martedì 8 maggio 2012

l’Unità 8.5.12
Il Pd solo tra le macerie
Bersani: «Noi rafforzati e destra sconfitta»
di Simone Collini


Bersani: «Compreso dagli elettori il nostro sostegno all’esecutivo Noi siamo leali ma ora ci ascolti di più»

Soddisfatti per il risultato ottenuto, infastiditi per le reazioni degli alleati, preoccupati per altri dati registrati in queste elezioni. Al quartier generale del partito i dirigenti Democratici seguono lo scrutinio del voto amministra-
tivo con un misto di stati d’animo. Il Pd si conferma prima forza politica nella maggior parte delle sfide elettorali, e se nei 26 comuni capoluogo si partiva da una situazione di 18 a 8 per il centrodestra, adesso si va ai ballottaggi con una situazione ribaltata. Tutt’altro che rassicurante è però il calo dell’affluenza, l’aumento del voto di protesta, il livello di frammentazione registrato e, benché la cosa possa sembrare al limite del paradossale, anche il tracollo del Pdl. «È un voto a metà strada tra la disperazione greca e la speranza francese», sintetizza non a caso Massimo D’Alema sottolineando che il centrosinistra emerge quasi ovunque «come unico polo politico di governo». Tutto bene? Sì, a patto di sapere che il Pd «si troverà ad essere l’unico partito nazionale, con responsabilità di governo molto accresciute e in una situazione molto difficile». E che, come dice Pier Luigi Bersani ragionando sulla «riflessione» annunciata da Angelino Alfano e sul rischio ripercussioni sulla tenuta del governo Monti, bisogna augurarsi che dal risultato negativo del Pdl «non derivi un danno per il Paese».
RAFFORZAMENTO PD, TSUNAMI PDL
Il segretario del Pd segue lo spoglio delle schede nel suo studio al Nazareno, tra telefonate dai rappresentanti di lista dalle sezioni sparse in tutte Italia e un occhio alla televisione. Dallo schermo parla il leader del Pdl Alfano, che dice «nessuno può festeggiare», quello di Sel Nichi Vendola, per il quale «il centrosinistra non viene percepito come alternativa», quello dell’Idv Antonio Di Pietro, pronto a sostenere che «il voto premia i partiti che hanno fatto veramente opposizione». Bersani scuote la testa, poi esce dalla sua stanza e va in sala stampa, dove ad attenderlo ci sono telecamere e giornalisti. «Si sentono in questi minuti dei commenti piuttosto singolari, ma se si guardano i dati si vede chiaramente il senso di queste elezioni. In una situazione molto difficile, emerge come primo elemento un nettissimo rafforzamento del Pd e del centrosinistra in tantissime città italiane. Secondo, uno tsunami del centrodestra e terzo un’avanzata di Grillo. Questi sono i dati della realtà, che non possono essere annegati in un indistinto in cui avrebbero perso tutti».
A Bersani non sfugge che dal voto emergono «elementi di disperazione» e anche di «frammentazione», ma in questo quadro a tinte fosche «c’è anche un presidio», rappresentato dal buon risultato ottenuto dal Pd. «Non c’è materia per dire che tutti perdono perché se così fosse allora non c’è una strada in questo Paese. Non è vero che tutti perdono e una strada c’è. Noi, con una posizione scomoda, ci siamo caricati di responsabilità non nostre dice riferendosi al sostegno garantito al governo ma dati alla mano sentiamo di essere
stati compresi dagli elettori».
LEALTÀ A MONTI, ORA PIÙ ASCOLTO
I dati dicono che il Pd è l’unico partito che appoggia Monti ad uscire rafforzato da questo voto, di contro a un tracollodelPdleaunTerzopoloalpalo.E dicono che ad avvantaggiarsi di questa situazione sono soprattutto le liste di Beppe Grillo. Bersani non sottovaluta l’exploit del Movimento 5 stelle, anche se si dice convinto che ai ballottaggi, quando «servono risposte di governo affidabili», ci potrebbe essere un «ripensamento» da parte di molti elettori. Ma comunque vada tra due settimane, al «disagio» emerso dal voto e confluito soprattutto nel voto grillino va data una risposta. E se i consensi dati al Pd sono uno «stimolo» a proseguire nel sostegno a Monti, al governo Bersani ribadisce un sostegno «leale», ma lancia anche un chiaro segnale. «Se dall’Imu al Salva-Italia agli esodati si fosse ascoltato un po’ di più il Pd, il disagio sarebbe stato minore».
La preoccupazione per il quadro generale c’è. Una piccola soddisfazione è per il risultato di Bettola, il Comune di cui è originario Bersani, strappato al Pdl (e al Nazareno leggono anche col sorriso sulle labbra il risultato di Cassano Magnago, il paese d’origine di Umberto Bossi, dove la Lega non è arrivata al ballottaggio).

Corriere 8.5.12
Bersani: si deve rinegoziare il patto con il premier
E D’Alema rilancia l’alleanza a sinistra: è una realtà
I timori per i rivali grillini, «nuovi populisti»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Nel Pd si contano i morti e i dispersi. Per una volta tanto non appartengono alle truppe dei Democratici che, come ricorda Pier Luigi Bersani ai suoi, «comunque hanno dimostrato di rappresentare l'unico partito stabile e strutturato in Italia». Talmente «stabile e strutturato» che il suo leader vuole andare già all'incasso con Monti: «C'è bisogno di un'accelerazione del quadro politico, bisogna rinegoziare un patto con Monti. Del resto, se il governo ci avesse ascoltato prima, ora il disagio degli italiani sarebbe minore. Non si può tirare a campare: ora Monti ci deve ascoltare di più».
Nonostante questo scatto d'orgoglio bersaniano, nel campo del centrosinistra morti, moribondi e dispersi abbondano. Innanzitutto Pier Ferdinando Casini che fine ha fatto? Risponde gelido Massimo D'Alema, intervistato da Alessandra Sardoni per La 7: «Paga un prezzo alto perché in un'epoca di bipolarismo non ha scelto». Il che, detto da uno degli esponenti del Pd che più si è speso per lanciare il partito all'inseguimento dell'Udc, è quanto meno singolare. Ma un fatto è certo, nessuno andrà a caccia del Terzo polo: se si vuole accomodare bene, sennò pazienza. Già, perché per una morte annunciata (di un'alleanza politica, naturalmente), c'è una resurrezione in vista. La cosiddetta foto di Vasto non c'è più, sostiene sempre D'Alema: «Ormai è una realtà dei fatti di questo Paese: chiamarla foto è stucchevole. È una realtà che va estesa». Gli altri moribondi giacciono negli altri campi ma preoccupano lo stesso il Pd: «Che cosa farà adesso il Pdl polverizzato?». Avverte Walter Veltroni con grande preoccupazione: «Con questa crisi politica e con il tracollo del Pdl si rischia una situazione pericolosa, una deriva greca». Ma il centrodestra che scoppia presenta anche un altro pericolo, come ricorda Beppe Fioroni: «L'evaporazione dell'area moderata, con il crollo del Pdl, la flessione del Terzo polo e la crisi della Lega sono fattori che rischiano di accelerare la nascita di un nuovo soggetto al centro, a cui potrebbero partecipare anche gli ex ppi del Pd se il partito andasse all'inseguimento di Grillo». E sempre in quel camposanto che inquieta il Pd appare anche la riforma elettorale. «Io spero che si vada avanti su questa strada ma temo che non sarà così», ammette Paolo Gentiloni. «La gente — spara Fioroni — non ammetterebbe un inciucio in nome del proporzionale, non dopo questo voto che ha dimostrato quanto i partiti vengano visti come una casta che tenta di sopravvivere a se stessa alla faccia di tutti». E come in ogni cimitero che si rispetti, ecco arrivare anche il fantasma che atterrisce tutti. È lo spauracchio di Beppe Grillo. Ufficialmente al Pd nessuno lo teme. Spiega Bersani: «Il suo risultato non ci preoccupa, perché noi abbiamo tenuto e lui ha preso voti soprattutto dal Pdl e dalla Lega». Parla così, il segretario del Pd, ma è uomo intelligente e sa che la realtà può essere assai diversa. Come la descrive Gentiloni: «Quella della protesta dei cosiddetti grillini è un'incognita a cui noi non sappiamo dare valore». Bersani, però, al di là delle parole rilasciate a favore di telecamere e a beneficio dei microfoni, quando parla con i suoi collaboratori, in serata, ammette: «È chiaro che oggi più che mai i nostri avversari sono i populisti di tutti i tipi. Ieri si chiamavano Berlusconi e soci. Oggi anche Grillo sta assumendo tutti i caratteri di un populista...».

l’Unità 8.5.12
Cresce l’astensionismo. Penalizzata la destra


L’astensionismo in crescita è un altro elemento che ha caratterizzato questa tornata di elezioni amministrative, oltre all’espressione di protesta e di disaffezione rispetto ai vecchi schieramenti che ha penalizzato i partiti. Escluso il Pd, che si consolida come forza politica diventando il primo partito.
La media dell’affluenza alla chiusura dei seggi, nei 768 Comuni interessati al voto, è stata del 66,88 per cento, secondo i dati non definitivi del Viminale. Un calo di circa il 6% rispetto alle scorse comunali del 2007, alle quali l’affluenza è stata del 73,74%.
INVERSA LA TENDENZA
Le urne sono state disertate soprattutto dal centrodestra, come rivelano i risultati nei vari Comuni, ed è particolarmente evidente il maggiore astensionismo in alcuni capoluoghi di provincia. Si è ribaltato, come ha constatato il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, il numero dei Comuni conquistati dal centrosinistra. Se dal 2007 la geografia politica vedeva 18 comuni capoluogo di provincia governati dal Pdl insieme alla Lega, la débacle del partito berlusconiano, e anche del Carroccio, ha capovolto il dato: al centrodestra 8 Comuni, il centrosinistra è in testa in 17 o 18 centri, nei quali in alcuni casi andrà al ballottaggio.
Il record di astensionismo si è verificato in Emilia Romagna, dove il calo di affluenza alle urne è stato del 10,8 per cento, passando dal 75,4% del 2007 al 64,6%. Molto forte anche in Toscana, dove ha raggiunto il 10%, passando dal 70,58% al 60,80%. Sono le cosiddette regioni «rosse», nelle quali gli elettori di centrodestra hanno evidentemente rinunciato a partecipare alla competizione, oppure si è trasformato nel voto di protesta che ha premiato il movimento di Beppe Grillo.
Un calo significativo della partecipazione si è registrato anche in Lombardia, circa del 9%, dal 72,52% al 63,61%. Il maggiore astensionismo si è avuto in alcuni capoluoghi di provincia. A Palermo si sono recati al seggio il 63,23% degli aventi diritto, nelle precedenti amministrative l’affluenza è stata del 71,77%; a Genova il 55,57% (61,75% nel 2007), a Verona il 69,62% (76,69%), all' Aquila il 74,92% (79,85%), a Parma il 64,55% (74,61%), a Piacenza il 65,41% (77,96%), a Lucca il 58,21% (68,64%), a Pistoia 59,04% (69,89%), a Lecce il 73,76% (80,28%).
BAGNASCO: «BRUTTO SEGNO»
Dal Piemonte (ad Alessandria ha votato il 61,41% contro il 74,96%), i segretari del Pd, Gianfranco Morgando e Paola Bragantini, osservano che «astensionismo e successo dei grillini sono anche per il Pd segnali che non si possono eludere né minimizzare».
Il cardinale Angelo Bagnasco afferma come il dato che «rincresce maggiormente è la disaffezione alla politica, con quella forma di antipolitica di cui ho sempre parlato: la sfiducia verso la politica in genere non è un segno bello per tutti noi».

Corriere 8.5.12
L’allontanamento dalla politica non si arresterà
Dal voto emergono tre tendenze legate L'alta astensione, il fenomeno Grillo e i bassi consensi ai partiti, specie al Pdl
di Renato Mannheimer


Sulla base delle prime proiezioni, le caratteristiche principali del voto di queste amministrative sono almeno tre, diverse tra loro, ma tutte in qualche modo legate al fenomeno sociopolitico prevalente di questo periodo: la disaffezione degli elettori dalla politica e, in particolare, dai partiti.
C'è in primo luogo il considerevole incremento dell'astensione, di ben 7 punti, superiore quindi a quanto registrato domenica sera. In alcuni contesti, specialmente nelle regioni meridionali, l'erosione dal voto è stata frenata dalla dimensione locale della consultazione e dalla conseguente presenza di molte forze politiche e di candidati legati al territorio. Ma altrove, al Nord e al Centro, ciò non è bastato e si è registrata una più significativa diminuzione di votanti. Non si tratta di una sorpresa, poiché questa tendenza era stata ripetutamente annunciata nelle scorse settimane: ne abbiamo fatto più volte cenno anche su queste colonne. Basti ricordare che, secondo gli ultimi sondaggi, la percentuale di chi è orientato all'astensione e comunque indeciso se o cosa votare, supera il 55 per cento.
I voti dirottati verso l'astensione derivano da tutto lo schieramento politico, nessun partito escluso. Ma la parte più consistente proviene da opzioni in passato destinate al Popolo della libertà: secondo una ricerca realizzata a livello nazionale, più del 40 per cento dei votanti per il Pdl nel 2008 dichiara oggi un comportamento astensionista.
Di qui il secondo fenomeno caratterizzante di queste elezioni amministrative: il crollo, specie in alcuni contesti, del seguito della forza politica creata dal Cavaliere. Verso l'astensione si è dunque incanalata soprattutto la disaffezione proveniente dal centrodestra, in particolare da parte di chi è meno partecipe politicamente. Ma vi è stato — e si tratta della terza caratteristica di queste elezioni — un altro importante collettore della protesta: il Movimento Cinque Stelle. Anche verso Grillo si è diretto un elettorato connotato da sentimenti di ostilità verso la politica tradizionale, con caratteristiche tuttavia assai diverse dagli astenuti. Mentre questi ultimi sono più animati dall'antipolitica in generale e spesso dal disinteresse, il pubblico del comico genovese appare più specificatamente antipartitico: si tratta di elettori mediamente assai più giovani che, al contrario di chi si dice tentato dall'astensione, segue con attenzione e costanza gli avvenimenti politici.
Nell'insieme, è comunque il progressivo distacco dai partiti tradizionali ad avere caratterizzato questa tornata elettorale: si tratta di una tendenza spesso sottovalutata dalle forze politiche che, con tutta probabilità, connoterà — e forse anche in misura maggiore di oggi — lo scenario politico nei prossimi mesi.

