza è buona, quella che consuma privilegi è cattiva. Ma ognuno sente di trovarsi di fronte a qualcosa di molto più completo, di assai più necessario, che sfugge perché sostanzialmente evitato.
Questa incognita presenza globale è la vita in Cina, l´esistenza semplice dei cinesi. Osservare come vive la popolazione: non un trattato, solo un diario degli anni trascorsi insieme ai cinesi, dentro il vuoto di responsabilità scavato da un potere organizzato per pensare al posto di tutti, mentre muta definizione senza cambiare natura.
All´impero dei mandarini è seguito il comunismo dei rivoluzionari, a cui succede il capitalismo dei conservatori, preludio al nazionalismo dei nuovi imperialisti. La Cina ritorna se stessa, l´ultimo impero della storia, e solo raccontare la sua vita quotidiana soccorre nel tentativo di capire un´impresa così logica, azzardata e grandiosa.
Propaganda e censura di Stato proiettano l´immagine di un paradiso che non c´è. Seguire la cronaca di una nazione esclusa dalla verità risulta spesso velleitario. Resta però la sola chiave d´accesso a un mondo capace di sacrifici commoventi, concentrato nella negazione dell´evidenza e nel divieto dell´esistenza. Tentare un modesto punto della situazione dal basso, resistendo alla tentazione di dare lezioni, fornire risposte e tirare conclusioni, può dunque essere oggi non del tutto inutile.
La Cina festeggia l´anno del Drago, il più atteso del calendario astrale. Il 2012 sancisce il passaggio del potere più importante dell´ultimo decennio, investito del compito di delineare la leadership che avrà la responsabilità di guidare il paese nei prossimi dieci anni. Prende forma la classe dirigente più decisiva del pianeta, ma nello stesso tempo si plasma la società a cui il mondo che non è formalmente Cina affida la speranza di attenuare una crisi di organizzazione del benessere che rischia di trascinare l´umanità verso inediti conflitti tra generazioni e tra valori.
Questo epocale appuntamento, che i tecnocrati del Partito comunista cinese hanno pianificato con cura, appare però minacciato dalla realtà. Fino al termine del 2010 chiunque avrebbe scommesso su una transizione soft dell´autoritarismo di mercato in Cina, tale da non turbare stabilità politica e crescita economica, indiscutibili garanzie degli ultimi trentacinque anni. Alcuni eventi, fuori agenda, hanno sconvolto bruscamente la scena.
Mai come negli ultimi mesi, dalla rivoluzione proletaria di Mao Zedong, Pechino è stata scossa da sommosse popolari, scioperi, rivolte contro abusi e privilegi dei funzionari corrotti, scontri per la proprietà della terra. Paura del dissenso, incapacità di convincere minoranze etniche e religiose, ostilità politica ai processi democratici, debolezza rispetto ai meccanismi della Rete e interdipendenza dalla globalizzazione dell´economia proiettano un´ombra minacciosa sull´anno del grande passaggio del potere in Cina e, di conseguenza, sul presente del mondo.
Nella seconda metà del Novecento la tutela delle libertà individuali fu affidata all´egemonia culturale e militare di una superpotenza aperta, multirazziale, innovativa e solida. All´inizio del secondo decennio del Duemila la garanzia degli interessi nazionali viene appaltata all´espansione industriale e finanziaria di una potenza in via di sviluppo, chiusa, etnocentrica, replicativa e fragile. Le circostanze non presentano evidenti analogie, ma la rottura di un equilibrio storico tra i generali valori condivisi risulta evidente. Tra persona e denaro la comunità globale antepone il secondo, come tra democrazia e autoritarismo, tra libertà e dominio.
Ai limiti dell´avanguardia americana segue l´immaturità della copia cinese, alla visione dell´innovazione subentra la praticità della costruzione. Questa tendenza rivela che un tempo è consumato, che al tramonto dell´Occidente segue l´alba dell´Oriente e che la debolezza organica di un impero amministrato senza consenso e senza condivisione, a partire dalla sua economia, è il problema fondamentale con cui ognuno è chiamato a confrontarsi.
La Cina ignota e lontana è realmente una minaccia confusa da cui difendersi, o di cui cinicamente approfittare. Conoscere i cinesi la trasforma invece in una realtà familiare, vicina e per certi aspetti inquietante, da criticare e da provare a rendere migliore, ma di cui non ha senso avere paura.