Corriere 8.5.12
Il sociologo Carlo Carboni
«Non chiamatela antipolitica Il vero problema è chi non vota più»
di Paolo Conti


ROMA — «Sì, certo, c'è l'antipolitica se vogliamo attribuire questa etichetta al movimento di Grillo... Ma il dato più evidente e allarmante è la "impoliticità" dell'indifferenza degli italiani. Quando l'affluenza alle urne cala di quasi il 7% rispetto alle altre amministrative e va a votare solo il 66 e passa per cento, siamo di fronte a un voltare le spalle collettivo alla politica».
Carlo Carboni, docente di Sociologia economica all'università «Giorgio Fuà» di Ancona, è autore sia di «Èlite e classi dirigenti in Italia» (Laterza 2007), sia del recente «Il Paese che funziona-le eccellenze industriali» (Il Mulino). Da anni studia i cambiamenti del Paese con gli strumenti di un sociologo capace di seguire il binario economico e quello politico.
Dove affondano le radici di questo voto, professor Carboni?
«Certo, si tratta di elezioni amministrative. Ma il loro valore è importante per il contesto, per lo sfondo. L'Europa è in fiamme. In Francia ha appena vinto Hollande sulla scia di una forte domanda di cambiamento. Non ideologico, attenzione: si chiede che la crescita venga vista non più come una minaccia ma come un fattore che favorisce la tenuta dei conti di bilancio. Il nostro test è piccolo ma significativo».
Perché la spaventa, per usare le sue categorie, più la «impolitica» che l'antipolitica di Grillo?
«Perché la cosiddetta antipolitica, o politica antagonista che dir si voglia, fa comunque parte del gioco istituzionale. Emerge attraverso le urne. La gente vota. Prima o poi anche il Movimento 5 stelle verrà istituzionalizzato, se c'è un contenuto positivo».
La parabola della Lega...
«Esatto. Anche la Lega si presentò come un fattore antipolitico. Ora è una parte importante del sistema».
Torniamo all'«impolitica».
«Veniamo da vent'anni di crisi della politica italiana, minata da una crisi di fiducia in costante crescita tra i cittadini. Questa delegittimazione non istituzionale ma di affidabilità ha portato al risultato di ieri. L'impolitica si è nutrita anche per l'affermazione di un modello alternativo all'uomo pubblico: l'italiano che punta sul benessere personale, la sicurezza, l'agiatezza, e poi via via eccoci alla filosofia dell'iperconsumismo. Quanto di più lontano dal "cittadino politico". In questo profilo si ritrovano pezzi importanti della società italiana. Per esempio una parte considerevole del ceto medio, che è anche ben informato su ciò che accade. C'è un po' di snobismo, certo, ma anche una gran voglia di girare le spalle alla politica così come l'abbiamo vissuta».
Cosa vede nel voto di Grillo?
«Sicuramente una forte componente giovanile. Comunque un voto. Comunque un occupare spazi di democrazia. Cosa importantissima».
Leoluca Orlando, con la sua affermazione a Palermo, ha decretato la morte della vecchia politica. Condivide?
«Potrei condividere se davvero così fosse... Invece la vecchia politica non solo non è morta: ma è essa stessa una parte consistente dei nostri problemi duri a morire».
Cosa dovrebbe fare la politica per sottrarre spazio all'impolitica, per far tornare a far votare gli italiani?
«Lo scrivete voi tutti i giorni sui quotidiani, mi pare. Dimezzare il finanziamento pubblico ai partiti, abbassare i compensi di chi governa e amministra, sforbiciare il numero dei parlamentari. Soprattutto riformare subito i partiti. Ora sono solo oligarchie spesso personali dietro a una logora etichetta. E non parlo soltanto del Pdl, sia ben chiaro».
A proposito di Pdl, la sua sconfitta appare molto chiara.
«Credo che, in vista del 2013, tutti siano chiamati a rimettere mano ai partiti. L'asse Pdl-Lega che ha sorretto per anni il potere soprattutto settentrionale, si sta sfaldando senza rimedio. Una situazione che chiama alla rifondazione il centrodestra. Ma lo stesso discorso vale, con identica urgenza, per il centrosinistra: impossibile immaginare di poter affrontare le elezioni del 2013 con gli attuali assetti».
In quanto alla Lega?
«Mi sembra abbia perso soprattutto il suo ruolo di formazione politica legata alla protesta. Non a caso Grillo ha cercato anche lì i suoi nuovi spazi».
Lei suggerisce di sforbiciare i costi della politica. In Sardegna il referendum sull'abolizione delle quattro province più recenti si è trasformato in un plebiscito di sì. Che ne pensa?
«Un segnale molto tangibile di quanto dicevamo prima. Non andrebbe sottovalutato, direi. Tre anni fa svolsi un'indagine demoscopica in tutta Italia e la Provincia era percepita come un ente inutile, soprattutto dopo la recente proliferazione davvero senza fine».
Quale messaggio arriva ai vertici del Paese dalle elezioni, dal suo punto di vista di sociologo?
«Abbiamo vissuto e viviamo tre crisi: politica, economica, morale, recentemente riemersa. L'impolitica pone il problema di una leadership capace di infondere al Paese speranza e positività dopo la lunga sbornia di pessimismo. Ma non siamo in grado di dire fino a che punto la questione sia legata all'attuale governo Monti. Difficile dirlo».

La Stampa 8.5.12
Grillo il Messia ma il boom-5 stelle è andato già oltre
Viaggio nel “movimento-partito” che scuote l’Italia
di Jacopo Jacoboni


Gli italiani, svegliatisi una mattina da sogni agitati, si trovarono trasformati in un enorme insetto immondo. Un Grillo.
Se persino lui infine sorride su di sé citando la vignetta che gli dedica Vauro (La Metamorfosi, appunto: un umano disegnato in un letto che si sveglia trasformato nell’«insetto immondo»), magari, anche negli atteggiamenti, da ieri è iniziata una fase due per il Movimento 5 stelle. L’opinionismo col ditino alzato tenderà ancora a identificare questo «movimento, non partito» col volto del comico, i suoi show, il suo format eterno e tendente alla ripetizione («sono morti, ragazzi, sono alla liquefazione, alla diarrea politica», twittava ancora ieri con consumata battuta). La realtà è più complessa, e un viaggio tra i militanti e i loro programmi aiuta a scindere il movimento dall’immagine del suo leader. I candidati che ieri hanno sbancato
IL SERBATOIO LEGA E ASTENSIONI
Trionfo in Veneto: il primo sindaco è a Sarego, sede del fantomatico parlamento padano
un po’ dappertutto (tranne che al sud, a Palermo o Lecce) sono lo spaccato di un’Italia ignota, diversa anche da Grillo.
Lui fa il suo, come sempre, «mi hanno detto di tutto, populista, demagogo, arruffapopoli, flauto magico, pifferaio, maiale, s... Continuate così e arrivo al cento per cento». Oppure ripete «non siamo l’antipolitica, siamo da anni dentro le istituzioni e ci si deve rispetto. È un cambio epocale, i cittadini votano se stessi. Adesso abbiamo anche un primo sindaco, ci vediamo in Parlamento». Già questa una novità rispetto ai tempi del vaffa per il vaffa. Per ora, si son presi la città del fantomatico parlamento padano, Sarego, nel vicentino. Ma il primo sindaco 5 stelle difficilmente farebbe pensare a un qualunquista, o al demagogo che atterriva Demostene. Si chiama Roberto Castiglion, ha 32 anni, è un ingegnere informatico da 110 e lode e faceva il project manager in Enel su un gruppo di sviluppo sulle mobile application per telefonini; insomma, non è un anti-sistema, tutt’altro. «Vorremmo un sistema migliore», spiega. E ha un programma che potrebbe essere ascoltato, prima che irriso: l’ambiente su tutto, incentivi alla raccolta differenziata (l’esempio più citato è Vedelago), abbassamento della tariffa rifiuti, risparmio energetico, fotovoltaico, gruppi di acquisto responsabile... In più, udite udite, subito la spending review (come Monti!) per tagliare spese inutili del Comune.
E sarà bizzarro, ma mentre Grillo sfotte «rigor Montis che fa il contabile», il candidato record che va al ballottaggio a Parma, Federico Pizzarotti, invita appunto a rivedere spesa per spesa dell’amministrazione, e tutto è meno che un invasato. «Grillo fa l’aratro, poi passiamo noi e seminiamo», sorride. Ha fatto per anni il manager in banche del nord, oggi lavora nel settore dell’information technology per l’università. Quasi quarant’anni, una passione per il teatro e il judo, ha confessato a Vanity Fair: «Fin da piccolo ho sempre voluto cambiare il mondo, finalmente ho capito da dove iniziare». Come si definirebbe? «Un capoprogetto»; gente che vuole essere pragmatica, insomma: non anti-ideologica, a-ideologica, al limite.
Oppure guardate il mite Paolo Putti, che a Genova ha sfiorato il ballottaggio (e in una città dove il rivale non era uno del Pd, ma Doria). Non è uno «scherano», come ieri qualcuno blaterava su twitter: fa l’educatore, ha lavorato per quindici anni in ong ambientaliste, tantissimo volontariato in periferia a Genova. Leader locale di una forza antipolitica? Il suo slogan non lo era, «Vogliamo che la gente torni a votare». Il primo commento: «L’importante è che i cittadini si riapproprino del fare politica».
A Verona c’è il «Bencio», Gianni Benciolini, anche lui attorno al dieci, che ha fatto campagna elettorale sugli sprechi: Tosi racconta ha speso centomila euro, Luigi Castelletti 180mila, Bertucco centomila, e lui? «Il nostro budget era tremila, ma credo che ce ne avanzeranno». E saranno reinvestiti in opere di utilità pubblica. Propone corsie protette in centro (in fondo, alla Pisapia a Milano), bike sharing, incentivi ai mezzi puliti, magari anche con colonnine di ricarica elettrica nell’area urbana, la trasformazione delle ex Cartiere in un grande parco cittadino... E anche ad Alessandria Angelo Malerba, consulente nella formazione (un altro educatore), promette di incalzare l’amministrazione sui soldi, «è necessario verificare la partecipazione del comune nelle varie società, sono tutte necessarie?», chiede.
Ecco. Il partito-non partito ha riconquistato voti che altrimenti erano persi per la politica, gente che probabilmente non votava più. In più s’è andato a infilare nel crac finale del berlusco-leghismo, in Veneto oltre che a Verona e Sarego a Saonara nel padovano sono attorno al 18 per cento (secondo partito), hanno quasi il dieci a Cittadella, il 26 a Conselve, il 20 a Vigonza...
I soloni-so-tutto-io dicono che faranno mera testimonianza, ma potrebbero invece fare accordi; anche sorprendenti. Come confida Benciolini a Verona parlando di Tosi, «vedremo come si comporterà, noi lavoriamo con chiunque sia di centrodestra che di centrosinistra».

La Stampa 8.5.12
Vendola, leader di Sinistra e libertà
“Non li snobbiamo. Subito un confronto”
Mano tesa al comico: «Con loro dobbiamo misurarci, non certo fare a gara di insulti»
di Riccardo Barenghi


Quel Movimento riesce a catalizzare il disincanto e a organizzare un nuovo civismo»
LA RABBIA «Invece vedo che il Pd si attarda dietro alla chimera del Terzo Polo...»

Il tracollo del centrodestra, il fatto che il centrosinistra non riesca ad approfittarne per decollare e l’irrilevanza del terzo polo». Questi secondo Nichi Vendola i tre dati fondamentali che escono dal voto amministrativo.
Ne metterei un quarto piuttosto rilevante, Vendola, ossia l’affermazione del Movimento 5 Stelle.
«Ovviamente sì, un' affermazione che vedo come una spina nel fianco del centrosinistra. Perché quel Movimento riesce a catalizzare il disincanto e a organizzare un nuovo civismo. Noi non dobbiamo assolutamente snobbarli ma, al contrario, aprire un confronto serio con loro. E lo dico al netto delle polemiche che mi hanno contrapposto a Beppe Grillo».
Scusi, ma due settimane fa, in un’intervista al nostro giornale, lei definì l’antipolitica “un’onda melmosa gonfia di passioni tristi, di livore che sostituisce l’analisi, di grugniti che prendono il posto delle strategie. Una sorta di bestemmia liberatoria...”. Cambiato opinione?
«Ma no, quella per me era ed è l’antipolitica. Tutt’altra cosa è chi lavora sul territorio come i tantissimi militanti ed elettori del Movimento 5 Stelle.
Con loro dobbiamo parlare e misurarci, non certo fare a gara di insulti. Anche perché il suo consenso è direttamente proporzionale al deficit di credibilità che spesso azzoppa il centrosinistra».
Eppure sembra che il centrosinistra riesca a vincerle queste elezioni...
«Sicuramente alla fine dei conti, avremo vinto gran parte delle sfide. Tuttavia, di fronte alla sconfitta storica di Pdl e Lega, una sconfitta che potrebbe anche essere la chiusura di un ciclo, io non vedo ancora un progetto forte, un’idea compiuta di alternativa. Mi pare che siamo visti solo come una coalizione elettorale ma non politica e spesso percepiti come un sistema di potere e non come un’Alleanza per il cambiamento».
Lei pensa che questo voto rilanci la famosa foto di Vasto?
«Io non parlo di foto ma di progetti, penso che se non mettiamo in campo da subito la nostra proposta per l’Italia rischiamo di perdere il treno. Invece vedo che il Pd continua ad attardarsi dietro alla chimera del Terzo Polo che, come hanno dimostrato gli elettori, non ha corrispondenza nella società e nel voto. Direi che risulta una forza irrilevante. Gli stessi ceti medi piuttosto che inseguire gli aquiloni del moderatismo si tuffano nel mare agitato del radicalismo populista».
Come in Grecia ma non come in Francia.
«Io vedo un sintonia tra il voto francese e quello greco. Hollande vince perché dice parole forti contro le politiche liberiste e di austerità dell’Europa. In Grecia perdono quelli che hanno sacrificato il popolo sull’altare del memorandum europeo, mentre vincono due partiti di sinistra che fanno un discorso europeista ma alternativo. Ovviamente anche qui esiste un’onda melmosa, stavolta composta da neonazisti».
Quindi secondo lei dalla Francia alla Grecia passando per l'Italia, il voto è contro questa Europa?
«E’ evidente che c’è un fortissimo malcontento nei confronti delle tecnocrazie europee, compresa quella che guida il governo italiano».
Prima il Pd fa cadere Monti e meglio è?
«Quando ci si spaventa di fronte agli effetti della democrazia, siano i referendum, o le elezioni anticipate, si commette un grave errore. La medicina che può curare la crisi della nostra società non è la tecnica ma la politica. La democrazia non è il problema, è la soluzione».
Ma Bersani ha detto che lui non vuole vincere sulle macerie del Paese...
«Con molto affetto gli rispondo che io spero di non perderle quelle elezioni, sulle macerie del Paese. Francamente non mi pare che il nostro governo le stia rimuovendo quelle macerie».

La Stampa 8.5.12
L’argine Pd contro l’esasperazione
di Federico Geremicca


Un cumulo di macerie politiche. E in mezzo ai rottami di partiti che non ci sono più (il Pdl), di movimenti messi in ginocchio dai loro stessi errori (la Lega) e di esperimenti rivelatisi nelle urne espedienti mediatici o poco più (il Terzo polo) solo il Pd sembra reggere l’urto dell’esasperazione popolare.
Il Pd si conferma e adesso di gran lunga il primo partito del Paese. Non che il voto non abbia riservato amarezze anche ai democratici di Pier Luigi Bersani, com’era prevedibile: ma a fronte della polmonite che ha colpito gli altri, quel che turba il Pd può esser per ora considerato un semplice seppur fastidioso raffreddore. E nulla più.
Le vicende di Palermo e Genova, certo, non sono esaltanti. Nel capoluogo siciliano il candidato Pd vincitore delle primarie va sì al ballottaggio, ma è più che doppiato dall’inossidabile Leoluca Orlando: comunque la si pensi, un leader vero, passato indenne attraverso cambi Repubblica (sindaco nella Prima e salvo terremoti anche nella Seconda) e cambi di partito; e a Genova, ferita ancora sanguinante, i democratici devono assistere al trionfo di Marco Doria, l’uomo che ha sconfitto alle primarie le due candidate del Pd. Qualche altra delusione, certo, è arrivata qua e là: ma nulla di paragonabile alla vera e propria messa in liquidazione che ha ridotto il Pdl a forza minore e la Lega salvo Verona ad un esercito in rotta anche al Nord e nelle sue troppo enfatizzate valli.
Ci si potrà interrogare a lungo intorno al risultato ottenuto dal partito di Bersani: si potrà, cioè, andare a cercare il pelo nell’uovo oppure dettagliare complicate spiegazioni circa la sua capacità di resistenza di fronte alla slavina che ha investito l’intero sistema politico. Ma forse varrebbe la pena di accontentarsi per il momento di analisi semplici, a cominciare da quella che riguarda in fondo la natura stessa del Pd: l’unico partito realmente strutturato lungo tutta la penisola e che erede di due forze storiche e diversamente ideologiche (la Dc e il Pci) gode di un residuo «voto di appartenenza» che ne permette la tenuta anche in momenti difficili come quello in questione.
Solo stamane, facendosi largo nella miriade di liste civiche e di formazioni di questo o quel sindaco, sarà probabilmente possibile avere percentuali più attendibili e capaci di indicare con precisione lo stato di salute del Pd. Ma due cose appaiono chiare fin da ora: che saranno moltissime le amministrazioni (anche importanti) che passeranno dal centrodestra al centrosinistra e che il voto per la sua carica dirompente consegna ai democratici certo buone soddisfazioni, ma anche un problema di non poco conto: e cioè il rapporto da tenere (da continuare a tenere) con il governo di Mario Monti.
Ieri, a scrutinio ancora in corso, Pier Luigi Bersani ha confermato sostegno e lealtà all’esecutivo tecnico di SuperMario, chiedendo solo che il Pd venga ascoltato un po’ di più e le sue proposte valutate con meno sufficienza. Ma non è dal rapporto diretto col premier e i suoi ministri che, presumibilmente, arriveranno insidie e difficoltà: il problema (l’eventuale problema) rischia piuttosto di esser determinato dalla possibile reazione di Berlusconi e di quel che resta del Pdl all’indomani di un voto che è assai più di un ultimatum o di un avvertimento.
Quel che lo stato maggiore del Pd può temere è una netta e brusca presa di distanze del Popolo della libertà dal governo Monti. Non una reazione, naturalmente, che arrivi fino al punto di rovesciare il tavolo e aprire una crisi, ma un cambio di passo, di atteggiamento che trasformi la sua fiducia e il suo sostegno in qualcosa di simile (se non di peggio) a un appoggio esterno. Questo consegnerebbe al Pd (e ad un Terzo polo deluso e ferito) la quasi esclusiva responsabilità di tener in vita il governo: con tutto quel che ne potrebbe seguire in termini di popolarità, consenso e tenuta della sua base elettorale.
Lo si vedrà, e non occorrerà molto. Per ora, il Pd può annotare come la sua alleanza con partner di sinistra (Vendola e Di Pietro) tenga nient’affatto male; come il Terzo polo si ridimensioni, trasformandosi quasi in un alleato «aggiuntivo»; e come Beppe Grillo e il suo movimento stiano prepotentemente uscendo dalla rete per trasferirsi massicciamente nelle urne. Successi, problemi e insidie, insomma. Con i quali è assai più facile fare i conti, però, dopo un risultato che ha visto l’avversario degli ultimi 20 anni finire al tappeto e perdere il match per ko. Non una cosa da poco, onestamente.

Repubblica 8.5.12
Il Cavaliere dileguato
di Filippo Ceccarelli


Inseguito dalle sconfitte e con l´incubo dei processi così evapora il Cavaliere
Berlusconi si consola con Putin: "Ero con lui"
Nel giorno del tracollo della sua creatura, il leader si occupa delle Olimpiadi di Soci

E NEL frattempo la leadership di Berlusconi è evaporata. Se ne coglie qualche residuo a Mosca, dove nel giorno della più severa sconfitta del Pdl il Cavaliere ha assistito all´insediamento di Putin. E a questo proposito egli si è fatto scrupolo di notificare all´opinione pubblica che nella cerimonia, di cui ha ammirato la solennità, «a me è stato dato il posto d´onore, ero in prima fila dietro le first lady». Come dire, forse, che era in seconda fila.
Per il resto, liquidate le elezioni con il minimissimo indispensabile, l´ex presidente del Consiglio e presidente plenipotenziario e a vita del Pdl ha proseguito il suo tour di onori e spettacoli moscoviti come se quello che accadeva in Italia, e in particolare al povero Alfano, non lo riguardasse proprio. Non che tale pervicace estraniarsi, specie per un combattente come lui, sia la condotta più normale del mondo. Vero è che la dissimulazione rientra appieno nelle logiche della politica. Ma certo ripensando ai tanti possibili e anche truculenti esiti su cui per anni la pubblicistica s´è interrogata e variamente esercitata - Piazzale Loreto, senatore a vita, Idi di Marzo, fuga ad Antigua, finale del film «Il Caimano» - la riduzione allo stato gassoso del berlusconismo appare oggi una prospettiva abbastanza singolare nel suo plausibile svolgimento.
O almeno. Anche senza ricorrere alle leggi della fisica e all´evidente ribollire dell´acqua ben oltre le consuete temperature, le ultimissime testimonianze sullo stato d´animo lasciano individuare qualcosa di più serio della prevedibile e già espressa disaffezione. Nell´ultima settimana c´è chi ha descritto Berlusconi con la scrivania coperta di stenografici di intercettazioni - che assecondando la consueta nevrosi quantificatoria lui ha calcolato in un metro cubo di carte. Con altri si è concesso un sintetico sfogo sull´unico comizio tenuto in questa disastrosa campagna elettorale: «Io non sono più spendibile, non ho alcuna intenzione di ricandidarmi, l´altro giorno sono stato a Monza e mi sono stancato, stufato».
In Russia va senz´altro meglio. E´ la seconda volta che vola a Mosca dall´inizio dell´anno. I potenti di laggiù lo tengono in palmo di mano e tutti pensano che a parte gli affari del gas (come da resoconti divulgati della diplomazia americana), la notte i suoi gentili ospiti lo facciano anche divertire, come piace tanto a lui, ma senza i rischi nostrani: paparazzi invadenti, avidi prosseneti e amichette linguacciute. In compenso ieri mattina un giornalista americano l´ha visto e subito fotografato.
Diffusa in tempo reale su twitter, l´immagine consegna un Berlusconi piuttosto impettito, abito e sorriso d´ordinanza. Ripreso dall´alto e all´ombra di un colossale body-guard, sta salutando qualcuno che non si vede. Ma intanto, più qui grandinavano i risultati della debacle, e più quella foto sembrava rivelare in sé qualcosa di vagamente simbolico, un attimo di inespresso straniamento e una specie di passaggio: come se l´uomo che ha governato e sgovernato l´Italia negli ultimi tre anni e mezzo stesse prendendo congedo non solo da un´epoca, ma dalla sua stessa funzione nella vita politica italiana.
E´ possibile che nel corso della giornata si sia reso conto che la sua lontananza parlava più forte di quelle quattro parole auto-consolatorie che ha ritenuto di diffondere dopo la cena al Cremlino - e pure in questo caso il Cavaliere, così attento alle forme conviviali, ha tenuto a far sapere: «Ero seduto al tavolo con Putin». Ma questo rafforzato e ostentatissimo privilegio d´ospitalità non riesce minimamente a cancellare l´impressione invero bislacca di un leader sconfitto che si occupa delle Olimpiadi invernali di Soci 2013; e questo, per giunta, quando dal Palazzo di Giustizia di Milano filtravano amene narrazioni orgiastiche e paganeggianti sull´ostensione della statuetta di Priapo a villa San Martino; e dalla testimonianza di una ragazzetta colà invitata dall´ineffabile Emilio Fede arrivava una rivelazione che al punto in cui è arrivato il tran-tran del Rubygate può suonare perfino liberatoria: mentre scendevamo nella sala del bunga bunga, il presidente mi ha toccato il sedere.
E dire che qui lo aspetterebbero tante incombenze, drammaticamente lasciate a metà: il film su se stesso e per il quale non trova il regista giusto; il cambio del nome del Pdl, che va avanti ormai da più di un anno; il nuovo inno, pochissimo suonato, ma già ampiamente sbertucciato: pare abbia come titolo «Gente che resiste», e sul Foglio è già uscita una parodia del testo che fa: «Noi gente che spera e lotta/ e ormai si astiene dalla mignotta»...
Bisogna ammettere che fuori da Palazzo Chigi non è una vita né bella né facile. Nel teleduello Sarko e Hollande giocano a scaricaBerlusconi; qui c´è sempre qualche Lavitola o Tarantini che incombe, senza contare Fede, la Minetti, Lele Mora o qualche olgettina dissidente; né più si avverano le rosee profezie della graziosa tele-sensitiva bulgara. Altro che «padre nobile»! Aveva promesso il Cavaliere appena due mesi fa: «Farò il presidente del Milan, dell´Università liberale e me ne andrò in giro per il mondo a costruire ospedali». Ecco: il Milan ha perso lo scudetto; a villa Germetto si è esibita Eve la Plume in un autentico burlesque; e quanto agli ospedali da costruire, prima si vede e poi si crede.

l’Unità 8.5.12
Intervista a Ayrault: «Cambieremo l’Europa»
di Umberto De Giovannangeli