Questo racconto della vita in Cina si limita a essere la fotografia di un luogo e di un istante, dentro una nazione sconfinata e infinita. È ispirato dalla speranza che Oriente e Occidente non sprechino una storica occasione per dialogare, per conoscersi e per imparare, per rimediare insieme agli errori e per diventare realmente un mondo nuovo, per salvarsi tendendosi la mano, sgombrando le macerie dei Muri e superando le rovine delle Muraglie. Ed è dedicato a tutte le persone che, nella meravigliosa Cina dalle straordinarie qualità, non possono sentirsi libere, esprimere le proprie idee e vivere con dignità.
Corriere 9.5.12
Agli esami con la flebo Il rimedio estremo degli studenti cinesi
Aminoacidi per migliorare i risultati
di Marco Del Corona
PECHINO — Manca un mese al gaokao, il famigerato esame d'ammissione all'università. E dove non arrivano i piatti speciali cucinati da madri e nonne, dove non possono i rituali tra scaramanzia e saggezza tradizionale, esiste pur sempre la mossa a sorpresa. Venerdì sera, in una classe della scuola superiore Numero Uno di Xiaogan, nello Hubei, è successo che a una ventina di ragazzi siano state praticate flebo di aminoacidi. Era un corso extracurricolare. Chini sui banchi, asserragliati tra volumi e appunti, gli studenti avevano un ago piantato in vena e sopra le loro teste i flaconi di soluzione. Che, goccia a goccia, scendeva a dare quel tocco in più per arrivare di slancio all'esame.
L'immagine delle flebo è rimasta poco nella riservatezza della scuola e dopo poco ha cominciato a ronzare insistente nel web. Immagini scattate con un telefonino, ma abbastanza esplicite da sollevare un'accesa discussione in una Cina ossessionata dalle performance scolastiche e accademiche. L'istituto — ha riportato il Changjiang Times — si è difeso spiegando che le flebo non sono state imposte ma, al contrario, offerte come gesto di generosità verso gli stressati esaminandi, e chi ha accettato di ricorrevi lo ha fatto su base volontaria. Una studentessa ha aggiunto che il personale dell'istituto ha fatto pagare ciascun flacone 10 renminbi, circa un euro e 20 centesimi, sostenendo che il resto del costo (una quarantina di renminbi) fosse coperto dallo Stato, circostanza poi smentita dalle autorità.
Come hanno raccontato gli studenti al China Daily, l'abitudine a iniettarsi aminoacidi pur di fare il pieno di energie era ben radicata nella scuola Numero Uno: «Hanno cominciato anni fa e c'è chi vi ha fatto ricorso più di una volta». Medici e studiosi hanno denunciato non solo l'inutilità delle flebo ma anche i rischi, dalla nausea ai tremori, fino alle dubbie condizioni di igiene nelle quali le infusioni intravenose sono state effettuate. Le autorità dell'Hubei stanno indagando sulla vicenda e i media ufficiali, attenti alla sensibilità su tutto quanto riguarda i figli della Cina, si sono affrettati a ribadirlo.
Il gaokao, erede degli esami d'epoca imperiale, è uno degli appuntamenti cruciali in cui si giocano ambizioni familiari e persino, ormai, investimenti protratti negli anni per consentire ai ragazzi risultati eccellenti. Risultati migliori significano migliori università, e — con una capacità di assorbimento dei laureati che si fa ormai faticosa — migliori opportunità di lavoro. Ne va della sicurezza economica per una famiglia d'origine che si è dissanguata per sostenere gli studi del rampollo. Il caso flebo offre con brutalità un elemento al dibattito — sentito e vasto — sui sistemi educativi, sull'efficienza dei metodi pedagogici, sull'adeguatezza del sistema scolastico della Cina come potenza globale. Se nei mesi scorsi l'opinione pubblica si è interrogata sulle ricette della Mamma Tigre, del Padre Lupo, del Padre Aquila e consimili, genitori tutti spietatezza e libro in cantiere, le flebo danno visibilità a un sospetto condiviso da molti. Che forse si esagera con le pressioni agli studenti. Che forse la Cina ha bisogno di rompere qualche paradigma, magari cominciando dal mito del gaokao. E senza aminoacidi.