«Cambiamento e responsabilità nazionale. Sono le basi su cui François Hollande ha costruito il suo successo alle presidenziali. Un successo che dovrà ora trovare conferma nelle elezioni legislative di giugno: la battaglia per il cambiamento non è finito». A parlare è l’uomo che molti analisti danno come favorito nella corsa alla poltrona di primo ministro nell’«era Hollande»: Jean-Marc Ayrault, 62 anni, presidente del Gruppo parlamentare socialista all’Assemblea Nazionale, da 23 anni sindaco di Nantes, uno dei fedelissimi del neo presidente francese. Il giorno dopo la vittoria al ballottaggio, Ayrault lancia anche un messaggio «tranquillizzante» ai mercati e alle cancellerie europee, in particolare a quella tedesca: «Hollande dice a l’Unità sa bene l’importanza di una politica di contenimento del deficit pubblico e su questo terreno non ci sarà alcun arretramento. Il suo obiettivo non è quello di azzerare i trattati europei, ma di svilupparli per ciò che concerne le misure atte a favorire la crescita: un obiettivo, questo, su cui ricercare la massima unità in ambito Ue».
Alla fine, la vittoria è arrivata. Hollande è il nuovo presidente della Francia. Qual è il segno di questa vittoria?
«È il segno di un Paese che investe sul proprio futuro. È la vittoria della serietà, della speranza, del cambiamento possibile. È la vittoria di un leader che ha cercato di unire laddove il suo avversario parlava e praticava il linguaggio della contrapposizione. Oltre a changement (cambiamento, ndr), l’altra parola chiave della campagna di Hollande è stata rassemblement: coesione, unione, determinazione a realizzare lo schieramento più ampio a favore delle riforme. Rassemblement è anche quel “patto generazionale” che offre ai giovani un’opportunità di realizzazione senza che questo voglia dire mortificare chi giovane non lo è più ma non per questo è da mettere da parte. Unire è anche estendere e qualificare i diritti di cittadinanza. Quella di François Hollande è la vittoria di un progetto che guarda agli interessi nazionali in una chiave europea. E tutto questo anche in nome di quei valori di eguaglianza, di libertà, di legalità, di giustizia, che sono a fondamento di una identità socialista che non va smarrita». Neanche il tempo di festeggiare che già il neo presidente è chiamato a definire la sua squadra di governo. Un tema che la riguarda direttamente, visto che molti analisti la indicano come uno dei “papabili” alla poltrona di primo ministro...
«Lasciamo perdere le vicende personali, sarà quel che sarà... L’importante è lavorare per rafforzare il successo del 6 maggio, e ciò vuol dire proiettare da subito il partito, il suo gruppo dirigente, i suoi militanti nella campagna per le elezioni legislative di giugno: la battaglia per il cambiamento non è finita». Guardando alla vittoria di Hollande in una ottica europea. C’è chi sostiene che questo successo non ha fatto felice la cancelliera Merkel.
«In qualità di consigliere speciale di Hollande, ho prestato molta attenzione, su sua indicazione, alla questione delle relazioni franco-tedesche. Relazioni che saranno rafforzate perché siamo convinti che un più forte legame tra Francia e Germania possa favorire quel Patto di crescita che sarà una delle priorità della presidenza Hollande in Europa. E le prime reazioni all’elezione di Hollande che sono giunte dal governo tedesco, a cominciare dal cancelliere Merkel, confortano queste aspettative. Su questo terreno – quello di un Patto di crescita sappiamo di poter contare sulla vicinanza di altri governi europei, come quello italiano guidato da Mario Monti. Per essere ancora più chiari: non è nostra intenzione stravolgere il Fiscal compact (il trattato fiscale, ndr), vogliamo invece accompagnarlo, e integrarlo, con un Patto per la
crescita e gli investimenti. Hollande ha affermato una cosa che ormai si sta facendo largo in Europa: la crescita favorisce il contenimento del deficit, lo sviluppo non confligge con il rigore. Crescita non significa espansione smodata della spesa pubblica, ma investimenti mirati in settori strategici, come l’istruzione, per esempio. Senza crescita, l’austerità forzata porta alla recessione e alla marginalità dell’Europa sul mercato globale, oltre che provocare reazioni di rigetto a livello popolare: in questo senso, il voto greco deve far riflettere e suonare come un campanello d’allarme per tutti: se il controllo del deficit pubblico non è supportato da adeguate politiche solidali e di crescita, l’ingovernabilità più che un rischio è una certezza. Anche su questo fronte cruciale, Hollande non si è limitato ad affermare dei principi, ha indicato soluzioni. Questa è stata la sua carta vincente».
Ha vinto anche il profilo di un uomo «normale», un po’ grigio...
«Se essere “normale” e “grigio” significa rifuggere dal sensazionalismo mediatico, dal protagonismo esasperato, allora sì, all’Eliseo salirà un presidente “normale”. Ma questo è un bene, non un limite. La politica ha bisogno di serietà, di credibilità se non vuole subire il rigetto da parte dei cittadini. Hollande è stato premiato anche per questo». Al ballottaggio, Hollande ha ricevuto il sostegno sia del leader del Front de Gauche, Jean-Luc Mèlenchon, che del centrista Francois Bayrou. È nato il centrosinistra francese?
«Quel sostegno non è frutto di accordi di vertice né di patti di potere, ma del riconoscimento che per il futuro della Francia la proposta di François Hollande è la più convincente. Parlare di una nuova alleanza sinistra-centro sarebbe una forzatura, di certo, però, un confronto si è aperto, senza preclusioni o steccati ideologici. Hollande ha lavorato per unire e continuerà a farlo da presidente».

La Stampa 8.5.12
Attali, lo scopritore di Hollande
“Macché inesperto, conosce bene la macchina dello Stato”
L’economista: il suo programma non è massimalista
di Alberto Mattioli


L’ha «scoperto» lui, allora consigliere di François Mitterrand non ancora Presidente:
«Era un giovane che sbarcò nel mio ufficio nell’ottobre 1980, insieme con la sua compagna Ségolène Royal, e mi propose di lavorare alla campagna di Mitterrand». Quel giovane era François Hollande, subito arruolato da Jacques Attali, il famoso economista poi capo dell’altrettanto famosa Commissione.
Monsieur Attali, inutile chiederle se è contento della vittoria di Hollande.
«Felice. Del resto, capii subito che quei ragazzi avevano passione e competenza».
Quei?
«Hollande e Royal. Entrambi sono stati candidati alla Presidenza. Lei non ce l’ha fatta, lui sì. In ogni caso, due talenti».
Però sembra che queste elezioni, più che vinte da Hollande, siano state perse da Sarkozy. È d’accordo?
«Sì e no. Sì, perché certamente Nicolas Sarkozy in campagna elettorale ha fatto troppi errori. No, perché è la meccanica normale di ogni secondo turno delle Presidenziali: si vince tanto per i propri meriti quanto per i demeriti dell’avversario».
Quali sono stati gli errori di Sarkò?
«La rincorsa, alla fine suicida, dell’estrema destra».
Ci sono molti dubbi sul fatto che il programma di Hollande sia realizzabile.
«Forse sarà difficile, ma certamente non impossibile. Non è affatto un programma massimalista. Anzi, piuttosto moderato».
Le prime reazioni di Berlino sembrano contraddittorie. «Ma ai tedeschi, come del resto agli italiani o a chiunque altro, non importa chi hanno di fronte. Importano i propri interessi. Fare entrare l’eurozona in una dimensione federale è anche nell’interesse tedesco, perché è l’unico modo di salvare l’euro. E se l’euro crollasse, la Germania sarebbe la prima vittima».
La fine dei Merkozy aprirà nuovi spazi per l’Italia?
«Non credo. La coppia franco-tedesca resterà forte, perché è nell’interesse di entrambi. Ed è nell’interesse di tutti, Italia compresa, salvare l’euro».
Per l’Europa, l’elezione di Hollande è una buona notizia?
«Io credo di sì. Sarkozy non credeva agli eurobond, Hollande sì: basterebbe questo».
Invece il voto di Atene non è molto incoraggiante...
«Non sarei troppo pessimista. Io credo che sia molto più un voto contro l’austerità che contro l’Europa. O almeno spero che i greci l’abbiano inteso così».
Crede davvero che la Grecia resterà nell’euro?
«Sì, perché l’alternativa è, molto semplicemente, il suicidio economico».
Le prime tre cose che farebbe se fosse nei panni di Hollande.
«Primo: dotarsi dei mezzi per ristrutturare il sistema finanziario europeo, come gli eurobond o nuovi strumenti d’intervento per il meccanismo europeo di stabilità. Secondo, controllare il debito francese, quindi fare in fretta la riforma fiscale, che è l’unico modo per ottenere questo risultato. Terzo, rafforzare la competitività investendo grandi risorse su ricerca, scuola e università».
Questo era già nel programma della sua Commissione.
«Infatti, elaborato insieme a personalità non solo francesi, come Mario Monti. Purtroppo non è stato fatto e si è perso tempo prezioso».
Torniamo a Hollande, visto che lo conosce così bene. Cosa replica a chi lo accusa di non avere alcuna esperienza di governo?
«Non l’aveva neanche Obama. Nemmeno Cameron. E quando Mitterrand fu eletto Presidente non era più ministro da 27 anni. E poi Hollande non sarà mai stato ministro, ma la macchina dello Stato la conosce bene».
Ultima domanda. Si sa che lei ama dirigere l’orchestra: a quale maestro paragonerebbe Hollande?
«No, a questo non saprei proprio rispondere».
Perché?
«Perché dirigere un’orchestra è molto più difficile che dirigere uno Stato. E anche più interessante».

Repubblica 8.5.12
E Hollande va a Berlino sognando un New Deal
di Bernardo Valli


Il suo memorandum si articola in investimenti, recupero di fondi e una tassa sulle transazioni finanziarie
Ma un compromesso sarà inevitabile: il leader francese ha dalla sua la solidarietà di molti Paesi della Ue
Il portavoce della cancelliera ripete che il Trattato di stabilità firmato da 25 Paesi non può essere rinegoziato

Il sogno di François Hollande è un New Deal alla francese. L´idea rimbalza da un giornale all´altro, dalle radio ai teleschermi, spinta dai collaboratori del neopresidente, al punto da apparire la prima grande sfida nazionale dopo l´ancora calda elezione del capo dello Stato.
La realizzazione di quel sogno, più un´esigenza che un auspicio, è in effetti l´obiettivo iniziale del neo presidente, messo subito di fronte agli urgenti problemi della crisi. Ed è per questo che, appena insediato nel palazzo dell´Eliseo, il 16 maggio andrà a Berlino per incontrare Angela Merkel, dalla quale dipende, in larga parte, il varo del New Deal. Il quale, nel caso dovesse vedere la luce, non potrà essere che europeo. Ad aspettare con impazienza l´esito di quell´incontro è dunque l´Europa, depressa per l´economia che non cresce o non cresce abbastanza, ferita dalla disoccupazione e inquieta per le conseguenze sociali e politiche.
François Hollande pensa ovviamente al New Deal di Franklin Roosevelt, al grande programma di infrastrutture che il presidente americano lanciò arrivando alla Casa Bianca dopo la crisi del ´29, al fine di riassorbire la disoccupazione e stimolare l´economia esangue. A quasi un secolo di distanza il neo presidente francese propone il finanziamento a livello europeo di grandi progetti industriali e ambientali. La proposta, espressa in un memorandum, si articola in quattro punti: investimenti nelle infrastrutture, nelle nuove energie e nell´industria attraverso prestiti europei ad hoc; un aumento della capacità di finanziamento della Banca europea di investimenti; un recupero dei fondi strutturali non utilizzati; e una tassa europea sulle transazioni finanziarie. François Hollande avanzerebbe inoltre, come supplemento, proposte ancora più controverse: un rafforzamento del ruolo della Banca centrale europea e una mutualizzazione dei debiti sovrani attraverso eurobond.
Angela Merkel rifiuta o arriccia il naso. È pronta adesso ad accogliere "a braccia aperte" il neo presidente, ma il suo portavoce ripete che il Trattato di stabilità (Fiscal compact) firmato da venticinque Paesi, sui ventisette dell´Unione europea, non può essere rinegoziato, come desidera François Hollande. Alcuni parlamenti l´hanno già ratificato, altri si apprestano a farlo. E c´è l´Irlanda che ha indetto un referendum per approvarlo. Non si può inoltre sfuggire all´austerità di cui quel Trattato è il rigoroso codice.
La parola crescita è risuonata di recente in più capitali, anche a Berlino epicentro del rifiuto, ma sulle labbra dei conservatori europei essa assume un significato riduttivo, poiché dovrebbe essere stimolata anzitutto con le politiche di rigore e di liberalizzazione economica, in particolare quella del mercato del lavoro. Non con un New Deal di stile rooseveltiano, cioè attraverso investimenti, come pensa François Hollande.
Sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung di domenica, il ministro liberale degli esteri, Guido Westerwelle, ha detto che il governo tedesco è disposto ad aggiungere al Trattato di stabilità un patto di crescita separato per accrescere la competitività. In tal caso non si violerebbe l´intoccabile trattato. Ma i limiti di questa soluzione sono precisati, sullo stesso giornale, dal ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble. Il quale dice che la strategia europea comporta già, fin dall´inizio, due punti chiave per combattere le cause originarie della crisi: la riduzione del deficit e le riforme tendenti a migliorare la debole competitività. Cosi si può creare la crescita. La quale non può che scaturire dal rigore. Anche la cancelliera ha parlato di crescita, sabato, sulla Leipziger Volkszeitung. Ha detto che sta preparando un´agenda apposta per il vertice europeo di giugno. Ma essa si limiterà ai principi tedeschi e non esaudirà le richieste francesi.
François Hollande vuole di più. Ma le iniziative che propone, per rianimare i settori della società europea più colpiti dalla crisi e dai drastici rimedi per contenerla, provocherebbero soltanto un fuoco di paglia, secondo gli interlocutori tedeschi. C´è chi intravede tuttavia qualche spiraglio nel discorso di Angela Merkel. Sull´aumento delle risorse della Banca europea degli investimenti avrebbe manifestato una certa disponibilità. Sarebbe un primo passo: un segno positivo in direzione del neo presidente in arrivo. Per i più ottimisti si tratta addirittura di una svolta. Durante la campagna elettorale Angela Merkel rifiutò di ricevere il candidato socialista e si espresse in favore di Nicolas Sarkozy, poi sconfitto.
François Hollande è un grande esperto in compromessi. È un negoziatore sottile. Paziente e in egual misura tenace. E per quanto incalzata dall´opinione pubblica tedesca, che non vuol dar soldi agli europei spendaccioni, Angela Merkel è, a giudizio degli esperti nella materia, abbastanza europeista da resistere, col tempo, a quegli umori. Una volta non lo era. Era giudicata un´euroscettica. Indifferente ai progetti dei suoi grandi predecessori.
La conversione è apparsa chiara quando si è rivolta, di recente, a una platea di giovani, nella cornice del Deutsches Museum di Berlino. In quell´occasione ha parlato di unione politica europea proprio come faceva Adenauer, e ha disegnato un quadro istituzionale che, nonostante i numerosi punti rimasti nebbiosi, corrisponde al pensiero federalista del suo iniziatore e maestro Helmut Kohl. Di lui ha citato la formula «l´unità tedesca e l´Unione europea sono due facce della stessa medaglia». La cancelliera ha dunque ripreso i temi classici del pensiero dei padri fondatori. E in questo pensiero era ben radicata la regola che i rapporti con la vicina Francia sono fondamentali per l´Europa e la Repubblica federale. La storia l´insegna e la geografia l´impone.
François Hollande parte dunque per Berlino, dove affronterà la sua prima importante prova, lasciandosi alle spalle un paese economicamente vulnerabile; ma nella solida, invulnerabile Germania non dovrebbe trovare un´Angela Merkel arroccata in un´austerità che non ammette cedimenti. Avrà davanti una cancelliera fortunatamente vincolata a principi irrinunciabili, che non le consentono di lasciare a lungo le società europee senza la speranza che, nella crisi, suscita la prospettiva di crescita. Insomma un compromesso sarà inevitabile. Il neo presidente ha con sé il prestigio del suo paese e la solidarietà di molti europei.
Le divergenze tra Berlino e Parigi sono destinate a essere provvisorie. E talvolta salutari. L´esperienza dimostra che le effimere reciproche infedeltà, tra le due sponde del Reno, lasciano uno spazio di manovra agli altri paesi dell´Unione. Il "Merkozy" era soffocante. Arrogante. Arido. Non aveva idee. Era regolato da un rapporto di forze che metteva il presidente al servizio della cancelliera. Senza ricordare a quest´ultima la frase che lei stessa ha declamato ai giovani tedeschi nel Deutsches Museum di Berlino, e cioè che «l´unità tedesca e l´Unione europea sono due facce della stessa medaglia». E anche che la prosperità tedesca si appoggia in gran parte sui suoi alleati e clienti europei.

Repubblica 8.5.12
Cambio di direzione
di Martin Schulz
, presidente del Parlamento europeo

Poche elezioni hanno avuto una risonanza tanto ampia in Europa come queste presidenziali francesi. Raramente un cambiamento di leadership in un Paese ha creato tante aspettative di una svolta politica a livello europeo. È un segnale chiaro: dalla crisi stanno emergendo un "demos" europeo e una nuova sfera pubblica. I cittadini europei stanno realizzando quanto dipendiamo gli uni dagli altri. La fragilità di un Paese minaccia l´intera economia europea, e solo insieme possiamo trovare la via d´uscita.
La vittoria di François Hollande offre all´Ue un nuovo respiro. Come ha detto il nuovo presidente della Repubblica francese nel suo discorso di domenica sera alla Bastiglia, «il nostro è un movimento che si sta sollevando in tutta Europa». La fine del direttorio "Merkozy" segna il tramonto di una politica basata solo sull´austerità, che soffoca le economie e divide l´Unione. Le proposte di Hollande non devono spaventare nessuno, neanche i mercati finanziari. Anzi.
Primo: il programma di Hollande per un´iniziativa orientata alla crescita trova terreno fertile nelle istituzioni europee, soprattutto al Parlamento, che da tempo chiede misure in questa direzione. Noto con soddisfazione che questo messaggio finalmente trova riscontro anche altrove. La Commissione europea sta lavorando a un "patto per la crescita", che sarà discusso dai leader dell´Ue a giugno. L´Europa ha urgente bisogno di un piano per la crescita per non essere risucchiata nella spirale della recessione, dell´aumento della disoccupazione e dell´indebolimento dei sistemi bancari.
Un nuovo "piano per la crescita" non vuol dire stampare nuovo denaro. La disciplina finanziaria rimane imprescindibile, così come le riforme strutturali. Allo stesso tempo una regolamentazione più rigorosa del settore finanziario deve scoraggiare la cupidigia collettiva ed eliminare i prodotti finanziari irresponsabili.
Da dove iniziare? In primo luogo occorre dare priorità ad alcuni investimenti mirati. La Banca europea per gli investimenti può essere un istituto efficace per incoraggiare la spesa su importanti progetti infrastrutturali, ad esempio in ambito energetico. Si può dotare la Bei di maggiori risorse, per facilitare i prestiti. Gli investimenti si possono finanziare anche con obbligazioni europee "a progetto", i "project Bond". Su un più lungo termine, dobbiamo portare avanti l´idea degli Eurobond.
È fondamentale indirizzare i fondi strutturali dell´Ue verso l´innovazione. La riforma della politica agricola comune non deve più essere un tabù: nella sua forma attuale la Pac non garantisce un´agricoltura sostenibile. Si profilano senza dubbio negoziati difficili, anche con il nuovo Presidente francese.
Secondo, come ha ripetuto François Hollande, i giovani devono essere la nostra priorità. La disoccupazione ha raggiunto il 10,9% nella zona dell´euro, segnando il livello più alto dall´introduzione della moneta comune. In Spagna il tasso di disoccupazione giovanile supera il 50% e in molti altri Paesi il prezzo pagato dai giovani per la recessione è troppo alto. Rischiamo di creare una "generazione perduta". I giovani non sono responsabili della crisi, ma ne stanno pagando il prezzo. Terzo: gli Stati membri non devono imporre tagli indiscriminati al bilancio dell´Ue durante i negoziati sul periodo 2014-2020. Sarebbe una miope manovra populista. Se vogliamo davvero rilanciare la crescita, dobbiamo averne le risorse.
L´Europa può ancora uscire rafforzata dalla crisi. L´euro è nato per unire i popoli. Ma l´egoismo di alcuni Stati membri, l´incompetenza di alcuni leader e la mancanza di solidarietà lo stanno trasformando in un simbolo di divisione. Non possiamo permettere che questo accada. I leader europei devono dare prova di solidarietà, responsabilità, immaginazione, leadership e, soprattutto, unità. Dobbiamo essere ottimisti, non è troppo tardi. Con l´elezione di François Hollande, l´Europa sta finalmente cambiando direzione.
L´autore è il presidente del Parlamento europeo

l’Unità 8.5.12
Grecia, Samaras getta la spugna. Ora tocca alla sinistra
L’incarico ad Alexis Tsipras Ma intanto spaventano, con 21 seggi, i neonazisti
di Teodoro Andreadis


Rischio ingovernabilità per Atene: il capo di Nuova democrazia rinuncia subito a formare
il governo
Syriza al 16,7% è ormai la seconda forza del potere e ribadisce il suo no ai «memorandum Ue». Ma anche per la sinistra radicale è una «mission impossible» mettere in piedi un esecutivo

La Grecia ha abbandonato lo schema del bipartitismo, la protesta contro l’austerità ha vinto le elezioni e nulla, ora più che mai, appare certo e realizzabile. Dati definitivi alla mano, il centrodestra di Nuova Democrazia si aggiudica appena il 18,87% dei voti e 108 seggi sui 300 in palio. I socialisti del Pasok pagano il prezzo dell’applicazione del rigore chiesto da Bruxelles e Fmi e arrivano appena al 13,19%, la percentuale più bassa della loro storia. I 40 deputati che si aggiudicano non sono sufficienti a formare con Nd un governo che continui ad applicare le politiche di austerità degli ultimi 30 mesi.
E sarebbe comunque molto difficile farlo, anche nel caso esistesse una risicata maggioranza numerica: i greci non ce la fanno più, appare ormai chiaro a tutti. Lo testimonia il successo degli eurocomunisti di Syriza, che sono riusciti a diventare il secondo partito del Paese, con una percentuale del 16,7%. Un salto in avanti del 12% rispetto alle elezioni del 2009. E sempre sul fronte del «no» ai Memorandum «lacrime e sangue» della Trojka si pongono, anche se in ordine sparso, il nuovo partito di centrodestra Greci indipendenti, con il 10,6% dei voti, i comunisti «duri e puri» del Kke (8,4%), la Sinistra Democratica (Dimar), col suo 6,1%. Il partito nazista «Alba dorata» alla fine si attesta sul 6,9%. Il fenomeno dei razzistineonazisti, e delle loro «albe» che tutti speravano fossero definitivamente tramontate, è reale e pone la società greca davanti a un problema molto grave: hanno 21 seggi. Si pone, certo, anche il problema legato all’altissima astensione: ha toccato quasi quota 40%, in un Paese dove la politica, sino a qualche anno fa, era uno dei temi preferiti di discussione e confronto, dalle taverne agli uffici. Al contempo, la rappresentatività del parlamento mostra evidenti lacune: a causa della soglia di sbarramento al 3%, forze politiche che hanno raccolto, in tutto, il 20% dei voti (quasi tutte anti-austerità) non sono riuscite ad eleggere neanche un deputato.
Realisticamente, due sono gli scenari. O nuove elezioni, probabilmente il 10 o il 17 giugno, o la formazione di un governo di salvezza o unità nazionale. Ieri, il presidente della Repubblica, Karolos Papoulias, ha conferito un mandato esplorativo al centrodestra di Andonis Samaràs per verificare le reali possibilità di formare un nuovo governo. Ha risposto in maniera parzialmente positiva solo il Pasok di Evanghelos Venizelos, lanciando «un appello a favore di un governo composto dalle forze politiche con orientamento filoeuropeo». Venizelos, che ha riconosciuto la
sconfitta, addebitandola al fatto che «i socialisti hanno dovuto gestire la crisi da soli, pagando un prezzo enorme» guarda al partito Sinistra Democratica, di recente formazione e pieno di transfughi del Pasok, sperando che alla fine si decida a collaborare. Ma il suo leader, Fotis Kouvelis, non si mostra molto propenso: ieri ha rifiutato anche l’invito del centrodestra a entrare in un nuovo governo. A strettissimo giro, a tarda sera, Samaràs ha incontrato nuovamente Papoulias, per informarlo che il suo tentativo non ha margini di successo e rinunciare al mandato. Ora sarà il turno del presidente del Syriza, Alexis Tsipras. Il quale non nasconde la sua soddisfazione, per essere riuscito a diventare la prima forza della area progressista. «È arrivato un messaggio di rottura, dalla Grecia e dall’Europa, i popoli non possono soccombere sotto il peso di memorandum e tagli barbari e insensati», dichiara il giovane leader del partito dall’identità eurocomunista ed ecologista.
Tsipras cercherà di portare avanti la sua proposta per un «governo delle sinistre» aprendo, probabilmente, anche a una parte di deputati del Pasok più vicina al socialismo di Andreas Papandreou. Ma è un progetto di difficilissima attuazione, anche perché sarebbe necessario l’appoggio esterno dei Greci indipendenti (avendo come unico punto in comune il No ai tagli) e la partecipazione dei comunisti ortodossi, votati all’eterna opposizione. Se anche Syriza non dovesse farcela, e in seguito, fallisse pure il mandato esplorativo al Pasok, l’unica soluzione sarebbe il ricorso a nuove elezioni.

La Stampa 8.5.12
Il capo della sinistra radicale
“Pronti al governo ma voglio la moratoria sul debito
 Tsipras: l’Fmi ha fallito, sacrifici anche per i ricchi
di Tonia Mastrobuoni


È ancora frastornato. Non si aspettava un successo del genere: il triplo dei voti, il quadruplo dei deputati, il sorpasso storico del Pasok. Alexis Tsipras è la star di questa tornata elettorale. Ma il leader di Syriza è anche consapevole delle difficoltà dei prossimi giorni. Non bastano il 16,78% dei voti e i 52 deputati. Da oggi, quando il Presidente della Repubblica gli darà il mandato, Tsipras deve convincere gli altri leader della sinistra a formare un governo, soprattutto gli irriducibili comunisti del Kke. L’Europa ha gli occhi puntati su di lui. Ma il carismatico leader 37enne, dopo il colloquio con il conservatore Antonis Samaras, ha una sola priorità. Ci chiede di accompagnarlo dall’eroe della resistenza greca, Manolis Glezos, l’uomo che issò la bandiera ellenica sull’Acropoli durante l’occupazione nazista e che con i suoi 89 anni è stato uno dei più entusiastici animatori della campagna elettorale di Tsipras.
Tsipras, com’è andato il colloquio con Samaras?
«È stato un incontro cordiale ma gli ho ribadito che per noi la linea rossa è il memorandum, il piano di austerità con l’Europa. Non lo appoggeremo mai».
È sorpreso di questo risultato?
«Sì, è una sorpresa, sono frastornato, anche se negli ultimi giorni abbiamo capito che stava crescendo il consenso attorno a noi. Il popolo greco ha detto basta al memorandum».
L’Europa è un po’ frastornata, come lei. Si chiede che cosa proporrebbe, se riuscisse a formare un governo.
«Primo, una moratoria sul debito. Secondo, una redistribuzione più equa della ricchezza e una lotta seria all’evasione fiscale. Terzo, programmi credibili per rimettere in moto l’economia».
E se l’Europa rifiutasse, com’è probabile? Uscireste dall’euro?
«Noi abbiamo un’arma formidabile dalla nostra. Ormai lo ha riconosciuto persino Angela Merkel: fatto fuori un bersaglio, i mercati ne cercano un altro. Questa è una crisi europea e se ne esce soltanto con una soluzione europea. È il motivo per cui abbiamo chiesto un summit europeo dedicato al problema del debito pubblico. Ma non vede che il memorandum è fallito miseramente, che noi greci non riusciamo a riprenderci da questa recessione terribile? Ovunque sia mai andato a proporre le sue ricette, il Fmi ha solo prodotto danni e fallimenti».
L’ex premier Papandreou dice che questo voto non significa la morte del suo partito, il Pasok, ma un segnale forte di protesta contro l’austerity.
«E chi l’ha imposta ai greci questa austerity? (Ride) Guardi, non si trattasse di Papandreou, potrei anche concordare con quest’analisi. È vero, questo è soprattutto un voto di protesta».
Insomma, non vuol dire che la Grecia si è spostata a sinistra ma che ha votato solo chi prometteva lo stop ai sacrifici...
«Certo, questo rischio c’è, me ne rendo conto. Ed è il motivo per cui voglio aprire questo partito ai suggerimenti degli elettori, da domani. Ma da oggi la verità sa qual è? Che finalmente la Grecia può avere un governo di sinistra».
Il partito comunista Kke non sembra affatto intenzionato a formare un governo con lei.
«Vedremo, se ne avremo l’opportunità. Ma parleremo anche con altri».
Potrebbe accettare un’alleanza con il Pasok?
«Non con questi leader e finché appoggerà il memorandum. Ma se qualcuno si sarà convinto che quello è un programma suicida, siamo pronti ad accoglierlo».
Non la angoscia l’ingresso in Parlamento dei neonazisti di Alba dorata?
«Certo. Ma è anche colpa di Nd e Pasok che per distrarre dal memorandum hanno impostato la campagna sulla paura e le politiche anti immigrati».