Corriere 9.5.12
Cina
«Ha infranto le nostre regole». Espulsa reporter di Al Jazeera
di M. D. C.
PECHINO — La Cina ha espulso la corrispondente del canale in lingua inglese della tv Al Jazeera che ha quindi chiuso il suo ufficio di Pechino. Melissa Chan, americana, corrispondente dal 2007, autrice di servizi coraggiosi (prigioni illegali, dissidenza) ed esperta di informatica, è il primo reporter straniero cacciato dal 1998, quando toccò al tedesco Jürgen Kremb di Der Spiegel. Il ministero degli Esteri ha parlato di regole non rispettate, senza entrare nei dettagli. Il Club dei corrispondenti (Fcc, per le autorità un'associazione illegale): «Gesto sconcertante». Per la Cina un colpo alla credibilità del suo soft power.
Corriere 9.5.12
Con la prefazione inedita di Edoardo Boncinelli
Raziocinio e ispirazione Le due armi di Lucrezio
Voleva liberare l'uomo da dogmi e paure
di Roberto Galaverni
È un destino davvero singolare quello di Lucrezio. Osteggiato dalla cultura latina fin dai primi anni seguiti all'apparizione del De rerum natura, oltraggiato quando non rimosso da quella cristiana, ha esercitato tuttavia su poeti e lettori di ogni tempo una fascinazione e un influsso che pochissimi altri scrittori hanno avuto.
Cosa rendeva così inviso e temuto il grande cantore del credo epicureo? Il pessimismo, l'ateismo, l'avversione verso le pratiche religiose, il convincimento della negatività della natura e del carattere non provvidenziale di tutte le cose, la volontà di liberare l'uomo dalle paure, dai dogmi, dalle superstizioni. Cosa invece ha reso irresistibile la capacità di presa e di coinvolgimento dei suoi versi? Il coraggio del poeta di seguire fino alle conseguenze più estreme la sua visione delle cose, la ricerca indefessa, ma senza compromessi della felicità (quanto lontano, in questo, dal giusto mezzo e dall'empirico senso dei fatti proprio della saggezza oraziana), l'autenticità della passione conoscitiva e didascalica che lo rende un maestro vicino e fraterno, la pienezza significante della sua poesia, e poi la forza, il dinamismo, la capacità di persuasione delle singole immagini poetiche. Ai miti negativi creati attorno alla sua figura si è contrapposta fin dall'inizio l'energia intrinseca all'attraversamento stesso del negativo, vale a dire il vigore, la natura positiva e insomma la qualità affermativa della negazione poetica. Non esiste contrapposizione tra conoscenza del male e vitalità poetica, del resto. La poesia leopardiana lo saprà ribadire in modo altrettanto eloquente.
Da questo punto di vista, le contraddizioni non appartengono soltanto alla ricezione del poema lucreziano, ma fanno parte integrante della sua stessa costituzione. Lucrezio fa professione di fede in una dottrina, quella epicurea, di per sé ostile alla poesia. Eppure, proprio per adempiere al meglio all'impegno educativo, della poesia estende al massimo portata e confini, recuperando la misura totale del modello empedocleo in cui etica, scienza e filosofia fanno tutt'uno. Ragione e percezioni, virtù speculativa e immaginazione, ma anche, come potremmo dire oggi, passione e ideologia, sotto la spinta dell'istanza salvifica raggiungono una sorta di temperatura di fusione che le rende tutto sommato indistinguibili.
Il De rerum natura è un poema antropologico e cosmico, la sua parola il medium di una rivelazione profetica. È un testo di svelamento, di conoscenza, di salvazione, che intende riconsegnare l'uomo a se stesso attraverso la padronanza della sua stessa vita. L'espressione poetica è grandiosa perché tale è il suo contenuto di verità, il valore decisivo della posta in gioco: la liberazione e la felicità dell'uomo, come detto. La piena espansione della parola poetica in Lucrezio non può essere allora distinta dalla sua funzione di servizio nei confronti dell'esistenza umana. Si può dire che in tutto il poema non si trovi un solo verso fine a se stesso. La poesia si fa capiente, prensile, onnivora e onnicomprensiva, ma solo in nome di qualcosa che la trascende, di una rivelazione che la supera e, in fondo, l'annichilisce.
Anche per questo l'intensità della rappresentazione, l'eloquenza, la sublimità degli scenari e del racconto, non dovrebbero mai nell'intenzione del poeta apparire a sé stanti, quanto invece rapportate ogni volta all'intero progetto di conoscenza delle cose. Ma è vero che, un po' come accadrà nel Tasso, nel materialismo integrale della visione lucreziana la scoperta della realtà assume spesso un'evidenza tale che l'immagine sembra affermarsi di per se stessa, con la sua verità particolare e la sua propria luce nera. Come se si fosse spinta al di là di tutte le sue premesse e, di conseguenza, di fronte a essa non ci fosse più niente da dire, più nulla da fare.
Ideologia epicurea e progressione poetica non sempre in Lucrezio vanno d'accordo. Certe immagini non possono essere riconsegnate al progetto del libro. Non interamente almeno. Potrebbe essere proprio questo il paradosso più fecondo del De rerum natura, il poema più di tutti ostile alle «magnifiche sorti e progressive», come le chiamerà Leopardi, superate dal progresso conoscitivo della poesia. Se poi la poesia stessa si fonda sulle contraddizioni, sulla capacità di comprenderle e di sostenerle, per Lucrezio sarebbe anche il segno più certo della sua verità e grandezza di poeta.
Corriere 9.5.12
L'epica del materialismo
Il grande poema che compone una descrizione del mondo in un'ottica particolare, non quella delle teogonie, ma quella delle più rivoluzionarie e moderne teorie materialistiche dell'antichità: il ventunesimo volume della collana propone in edicola La natura delle cose (libro V) di Lucrezio, con la prefazione inedita del biologo e genetista Edoardo Boncinelli. L'impresa del poeta, spiega Boncinelli appunto nella prefazione, è quella di «esporre e volgarizzare le idee dell'atomismo di Democrito e Leucippo, rese popolari dalla sistematizzazione filosofica di Epicuro e della sua scuola». Ma oltre all'altezza dell'esposizione filosofica, che ha fatto del De rerum natura uno dei testi più amati dall'Umanesimo e dall'Illuminismo, nonché una preziosa ancorché particolare «sistemazione» che testimonia il progresso della conoscenza del mondo antico, va considerata la grandezza poetica dell'autore latino, che con quest'opera consegna ai posteri un'epica dell'universo, delle creature, della natura, dei cicli della materia, di una bellezza ineguagliata. (i.b.)
Corriere 9.5.12
Cesare contro Pompeo duello senza quartiere
La guerra civile nel racconto del vincitore
di Giuseppe Galasso
È famoso il giudizio di Cicerone sui Commentarii di Cesare: «Nudi, schietti, belli sono; svestiti di ogni ornamento. Egli voleva provvedere ad altri il materiale storico, ma soltanto sciocchi senza gusto potrebbero accogliere una tale offerta per fare i ricciolini a quelle pagine. In realtà egli tolse a ogni persona assennata ogni intenzione di scrivere» di quelle materie. Molti vedono qui la sottile ironia dell'iperbole, dell'enfasi del giudizio; e pensano che Cicerone si riferisse ai Commentarii de bello gallico, o Bellum gallicum, non a quelli de bello civili, o Bellum civile. Il secondo punto appare più persuasivo del primo. È difficile che Cicerone riconoscesse un tale merito al racconto della guerra civile in cui egli aveva osteggiato Cesare. Il primo punto è molto discutibile: Cicerone non poteva esprimere un giudizio, sia pure velatamente, ironico quando era vivo ancora, quasi certamente, Cesare, che non era facile da ingannare.
Gli studiosi distinguono, comunque, gli uni e gli altri Commentarii. Della guerra gallica Cesare dà un racconto certo non scevro di senso politico. Egli vuole mettere in rilievo che non una premeditata volontà di conquista lo guida in Gallia, ma la necessità di difendere il territorio romano minacciato dai Galli e da altri. Tuttavia, l'accento batte qui sulla vicenda militare della conquista. Nella guerra civile risalta, invece, il fine di giustificare Cesare insorto in armi contro il Senato, massima istituzione della Repubblica. La ribellione diventa una difesa dei suoi diritti conculcati dal Senato, che mira a rovinarlo, e della stessa legalità repubblicana, offesa proprio dal Senato e dalla fazione dei suoi nemici.