Repubblica 8.5.12
La scrittrice Rhea Galanaki: dalle urne nessun segnale di cambiamento
"Il Paese ha reagito con rabbia ma così perde la democrazia"
di E. L.


Il risultato è che ora siamo con il Paese quasi ingovernabile e con il rischio di tornare alla dracma

ATENE - «Sono sotto choc». Rhea Galanaki, una delle più raffinate scrittrici greche contemporanee, non riesce a farsene una ragione. Le urne ad Atene sono chiuse da 24 ore, ma lei - come tutto il paese - è stata spiazzata dal clamoroso risultato delle urne. «Capisco la rabbia e il voto di pancia. Così però è troppo e rischiamo di perdere la nostra democrazia».
Addirittura?
«Sì. Abbiamo cancellato con un solo voto il nostro passato. Ma il nuovo che avanza non c´è. Syriza è una sinistra troppo radicale. E le teste rasate di Chryssi Avgi sono ancora più preoccupanti. Quello che mi fa rabbia sono le contraddizioni dei greci…».
E quali sarebbero?
«Hanno tradito dalla sera alla mattina gli stessi partiti che hanno votato per quarant´anni senza batter ciglio. Quando c´era da guadagnare qualcosa dal consociativismo e dalla corruzione spicciola che avvelenano il paese, Nd e Pasok andavano bene a tutti. Ora che l´Europa ci chiede di pagare il conto, nessuno vuol fare mea culpa o aprire il portafoglio».
Almeno lei non ce l´ha con la Merkel…
«Tutt´altro. La cancelliera ha le sue colpe. Doveva trovare soluzioni più morbide per aiutare la Grecia. E i partiti storici del nostro paese dovevano forzarle la mano in questa direzione. Il risultato è che ora siamo con il paese quasi ingovernabile e con il rischio di tornare alla dracma. Un incubo».
Cosa si aspetta dal nuovo Parlamento?
«Che ci si metta d´accordo subito per un governo di unità nazionale in grado di pilotarci fuori dalla crisi. Ma so che non sarà facile».
Com´è cambiata la Grecia nell´era dell´austerity?
«Siamo diventati un paese a due volti. Provi a girare ad Atene. Le caffetterie e i ristoranti di Kifissia e Kolonaki sono pieni, al Pireo non si sono mai visti tanti yacht. E dall´altra parte c´è tanta gente del ceto medio che solo fino a pochi mesi fa viveva una vita decente che in poche settimane ha perso tutto. Persino la dignità. Ed è costretta a vivere frugando nella pattumiera».
Com´è possibile, la crisi non è uguale per tutti?
«Certo che no. Chi evade le tasse o lavora in nero non è stato nemmeno sfiorato. Per questo dico che il corto circuito è anche colpa nostra. Abbiamo sott´occhio questa situazione da anni. Ma non abbiamo fatto niente per cambiarla. E dubito che il voto di domenica ci aiuti in questa direzione».
Meglio tornare alle urne a giugno?
«Ma va là. Non cambierebbe niente e spenderemmo altri 60 milioni di euro di soldi dei cittadini. Le persone di buona volontà devono guardarsi negli occhi adesso e mettersi d´accordo per portarci fuori da questo guaio. E´ in gioco la democrazia».

Repubblica 8.5.12
Quei ribelli degli europei
di Paul Krugman


I francesi si stanno ribellando. E i greci fanno altrettanto. Era ora. Domenica, sia in Francia che in Grecia si sono tenute delle elezioni che erano in realtà dei referendum sull´attuale strategia economica dell´Europa - e in entrambi i casi gli elettori hanno risposto mostrando un deciso pollice verso. Non è dato sapere quanto tempo occorrerà prima che quei voti possano tradursi di fatto in una svolta nella linea politica, di certo però la strategia improntata alla "ripresa attraverso l´austerità" è ormai agli sgoccioli - ed è un bene che sia così.
Inutile dire che questo non è ciò che i soliti sospetti andavano affermando nel periodo che ha preceduto le elezioni. È stato piuttosto divertente osservare gli apostoli dell´ortodossia che tentavano di ritrarre il cauto, garbato François Hollande come una figura minacciosa. È «alquanto pericoloso», ha affermato The Economist, aggiungendo che [Hollande] «crede davvero nell´esigenza di creare una società più equa». Quelle horreur!
Di sicuro c´è che la vittoria di Hollande segna la fine del "Merkozy": l´asse franco-tedesco che negli ultimi due anni ha imposto il regime di austerità. Una conseguenza che si potrebbe considerare "pericolosa" se quella strategia stesse dando dei frutti, o avesse quanto meno delle ragionevoli probabilità di darne. Ma non è così. È venuto il momento di guardare altrove. A quanto pare, gli elettori europei sono più saggi della loro élite politica.
Cosa c´è di sbagliato nel curare i mali dell´Europa con una terapia a base di tagli alle spese? C´è che la "bacchetta magica della fiducia" non esiste. Ovvero: l´esperienza degli ultimi due anni ha clamorosamente smentito le affermazioni secondo cui una drastica riduzione delle spese del governo avrebbe in qualche modo incoraggiato consumatori e imprese a spendere di più. Ma, in un´economia prostrata, i tagli alle spese non sortiscono altro effetto che quello di aggravare ulteriormente la situazione.
Sembra inoltre che queste restrizioni portino pochi vantaggi, o forse nessuno. Si prenda il caso dell´Irlanda, che durante questa crisi si è comportata come un buon soldato che obbedisce alle consegne, abbracciando un regime di rigorosa austerità nel tentativo di riconquistare i favori del mercato obbligazionario. Stando ai precetti dell´ortodossia dominante, tali sforzi avrebbero dovuto funzionare. E la volontà di crederci è tale che i rappresentanti dell´élite politica europea continuano a proclamare che l´austerità irlandese ha infatti funzionato, e che l´economia di quel Paese ha iniziato a riprendersi.
Ma non è così. Benché se basate le vostre opinioni su quanto affermato dai media non potreste mai rendervene conto, in Irlanda i costi dell´indebitamento continuano a essere ben più alti rispetto a quanto accade in Spagna o in Italia - per non parlare di quelli della Germania. Quali alternative esistono, dunque?
Una possibilità - più sensata di quanto molti in Europa siano disposti ad ammettere - sarebbe quella di rinunciare all´euro, la valuta comune europea.
Dopotutto oggi l´Europa non si troverebbe in questo pasticcio se in Grecia circolassero ancora le dracme, in Spagna le peseta, in Irlanda il punt e così via, perché in quel caso Grecia e Spagna avrebbero potuto ricorrere a un rimedio che permettesse loro di ripristinare la competitività dei costi e rilanciare le esportazioni, ovvero la svalutazione.
A fare da contraltare alla triste vicenda irlandese c´è il caso dell´Islanda, epicentro della crisi finanziaria, che è riuscita a reagire svalutando la propria valuta, la corona, e ha inoltre avuto il coraggio di lasciare che le sue banche fallissero e risultassero insolventi. L´Islanda sta vivendo la ripresa che l´Irlanda avrebbe dovuto avere, ma non ha avuto.
Oltre a rappresentare la sonora sconfitta del "progetto europeo" (il prolungato sforzo di promuovere pace e democrazia attraverso una maggiore integrazione), la rinuncia all´euro avrebbe delle conseguenze estremamente distruttive. Esiste forse una soluzione diversa?
Sì - e i tedeschi hanno dimostrato che può funzionare. Anche se purtroppo non hanno compreso la lezione.
Se provaste a parlare della crisi dell´euro con gli opinion leader tedeschi, probabilmente vi sentirete rispondere che anche la loro economia nei primi anni dello scorso decennio ristagnava, ma che riuscì a riprendersi. Ciò che i tedeschi non vogliono ammettere è che a fare da volano a quella ripresa fu l´enorme surplus commerciale di cui la Germania godeva rispetto ad altri Paesi europei (e in particolare rispetto a quelli che oggi sono in crisi), che vivevano una situazione di prosperità e nei quali i bassi tassi di interesse avevano causato un´inflazione superiore alla norma. I Paesi europei che oggi sono in crisi potrebbero emulare quel successo della Germania se oggi le condizioni fossero altrettanto favorevoli - ovvero, se questa volta fosse il resto dell´Europa, soprattutto la Germania, a vivere un po´ di crescita inflazionistica.
A dispetto di ciò che credono i tedeschi, dunque, l´esperienza della Germania non offre un´argomentazione a favore dell´austerità unilaterale nei Paesi dell´Europa meridionale; suggerisce semmai l´opportunità di implementare politiche molto più espansive altrove, e soprattutto l´opportunità che la Banca centrale europea la smetta di fissarsi sull´inflazione e si concentri invece sulla crescita.
È inutile dire che né i tedeschi né la leadership della Banca centrale vedono di buon occhio questa conclusione: si attaccano con le unghie e con i denti ai loro sogni di prosperità da raggiungere tramite l´austerità e insistono che l´unica condotta responsabile è quella di perseverare nella loro fallimentare strategia. Sembra però che non godranno più dell´indiscusso sostegno dell´Eliseo. E questo, che ci crediate o no, significa oggi che sia l´euro che il progetto europeo hanno maggiori probabilità di sopravvivenza rispetto a qualche anno fa.
(Traduzione di Marzia Porta)

La Stampa 8.5.12
Non solo Ue, anche la Cina può essere un anello debole del commercio globale
di Wayne Arnold


La Cina si è dimostrata un anello debole nel commercio asiatico. Le esportazioni asiatiche verso gli Stati Uniti sono in ripresa e compensano un rapido peggioramento delle spedizioni verso l’Europa. In genere, la ripresa della domanda dell’economia più grande del mondo significa anche più esportazioni verso la fabbrica più grande del mondo: la Cina. Ma poiché Pechino tiene a freno la crescita per riequilibrare la sua economia, sembra che abbia bisogno di meno materie prime, parti e macchinari dai suoi vicini.
Le esportazioni della Cina verso gli Stati Uniti sono cresciute del 12,8 percento nel primo trimestre, compensando un leggero calo delle esportazioni verso l’Europa. Il Giappone ha registrato un analogo aumento del 12,5 percento delle esportazioni verso gli Stati Uniti, mentre quelle verso l’Europa sono diminuite del 9,4%. Le esportazioni statunitensi della Corea del Sud hanno visto un forte aumento del 24% rispetto al crollo del 17,7% delle spedizioni verso l’Europa.
La sorpresa è la Cina. Di norma quando la domanda di esportazioni dagli Stati Uniti è forte, anche le esportazioni asiatiche verso la Cina aumentano notevolmente. Secondo una stima approssimativa, due quinti di tutte le esportazioni cinesi sono costituiti da componenti importati e almeno un quinto di tutto ciò che l’Asia esporta verso la Cina è utilizzato per prodotti destinati ai mercati globali. Ma poiché la Cina cerca di ottenere una crescita più sostenibile, limita gli investimenti che rappresentano grosso modo la metà del suo Pil. Uno dei maggiori cali riguarda le importazioni di macchinari e attrezzature elettroniche dal Giappone, che hanno perso più del 12% nel primo trimestre. Le importazioni dei metalli di base dall’Australia sono diminuite di oltre un quinto. Dal momento che la Cina tiene in ordine la sua situazione economica, non può più fungere da potente motore per la crescita delle esportazioni asiatiche come una volta si sperava.

il Fatto 8.5.12
La7 De Benedetti vuole le frequenze
Il Gruppo Espresso intende investire solo su antenne e piloni. Per i contenuti tv è pronto Urbano Cairo
di Stefano Feltri e Carlo Tecce