Perciò nel Bellum gallicum Cesare spicca come figura superiore al di là e al di sopra delle vicende belliche, anche le più difficili; nel Bellum civile egli è, invece, parte in causa, e talora eccede pure nel tono del racconto (così quando narra delle contese fra i pompeiani per rivendicare in anticipo onori e vantaggi una volta ottenuta la vittoria ritenuta sicura). Non per ciò il Bellum civile è, però, meno attendibile ed efficace del Gallicum. C'è in tutti i commentari una certa deformazione del racconto. I primi dovevano servire a mostrare la giusta e lungimirante condotta di Cesare in Gallia e la grandiosità dei suoi successi. I secondi erano ancor più impegnati nel promuoverne ed esaltarne l'opera e la figura. Ma negli uni e negli altri l'effettiva attendibilità del racconto, una volta depurato dei suoi elementi di deformazione, è sicura, e dà alle due opere un solido valore di fonte storica. Tanto più che Cesare non li scrisse a memoria, ma nel corso stesso della sua azione, servendosi dei suoi personali ricordi e appunti, delle relazioni dei suoi comandanti, di quelle da lui periodicamente inviate al Senato e di una serie di altri documenti.
Perciò la convinzione per la quale il Bellum gallicum sarebbe superiore al Bellum civile non è molto fondata né sul piano letterario, né sul piano storiografico; e l'elogio di Cicerone ai Commentarii, se rivolto al Bellum gallicum, si può certo estendere anche al Bellum civile.
Per commentarii si intendevano testi memorialistici e documentari da servire anche come materiale per gli storici futuri: il che nel caso di Cesare, e come fu detto da Cicerone, è superato dal valore storico proprio dei testi cesariani. Essi erano divisi per anno. Gli otto libri del Bellum gallicum corrispondono agli otto anni di quell'impresa, dal 59 al 52 a. C.. Anche per il Bellum civile è, in effetti, così, poiché il primo e secondo libro erano certo in origine un solo testo, dedicato all'anno 49 a. C., poi mal diviso in due. Il terzo libro è dedicato al seguente anno 48 a. C.: il più drammatico, forse, di tutta la vita di Cesare. Fu l'anno in cui sbarcò a Durazzo per raggiungere Pompeo e vincerlo, come accadde a Farsalo, in Tessaglia, il 9 agosto, dopo, però, molte incertezze, e anche successi pompeiani.
Segue la narrazione della fuga di Pompeo fino in Egitto, dove è ucciso, e dell'arrivo di Cesare ad Alessandria, dove egli si volge contro gli uccisori del suo nemico, e inizia la «guerra alessandrina». Questo terzo libro fu pubblicato nel 46 o nel 45 a. C., non molto prima che il 15 marzo del 44 l'autore cadesse nel Senato sotto i pugnali dei congiurati. Il Bellum civile concluse, così, l'attività letteraria di Cesare, mentre la sua azione politica, dei cui fini egli non dice qui nulla, sarebbe, come si sa, tanto sopravvissuta a lui.
Corriere 9.5.12
Ferite difficili da risanare
Il volume in edicola il 12 maggio sarà La guerra civile (libro III) di Giulio Cesare, dedicata alla lotta che lo oppose a Pompeo. Guida il lettore, nella comprensione dell'opera, la prefazione inedita dello storico Sergio Romano, che spiega come, oltre a contenere la descrizione delle vicende belliche, con gli schieramenti in gioco e la battaglia di Farsalo raccontata dal campo, il testo di Cesare sia lo strumento politico e propagandistico di una personalità di potere. Il condottiero mostra di continuo le proprie intenzioni di riavvicinamento a Pompeo, la volontà di ricomporre la grave crisi istituzionale e politica (che avrà in seguito, per lui stesso, tragiche conseguenze), consapevole che una guerra civile, spiega Romano, non finisce sul campo di battaglia, ma «finisce soltanto quando il vincitore riesce a risanare le lacerazioni provocate dal conflitto». Le prossime uscite saranno il 17 maggio l'Agamennone di Eschilo, con prefazione di Giorgio Montefoschi, e il 19 maggio la Metafisica di Aristotele (libro I), con prefazione di Emanuele Severino. (i.b.)