Domani tutto sarà più chiaro, dopo il consiglio di amministrazione di Telecom Italia. Intanto il mercato si eccita per le notizie, anticipate anche dal Fatto, dell’imminente riorganizzazione del settore tv del gruppo telefonico che porterà alla cessione di La7, l’emittente di Telecom controllata tramite Telecom Italia Media che ieri ha chiuso la giornata in rialzo del 21,78 per cento. I protagonisti della vicenda sono tre: Urbano Cairo, Tarak Ben Ammar e Carlo De Benedetti. Che hanno ruoli diversi e complementari.
Il portavoce del Gruppo Espresso di De Benedetti smentisce le trattative in corso con Telecom Italia Media per l’emittente La7. E in un certo senso è vero. Perché De Benedetti, che come sempre quando si occupa di editoria deve vincere alcune resistenze in famiglia (al figlio Rodolfo il settore interessa poco), cerca un affare tutto industriale: un terzo polo fatto di antenne e piloni, non di programmi e varietà, una rendita che può garantire guadagni ben superiori alla soddisfazione che porta un punto di share strappato a Rai e Mediaset (cosa che richiederebbe forti e rischiosi investimenti).
IL TRUCCO è semplice: creare una nuova società per fondere le infrastrutture di Telecom Italia Media (due multiplex, pacchetti di frequenze, più uno in sospeso) con quelle dell’Espresso (altri 2 multiplex, finora poco utilizzati). Il quotidiano del Gruppo Espresso, la Repubblica, negli ultimi mesi, ha tenuto una linea sempre più dura contro il beauty contest di cui chiedeva l’abolizione, perché concepito su misura delle esigenze di Rai e Mediaset e privo di gettito per lo Stato. Alla fine il governo Monti, con il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, ha cancellato la gara e iniziato una nuova procedura. Oggi De Benedetti potrebbe gareggiare all’annunciata asta a pagamento per le frequenze digitali e creare un polo di pari livello rispetto a Rai e Mediaset. Manca soltanto un regolamento dell’Autorità garante per le Telecomunicazione (Agcom), i cui vertici sono in scadenza, poi l’asta potrà cominciare.
Ieri il titolo di Telecom Italia Media è volato con rialzi non si vedevano dal giugno scorso, quando l’amministratore delegato Giovanni Stella annunciò una serie di ingaggi di conduttori Rai, tra cui quello (poi sfumato ) di Michele Santoro. Su richiesta della Consob, l’autorità che vigila sulla Borsa, Telecom Italia ha precisato che nel Consiglio di amministrazione di domani “verranno esaminate le diverse opzioni strategiche riguardanti la partecipazione di controllo di Telecom Italia Media”.
QUESTO lascia intuire che il percorso di cessione di La7 (frequenze e contenuti) avverrà per gradi, anche perché il gruppo guidato da Franco Bernabè punta a due vendite separate. La prima riguarda, appunto, le frequenze che possono interessare al Gruppo Espresso. La seconda, cioè la cessione del controllo dei due canali La7 Mtv, sarà un dossier successivo. E meno appetibile. Riempire un palinsesto è più complicato e dispendioso rispetto a gestire un’infrastruttura che può assicurare una rendita priva di trappole. Dopo le esperienze non felici con ReteA e RepubblicaTv il Gruppo Espresso si muove con grande prudenza nel settore dei contenuti televisivi e lascerà volentieri ad altri la gestione delle emittenti Telecom.
Per il momento l’unico candidato per La7 è l’imprenditore Urbano Cairo, che già ora ha un ruolo fondamentale come concessionario pubblicitario. Grazie soprattutto allo share del telegiornale diretto da Enrico Mentana ha visto incrementare parecchio i suoi profitti, e si tiene stretto un contratto appena rinnovato sino al 2019.
ECCO perché, se il nuovo proprietario del canale fosse Cairo, Giovanni Stella spera e pensa di poter restare al timone di una televisione che ha rianimato dopo le macerie lasciate da Marco Tronchetti Provera, precedente azionista di controllo e presidente di Telecom. Il finanziere e produttore televisivo francotunisino Tarak Ben Ammar, già socio di Silvio Berlusconi e produttore con la Lux di Ettore Bernabei, potrebbe affiancare Cairo nel-l’operazione per fornire contenuti alla nuova La7.

il Fatto 8.5.12
Il sindaco Pd sembra un leghista
Niente più pasti ai bambini di chi non ha pagato la mensa
Gli immigrati tornino a casa loro
di Furio Colombo


C’era una volta un piccolo centro padano di nome Cavenago. Non tutti gli abitanti di Cavenago erano nati in quella fertile terra. Alcuni venivano da Paesi lontani che non tutti conoscono, neppure se hanno davanti un atlante. Ci sono abitanti di Cavenago che se la cavano bene e altri che sono un po’ in ristrettezze. Fa niente, dicevano a Cavenago, ci pensa il Sindaco, che una mano la dà a tutti. Nel senso che un comune ha un fondo e con quel fondo da un piccolo aiuto ai più poveri, cominciando dai bambini della mensa scolastica. Nessun bambino qui è mai stato senza mangiare, ti dicevano con orgoglio i cittadini del luogo. Una bella mattina il Sindaco di Cavenago, Sem Galbiati fa sapere che i tempi sono cambiati e lo dice così: “Qualcuno qui pensa di mangiare a scrocco. Sono 170 le famiglie che non hanno pagato. Ma è scattata l'ora della tolleranza zero. Anche se manca poco più di un mese alla fine dell'anno scolastico, saremo inflessibili”.
CHE VUOL DIRE, nel linguaggio del coraggioso sindaco, niente soldi, niente pasti. Però la storia bisogna raccontarla tutta, e continua così: “Agli stranieri che bussano alla porta per chiedere assistenza – ci fa sapere Sem Galbiati – dico che dovrebbero prendere in considerazione l'idea di tornare a casa. Dico di pensarci. Se hanno ancora una famiglia nella loro terra d'origine, avranno più possibilità di sopravvivere, ci saranno genitori o parenti in grado di garantire loro un tetto e un tozzo di pane”. Ora come tutti sanno, ci sono interi continenti detti “in via di sviluppo” che pullulano di casette con il fuoco acceso e il pentolone ricolmo, che sono in attesa del ritorno di parenti lontani. Ecco realizzate, con una sola, limpida decisione, due importanti iniziative politiche annunciate alternativamente dalla destra rigorosa e dalla sinistra generosa: fare finalmente qualcosa per le famiglie. E riunire finalmente anziani e giovani che fossero rimasti accidentalmente separati dall'arrischiato viaggio in Europa. S'intende che una lettura accurata della vicenda Cavenago ti fornisce altri dati. Uno è che l'Imu sarà un disastro e dissanguerà il Comune. Poi ci sarà la tassa sui rifiuti che andrà a sommarsi alla tassa sulla casa. E “il patto di stabilità che ci mette in ginocchio”. Qui finisce la parabola di Cavenago che potrebbe anche intitolarsi “la sottrazione dei pani e dei pesci” oppure “il divorzio di Cana”. Nel primo caso l'idea è: “Guarda che di pani e di pesci non ce ne sono così tanti, nascondili subito, che se no gli stranieri e i più poveri si fanno venire idee sbagliate”. Il secondo celebre evento evangelico invece va riscritto così: “Non hanno più vino. E allora?”. Molti lettori avranno già capito che cattivo umore e sarcasmo di chi scrive hanno una ragione che chi mi legge conosce: questa è la Lega, che vuole che il mondo finisca con la Padania (e siccome la Padania non esiste, il mondo finisce in quel di Belsito). Ma Cavenago, terra del valoroso sindaco Sem Galbiati, è governo Pd. Vi rendete conto? Sem Galbiati sarebbe, se lo sapesse, di sinistra. Pensate a questa terribile verità e poi andate a rivedere tutto ciò che ha detto e che qui è riportato fra virgolette, citando da Repubblica (pagine di Milano), da Facebook e Twitter.
I bambini immigrati vengono lasciati digiuni prima che l'Imu (di cui si ignorano ancora rate ed entità) faccia sentire il suo peso. Le famiglie che “credono di mangiare a scrocco” vengono punite prendendo in ostaggio i bambini (digiuni) che, ovviamente non sono e non possono essere responsabili. Quante di quelle famiglie “a scrocco” sono di infidi immigrati che pensano di vivere sulle spalle degli italiani? E quanti saranno onesti lavoratori cavagnanesi il cui voto scomparirebbe all'istante se i loro bambini, “a scrocco” o no, venissero puniti come gli stranieri?
BELLA ANCHE l'idea del focolare che in qualche parte del mondo, povero ma felice, attende tutti coloro che, per vivere e lavorare a Cavenago, hanno attraversato il Mediterraneo infestato dalle motovedette armate italo-libiche disposte da Maroni (quello buono della Lega) per eseguire i famosi respingimenti in mare che voleva dire annegare o essere consegnati alle prigioni libiche (vedi la testimonianza della portavoce Boldrini per le Nazioni Unite o di Amnesty International). Ora che in Francia ha vinto Hollande contro Sarkozy (“cacciateli tutti” era il suo motto elettorale) e contro Marine Le Pen (“mai più uno di loro su suolo francese”) il sindaco Pd di Cavenago, si sentirà vincitore o sconfitto?

Repubblica 8.5.12
Così la Margherita fece Lusi senatore "Un premio per il suo lavoro volontario"
L’ex commercialista del partito: tutti sapevano di quei bilanci
di Carlo Bonini

"Noi del Comitato non ci riunivamo mai, ma lui aveva totale autonomia nell´uso dei fondi"
Per il nipote dell´ex tesoriere, tirocinio nello studio del presidente dei revisori contabili

ROMA - Dal fascicolo di atti istruttori trasmessi dalla Procura a Palazzo Madama con la richiesta di arresto del senatore Luigi Lusi, emergono nuove circostanze che aiutano a comprendere meglio a quale allusivo universo di "complicità politiche" abbia in questi mesi fatto obliquo riferimento l´ex tesoriere. Si scopre infatti che la «retribuzione» pattuita da Lusi con i vertici del Partito per il suo lavoro "gratuito e volontario" di cassiere fu un seggio da senatore. Che Mario Montecchia, ex consulente contabile della Margherita (arrestato con il suo socio Giovanni Sebastio), era convinto che delle palesi manipolazioni dei bilanci «fossero tutti a conoscenza». Che Giovanni Castellani, presidente del collegio dei revisori contabili del Partito, oltre a essere rappresentante legale del "Centro per un futuro sostenibile" (fondazione direttamente riconducibile a Francesco Rutelli e destinataria, tra novembre 2009 e luglio 2011, di un finanziamento da parte di Lusi superiore agli 800mila euro), fino al marzo scorso, ha avuto nel suo studio, quale tirocinante, Emanuele Lusi, nipote dell´ex tesoriere.
CAMBIALE IN BIANCO
Il 2 aprile, ascoltato come testimone dal procuratore aggiunto Alberto Caperna e dal sostituto Stefano Pesci, Francesco Rutelli dice: «Non c´era assolutamente alcun accordo per retribuire in qualche modo Lusi per la sua attività di tesoriere. Anche perché era ovvio che si trattava di un incarico di natura politica. Come tale, a titolo gratuito. Salvo, ovviamente, il rimborso delle spese vive». Diverso il ricordo di Enzo Bianco. Sentito il 20 aprile, spiega: «L´incarico era chiaramente gratuito. Diciamo che ha certamente agevolato la sua elezione a senatore». Più diretto Gianpiero Bocci, presidente del Comitato di Tesoreria del partito: «In virtù del suo incarico - riferisce a verbale il 13 aprile - Lusi aveva avuto la possibilità di fare il senatore. Del resto, questo è il costume nei partiti che io conosco e di cui ho fatto parte». Un seggio da senatore non è solo una prebenda economicamente apprezzabile, ma anche garanzia di immunità parlamentare. Che, per altro, a dire ancora di Bocci, nel caso di Lusi, diventa una cambiale in bianco. «Noi del Comitato, di fatto non ci riunivamo quasi mai (...) Lusi, come tesoriere, aveva una totale autonomia nell´utilizzo dei fondi, sempre che le spese fossero destinate all´attività politica della Margherita. Mi rendo conto che si tratta di un concetto relativamente aperto, ma non si è mai discusso seriamente su questo punto».
"C´ERA UN RENDICONTO"
Lusi, dunque, è nelle condizioni di fare ciò che vuole. Anche e soprattutto quello che non dovrebbe e di cui è certamente a conoscenza Mario Montecchia, il commercialista che con Giovanni Sebastio cura la contabilità del Partito. Interrogato il 6 febbraio, ancora nella veste di testimone, Montecchia ammette di aver redatto i bilanci della TTT srl (società utilizzata per drenare denaro dalle casse del Partito), di essere dunque consapevole che le fatture emesse da quella società fossero «per consulenze che in parte faceva sul serio e in parte no», di conoscere l´esistenza della Luigia ltd (cassaforte canadese di Lusi). E così si giustifica: «Lusi mi disse che la cosa della TTT era nota a tutti. E io ritenevo che gli acquisti di immobili fossero autorizzati, perché alla luce del sole. Mi sono fidato. E comunque la mia sensazione è che fossero tutti a conoscenza di queste operazioni». Montecchia non elabora quel "tutti". Si limita a dire: «C´era un rendiconto». Quindi, incalzato sulla circostanza che i bilanci fossero manipolati proprio per ingannare i revisori, si corregge: «In realtà ho avuto sempre un grande dubbio che potesse trattarsi di un´attività di sottrazione privata, ma non ne ho mai avuto la certezza. Forse, sbagliando, non sono mai andato a fondo. Ne ho parlato solo con il mio collega Sebastio».
DA CASTELLANI A RUTELLI
Già, i revisori della Margherita. Del Presidente del collegio, Giovanni Castellani, il 29 marzo parla a verbale il nipote di Lusi, Emanuele. Così: «Fu mio zio a presentarmelo. Mi disse che era inopportuno che andassi allo studio Montecchia, per il ruolo che aveva nella Margherita. E dunque così feci. Poi, due settimane fa, quando è uscita fuori la storia della fondazione Centro Futuro Sostenibile, domiciliata presso il suo studio, mi ha fatto sapere, a suo dire su diretta indicazione di Rutelli, che forse era meglio interrompere i rapporti».

Corriere 8.5.12
L'eccidio delle donne che lascia indifferenti
di Dacia Maraini


Non vorrei che per decidere se si tratti di femminicidio o meno, ci si perda in discussioni inutili, dividendoci come facciamo sempre, ciascuna arroccata nelle sue sicurezze. Non ha importanza che nome diamo a questo eccidio. L'importante è trovarsi d'accordo che si tratta di un massacro. E che cerchiamo di capire perché la coscienza sociale non ne sia turbata quanto dovrebbe. E perché si tenda a considerarlo un evento che riguarda solo il carnefice e la vittima, come se l'intero tessuto sociale non fosse ferito e colpito gravemente da questa carneficina. Apriamo il giornale con trepidazione ogni mattina, sapendo purtroppo che a giorni alterni, saremo messi di fronte alla notizia di una giovane donna che avendo detto no a suo marito, al suo fidanzato, al suo amante, è stata trucidata.
Ieri, oggi, domani. Troppe mani maschili si accaniscono contro le donne «amate», pronte a cacciare loro in corpo decine di coltellate o a strangolarle o a prenderle a forbiciate, per poi gettarle giù da un ponte, dentro un fosso, convinti che nessuno li scoprirà mai. Alla faccia dell'amore!
Sono bravissimi questi «amanti» poi a recitare la commedia: mostrano ai fotografi una faccia coperta di lacrime, si mettono a disposizione della polizia per cercare la donna sparita, abbracciano mamma e papà per consolarli della grave perdita. Spesso vengono creduti. Perché a recitare sono bravissimi. Dispongono di una doppia personalità. Si accaniscono sul povero corpo e poi lo piangono con un tale dolore che tutti proviamo pietà. Come è possibile, ci chiediamo, che menta con tanta spudoratezza?
Ma ormai i casi sono talmente frequenti che la polizia va subito a vedere gli alibi dei mariti e dei fidanzati perché quasi sempre è lì che si nasconde il colpevole. Poi vengono fuori le intercettazioni (esecrate dai maneggioni di ogni specie, ma benedette dal cittadino perché si tratta di prove concrete e immediate contro processi che durano lustri), vengono fuori gli esami del sangue, le immagini di qualche video di sorveglianza e scopriamo che sì, è proprio lui l'assassino. Quello che abbiamo visto in un'altra immagine, sorridente accanto all'amata, che ritroviamo fra i parenti, a volte con un bambino in braccio «che gli somiglia come una goccia d'acqua». Ormai sappiamo che, accanto ai tanti casi certi, perché finiti con la morte di lei, ci sono migliaia di casi che non vengono alla luce, di uomini che perseguitano ossessivamente le donne che dicono di amare, con minacce, inseguimenti, intimidazioni.
Nonostante la rabbia, faccio fatica a pensare che il mondo si sia popolato improvvisamente di assassini che anelano al sangue delle loro donne. Le spiegazioni sono tante, ma certo hanno a che vedere con il modo in cui la cultura di massa tratta le donne. Con l'incapacità di insegnare ai bambini ad avere rispetto per l'altro. L'idea arcaica che Io ti amo e quindi ti posseggo è ancora moneta corrente e costituisce la base di molti, troppi rapporti sentimentali. L'amore-possesso, quando è posto in discussione dal pensiero autonomo dell'amata, mette in crisi l'identità stessa dell'amante che per paura, si trasforma in mostro.