Corriere 9.5.12
Ebook, apre la libreria di Google
Due milioni di titoli da ieri disponibili per i lettori italiani
di Alessia Rastelli
Lo sbarco dei giganti è completo. Dopo Apple e Amazon, da ieri anche Google vende in Italia i libri digitali. Un arrivo, quello del numero uno dei motori di ricerca, destinato a influenzare gli sviluppi dell'ancora piccolo — ma in crescita esponenziale — mercato digitale del nostro Paese (attorno all'1 per cento al momento, la fetta degli ebook nel giro d'affari complessivo dei libri).
In Italia — prima nazione non di lingua inglese — Google arriva dopo le analoghe esperienze negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito e in Australia, dove gli store sono stati aperti a partire dal dicembre 2010. Dal punto di vista pratico, gli ebook targati Mountain View, si possono acquistare sul sito di Google Play, la piattaforma di intrattenimento del gruppo, oppure dall'omonimo negozio disponibile sui dispositivi con sistema operativo Android.
Quanto ai titoli, «sono oltre due milioni nelle varie lingue, di cui migliaia in italiano grazie agli accordi con decine di editori» spiega nella conferenza stampa di presentazione a Milano Chiara De Servi, Strategic partner manager di Google per l'Italia. Il gruppo di Mountain View non dice di più sui numeri ma già da soli, Mondadori, Rcs Libri e Gems — che partecipano al progetto — annunciano di mettere a disposizione un pacchetto di quasi 7 mila titoli. Nessun dettaglio neppure sulla divisione dei guadagni né sugli accordi con gli editori per stabilire il prezzo finale dell'ebook. «Informazioni riservate», dice Google.
Innovativo il sistema di fruizione, ispirato al motto «Compra ovunque, leggi ovunque». Il gruppo fondato da Larry Page e Sergey Brin, infatti, non sceglie di associare le vendite di ebook a un proprio dispositivo (come Amazon con il Kindle o Apple con l'iPad) ma punta sul cloud computing. «Gli ebook risiedono nella nuvola» dice la manager De Servi. Vale a dire: non serve scaricare l'ebook ma è possibile leggerlo direttamente dal browser web o dalle applicazioni e, una volta acquistato, il libro è disponibile su tutti i dispositivi connessi a Internet, dal pc agli smartphone, ai tablet, agli ereader (eccetto per ora il Kindle). Tutti sincronizzabili, tanto che se si interrompe la lettura su uno dei supporti, si può ricominciare su un altro dallo stesso punto in cui ci si era interrotti. Tutti gli ebook comprati rimangono infine nei server Google, che diventano una sorta di biblioteca virtuale cui si può accedere in ogni momento dal proprio account (lo stesso della posta Gmail). Un sistema che elimina anche la necessità del Drm, ovvero la tecnologia antipirateria usata dai grandi editori italiani. Per chi non può connettersi, precisa comunque Google, è possibile sia leggere offline sia scaricare il libro.
«Siamo contenti di esserci» commentano gli editori alla presentazione dello store. «Daremo sicuramente nuovo vigore al mercato digitale» dice Riccardo Cavallero, direttore generale Libri Trade Mondadori. «L'anticipo rispetto a Francia e Germania è un riconoscimento del nostro impegno per la lettura di qualità anche in digitale» aggiunge Alessandro Bompieri, amministratore delegato di Rcs Libri. Per i due gruppi editoriali lo sbarco su Google Play rappresenta anche un'opportunità per nuove iniziative: Mondadori annuncia che nelle prossime settimane saranno disponibili in versione elettronica nuove parti del suo catalogo; Rcs Libri — primo al mondo a farlo — lancia l'ebook-raccolta dei bestseller del Ciclo dell'Eredità di Christopher Paolini (prezzo di lancio: 35,99 euro). «Ben venga un player mondiale che promette di innovare e aumentare il livello della competizione» aggiunge il presidente di Gems, Stefano Mauri.
A spaventarsi potrebbero essere piuttosto i rivenditori, minacciati dalla concorrenza di un nuovo soggetto internazionale che, in questo caso, detiene anche il primato nelle ricerche online. «Meglio tre giganti che uno solo» commenta riferendosi a Apple, Amazon e Google, lo studioso Gino Roncaglia, autore de La Quarta Rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro. Che però avverte: «Bisognerà comunque fare attenzione e verificare se, tra qualche tempo, saranno necessarie correzioni esterne, come norme antitrust». Si dice fiducioso, invece, sulle capacità degli store più piccoli di tenere il passo: «È vero, sono a rischio, ma possono sopravvivere puntando sulle idee e l'innovazione».
Ne è convinto Marco Ferrario, fondatore di BookRepublic, uno dei gruppi indipendenti più attivi nell'editoria digitale italiana. «Il nostro valore aggiunto è di essere un sistema — spiega —: non siamo solo un punto vendita online ma una community e una piattaforma che offre servizi, qualità e percorsi di lettura».
«Da qui ai prossimi 4-5 anni l'arrivo di un grande gruppo non può che far crescere il mercato. E questo fa bene a tutti» dice Antonio Tombolini, amministratore delegato di Simplicissimus. E dopo? Specializzazione, la ricetta. Con tanto di progetto: «Fra qualche anno, ad esempio — illustra Tombolini —, da store centralizzato la nostra libreria Ultima Books potrebbe trasformarsi in piccoli punti vendita su singoli temi, da associarsi a siti Internet dedicati a specifici settori o argomenti».
Corriere 9.5.12
Volumi digitali in prestito, la classifica dei più letti
di Cristina Taglietti
Prendere in prestito un ebook in biblioteca. Da settembre dello scorso anno è possibile in circa 2.300 biblioteche di dodici regioni italiane che hanno aderito a MediaLibraryOnline (Mlol), primo network di biblioteche digitali nato nel marzo 2009 e che adesso segnala anche adesioni dall'estero (Svizzera, Slovenia, Giappone). Domani, nella giornata inaugurale del Salone, Mlol presenterà i primi dati che fotografano le abitudini e le preferenze degli utenti con Giulio Blasi di Mlol, Nicola Cavalli della libreria Ledi, Marco Ferrario di Bookrepublic e Renato Salvetti di Edigita. La piattaforma di «digital lending» aggrega contenuti digitali di ogni tipo (ebook, audiolibri, quotidiani, periodici, banche dati, musica, video) ed è di fatto un mediatore tra gli editori e le biblioteche. A Mlol aderisce Edigita, la piattaforma che mette insieme i cataloghi di Rcs, Gems e Feltrinelli, ma non Mondadori che non ha al momento un'offerta per le biblioteche, mentre da poco la società ha fatto un accordo con Bookrepublic che permette agli utenti di dare in prestito gli ebook senza limiti di tempo (quelli di Edigita, protetti dal Drm Adobe, scadono dopo 14 giorni) e senza più un numero massimo di dispositivi di lettura su cui trasferirli. Una scelta possibile grazie al watermark, o social DRM, con il quale sono protetti gli ebook degli editori distribuiti da Bookrepublic.
I dati che verranno presentati al Salone registrano quasi 425 mila accessi con 741 mila oggetti digitali consultati. I titoli complessivi disponibili su Mlol sono 7.673 (circa un terzo dei 20 mila titoli totali sul mercato italiano), i download sono stati poco più di 12 mila mentre le prenotazioni 8.500. Giulio Blasi, amministratore unico di Horizons Unlimited, la società che ha sviluppato MediaLibraryOnLine, parla di una stima per il 2012 che dovrebbe crescere in modo esponenziale, arrivando ad acquisire il 90 per cento del titoli e a produrre circa 90 mila download. I dati presentati mostrano anche la diversa distribuzione geografica, in linea con i dati nazionali sulla lettura. «C'è una concentrazione di adesioni in Toscana, Emilia Romagna e Lombardia — spiega Blasi — mentre siamo praticamente assenti in altre, come la Puglia, la Basilicata, la Calabria.