Repubblica 8.5.12
Il ritorno dei fantasmi armati
di Benedetta Tobagi


Sembra un incubo, l´eterno ritorno dell´uguale. L´Ansaldo di Genova negli anni Settanta fu teatro di una serie di azioni e ferimenti, o meglio, «gambizzazioni»(neologismo coniato per i ferimenti alle gambe in cui si specializzarono i brigatisti, una modalità di attentato che massimizzava il dolore e l´umiliazione della vittima, costringendola a strisciare): Vincenzo Casabona, capo del personale dell´Ansaldo Meccanica, oggetto di un sequestro-lampo nel 1975, Carlo Castellano, capo della pianificazione, ferito dalle Br nel 1977, e Giuseppe Bonzani, direttore dello stabilimento G. T. Ansaldo, ferito, ancora dalle Br, nel 1979. Ieri, il rito macabro si è rinnovato.
L´amministratore delegato della sezione nucleare dell´Ansaldo è stato ferito. Ignoti gli attentatori, mancano le rivendicazioni, ma la "tecnica" è quella brigatista, dichiarano gli inquirenti, e il ministero dell´Interno esclude la pista personale.
Mancava solo il ritorno del terrorismo sulla scena di quest´Italia colpita dalla crisi e divorata dall´antipolitica: evocata da molti, ieri la violenza armata, parassita della democrazia, è tornata sulla scena, con il suo rituale, con la sua simbologia, in un luogo denso di storia. Adinolfi dirige la sezione nucleare: è stato colpito per quello specifico incarico? Gli attentatori forse hanno voluto inalberare una assurda bandiera anti-atomo, come se non ci fosse stato un referendum popolare che il 13 giugno si è già chiaramente espresso, con una vittoria schiacciante dei sì.
Ma è sempre così: gli attentati di terrorismo individuale calpestano e feriscono la democrazia, non solo la vittima. Quanti dirigenti, quanti capi reparto sono stati feriti o uccisi negli anni Settanta: attentati che rappresentavano la negazione dei principi di decenni di lotte sindacali. Oltre ai ferimenti dell´Ansaldo, il pensiero corre ad un altro omicidio di matrice terroristica, che temo pochi ricordino: l´omicidio di Paolo Paoletti, ingegnere chimico, direttore dell´Icmesa, la famigerata "fabbrica dei profumi" che nel 1976 avvelenò Seveso con una nube tossica, una tragedia immane. Paoletti fu assassinato da Prima Linea il 5 febbraio del 1980. Le sette farraginose cartelle di rivendicazione spiegavano che era stato colpito perché ritenuto responsabile della tragedia di Seveso. Condannato a morte, in un Paese che ha ripudiato la pena di morte, e ovviamente senza processo: la violenza armata sequestrò la legalità, nella folle idea di farsi giudice ed esecutrice di una forma perversa di giustizia. Oltre a Paoletti la vittima fu ancora una volta il metodo democratico, lo stato di diritto con i suoi processi: lento, ma unico titolato a individuare i responsabili di disastri industriali. Come è accaduto di recente con la storica, lungamente attesa sentenza di condanna della Eternit dello scorso febbraio.
Wolfgang Sofsky, nel suo illuminante Saggio sulla violenza, individua uno dei caratteri fondamentali della violenza nella sua impazienza - che è il contrario della faticosa pazienza richiesta dalla democrazia. La violenza lascia solo macerie a proprio monumento, continua Sofsky. E, aggiungerei, fomenta le tensioni, irrigidisce le posizioni: un frutto avvelenato in tempi in cui c´è bisogno di profondere il massimo degli sforzi nel confronto civile, nella ricerca di soluzioni alla crisi economica e sociale.
Gli anni Settanta, con il terrorismo, ce li siamo lasciati alle spalle, dopo un percorso lungo e doloroso per il Paese. Giova ricordare che non esiste più il brodo di coltura ideologico che alimentò il terrorismo, né l´abitudine diffusa alle pratiche violente. Ci auguriamo che nessuno cerchi di strumentalizzare l´attentato di ieri criminalizzando altre forme di dissenso, o addirittura il disagio sociale. Piuttosto, l´orrore che abbiamo provato di fronte alle immagini di Adinolfi, troppo uguali alle foto in bianco e nero di oltre trent´anni fa, è un campanello d´allarme che deve riattivare tutti i sensori della società.
Le date creano coincidenze significative, e suggeriscono un´ultima riflessione. Domani, 9 maggio, si celebrerà la Giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo. Una ricorrenza fortemente voluta dal presidente Napolitano per aiutare la faticosa elaborazione dei traumi collettivi del nostro recente passato. Il ferimento di Genova, che riproduce nelle sue modalità la miriade di ferimenti che hanno costellato la stagione degli anni Settanta e Ottanta, ci fanno meglio comprendere l´importanza del rito civile che come ogni anno si svolgerà domattina al Quirinale.

Repubblica 8.5.12
La seconda evoluzione
“Quella biologica è finita, ci resta la cultura"
"Il futuro dell´uomo dipende dall´esplorazione del potenziale che già possediamo: nel nostro cervello"
di Angelo Aquaro


Ian Tattersall, paleontologo, ha scritto un saggio che ha fatto discutere gli Usa "Certi processi si sono arrestati, ora ci può migliorare solo la conoscenza"
"Siamo sempre più guidati dalla tecnologia, che interferisce con la socialità. È a questa intermediazione che ci dovremo adattare"

Ciao Darwin: l´evoluzione è finita. La prima. Perché la seconda evoluzione, quella culturale, è appena cominciata: o quasi. Qui al quarto piano del Museo di Storia Naturale, dove Woody Allen corteggiò Diane Keaton in Manhattan e Ben Stiller si perse in Una notte al museo, Ian Tattersall, il direttore del dipartimento di Paleontologia, si aggira tra scheletri di ominidi e scapigliatissime cere di Homo Sapiens. E alla vigilia di un convegno in cui a Venezia rilancerà l´eredità di Stephen Jay Gould – il più geniale interprete contemporaneo dell´evoluzione – l´autore di Masters of The Planet ci guida, come recita il sottotitolo del nuovo libro, «alla ricerca delle nostre origini umane». Con più di uno sguardo al futuro.
Ma allora, professore, l´evoluzione può ancora agire sull´uomo?
«Molto improbabile. Un conto sono i limiti dell´immaginazione e della conoscenza: e qui si tratta di esplorare il potenziale che possediamo già. Un conto è l´evoluzione biologica: e qui dovremmo avere delle novità genetiche».
E perché non sarebbe più possibile?
«Perché si verifichi evoluzione biologica occorrono due ingredienti: l´isolamento e una popolazione di dimensioni ridotte perché la modifica genetica si assesti. Nel nostro caso non abbiamo più né l´uno né l´altra. Ci ritroviamo con questa gigantesca popolazione che ormai copre il mondo intero: troppo grande per muoversi biologicamente verso nuove direzioni».
Prigionieri del nostro sviluppo.
«Ma se ragioniamo nei termini di quello che possediamo già, beh, qui non ci sono limiti al cambiamento. O quantomeno non li conosciamo».
Siamo di fronte a una "seconda evoluzione"?
«È quello di cui parliamo quando parliamo di evoluzione culturale. Che procede in maniera differente rispetto all´evoluzione biologica. La cultura si può trasmettere lateralmente in una stessa generazione: l´evoluzione biologica va di generazione in generazione».
E che tipo di evoluzione allora prevede?
«Siamo sempre più guidati dalla tecnologia. Però nessuno può dirci dove ci porterà. Siamo animali sociali e la tecnologia interferisce con la nostra socialità. Ed è a questa intermediazione tecnologica che saremo costretti ad adattarci. La maggior parte degli esseri umani non può interagire in modo significativo in un network più grande di 150 persone: limite superato di gran lunga. La maggior parte della nostra attività sociale, poi, è destinata a non svolgersi più faccia a faccia: ma proprio attraverso la tecnologia».
Lei però ricorda che il cervello ha sviluppato le funzioni più evolute su uno strato primitivo: "Non importa quanto possiamo vantarci della nostra razionalità: non siamo esseri interamente razionali". La seconda evoluzione, l´evoluzione culturale, cambierà questo rapporto? La vecchia struttura irrazionale sopravviverà?
«Penso proprio di sì. Biologicamente restiamo legati al nostro essere come siamo».
Lei chiarisce che l´uomo di Neanderthal appartiene a una distinta specie di ominidi poi estinta. Però ipotizza anche una coabitazione col Sapiens. Cosa potevano provare gli Antenati verso il "cugino"? La stessa vicinanza/distanza che noi proviamo con le scimmie?
«Il senso di vicinanza sarà stato superiore. Anche se il Neanderthal non aveva la capacità di processare le informazioni come noi. O il linguaggio come lo intendiamo noi. Ma il fatto che il Sapiens percepisse di avere di fronte una creatura "aliena" non vuole dire che non ci possa essere stata qualche forma di ibridazione: anzi gli studi del Dna lo suggeriscono. Anche se insignificante: nulla che possa avere influenzato la traiettoria dei due gruppi».
Neanderthal scompare, Sapiens resta. Se è colpa nostra, è il primo genocidio della storia.
«Conoscendo come l´Homo Sapiens interagisce anche con le altre popolazioni di Sapiens, oggi, l´impressione è che qualche livello di conflitto ci sia stata. Dovunque l´Homo Sapiens si sia spostato è sempre successo. Va verso l´Asia orientale, dove vive l´Homo Herectus, e quello scompare. Lo stesso succede all´Homo Floresiensis. E prima ancora in Africa: qualunque cosa ci fosse prima, scompare. Insomma il Sapiens è riconoscibile come già interamente moderno non solo nella forma anatomica: anche nei comportamenti».
C´è una ragione genetica?
«Ha più a che fare con il modo con cui elaboriamo le informazioni. Il primo Sapiens anatomicamente uguale a noi sembra comportarsi ancora come il Neanderthal. Solo dopo scopre il potenziale cognitivo che presumibilmente possedeva già al momento della nuova conformazione anatomica. È proprio una delle lezioni di Steve Gould. Il concetto di "ex-aptation" oltre a quello di "ad-aptation": qualcosa che nasce in un contesto prima di essere usato in un altro. Gli uccelli, per esempio, si ritrovano le ali prima ancora che le utilizzino per volare».
E le scimmie? Potrebbero mai recuperare il gap? Gli esperimenti come nel film Nim, la scimmia che negli anni 70 finì sulla copertina di Newsweek, saranno sempre destinati al fallimento?
«Quel film è un ottimo ritratto di una scienza molto naive. Le scimmie non sono capaci di gestire i simboli se non in maniera additiva: non li reinterpretano come facciamo noi. Sì, possono metterli in fila. Se tu dici a una scimmia: porta la palla rossa fuori, quella prende la palla rossa e la porta fuori, istruita a riconoscere la palla rossa. Ma il ragionamento additivo è limitato: metti in fila tot azioni e lo spazio nel cervello è finito».
Proprio in questi giorni un altro grande, O. E. Wilson, con The Social Conquest of Earth fa insorgere i seguaci di Darwin: sostenendo che la selezione agisce attraverso i gruppi e non gli individui.
«Non sono sicuro che si possa parlare di selezione di gruppo all´interno delle stesse specie: ma non sono neppure sicuro che la selezione naturale sia davvero l´agente determinante del cambiamento. La selezione naturale elimina gli estremi piuttosto che spingere verso differenti direzioni. Per questo credo che il caso abbia un posto molto più importante di quello che gli riserviamo. Probabilmente è fuorviante parlare persino di processo evolutivo: più accurato parlare di molti più processi che danno poi origine a quello che noi leggiamo, in retrospettiva, come evoluzione».
E guardando indietro a questa evoluzione, il segreto della condizione umana allora qual è?
«Non esiste condizione umana. Per ogni parola che la descriva si può trovare l´opposto. E tutte le cose meravigliose della nostra specie sono bilanciate, dall´altro lato dell´equazione, da qualcos´altro. La storia dell´uomo è una storia di conseguenze non volute: compreso, oggi, il rischio di distruzione per 20 milioni di specie. Ecco perché dico che il futuro dipende dall´esplorazione del potenziale che già possediamo: nel nostro cervello. No, non credo che l´evoluzione ci verrà più in soccorso sul suo bel cavallo bianco, a salvarci dalle nostre follie: non credo proprio».