Ma come funziona l'acquisto? «Quando la biblioteca acquista un titolo — spiega Blasi —, questo comprende una copia d'archivio che rimane e può essere consultata in loco, oltre alla licenza di prestito di un certo numero di volte. La transazione in digitale costa da un decimo a un trentesimo in meno del costo di una transazione analogica». La top 20 dei libri più prestati (i dati però non comprendono ancora i titoli di Bookrepublic) da settembre a fine aprile vedono ai vertici i grandi successi popolari che hanno dominato le classifiche tradizionali, Vanessa Diffenbaugh, Carofiglio, Baricco, De Luca, Clara Sanchez, ma anche Steve Jobs in parole sue (Siate affamati, siate folli, pubblicato da Etas), così come nella musica il download di mp3, in aprile (scelto come mese campione) è dominato per quasi il 45 per cento dal pop.
A Torino verrà annunciato anche un nuovo servizio legato agli audiolibri, grazie a un accordo con Il narratore per cui gli utenti potranno scaricare i file audio privi di protezione. Anche in questo caso i file potranno essere tenuti per sempre e potranno essere scaricati su vari device.
Corriere 9.5.12
Fusione con Melbookstore: nascono le librerie Ibs.it
Comincia il 17 maggio a Lecco la rivoluzione culturale nella vendita dei libri. Con l'apertura del primo negozio Ibs.it a Lecco, inizierà la convivenza tra ebook e libro fisico. È la prima tappa della fusione tra il sito di ecommerce Ibs e la catena Melbookstore. «Si comincia con una libreria nuova, a Lecco — ha detto Alberto Ottieri, amministratore delegato di Emmelibri e presidente di Giunti & Messaggerie che controlla Melbookstore e Ibs.it — ma poi si prosegue, dal primo luglio, con gli altri otto punti vendita: Roma, Bologna, Firenze, Ferrara, Mantova, Padova, Bergamo, Novara. Stiamo anche cercando uno spazio di circa mille metri quadrati a Milano». Un progetto che prevede un nuovo tipo di libraio che oltre a consigliare titoli, dovrà anche aiutare a usare un ereader, a scaricare il titolo introvabile e persino a reinstallare il software. Il lettore potrà comprare uno dei 30 mila titoli sugli scaffali, oppure ordinare il volume online e farselo spedire in libreria.
Corriere 9.5.12
Si è spento Sendak padre freudiano dei mostri infantili
di Alessandra Farkas
NEW YORK — È riuscito a dare voce e forma alle ansietà più nascoste dell'infanzia, con le sue favole dal sapore un po' freudiano che hanno conquistato intere generazioni di bambini in tutto il mondo. Lo scrittore e illustratore americano Maurice Sendak, considerato tra i principali autori per bambini del ventesimo secolo, si è spento ieri nella sua casa di Danbury, nel Connecticut, all'etá di ottantatré anni, in seguito ad un infarto.
Il suo capolavoro rimane, senz'ombra di dubbio, Nel paese dei mostri selvaggi, uscito nel 1963 e pubblicato in Italia da Babalibri, dove si racconta di un bimbo che, mandato a letto dai genitori senza cena perché si è comportato male, una volta solo nella sua cameretta inizia a fantasticare, immaginando un mondo tutto suo in cui si ritrova a vivere insieme a mostri selvaggi, enormi e spaventosi, ma anche bonari.
«Un classico intramontabile», commentarono in coro i critici, quando, nel 2009, il regista Spike Jonze ne trasse il quasi omonimo film, destinato a lasciare il segno in tante immaginazioni infantili: «Nel paese delle creature selvagge» («Where the Wild Things Are»). «Non scrivo per i bambini e neppure per gli adulti. Scrivo e basta», spiegò all'uscita della pellicola nelle sale americane Maurice Sendak, che era nato a Brooklyn nel 1928 da genitori ebrei polacchi immigrati. Oltre ad aver vinto innumerevoli premi letterari (dal «Caldecott Medal» al «National Book Award») l'autore ha visto i suoi libri diffondersi largamente. Titoli quali Luca, la luna e il latte, Baldo Ribaldo e Il lupo ballerino sono stati tradotti in oltre trenta lingue (in Italia sono pubblicati anch'essi da Babalibri). Tra i suoi fan, Maurice Sendak annoverava anche il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che lo scorso 9 aprile, in occasione della tradizionale festività pasquale dell'Easter Egg Roll Monday alla Casa Bianca, volle leggere proprio Nel paese dei mostri selvaggi insieme alle sue due figlie, spiegando che si trattava di «uno dei suoi libri preferiti», e rendendo senza saperlo allo scrittore l'ultimo omaggio.